La povera mensa di Michele Piccolino

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La povera mensa di Michele Piccolino
La povera mensa di Michele Piccolino
La domenica con nonna Ada iniziava il sabato di buon mattino, al mercato rionale di
Piazza Santo Spirito nel quartiere San Frediano.
Ci aggiravamo tra le bancarelle multicolori riempiendoci le orecchie delle voci eccitate
del mercato e il naso dei profumi stuzzicanti delle vivande esposte.
«La buona cucina inizia al momento della spesa.» mi diceva la nonna come a
catechizzarmi.
Si fermava davanti ai banconi, ne studiava il contenuto, poi si rivolgeva al venditore con
il piglio di chi è abituata a comandare.
«Buongiorno Alfredo, dammi dei fagioli. Quelli che sai tu.»
Alfredo il legumaio si guardava intorno con fare cospirativo e pescava in un sacco
nascosto sotto il bancone. Poi richiudeva in modo furtivo il sacchetto di carta che aveva
riempito.
«E come li farà stavolta?» chiedeva sottovoce.
«Semplici: al fiasco.» rispondeva la nonna accogliendo nella sporta mezzo chilo di
introvabili fagioli di Sorana.
«Oddiomioddiomio.» sospirava Alfredo con la lingua annegata nell'acquolina.
«Dammi anche della composta di marroni del Mugello.»
La tappa successiva era dal pizzicagnolo.
«Buongiorno Giovanni. Mi servono lardo e pecorino.»
La nonna era parsimoniosa con le parole per quanto, invece, era generosa in cucina. Se
voleva del lardo, poteva essere solo di Colonnata, il pecorino, naturalmente, di Pienza.
Il pizzicagnolo lo sapeva e si regolava di conseguenza.
«I suoi ospiti domani mangeranno da granduchi.» diceva porgendole quelle leccornie.
Nonna si scherniva e faceva un gesto come a dire “falla finita”.
Dal fruttivendolo, la nonna si soffermava un po' di più. Sceglieva le verdure con
scrupolo maniacale, rigirando tra le mani verze e pomodori, carote e carciofi. Il cavolo nero lo
scrutava in controluce, foglia per foglia, come un cassiere di banca con la filigrana di una
banconota di grosso taglio.
Poi andavamo da Aristide, il nostro macellaio di fiducia in Via de' Serragli.
«Signora Ada, ho della magnifica chianina stamattina…» diceva appena eravamo sulla
soglia della macelleria.
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«Lascia perdere. Mi serve della semplice polpa di manzo.»
Aristide non prendeva il pezzo di carne che faceva bella mostra nel banco frigo, ma un
altro dal frigo nel retro e cominciava a tagliare facendo attenzione alle venature della carne.
«E come ha intenzione di cucinarla?» chiedeva con finta noncuranza mentre pesava e
incartava.
«Ti do un indizio: chianti classico.» diceva maliziosa la nonna.
«Ah, ho capito.» concludeva Aristide accennando a un mezzo sorriso.
Solo io non capivo mai. Avrei capito dopo, in cucina, quando la nonna mi avrebbe reso
partecipe della sua arte.
Dal fornaio in Piazza del Carmine prendevamo buccellato e biscotti di Prato. Il pane
fresco l'avremmo preso la domenica mattina, quello raffermo era custodito in dispensa,
avvolto in un panno di lino.
L'ultima tappa era in enoteca, da Margherita, la sommellier cui la nonna si affidava
ciecamente. La nonna, di vino non capiva granché: fosse stato per lei, se c'era bisogno di un
bianco avrebbe preso una bottiglia di vernaccia, se rosso una di chianti, non andava oltre.
La nonna sciorinava il menu nell'orecchio di Silvia che, poi, in silenzio, scorreva con gli
occhi le scaffalature, in cerca di ispirazione. Dopo un minuto, non di più, l'oracolo del vino
pronunciava il suo vaticinio.
«Golpaja 2012.» e ne prendeva tre bottiglie
La nonna le accoglieva, dando un'occhiata distratta all'etichetta.
«E dammi pure una bottiglia di vin santo e una per cucinare.»
Poi tornavamo a casa, trascinando le due sporte con le ruote cigolanti lungo le stradine
brulicanti di turisti vocianti. La nonna iniziava a spiegarmi quello che avremmo cucinato per i
nostri commensali. Sapevo benissimo che il giorno dopo la nonna mi avrebbe tiranneggiata,
seppellita sotto un subisso di “sbuccia questo”, “taglia quello”, “lava quest'altro”. Ma la
cucina, quella dei grandi cuochi, è fatta di disciplina e del rispetto della scala gerarchica.
Nonna Ada era il glorioso comandante in capo, io l'umile fantaccino.
Una volta davanti al portone di casa, io salivo sopra con la spesa; la nonna invece si
dirigeva verso Piazza SS. Annunziata.
«Vado a fare gli inviti per domani.»
La mattina dopo incominciavamo di buon'ora. Presto era un moltiplicarsi di vasellame e
utensili, una sinfonia di metallo e ceramica, gli sfrigolii d'olio extravergine si alternavano agli
sbuffi caldi e vaporosi del forno.
Io a volte, mentre pelavo una patata o grattugiavo una carota, rimanevo ad ammirare il
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sapiente e vorticoso mulinare delle sue mani.
La nonna non mi spiegava niente, almeno non a parole.
«Guarda e impara.» mi diceva sempre. La didattica dell'esempio, la chiamava. Io sapevo
in verità che si vergognava a sentirsi in cattedra. La sua modestia di artigiana dei fornelli me
la faceva amare ancora di più.
A metà mattina, quando ormai la preparazione era finita e rimaneva solo l'attesa della
cottura, io scendevo per prendere il pane fresco. Poi, mentre la nonna monitorava le pentole e
il forno, mi dedicavo alla preparazione della tavola nella sala da pranzo.
Prendevo la tovaglia di lino ricamata, il servizio buono di porcellana e i bicchieri di
cristallo. Poi le posate, messe in bell'ordine intorno ai tovaglioli. Apparecchiavo per dodici:
per me e la nonna e i nostri dieci commensali. A mezzogiorno in punto scaraffavo le bottiglie
e tagliavo il pane.
Mezz'ora dopo arrivavano i nostri ospiti, sempre puntualissimi. Alcuni erano già stati da
noi, ma anche i nuovi conoscevano bene la nonna e la sua casa. Alla Caritas della SS.
Annunziata, la conoscevano tutti e per tutti i frequentatori della mensa era la migliore cuoca
di Firenze.
«Ben arrivati.» li accoglieva sorridente la nonna.
Gli ospiti, vedendo la bella tavola apparecchiata per loro, avevano un attimo di
smarrimento. Qualcuno biascicava stentati ringraziamenti, qualcuno si commuoveva, un altro
porgeva un mazzo di fiori provenienti da chissà quale aiuola. Tutti quanti indossavano poco
più che stracci ma avevano il viso e le mani puliti, come a dimostrare che non avevano abiti
migliori ma che rispettavano la nonna e la casa in cui si trovavano.
«Accomodatevi. Se volete andare in bagno, in fondo al corridoio.»
Poi veniva il momento di sedersi in tavola. Gli ospiti, poco avvezzi a misurarsi con tutti
quei bicchieri e posate, lanciavano occhiate di supplica al proprio vicino di posto in cerca di
lumi sulla condotta da tenere. La tensione si scioglieva quando io e la nonna portavamo in
tavola l'antipasto.
«Lardo con composta di marroni; pecorino e marmellata di cardi.» proclamava la nonna
servendo i piatti abbelliti con gusto e sapienza.
La caraffa del vino cominciava a girare. La cautela dei primi morsi si perdeva presto in
mugolii estatici e in reiterati complimenti. Gli sguardi si illanguidivano e i discorsi si
facevano meno ritrosi.
Il resto del pranzo proseguiva con i giusti tempi, in un crescendo che entusiasmava i
nostri ospiti sempre più a loro agio. Due crostini di fegatini di pollo, tanto per gradire. Poi
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tagliatelle di Novegigola; zuppa alla frantoiana; stracotto alla fiorentina; fagioli al fiasco.
A pancia piena e con più di un bicchiere di rosso in corpo, i nostri ospiti si lasciavano
andare, superando la vergogna e la diffidenza naturali di chi ha visto il peggio della vita, la
propria vita.
Attorno al tavolo da pranzo, la domenica, per anni, abbiamo sentito le storie più strane,
storie dolorose e grottesche, storie di uomini e di donne che a un certo punto non avevano
avuto altra scelta che vivere in strada, di elemosina e stenti, freddo e disprezzo della gente.
Come quell'impiegato di banca che, abbandonato da moglie e figli, aveva annegato il
dolore prima nell'alcol e poi nel gioco, fino a perdere tutto, compresa la dignità. Oppure come
quella prostituta che, una volta smarrita la sua bellezza, si era fatta turlupinare dal suo pappa
che era sparito portandole via tutto quel che le restava.
Ma c'era anche chi aveva scelto di vivere in quel modo. Vassilij, un ospite frequente
della nostra tavola, amava ripetere che “è meglio essere un barbone a Firenze che un operaio
a Kiev”.
Nonna Ada ascoltava tutti, mentre andava e veniva con i piatti. Alla fine, tiravamo tardi
sbocconcellando buccellato e biscotti, dando fondo alla bottiglia di vin santo.
Poi, ad un certo punto, la nonna guardava l'orologio, proclamava la necessità di
rigovernare e si alzava. Rifiutava le offerte di aiuto da parte degli ospiti che, tra una salmodia
di ringraziamenti, si accomiatavano lanciando occhiate malinconiche alla tavola dalla quale si
erano appena alzati.
Mentre lavavamo pentole e stoviglie, la nonna mi ribadiva la sua filosofia di cucina, che
poi era quella della sua intera vita.
«Bisogna amare quello che si cucina, perché è la passione che fa la ricetta, non gli
ingredienti. E il frutto di tanto amore bisogna condividerlo con chi sa apprezzarlo, con il
palato e con il cuore. Chi ha fretta, chi sta a dieta, chi è distratto dagli affari, è meglio che non
si segga alla mia tavola.»
Nel mio ristorante si mangia rigorosamente cucina toscana, con ingredienti toscani. La
mia è la cucina di nonna Ada.
“Da nonna Ada”, forse avrei dovuto chiamarlo così questo locale. Ma la nonna,
modesta com'era, non avrebbe apprezzato. La sua tavola, ripeteva, non era un proscenio sul
quale imbastire lo spettacolo stucchevole di certi cuochi giullari o filosofi che tanto vanno di
moda oggi. No, la sua tavola era il luogo dove si mangia. Una mensa, insomma.
“La povera mensa”, trattoria toscana. Siamo chiusi il lunedì.
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