Studi e ricerche L`ombra del capitalismo

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Studi e ricerche L`ombra del capitalismo
S tu d i e ric e r c h e
L ’ombra del capitalismo
Storia e prospettive del socialismo europeo
Donald Sassoon
Nella storia contemporanea, ha detto qual­
cuno, non ci sono conclusioni ma solo rinvii.
Ciononostante, ora che il nostro secolo si av­
via al termine, è difficile evitare di gettare
uno sguardo retrospettivo e, con maggiore ri­
luttanza, di scrutare nel futuro. Qui dev’esse­
re abbandonata anche la problematica cer­
tezza di una narrazione basata su fatti noti.
Dopotutto ogni racconto può avere diversi
finali, nessuno dei quali definitivo. Nel frat­
tempo la storia continua, e continua a pren­
derci di sorpresa.
La freccia della creazione può seguire una
traiettoria discendente, ma non c’è modo di
sapere quando o dove — e se — il bersaglio
finale verrà raggiunto. Gli storici non sono
così ingenui da sostenere che la storia è giun­
ta alla fine. Essi non devono comportarsi —
per prendere a prestito una metafora althusseriana — come il viaggiatore onnisciente
che sale a bordo per un viaggio in treno co­
noscendo già tutte le stazioni del percorso
come pure la destinazione finale1. Nello stu­
dio della storia l’atteggiamento corretto è
quello di chi salta su un treno in movimento
senza sapere da dove viene e dove va, pas­
seggia su e giù per le carrozze, esamina le
suppellettili, chiacchiera con i passeggeri,
scopre come hanno interagito fra loro, quali
sono state le loro aspirazioni e le loro spe­
ranze. Lo storico può guardare il paesaggio
e notarne i cambiamenti. Guardando dal fi­
nestrino — da cui “è pericoloso sporgersi”
— può perfino osservare in quale direzione
il treno svolterà, se si sta avvicinando una
montagna o se si dovrà attraversare un fiu­
me — ma non più di questo. Benché eventi
di qualsiasi tipo, e in buona parte imprevedi­
bili, possano accadere all’interno del treno,
una cosa lo storico non deve dimenticare: i
treni possono viaggiare più veloci o più len­
ti, possono fermarsi, possono esplodere; ma
sono costretti nei loro binari. La storia ri­
guarda ciò che le persone fanno nei limiti
della loro situazione, dei loro bisogni e del
loro passato.
Poco dopo la presa del potere da parte dei
bolscevichi Gramsci scrisse un breve articolo
in elogio del volontarismo rivoluzionario. La
Rivoluzione russa, dichiarava Gramsci, era
stata una rivoluzione contro il Capitale di
Karl Marx:
Pubblichiamo il capitolo conclusivo della ricerca di Donald Sassoon sulla storia dei partiti della sinistra nell’Europa
occidentale dal 1889 ad oggi, che comparirà entro l’inizio del 1996 con il titolo One Hundred Years of Socialism. The
Wesi European Left in thè Twentieth Century presso I. B. Tankls, Londra. Nella traduzione sono stati omessi solamente
i riferimenti ai precedenti capitoli del libro.
1 Nella sua metafora originaria, Althusser contrappone il filosofo “idealista”, che conosce l’origine e la fine di tutto, al
filosofo “materialista” (vedi Louis Althusser, Philosophie et marxisme. Entretiens avec Fernanda Navarro (1984-1987),
in Sur la philosophie, Paris, Gallimard, 1994, pp. 64-65 e i suoi Écrits philosophiques et politiques, voi. I, Paris, StockImec, 1994, pp. 581-582).
'Italia contemporanea”, dicembre 1995, n. 201
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Donald Sassoon
Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei bor­
ghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione
critica della fatale necessità che in Russia si for­
masse una borghesia, si iniziasse un’era capitalisti­
ca, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale,
prima che il proletario potesse neppure pensare al­
la sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, al­
la sua rivoluzione2.
I rivoluzionari comunisti governarono la
Russia e i territori da essa dominati per quasi
tre quarti di secolo. La loro rivoluzione non
fu né un atto volontaristico contro le leggi
della Storia (come era sottinteso nell’elogio
di Gramsci), né l’apogeo lucido e premedita­
to di una rivoluzione progettata da tempo.
Fu una congiuntura storica unica ad offrire
ai bolscevichi l’opportunità di impadronirsi
del potere. Essi vinsero la guerra civile, re­
spinsero l’intervento straniero, furono a loro
volta respinti alle porte di Varsavia e videro
dileguarsi rapidamente la prospettiva della
rivoluzione mondiale. Si volsero allora alla
situazione interna e affrontarono il compito
ereditato dai loro predecessori: la moderniz­
zazione del paese. Continuarono a lottare
contro il “capitale” — sia quello di Karl
Marx, sia il capitalismo reale che li circonda­
va. Costruirono una potente macchina indu­
striale, sconfissero la Germania nazista, con­
quistarono metà dell’Europa ed estesero la
loro influenza in ogni parte del globo. Sotto
la loro bandiera furono combattute guerre
di liberazione nazionale, perpetrati crimini,
suscitate speranze ed escogitati progetti gran­
diosi e spesso mal concepiti finalizzati a mi­
gliorare le condizioni della gente. La storia
del ventesimo secolo è indissolubilmente le­
gata a questa epica lotta contro il capitali­
smo. I bolscevichi tentarono di raggiungere
il sole o, come disse Lenin, volevano “rifare
il mondo”3. Ma la fenice che si libra in volo
non può aspirare a simili altezze se le sue ali
sono gravate da tanto sangue e da tanta uma­
na sofferenza. Oggi possiamo essere certi,
nella misura in cui una tale assunzione è am­
missibile nello studio della storia, che quella
rivoluzione, la rivoluzione contro il capitale,
è fallita.
Un verdetto così severo non è invalidato
dal riconoscimento che molte società sociali­
ste sono state capaci di elevare le condizioni
materiali di vita della maggioranza delle loro
popolazioni in misura assai maggiore rispet­
to alle società non socialiste ad esse parago­
nabili. Ad esempio, nel 1955, a Cuba l’aspet­
tativa di vita era di 59 anni e mezzo, inferiore
rispetto al Paraguay, all’Argentina e all’Uru­
guay, e la mortalità infantile era superiore a
quella di questi tre paesi. Ma nel 1985 l’aspet­
tativa di vita del cubano medio era di settantacinque anni, maggiore di quella di qualsiasi
altro latinoamericano e di poco inferiore a
quella dell’americano medio (75, 9 anni). La
mortalità infantile a Cuba, trent’anni dopo
la rivoluzione socialista, era la più bassa in
America latina, i bambini di Cuba erano i
meglio nutriti e il livello di alfabetizzazione
era il più alto4. Negli anni cinquanta in Cina
l’aspettativa di vita era inferiore rispetto al­
l’India e la mortalità infantile superiore, ma
alla fine degli anni ottanta la Cina aveva
compiuto, sotto questi aspetti, progressi
maggiori dell’India3. All’interno della stessa
India lo stato del Kerala, governato dai co­
munisti per la maggior parte degli anni a par­
tire dal 1957, ha scavalcato tutti gli altri stati
indiani per quanto riguarda l’alfabetizzazio­
ne e gli indicatori sanitari6. Secondo gli stessi
Antonio Gramsci, La rivoluzione contro il "Capitale”, in Scritti giovanili 1914-1918, Torino, Einaudi. 1975, p. 150.
Lenin, I compiti del proletariato nella nostra rivoluzione, in Opere complete, voi. XXIV, Roma, Editori Riuniti, 1966, p.
79.
4 Vicente Navarro, Has Socialism Failed? An Analysis of Health Indicators under Socialism, “International Journal of
Health Services”, 1992, n. 4, pp. 586-587.
5 V. Navarro, Has Socialism Failed?, cit., pp. 588-589.
6 V. Navarro, Has Socialism Failed?, cit., p. 591.
L’ombra del capitalismo
parametri le repubbliche centroasiatiche dell’Urss — almeno fino al 1975 — hanno otte­
nuto risultati migliori dei vicini Iran, Afgha­
nistan e persino della Turchia7. Tuttavia, sti­
me condotte sul periodo posteriore al 1975 in
Urss mostrano un peggioramento senza pre­
cedenti di tutti gli indicatori sanitari, com­
presa la mortalità infantile8.
È quando confrontiamo gli stati socialisti
dell’Europa centrale e orientale — compresa
l’Urss — con i vicini stati capitalisti dell’Eu­
ropa occidentale che il fallimento della piani­
ficazione centralizzata nell’organizzazione
delle società avanzate diviene evidente.
L’ambizione dei comunisti (compreso Lenin)
era quella di dirigere una società dell’abbon­
danza, non una società della penuria, e di sfi­
dare il capitalismo ai suoi massimi livelli, là
dov’era maggiormente sviluppato. Rispetto
a questi obiettivi, il comuniSmo è miseramen­
te fallito. Nei paesi in via di sviluppo ancora
dominati da forme precapitalistiche di pro­
duzione e di proprietà, l'inadeguatezza della
pianificazione comunista è stata meno pale­
se. Il comuniSmo come strumento di moder­
nizzazione non è stato un fallimento. Il co­
muniSmo come strumento di emancipazione
degli esseri umani dalla schiavitù della neces­
sità è stato una catastrofe.
In Europa occidentale, già molto tempo
prima del crollo dell’Urss la rivoluzione bol­
scevica non era più considerata, neppure da­
gli stessi comunisti, come un modello per la
presa del potere. Naturalmente alcuni piccoli
gruppi politici continuavano a sognare l’in­
surrezione in Europa occidentale, sebbene
dopo il 1945 la probabilità che essa si verifi­
casse fosse ancora minore che in qualsiasi al­
tro periodo nei cento anni precedenti. Questi
gruppi sono stati tu tf al più in grado di lan­
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ciare una campagna terroristica (come hanno
fatto le Brigate rosse in Italia), o di suggerire
in quel periodo ai giovani e ai meno giovani
vistose azioni di protesta, come hanno fatto
a intermittenza, negli ultimi anni sessanta e
negli anni settanta, i vari gruppi maoisti, guevaristi, trotskisti e anarchico-libertari. Disor­
dini e altre forme di violenza politica possono
ancora verificarsi qua e là ma — a differenza
delle donne di Pietrogrado la cui manifesta­
zione nella giornata internazionale della don­
na nel marzo 1917 suonò come una campana
a morto per il regime zarista — qualsiasi fu­
tura rivolta resterà probabilmente senza gui­
da e senza forma, simile a un grido di ango­
scia o poco più, anziché a un programma po­
litico.
Marx non ha mai seriamente preso in esa­
me il modo in cui una società può superare il
capitalismo e instaurare il socialismo. Egli ha
definito il socialismo nei termini estremamente generici della giustizia distributiva —
“a ognuno secondo il suo lavoro” — , a cui
avrebbe dovuto seguire il comunismo, defini­
bile con la formula “a ognuno secondo i suoi
bisogni”9. Non ha mai sviluppato una teoria
del socialismo, né ha preso in considerazione
il modo in cui lo si sarebbe dovuto pianificare
o quali forme di proprietà comunitaria sareb­
bero dovute esistere al suo interno. Non ha
mai costruito una grande teoria che spiegasse
come la produzione e la riproduzione delle
condizioni della produzione capitahstica ven­
gono a loro volta prodotte e riprodotte. Que­
ste condizioni sono i mezzi esterni al mercato
che servono a mantenere le relazioni di mer­
cato: l’ideologia, la politica, lo stato, la fami­
glia. Non si trova in Marx nulla di significa­
tivo sulla nazionalizzazione, sul settore pub­
blico o sulla pianificazione economica, Marx
7 V. Navarro, Has Socialism Failed?, cit., p 592.
i dati riportati in Paul Kennedy, The Rise and Fall of the Great Powers. London. Fontana Press. 19!®, sv
641 (Ascesa e declino delle grandi potenze, presentazione di Gian Giacomo Migone, tr. di Andrea Cellino. Milano, Gar­
zanti, 1989, pp. 671-672). Si veda inoltre Murray Feshbach, Alfred Friendly Jr., Ecocide in the Urss fftatsk
under Siege, New York, Basicbooks, 1992.
9 Karl Marx, Crìtica al programma di Gotha, a cura di Umberto Cerroni, Roma. Editori Riuniti, 1976, p. 32,
8 Si vedano
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Donald Sassoon
era un teorico del capitalismo che cercava di
scoprire come funzionasse il sistema. Non era
un teorico del socialismo e disprezzava gli
estensori di programmi utopici. Era certo
che il capitalismo non sarebbe durato per
sempre, ma non ha mai spiegato come lo si
sarebbe potuto abolire o come sarebbe finito
da sé. Marx non dubitava affatto che il capi­
talismo fosse il sistema più dinamico che mai
potesse apparire sulla faccia della terra. Un
sistema instabile, innovativo ed espansivo
che avrebbe rivoluzionato il mondo unifican­
dolo in una fitta rete: il mercato mondiale.
Egli ha predetto con esattezza che
di pari passo con [la centralizzazione del capitale]
[...] tutti i popoli vengono via via intricati nella rete
del mercato mondiale e cosi si sviluppa in misura
sempre crescente il carattere internazionale del re­
gime capitalistico101.
Ma quanto all’involucro politico che avrebbe
fatto da contenitore a questa formazione pla­
netaria, Marx e i suoi seguaci tacquero.
Nel momento in cui scrivo, tutti i paesi ca­
pitalisti avanzati sono governati secondo i
principi e le regole della democrazia liberale.
Il mercato dei beni di consumo si presenta a
prima vista come la controfigura economica
della politica: gli individui esercitano la loro
sovranità di consumatori camminando su e
giù per le corsie dei supermercati e optando
per Daz anziché per Persil e poi, in quanto
cittadini sovrani, infilano la scheda nell’urna
per la Sinistra o per la Destra. Ma, come ha
scritto Terry Eagleton,
Quella del mercato è una logica di piacere e di plu­
ralità, una logica dell’effimero e del discontinuo, è
la logica di una grande rete decentrata di desideri
della quale i singoli consumatori sono funzioni
transitorie. Mantenere a posto tutta questa anar­
chia richiede tuttavia un ordine politico, etico e
ideologico che è assai meno rilassato e caotico
[...] Ciò che accade al supermercato non assomi­
glia affatto a ciò che accade in chiesa o all’asilo11.
Aggiungerei che ciò che accade al supermer­
cato non assomiglia affatto a ciò che accade
sul luogo di lavoro, cioè là dove i consumato­
ri, trasformati in produttori, guadagnano il
denaro che li abilita a essere consumatori.
Nel mondo della produzione prevalgono
autorità, gerarchia e disciplina. Votiamo
per chi ci pare, compriamo qualunque cosa
possiamo permetterci, ma al lavoro facciamo
quello che ci ordinano di fare. Tradizional­
mente i socialisti hanno tentato di intervenire
nel mondo del lavoro e, dopo cent’anni di
lotta, i produttori — almeno in Europa — la­
vorano un po’ meno e in condizioni molto
più salubri di quanto avvenisse nel 1889 e for­
se anche con maggiore dignità. Ma non han­
no accresciuto il controllo sulle proprie con­
dizioni di lavoro a un ritmo anche lontana­
mente paragonabile a quello dell’espansione
della democrazia politica, dell’aumento della
prosperità materiale, dell’allargamento del
benessere sociale o del progresso nella scien­
za e nella tecnologia. Controllare il capitali­
smo si è rivelato molto più difficile che con­
trollare qualsiasi altra cosa, perché il capita­
lismo è un sistema basato sul controllo dei
pochi sui molti — l’esatto contrario della de­
finizione convenzionale di democrazia politi­
ca. Questo vale, naturalmente, anche per tut­
te le società tecnologicamente complesse che
conosciamo, comprese le economie a pianifi­
cazione centrale. Può darsi che l’unica via per
ritornare al Paradiso terrestre sia eliminare il
lavoro o, quantomeno, lavorare il meno pos­
sibile12. Il fatto che le gerarchie forse non ver­
ranno mai eliminate non le rende affatto me­
10 K. Marx, II Capitale, 3 voli., voi. I, tr. di Delio Cantimori, introduzione di Maurice Dobb. Roma, Editori Riuniti,
1964 (quinta edizione), p. 825.
11 Terry Eagleton. Discourse and discos, “The Times Literary Supplement” , 15 luglio 1994, n. 4763, p. 4.
12 Un punto di vista argomentato con ampiezza da André Gorz, Les chemins du paradis, Paris, Éditions Galilée, 1983, in
particolare pp. 85-86 {La strada del paradiso: l ’agonia del capitale, tr. di Luigi Del Grosso Destrieri, Roma, Lavoro,
L’ombra del capitalismo
no antidemocratiche o meno sgradevoli. Può
darsi che lo stupro sia sempre esistito e che
non scompaia mai, ma noi continuiamo a
considerarlo come un atto di indegna bruta­
lità.
L’espansione capitalista può sembrare, vi­
sta a posteriori, un fatto inevitabile. Eppure
essa ha incontrato resistenze le cui fonti sono
molteplici. A uno sguardo analitico, ne spic­
cano in particolare tre (in pratica poi queste
distinzioni non sono cosi nette). La prima è
la resistenza opposta dalla tradizione incar­
nata in quelle strutture sociali, economiche
e ideologiche che si erano sviluppate prima
dell’avvento del capitalismo e che continua­
rono a sopravvivere accanto a esso. La se­
conda è costituita dall’ex “campo socialista”,
vale a dire da quei paesi che, dopo la rivolu­
zione bolscevica e la seconda guerra mondia­
le, perseguirono una politica di modernizza­
zione e di sviluppo industriale pianificati
dal centro antagonista al capitalismo e al
mercato mondiale. La terza fonte di resisten­
za è rappresentata dai partiti socialisti e co­
munisti dell’Europa occidentale che median­
te la regolamentazione hanno imposto limiti
al capitalismo, mentre sognavano di estirpar­
lo.
La terminologia che ho appena utilizzato
richiede qualche chiarimento. Due concetti
sono particolarmente problematici: “ resi­
stenza al capitalismo” e “regolamentazione”.
La parola “resistenza” potrebbe sottinten­
dere che il capitalismo ha la sua logica, il suo
destino preordinato come una nave di cui è
nota la destinazione. Tempeste e temporali
possono ostacolare il suo viaggio e mandarla
momentaneamente fuori rotta. Ma ben pre­
sto essa riprende il suo corso, senza subire
conseguenze dalle tempeste del giorno prece-
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dente. Questa visione teleologica trova sia a
sinistra sia a destra i suoi fautori, i quali so­
stengono che il capitalismo ha un senso o
uno scopo ultimi, anche se divergono quando
si tratta di determinare in che cosa esso po­
trebbe consistere. A sinistra i socialisti euro­
pei (compresi gli ecologisti socialisti) hanno
sostenuto che il “capitalismo sfrenato” avreb­
be inevitabilmente condotto a disoccupazione
di massa, povertà, guerre, spoliazione del pia­
neta, insopportabile ineguaglianza, persino
barbarie. Hanno cioè sostenuto che uno svi­
luppo capitalistico anarchico, non tenuto sot­
to controllo dalla consapevole attività regola­
trice dell’uomo, sarebbe disastroso per l’uma­
nità. Dopo avere riconosciuto la gravità della
crisi ambientale, essi ora fanno notare che nel
capitalismo non vi è alcun meccanismo spon­
taneo che consenta di impedire crisi ecologi­
che di grande portata. A destra pensatori co­
me Hayek, il più lucido e coerente oppositore
teorico del socialismo in questo secolo, hanno
sostenuto che il capitalismo tende natural­
mente e spontaneamente verso la migliore, o
quantomeno non la peggiore, delle società
possibili. The Fatal Conceit, che costituisce
l’attacco finale di Hayek contro il socialismo,
ripropone il punto di vista centrale di gran
parte del suo pensiero13. Vi si sostiene che il
capitalismo richiede soltanto alcune “regole
astratte” che impediscano a chiunque di inva­
dere la sfera di libertà di chiunque altro. Que­
sta dottrina, recentemente rimessa in auge dai
neoliberali come se fosse l’ultima novità nella
teoria economica postsocialista, mi ricorda
un aneddoto attribuito a François Quesnay
(1694-1774), fondatore della scuola fisiocratica, inventore del laissez-faire e nemico giura­
to dell’interventismo statale colbertiano. Un
giorno Luigi XV chiese a Quesnay (che era
1984, pp. 85-86); ma si veda anche K. Marx, Il Capitale, voi. 111. tr. di Maria Luisa Boggeri, Roma, Editori Riuniti,
1965 (quarta edizione), p. 933.
13 Si veda per esempio Friedrich August Hayek, The Constitution of Liberty, London, Routledge & Kegan, 1960 (La società
libera, tr. di Marcella Bianchi Di Lavagna Malagodi, Firenze, Vallecchi, 1969), le cui indicazioni — si veda in particolare il
capitolo XVIII sui sindacati — hanno rafforzato la posizione antisindacale della destra negli Usa e nel Regno Unito.
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Donald Sassoon
il suo medico) che cosa avrebbe fatto se fosse
stato il re. “Semplice, Sire, non farei proprio
niente” . “Chi regnerebbe, allora?” chiese Lui­
gi. “La legge”, rispose Quesnay1415. È inutile
dire che questo consiglio non è stato spesso
ascoltato. Eppure, per Hayek, sforzarsi di fa­
re più di quanto suggeriva Quesnay ha rap­
presentato la “presunzione fatale” di chi ritie­
ne che “l’uomo sia in grado di plasmare il
mondo che lo circonda secondo i propri desi­
deri” 13. Hayek aggiunge che i socialisti e tutti
coloro che cercano di far sì che la società
adotti alcuni “scopi concreti comuni” creano
una situazione che può portare solo alla
“schiavitù” 16. Ma è chiaro che nemmeno
Hayek può sfuggire a una presunzione fatale:
quando egli specifica le sue “regole astratte”,
emerge che esse richiederebbero sia un impro­
babile ritorno ai valori morali del passato, sia
un’ancor più improbabile rivoluzione costitu­
zionale che, fra altre assurdità, richiederebbe
che le persone votassero una volta sola nella
vita, a quarantacinque anni, e solo per candi­
dati più anziani di loro!17
Concordo peraltro con Hayek quando ri­
fiuta di attribuire al capitalismo o a qualsiasi
altro modo di produzione una qualsivoglia
direzione interna preordinata. “ Il capitali­
smo moderno — ha scritto Joan Robinson
— non ha alcun altro scopo se non quello
di tenere in piedi la baracca” 18 . Se il capita­
lismo non ha alcun fine, allora non può nean­
che fornire alcun criterio per valutare il pro­
prio successo all’infuori di uno: la sua stessa
sopravvivenza, che a sua volta dipende dalla
sua espansione. Come afferma Hayek: “ La
vita non ha alcuno scopo alfinfuori di se stes­
sa [...] La vita esiste solo fintantoché provve­
de alla propria durata” 19. Se questi sono va­
lori, allora li condividono anche le cellule del
cancro.
Hayek in quel passo riecheggia Marx, per
il quale l’“autoespansione” del capitale è l’u­
nico scopo della produzione capitalista20. Più
avanti Marx aggiunge: “ Il capitale produce
essenzialmente capitale”21. Il capitalismo
non è un’ideologia, né una filosofia, né un in­
sieme di credenze. E un modo di produzione,
un modello astratto. Tuttavia, esso può esi­
stere in un determinato contesto storico solo
se è strutturato, regolato, organizzato, mo­
dellato, giustificato, legittimato e quindi limi­
tato dall’interazione di idee diverse. Essere a
favore del capitalismo significa poco se non si
14 Una versione di questo aneddoto si può trovare in Pierre Rosanvallon, Le libératisme économique. H istoire de l ’idée
de marche, Paris, Éditions du Seuil, 1989, p. 82; il primo autore che utilizzò l’espressione laissez-faire nella teoria eco­
nomica fu il marchese d’Argenson, un contemporaneo di Quesnay.
15 F. A. Hayek, The Fata! Conceit. The Errors o f Socialism , in Collected Works, voi. I, a cura di William Warren Bartley, London, Routledge, 1988, p. 27.
16 F. A. Hayek, The Fatai Conceit, cit., p. 63.
17 Questa perla si può trovare in Statem ent o f thè Liberal Principles o f Justice and Politicai Economy, voi. Ili, The po­
liticai order o f a Free People, London, Routledge & Kegan, 1993, p. 113 (prima edizione con il titolo Law, Legislation
and Liberty, 3 voli. London, Routledge & Kegan, 1973-1979; Legge, legislazione e libertà. Una nuova enunciazione dei
principi liberali della giustizia e della economia politica, a cura di Angelo Petroni, Stefano Monti Bragadin, tr. di Pier
Giuseppe Monateri, Milano, Il Saggiatore, 1986, p. 487). In quest'opera si possono trovare ulteriori dettagli: ingegneria
sociale à la Platone tracciata da questo libertario, compreso, a p. 117, il suggerimento che i giovani, in tal modo privati
del diritto di voto, dovrebbero essere incoraggiati ad aderire a “club di coetanei” resi più appetibili dal fatto che le don­
ne dovrebbero avere due anni meno degli uomini (cfr. F.A. Hayek, Legge, legislazione e libertà, cit., pp. 490-491). Ho
trovato il riferimento a questo testo in David Marquand, The Unprincipled Society. New Demands and Old Politics, Lon­
don, Fontana, 1988, pp. 81-83.
18 Joan Robinson, Economie Heresies. Some Old-fashioned Questions in Economie Theory, London e Basingstoke, Mac­
millan, 1972, p. 143 (Eresie dell’economia. Un riesame della teoria per il nuovo dibattito economico, tr. di Giovanna Ri­
coveri, Milano, Etas Kompass, 1972) [la traduzione della citazione dall'inglese è nostra],
19 F. A. Hayek, Statem ent o f thè Liberal Principles, cit., p. 133.
2,1 K. Marx, Il Capitale, voi. Ili, cit., p. 303.
21 K. Marx, Il Capitale, voi. Ili, cit., p. 999.
L’ombra del capitalismo
è coerentemente disposti a favorire qualun­
que organizzazione politica della società sia
necessaria in una data situazione per assicu­
rare la riproduzione delle condizioni dell’ac­
cumulazione capitalistica. Ma questo vorreb­
be dire rinunciare alla politica a favore della
tecnica. Alcuni capitalisti possono farlo e so­
stenere qualunque sistema che in una data
congiuntura si trovi a rispondere alle esigen­
ze del capitalismo, sia esso la democrazia
americana, il nazismo tedesco, la socialde­
mocrazia svedese o forse, fra non molto, an­
che il “comunismo” cinese. Ma lo farebbero
in base a convenienza pragmatica, non a
principi morali e politici. L’affermazione di
Hayek secondo cui il capitalismo si sviluppa
al meglio là dove vige la massima libertà eco­
nomica è stata spesso smentita dagli eventi.
La sua fede nelle possibilità di un capitalismo
“naturale” e non limitato non ha alcun fon­
damento storico.
I tre ostacoli o “resistenze” cui ho fatto ri­
ferimento non devono quindi essere intesi co­
me caratteri che interrompano, rallentino o
reindirizzino il capitalismo a partire da un
suo corso “naturale”, che non esiste. Questi
ostacoli appartengono alla storia stessa del
capitalismo. Il capitalismo è come un fiume
potente che deve scorrere da qualche parte.
La natura, la sorte e l’attività consapevole
degli esseri umani possono costringerlo in
questa o in quella direzione. Il fiume può
prosciugarsi e lasciare il terreno a secco. Op­
pure, se lasciato indomito, può scorrere in
modo selvaggio e distruggere tutto ciò che
trova innanzi a sé. Ma non ha alcuna logica
interna, né alcuna progressione preordinata.
Comprendere con precisione quale sareb­
be stato il decorso del capitalismo europeo
se non fossero esistiti i partiti socialisti o i sin­
dacati esigerebbe un livello di ragionamento
controfattuale che eccede le nostre capacità
analitiche, perché comporterebbe la “riscrit­
tura” non di un episodio o due, ma di tutta
la storia degli ultimi cent’anni. La storiogra­
fia “di parte” del movimento socialista e ope­
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raio si è eccessivamente concentrata sulle
“ occasioni mancate” : un’idea basata sulla
fantasiosa convinzione che “se solo” i suoi
leaders fossero stati più saggi, o moralmente
più retti, o avessero avuto più fiducia nelle
masse, o avessero tradito di meno, le sconfit­
te sarebbero state evitate. Bisognerebbe cer­
care, ogni qualvolta è possibile, di non co­
struire interi scenari dove tutto dipende dal
fatto che determinate persone agiscano in
un modo piuttosto che in un altro. Inoltre,
un’azione che può danneggiare un gruppo
di capitalisti può rivelarsi benefica per altri.
Per esempio un innalzamento dei salari pro­
vocato con provvedimenti legislativi o dall’a­
zione dei sindacati può essere considerato un
atto “anticapitalista” perché può diminuire
la capacità degli imprenditori di ricavare pro­
fitto. Ma questo atto danneggerebbe necessa­
riamente il capitalismo nel suo insieme? Im­
prese inefficienti che si tenevano a galla gra­
zie ai bassi salari che pagavano ai loro operai
potrebbero uscire dal mercato, liberando ri­
sorse per nuovi investimenti. Salari più eleva­
ti possono allargare la domanda e generare
un mercato più ampio. E semplicemente im­
possibile sapere in anticipo come determinate
lotte influenzeranno, nel lungo o anche nel
medio periodo, la composizione di quel siste­
ma di produzione e di scambio che denomi­
niamo capitalismo. Hayek sosteneva che
questo fatto dovrebbe consigliarci prudenza
quando tentiamo di manipolare il mondo.
Ma a rigor di logica, se il futuro è inconosci­
bile, non c’è ragione per star fermi più di
quanta ce ne sia per andare avanti. Inoltre,
stare fermi è l’unica opzione che l’umanità
non ha mai fatto propria. Se non avessimo
mai avuto alcuna ragione per oltrepassare
l’orizzonte del presente, saremmo rimasti do­
ve eravamo, e non avremmo mai dato al futu­
ro l’opportunità di esistere. L’umanità avreb­
be dichiarato con il dottor Pangloss che “tut­
to va per il meglio nel migliore dei mondi
possibili”. Sarebbe stata la fine della storia,
e quindi della civiltà.
588
Donald Sassoon
Come erede delFIlluminismo e della sua
tradizione razionalistica, la sinistra deve
inevitabilmente dispiegare l’ottimismo della
volontà. Per rimanere una forza politica si­
gnificativa deve presumere che “le cose pos­
sono andare meglio” , che il futuro è dalla
sua parte. Storici e logici, per una volta
d’accordo, faranno notare che non c’è ra­
gione di essere ottimisti più di quanta ce
ne sia di essere pessimisti. E tuttavia dob­
biamo chiederci: come sarebbe il mondo
senza movimenti politici dediti alla fede
nel progresso, alla presupposizione che sia
possibile passare da uno stato di cose meno
desiderabile a uno più desiderabile, all’idea
che la pena del genere umano possa essere
alleviata e magari eliminata? Non è necessa­
rio che questa fede sia “vera” , ma forse è in­
dispensabile che sia creduta.
Le resistenze che ho menzionato non de­
vono quindi essere intese come interruzioni
sulla via che conduce a un destino inelutta­
bile, ma come elementi che configurano per­
corsi alternativi di sviluppo. Abbandonan­
do momentaneamente la prospettiva al­
quanto eurocentrica adottata in questo stu­
dio, possiamo distinguere tre modelli di ca­
pitalismo: quello giapponese, dove lo svi­
luppo capitalistico è stato plasmato da una
società tradizionale eccezionalmente forte e
in mancanza di un movimento socialista di
un qualche rilievo; quello americano, con­
traddistinto dalla relativa assenza tanto di
residui feudali, quanto di un movimento so­
cialista, e quello europeo, dove sono presen­
ti tanto il tradizionalismo quanto il sociali­
smo. Il modello americano è perciò, dei
tre, quello che maggiormente si avvicina alla
visione hayekiana di un capitalismo che non
incontra resistenze. Si tratta, ovviamente, di
una distinzione concettuale. Nessun capita­
lismo — neanche quello americano — è
“puro”.
Quale dei tre modelli abbia avuto maggio­
re successo è materia di costante discussione.
Negli anni cinquanta e sessanta gran parte
dei commentatori avrebbe optato per quello
americano. Negli anni ottanta e novanta il
relativo successo del Giappone e il timore
ispirato dalle sue capacità industriali domi­
navano i decision-makers nell’Unione euro­
pea e negli Stati Uniti. Il capitalismo europeo
non è oggi preso a modello nel resto del mon­
do (anche se potrebbe esserlo in Europa
orientale, vista la riuscita trasformazione in
senso socialdemocratico dei vecchi partiti co­
munisti). I limiti imposti allo sviluppo del­
l’Europa occidentale da un secolo di sociali­
smo sono addotti dai conservatori quale
principale causa della sua mancanza di com­
petitività e dei suoi alti tassi di disoccupazio­
ne. Se il capitalismo europeo in assenza dei
partiti socialisti avrebbe avuto maggior
“successo” è una domanda a cui gli storici
non possono rispondere, soprattutto dal mo­
mento che non è chiaro che cosa voglia dire
in questo caso a,vere successo: piena occupa­
zione? Maggior quantità di beni prodotti?
Un ambiente migliore? Produttività più ele­
vata? Crescita più rapida? Popolazione più
sana? Maggiore eguaglianza? Questa enume­
razione dimostra a sufficienza che la defini­
zione di successo appartiene all’ambito dei
giudizi di valore e non a quello delle statisti­
che — per quanto preziose esse siano per
giudicare se i nostri obiettivi definiti in ter­
mini di valore si siano realizzati. Ciò non to­
glie che i giudizi di valore forniscano criteri
di confronto perfettamente validi. I relativi­
sti hanno ragione quando mettono in guar­
dia i comparativisti: ciò che è “bene” nello
Zimbabwe può non essere considerato “ be­
ne” a Lisbona o a Copenhagen. Tuttavia,
le differenze culturali fra i principali centri
dello sviluppo capitalistico non sono così si­
gnificative da impedire di formarsi una no­
zione minimale di quello che è una buona so­
cietà. Mortalità infantile elevata, alti livelli
di criminalità, ignoranza diffusa, tossicodi­
pendenza, degrado urbano, mancanza di op­
portunità, disintegrazione sociale e crisi della
famiglia sono considerati piaghe sociali a
L’ombra del capitalismo
Tokyo, a New York e a Parigi (anche a Capetown, Rio de Janeiro e al Cairo, ma atte­
niamoci ai tre modelli). In rapporto a questi
indicatori, i livelli degli Usa sono peggiori sia
rispetto a quelli del Giappone sia rispetto a
quelli dell’Europa occidentale.
Gli Usa, l’unica società che sia nata insie­
me “ moderna” e “ democratica” , hanno
rappresentato per tutto questo secolo il ca­
pitalismo par excellence. Modernità, rapida
trasformazione, progresso tecnologico, co­
municazione di massa, società dei consumi
sono stati così strettamente associati agli
Stati Uniti che il ventesimo secolo può esse­
re caratterizzato come il secolo “ america­
no”. Nessun partito socialista ha “contami­
nato” il capitalismo in America. Nessun
welfare state forte e potente ne ha plasmato
la crescita. La manomorta della tradizione,
della deferenza e dell’obbedienza non ha
bloccato la sua rapida espansione. Il libera­
lismo americano non ha dovuto distruggere
il feudalesimo22. Culture precapitalistiche
esistenti, come quelle degli indigeni d’Ame­
rica, sono state facilmente spazzate via in
una serie di guerre genocide di sbalorditiva
ferocia, poi celebrate in innumerevoli film
per la delizia dei bambini di tutto il mondo.
Studiosi della società da Tocqueville fino a
Weber e oltre hanno descritto l’ethos ottimi­
stico e individualistico che ha puntellato lo
sviluppo americano quale una delle princi­
pali precondizioni culturali per la nascita
dello spirito imprenditoriale (anche se —
come Tocqueville, cui poco sfuggiva, aveva
osservato già in quei tempi lontani — l’A­
merica presentava anche indizi di enorme
589
conformismo). Per molta gente in Europa,
in Giappone, nei paesi che si trovavano a
un “precedente” stadio di sviluppo, l’America era il futuro.
I dati raccolti dagli stessi americani rivela­
no però un quadro diverso. Il capitalismo re­
lativamente privo di costrizioni che ha carat­
terizzato gli Stati Uniti è stato accompagnato
da problemi sociali di una gravità che non ha
eguale in nessun luogo dell’Europa occiden­
tale e quasi inesistenti in Giappone.
Misurare il livello di povertà può essere
difficile e i confronti tra nazioni non sono
affidabili, ma i dati americani non possono
essere sottovalutati. Una rassegna della ster­
minata letteratura sulla povertà conclude
che — a una stima approssimativa — la co­
siddetta sottoclasse è formata da otto milio­
ni di persone, ossia dal 3,5 per cento della
popolazione totale. Essa costituisce entro
la società una cultura separata, priva di cit­
tadinanza sociale. Questi otto milioni di per­
sone sono circa la metà del gruppo dei “po­
veri in permanenza”, a loro volta la metà del
totale della complessiva popolazione povera
che ammonta a trentadue milioni2’. Fra i
paesi sviluppati gli Stati Uniti hanno la più
alta percentuale di poveri (persone in fami­
glie i cui redditi sono inferiori alla metà di
quello medio): il 16,6 per cento, quattro vol­
te la percentuale della Germania (4,9), della
Svezia (5,0) e della Norvegia (4,8) e più del
doppio di quella dell’Olanda (7,5). Gli Usa
sono seguiti a qualche distanza dagli altri
paesi capitalisti “ anglosassoni” : il Canada
(12,3 per cento), il Regno Unito (11,7) e
l’Australia (1 1,424). Più della metà degli
22 Come ha illustrato, in modo a tutt’oggi insuperato, Louis Hartz nel suo classico The Liberal Tradition in America. An
Interpretation of American Political Thought since the Revolution, New York, Harcourt, Brace & World Inc., 1955 (La
tradizione liberate in America. Interpretazione del pensiero politico americano dopo la rivoluzione, tr. di G. Tornabuoni.
Milano, Feltrinelli, 1960).
23 Patricia Ruggles, Short- and Long-Term Poverty in the United States: Measuring the American ‘‘Underclass’’, in Lars
Osberg (a cura di), Economie Inequality and Poverty. International Perspectives, Armonk N. Y., M. E. Sharpe Inc., 1991,
p. 186.
24 Si veda Albert Berry, François Bourguignon, Christian Morrison, Global Economie Inequality and Its Trends since
1950, in L. Osberg (a cura di), Economic Inequality and Poverty, cit., p. 48.
590
Donald Sassoon
americani poveri sono genitori soli con figli.
Non cosi in Germania, Svezia e Norvegia,
dove solo il dieci per cento dei poveri sono
genitori single. La maggior parte dei genitori
soli poveri in America sono donne, molte
delle quali nere. Esse hanno trovato pochi
difensori: nessun partito politico è disposto
a sostenere la loro causa. La divisione raz­
ziale è stata tradizionalmente una delle ra­
gioni principali della debolezza delle politi­
che di classe e quindi della sinistra23*25. A sua
volta la debolezza della sinistra potrebbe
aver rafforzato questa divisione. L’accre­
sciuto potere e l’accresciuta politicizzazione
delle donne americane non hanno fermato
l’aumento in proporzione delle donne pove­
re — quella che è stata definita la “femminilizzazione” della povertà26. Sindacati deboli
possono al massimo difendere coloro che
hanno già un’occupazione, e i programmi
antidiscriminazione offrono un aiuto co­
munque non adeguato ai membri meno sfor­
tunati dei gruppi discriminati.
La destra americana ha affermato che
questa sottoclasse è il prodotto di una cultu­
ra della dipendenza creata dal welfare state e
— quando ha adottato il suo stile socio-sadi­
co — ha premuto per una drastica riduzione
delle spese sociali. Ma sebbene il welfare sta­
te sia meno sviluppato negli Usa che nella
maggior parte dei paesi dell’Europa occiden­
tale, la sottoclasse è molto più numerosa.
Inoltre, lo stato sociale negli Usa protegge
i gruppi a medio reddito ancor più di quanto
non faccia il suo corrispettivo europeo. Gli
americani spendono molto meno degli euro­
pei per l’assistenza, a meno che non si pren­
da in considerazione l’“assistenza indiretta” ,
nella forma di sgravi e indennità fiscali. Ma
anche in questo caso, “un fatto cruciale ri­
mane: le classi a reddito medio ed elevato
sono i principali beneficiari del welfare state
sommerso”27.
Il tasso statunitense di povertà per quanto
riguarda le donne capofamiglia si è abbassa­
to fra il 1960 e il 1970 quando il paese ha in­
trapreso la sua “guerra alla povertà” (in al­
tri termini, quando ha allargato l’assistenza)
e ha continuato a scendere per tutti gli anni
settanta28. Può darsi effettivamente che “la
povertà [sia] stata alleviata principalmente
non dalla redistribuzione dai più ricchi ai
poveri bensì a causa di incrementi globali
di ricchezza che hanno fatto salire i redditi
di tutti”29.
Ma questo effetto è limitato. Non si dà
sempre il caso che incrementi globali di ric­
chezza facciano salire i redditi di tutti. Posso­
no verificarsi situazioni in cui i “ ricchi” di­
ventano ancora più ricchi, la classe media
mantiene le posizioni e i poveri diventano re­
lativamente più poveri, come è successo negli
Stati Uniti e nel Regno Unito negli anni ot­
tanta.
Né è vero che la disoccupazione di per sé
sia una causa determinante nella formazione
di una sottoclasse, perché se così fosse la sot­
toclasse europea (la quale esiste anch’essa,
come la presenza di colonie di giovani men­
dicanti senza casa che dormono dove capita
nelle principali città europee sta a testimo­
niare) dovrebbe ormai essere numerosa al­
meno quanto quella americana, dato che i
tassi di disoccupazione europei sono stati su-
23 Questa e la tesi centrale dell’importante lavoro di Jill Quadagno, The Color o f Welfare. H ow Racism undermined the
War on Poverty , New York-Oxford, Oxford University Press, 1994, pp. 191-192.
' 6 Gertrude Schaffner Goldberg, The United States: Feminization o f Poverty amidst Plenty, in G. Schaffner Goldberg,
Eleanor Kremen (a cura di), The Feminization o f Poverty: Only in America?, New York, Praeger, 1990, pp. 45-46.
“7 Christopher Howard, The Hidden Side o f the American Welfare State, “Political Science Quarterly” , 1993, n. 3, p.
416.
_s G. Schaffner Goldberg, The United States: Feminization o f Poverty amidst Plenty, cit., p. 42 e P. Ruggles, Short- and
Long-Term Poverty in the United States, cit., p. 162.
29 Anthony Giddens, Beyond Left and Right. The Future o f Radical Politics, Cambridge, Polity, 1994, p. 149.
L’ombra del capitalismo
periori a quelli statunitensi per la maggior
parte degli anni ottanta e novanta3031.
Il capitalismo non mitigato dai valori tra­
dizionali o dalla presenza della socialdemo­
crazia ha fatto allignare fra le minoranze et­
niche di Chicago, Los Angeles e New York
quelli che Galbraith ha definito “centri di ter­
rore e di disperazione” ’1. Questi sono poi di­
venuti “giungle hobbesiane” , in cui selvaggi
adolescenti maschi, ormai sempre più fre­
quentemente armati sono causa di terrore ge­
nerale32. Gli Stati Uniti nel loro insieme regi­
strano un tasso di gravidanza delle teenager
doppio rispetto alla Svezia o alla Francia33.
Le conseguenze di questo fatto sono peggiori
negli Usa che in qualsiasi altro paese. Mentre
la destra fondamentalista esalta l’importanza
dei valori della famiglia, il tasso di povertà
delle giovani famiglie con bambini negli Stati
Uniti a metà degli anni ottanta era del 39,5
per cento, mentre nel Regno Unito era del
23,2 per cento, in Germania del 18,8, in Fran­
cia del 9,1 e in Svezia del 5,33435.Nella comuni­
tà nera metà dei bambini di età inferiore ai sei
anni vivono al di sotto della soglia della po­
vertà. Nel 1989, 375.000 bambini americani
sono nati già tossicodipendenti da cocaina
o da eroina. Gli Stati Uniti hanno il più alto
tasso di mortalità infantile e la più bassa
aspettativa di vita fra i maggiori paesi indu­
strializzati. Tutti gli indicatori sanitari relati­
vi alle donne nere e ancora di più ai maschi
neri sono peggiorati negli ultimi vent’anni
(come è accaduto nell’Urss dopo il 1975). Ne­
591
gli Usa viene consumata la metà della produ­
zione mondiale di cocaina. Ciò contribuisce a
determinare il più alto livello di criminalità
del mondo e, di conseguenza, la popolazione
carceraria più numerosa — superiore del ses­
santa per cento, in proporzione, a quella del­
la vecchia Unione sovietica e dieci volte supe­
riore a quella dell’Olanda. Vengono assassi­
nate più persone a New York che nei bassi­
fondi di Calcutta. Mentre spendono meno
della maggior parte dei paesi avanzati per le
scuole primarie e secondarie, gli Usa devol­
vono il quaranta per cento della spesa per l’i­
struzione ai college e alle università. Il risul­
tato è che da quel paese escono più premi No­
bel che da tutti gli altri paesi messi insieme,
ma milioni di americani sono analfabeti.
Uno studio indica che il 22 per cento della
popolazione adulta non sa mettere correttamente l’indirizzo su una lettera, e quasi lo
stesso numero non è in grado di leggere le
istruzioni su un flacone di medicinale33 .
In mezzo a tutto questo il capitalismo ame­
ricano, libero da impacci, continua il suo cor­
so ascendente e asimmetrico dando di più al
ricco e di meno al povero. Fra il 1980 e il
1993 il reddito del cinque per cento della po­
polazione più ricca è aumentato del 34 per
cento in termini reali, quello del venti per
cento della popolazione più povera è sceso
del due per cento. Può darsi che tutti gli esseri
umani siano stati creati uguali, ma negli Usa
finiscono più diseguali che in qualsiasi altro
luogo nel mondo sviluppato36. Ineguaglianze
30 Nel 1993 la disoccupazione nei paesi dell’Ocde era del 10,7 per cento, negli Usa del 6,8 per cento e in Giappone solo
del 2,5 per cento; cfr. Ocde, Employment Outlook, Paris, luglio 1994, p. 6.
31 John Kenneth Galbraith, The Culture o f Contentment, Harmondsworth, Penguin Books, 1992, p. 39 {La cultura delTappagamento, tr. di Paola Brivio, Milano, Rizzoli, 1993, p. 45).
32 Eric J. Hobsbawm, Age o f Extremes. The Short Twentieth Century, 1914-1991, London, Michael Joseph, 1994, p. 341
{Il secolo breve, tr. di Brunello Lotti, Milano, Rizzoli, 1995, p. 401).
33 G. Schaffner Goldberg, The United States: Feminization o f Poverty amidst Plenty, cit., p. 41.
34 J. Quadagno, The Color o f Welfare, cit., p. 183.
35 Tutte queste informazioni provengono dall’illuminante lavoro di Paul Kennedy. Preparing fo r the Twenty-First cen­
tury, London. Fontana, 1994, pp. 304-307 (prima edizione New York, Random House, 1993; Verso il X X I secolo, tr. di
Sergio Minucci, Milano, Garzanti, 1993).
36 Ufficio statunitense del censimento citato in Michael Prowse, Clinton Budget a Manifesto to M iddle Classes, “Finan­
cial Times”, 7 febbraio 1995, p. 6.
592
Donald Sassoon
cosi madornali non sono soltanto moralmen­
te ripugnanti, ma in molti casi sono una que­
stione di vita o di morte. Nel mondo svilup­
pato l’ineguaglianza di reddito all’interno del­
lo stesso paese è il fattore più importante nel
determinare i livelli di salute fisica e l’aspetta­
tiva di vita’7.
Fra le tre resistenze che ho menzionato,
quella esercitata dalla tradizione era inevita­
bile, almeno per le prime società capitaliste.
La seconda, vale a dire la Rivoluzione bol­
scevica e il sistema statale che alla fine ne ri­
sultò, non era inevitabile sotto alcun riguar­
do. Dal punto di vista della storia del capita­
lismo, il comunismo è stato una minaccia
evidente alla sua espansione perché offriva
un’alternativa e nello stesso tempo sottraeva
potenziali mercati all’ambito del capitale.
Ma a uno sguardo retrospettivo si può nota­
re che il comunismo è stato anche un ele­
mento di stabilizzazione. Ha mantenuto uni­
to il territorio del vecchio impero zarista
che, in assenza di un forte potere centrale,
sarebbe forse imploso negli anni fra le due
guerre in una miriade di nazionalismi rivali
che non avrebbero offerto alcuna resistenza
all’aggressione nazista. Alle democrazie libe­
rali dell’Occidente sarebbe stato necessario
più tempo per sconfiggere Hitler e più tempo
per riprendersi in seguito. O magari sarebbe­
ro state sconfitte e la storia sarebbe “andata
a finire” diversamente. La resistenza bolsce­
vica al capitalismo potrebbe rivelarsi come
uno dei fattori che hanno contribuito al
“ successo” della forma liberaldemocratica
del capitalismo. Non era proprio questo
che si voleva quando i cannoni deWAurora
diedero il segnale per la presa del Palazzo
d’inverno...
Persino la guerra fredda, provocando un
alto livello di spese militari, può essere consi­
derata come un fattore che ha contribuito a
sostenere la ripresa internazionale del capita­
lismo. Negli anni settanta e ottanta l’econo­
mia americana è divenuta dipendente dal
commercio mondiale più di quanto non fosse
mai stata. Le importazioni americane dagli
altri paesi dell’Ocde sono aumentate enorme­
mente, sostenute dalla politica del dollaro
forte che ha efficacemente svalutato le im­
portazioni statunitensi (cioè le ha rese meno
costose). La crescita della domanda interna
negli Stati Uniti ha condotto negli anni ot­
tanta alla ripresa dell’Ocde nel suo insieme.
Ma una proporzione considerevole di questo
incremento della domanda interna si basava
sull’aumento delle spese militari statunitensi,
finalizzate a fronteggiare la cosiddetta mi­
naccia sovietica. Così le economie capitalistiche sono state salvate — almeno tempora­
neamente — da quell’aumento delle spese mi­
litari che ha fatto precipitare la crisi sovieti­
ca3738. Di nuovo, non era proprio questo che
intendeva Chruscèv quando disse: “vi seppel­
liremo” .
La terza fonte di resistenza, i partiti socia­
listi europei, è l’unica che si sia sviluppata nel
corpo stesso del capitalismo. Naturalmente,
in origine socialisti e bolscevichi condivide­
vano lo stesso obiettivo: l’abolizione del capi­
talismo in se stesso. Abbiamo delineato il
modo in cui, con lo svilupparsi del movimen­
to, i socialisti europei furono costretti dalla
nuda necessità a coesistere con il capitalismo
e ad abbandonare quella che Willy Brandt
definiva “ la teologia della meta finale” 39.
Fin dai primi inizi del movimento, quando
la Seconda Internazionale fu fondata a Parigi
37 Richard Wilkinson, Health, Redistribution and Growth , in Andrew Glyn, David Miliband (a cura di), Paying f o r Ine­
quality. The Economic Cost o f Social Injustice, London, Ippr-Rivers Oram Press, 1994, pp. 24-43, in particolare pp. 2730.
38 La tesi secondo cui le spese militari non frenano necessariamente la crescita è stata dimostrata in modo soddisfacente
da Massimo Pivetti in M ilitary Spending as a Burden on Growth: an “underconsumption" critique, “Cambridge Journal
of Economics", dicembre 1992, n. 4.
39 Willy Brandt, Social Democracy After the Communist Collapse, “Socialist Affairs”, 1991, n. 3, p. 7.
L’ombra del capitalismo
in rue Rochechouart il 14 luglio del 1889 o
quando, due anni dopo, la Spd redasse il pro­
gramma di Erfurt, i partiti socialisti fissarono
le condizioni di tale coesistenza: suffragio
universale e diritti civili, ossia democrazia
politica; un sistema nazionale di protezione
sociale per gli anziani, i malati e i disoccupati
(pensioni e previdenza sociale), ossia il mo­
derno welfare state; giornata lavorativa di ot­
to ore, ossia regolamentazione della vendita
della forza lavoro — ciò che noi oggi definia­
mo regolamentazione del mercato del lavoro.
La storia della sinistra nell’Europa occiden­
tale è stata la storia di questa coesistenza. Il
capitalismo, regolato grazie alla pressione
dei partiti socialisti, è stato reso meno gerar­
chico che in Giappone e più umano che negli
Stati Uniti. Non è un risultato da poco, come
ha affermato il teorico socialdemocratico
David Marquand:
Il libero mercato capitalistico è un servitore mera­
viglioso ma un pessimo padrone. Una delle più
grandi conquiste della seconda metà di questo se­
colo è rappresentata dal fatto che alcune società
privilegiate hanno imparato a trasformarlo da pa­
drone a servitore. Il rischio adesso è che un capita­
lismo presuntuoso e vanaglorioso non tenga a
mente la lezione40.
A questo punto dobbiamo volgerci al nostro
secondo concetto “problematico” , quello di
regolamentazione. In senso stretto un capita­
lismo non regolamentato è impossibile. L’at­
to stesso dello scambio, che è la condizione
necessaria per 1'esistenza dei rapporti di mer­
cato, richiede — come condizione minima as­
soluta — un sistema di regole provviste di
forza coercitiva. Nel mondo reale del capita­
lismo avanzato, la regolamentazione è anda­
ta ben oltre i confini minimi, le “ regole
593
astratte” proposte da Hayek. Alla fine di
questo secolo la differenza fondamentale fra
i socialisti e i loro avversari viene spesso rap­
presentata come una mera lotta fra fautori
della regolamentazione e fautori della dere­
gulation. Un tempo i socialisti nutrivano am­
bizioni più alte. Volevano abolire il capitali­
smo. In seguito, quando per la prima volta
ottennero il potere, il loro obiettivo divenne
la direzione del capitalismo nazionale me­
diante l’occupazione o il controllo delle posi­
zioni di comando dell’economia. Oggi l’o­
biettivo è la “regolamentazione” del capitali­
smo nazionale. Ma a quale scopo? E come
può essere raggiunto tale obiettivo, nel mo­
mento in cui il capitalismo acquista sempre
più una dimensione globale?
Habermas ha spiegato che i capitalisti non
possono riprodurre da soli le condizioni che
rendono possibile il capitalismo stesso. Marx
lo aveva intuito quando lasciava intendere
che non fosse nell’interesse dei capitalisti es­
sere loro stessi i governanti: “ la borghesia
confessa che il suo proprio interesse le impo­
ne di sottrarsi al pericolo dell’autogoverno
[...], che per mantenere intatto il suo potere
sociale deve essere spezzato il suo potere po­
litico; [...] che per salvare la propria borsa es­
sa deve perdere la propria corona”41. Il capi­
talismo, aggiunge Habermas, richiede resi­
stenza di uno stato che stia di fronte ai singoli
capitalisti come un “non capitalista”, al fine
di realizzare la loro ’volontà collettiva’42.
Questa è una concezione dei capitalisti come
atomi hobbesiani, costretti a una perenne lot­
ta mortale. Solo l’intervento di uno stato Le­
viatano può proteggerli dall’autodistruzione.
Tale funzione dello stato come guardiano
notturno si avvicina alle “regole astratte” di
Hayek. Ciò forse è stato sufficiente nel perio-
40 David Marquand, A fter Socialism, “Politicai Studies”, numero speciale 1993, p. 51.
41 K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, a cura di Giorgio Giorgetti, tr. di Paimiro Togliatti. Roma, Editori Riu­
niti, 1964, p. 121.
42 Jürgen Habermas, Legitimationsprobleme im Spätkapitalismus, Frankfurt, Suhrkamp Verlag, 1973 (tr. ingl. Legitima­
tion Crisis, tr. Thomas Me Carthy, London, Heinemann 1976, pp. 50-51).
594
Donald Sassoon
do iniziale dell’accumulazione capitalistica,
ma a partire dalla fine del diciannovesimo se­
colo, e in particolare dopo la crisi fra le due
guerre, lo Stato nelle società capitaliste ha
dovuto intervenire in modo massiccio, non
solo per stabilire le regole basilari del gioco
ma anche per assicurare la riproduzione del
sistema: adattando le leggi alle nuove forme
dell’impresa capitalistica, stabilizzando la va­
luta, approntando un sistema sanitario, del­
l’istruzione, dei trasporti e delle comunica­
zioni in costante espansione. Oltre a ciò lo
Stato ha dovuto farsi carico delle conseguen­
ze negative — e politicamente intollerabili —
dell’accumulazione capitalista: sviluppo dise­
guale, squilibri regionali, disoccupazione,
chiusura o declino di settori come l’attività
mineraria, l’allevamento o l’agricoltura4'5.
In Europa molto più che altrove i partiti della
sinistra, che agivano come espressione politi­
ca del movimento operaio, hanno di fatto ri­
formato il capitalismo, cioè lo hanno reso po­
liticamente tollerabile separando la distribu­
zione dei servizi sociali dai rapporti di merca­
to. Questo non è soltanto un sistema molto
più equo per provvedere alla tutela dei disoc­
cupati, alla sanità e ai bisogni degli anziani,
ma è anche molto più efficiente di tutti i siste­
mi di mercato che si conoscano (come dimo­
stra ampiamente la situazione degli Usa nel­
l’ambito della sanità).
La socialdemocrazia ha rappresentato
quindi uno stadio importante nello sviluppo
capitalistico4344. Il crollo azionario del 1987
non ha trascinato alla rovina le economie eu­
ropee come era successo con il crollo del 1929
in gran parte a causa delle differenze struttu­
rali fra la situazione del 1929 e quella del
1987. Fra queste ne spiccano due: nel 1930
il settore terziario rappresentava un terzo
della forza lavoro totale; nel 1987 i due terzi
43
44
43
46
— di cui quasi la metà costituita da impiegati
pubblici. Poiché l’occupazione nel settore
terziario (specialmente in quello statale) è
meno variabile che neH’industria, questo fat­
to ha stabilizzato la situazione occupazionale
nelle economie europee e ha contribuito a im­
pedire una crisi di proporzioni pari a quella
degli anni trenta. La seconda differenza
strutturale consiste nel fatto che i redditi in­
diretti (per lo più indennità assistenziali) rap­
presentavano nel 1930 meno del quattro per
cento del Prodotto interno lordo, mentre
nel 1987 la quota era quasi del trenta per cen­
to45 . Questi redditi indiretti hanno attutito
dal punto di vista economico e sociale le con­
seguenze negative del “lunedi nero” del 1987
come non era stato possibile nel 1930. Se lo
stato si fosse realmente “ritirato” nella stessa
misura in cui ciò era accaduto negli anni ven­
ti, il capitalismo europeo negli anni novanta
si sarebbe probabilmente trovato in condi­
zioni assai peggiori di quanto non appaia. È
molto probabile che lo stato sociale negli an­
ni ottanta abbia salvato il capitalismo46.
Nell’Europa occidentale, la principale
conquista del socialismo negli ultimi cent’an­
ni è stata l’incivilimento del capitalismo. An­
che altre tradizioni politiche hanno giocato
un ruolo nello svolgimento di questo compi­
to. Sul continente bisogna segnalare la tradi­
zione cristiano sociale, in Gran Bretagna l’at­
tività di riforma delle amministrazioni libera­
li all’inizio del secolo, negli Usa il New Deal
negli anni trenta e il programma legislativo
Great Society degli anni sessanta. Cionono­
stante, come ha scritto un critico del sociali­
smo, Leszek Kolakowski:
Qualsiasi cosa sia stata fatta nell'Europa occiden­
tale per ottenere più giustizia, più sicurezza, più
possibilità di istruzione, più benessere e più re­
sponsabilità dello stato nei confronti dei poveri e
J. Habermas, Legitimation Crisis, cit., pp. 53-54.
Alan Wolfe, Has Social Democracy a Future?, “Comparative Politics” , ottobre 1978, n. 1.
Paul Bairoch, Economics and World History. M yths and Paradoxes, Hemel Hempstead, Harvester Wheatsheaf, 1993, p. 174.
E.J. Hobsbawm, Age o f Extremes, cit., pp. 95-96; II secolo breve, cit., pp. 131-132.
L’ombra del capitalismo
degli indifesi, non si sarebbe mai potuta consegui­
re senza la forza di pressione delle ideologie e dei
movimenti socialisti, malgrado tutte le loro inge­
nuità e le loro illusioniI47.
In Europa occidentale ciò vale non solo per i
socialisti ma, in egual misura o anche di più,
per i grandi partiti comunisti, come quello
italiano, e persino per il loro corrispettivo
francese, meno ricco di immaginazione e
più dogmatico. Probabilmente questo aveva
in mente Jean-Denis Bredin dell’Académie
Française allorché nell’agosto 1991, poco do­
po il fallito colpo di stato che segnò l’inizio
della fine dell’Unione Sovietica, invitò i rispettabili cittadini della France moyenne,
che ritornavano riposati e ben pasciuti dalle
vacanze estive, a riflettere sul fatto che forse
dovevano qualcosa delle loro libertà e dei lo­
ro diritti ai comunisti francesi:
Mi è permesso far presente che dobbiamo molto a
questa gente testarda, a questi settari, a questi
combattenti infaticabili che occupavano le nostre
fabbriche e portavano disordine nelle nostre stra­
de, a questi tipi ostinati che non hanno mai smesso
di chiedere riforme mentre fantasticavano di rivo­
luzione, a questi marxisti che, marciando contro la
corrente della storia, hanno impedito al capitali­
smo di dormire sonni tranquilli? [...] Il comuniSmo
è morto, facciamo festa. Ma è permesso, pensando
ai comunisti francesi, a coloro che sono morti af­
finché fossimo liberi, a coloro che hanno tanto lot­
tato per i diseredati di casa nostra, è permesso dire
che assai spesso costoro sono stati più disinteres­
sati, più appassionati e più giusti, in altre parole
migliori della maggior parte di noi?48
I socialisti non soltanto hanno svolto un ruolo
cruciale nella creazione del sistema del welfa­
re, ma sono stati gli autentici eredi dell’Illumi-
595
nismo europeo, i difensori dei diritti civili e
della democrazia. Hanno lottato per l’allarga­
mento del suffragio quando era ristretto.
Hanno lottato per i diritti delle donne con
più coerenza di quanto non abbiano fatto gli
altri partiti. Hanno lottato per l’abolizione
dei diritti e dei privilegi attorno ai quali Yancient régime aveva eretto una trincea. Hanno
dato il loro sostegno, spesso decisivo, a tutte
le lotte contro la discriminazione razziale.
Hanno giocato un ruolo significativo — spes­
so il principale — nell’abolizione della pena di
morte, nel riconoscimento legale dell’omoses­
sualità e nella depenalizzazione dell’aborto.
Nonostante questi successi, i socialisti non
sono riusciti ad abolire il capitalismo né a di­
rigerlo mediante la pianificazione economi­
ca. Questo fallimento è inerente alla natura
del rapporto fra politica e capitalismo mo­
derno. Come ha mostrato Charles Lindblom, ai singoli capitalisti è affidato un am­
pio spettro di decisioni che, date le loro con­
seguenze sul benessere generale della società,
sono di fatto decisioni di politica pubblica
assunte da individui privati: allocazione delle
risorse e della forza lavoro, collocazione di
impianti, tecnologie da utilizzare, qualità
dei beni e dei servizi49. Ciò non significa
che il potere del capitalista sia illimitato,
ma solamente che l’imperativo dominante,
quello di mantenere il capitalismo sulla sua
rotta, limita il potere di tutti gli altri. Ci sono
momenti in cui i consumatori sembrano
esercitare una sorta di potere di veto, ma in
realtà essi per lo più reagiscono a decisioni
di tipo privato e corporativo già prese altro­
ve. Inoltre, i consumatori possono esercitare
la loro “sovranità” quando scelgono fra di­
versi prodotti, ma molte delle condizioni
47 Si veda la sua osservazione introduttiva a un convegno tenuto nell’aprile del 1973 con il titolo originale What is
Wrong with the Socialist Idea? Gli atti sono stati pubblicati con il titolo più neutro The Socialist Idea. A Reappraisal,
a cura di Leszek Kolakovvski, Stuart Hampshire. London, Weidenfeld e Nicholson, 1974; l’osservazione citata è a p. 16.
48 Jean-Denis Bredin, E st-il perm isi, “Le Monde”, 31 agosto 1991.
49 Charles Lindblom, Politics and M arkets. The World’s Political-Economic Systems, New York, Basic Books, 1977, p.
171 (Politica e mercato. I sistem i politico-economici mondiali, a cura di Alessandro Pizzorno, tr. di Luciano Aleotti, Mi­
lano, Etas libri, 1979).
596
Donald Sassoon
che rendono questa scelta significativa sono
stabilite in altro luogo. Solo quando i consu­
matori si organizzano in lobbies, partiti e
campagne oppure, più spesso, quando qual­
cuno lo fa per loro conto, le imprese sono
costrette a fornire l’informazione necessaria
che può mettere in grado il consumatore di
esercitare un qualche potere di scelta su ciò
che compra. Si tratta di un processo lungo
e tortuoso, che resta sempre un passo indie­
tro rispetto allo sviluppo del capitalismo. In
ultima analisi i governi devono porsi al servi­
zio del capitalismo creando e conservando
un’intelaiatura entro la quale esso possa svi­
lupparsi. Questa intelaiatura può indurre la
crescita del capitalismo, ma non imporglie­
la50. Per quanto grande sia l’autorità eserci­
tata da un governo sull’attività dei capitali­
sti, essa è limitata dal timore che questo eser­
cizio di potere si ripercuota negativamente
sul capitalismo stesso, dando luogo a disoc­
cupazione e rallentando la crescita. Il lin­
guaggio politico corrente conferma la fonda­
tezza della visione di Lindblom: “Come rea­
giranno i mercati?” si chiedono allo stesso
modo socialisti e conservatori quando sono
responsabili dell’economia. La differenza
fra i due schieramenti sta nel fatto che i con­
servatori sono ideologicamente impegnati a
favore del capitalismo e non pongono obie­
zioni al fatto di essere guidati dai segnali
del mercato, mentre i socialisti hanno dovu­
to accettare, spesso a malincuore, che la pro­
sperità del capitalismo fosse una condizione
indispensabile del benessere sociale e della
prosperità della classe operaia.
Più di cento anni fa i partiti socialisti del­
l’Europa occidentale cercarono di regola­
mentare il capitalismo operando all’interno
di un duplice ordine di condizionamenti. Il
primo era costituito dalle esigenze del capita­
lismo stesso, le quali impedivano ai partiti
della sinistra di dar corso a politiche anticapi­
talistiche — cioè a politiche le quali, se effet­
tivamente attuate, avrebbero prodotto il col­
lasso del sistema. Il secondo condizionamen­
to era lo stato nazione. Era quest’ultimo a
stabilire i limiti giuridici di qualunque qua­
dro di regole. I capitalisti potevano eludere
questi limiti uscendo dallo stato nazione.
Ma solamente i più forti potevano farlo e, an­
che in questo caso, erano costretti dalle circo­
stanze a mantenere un forte impegno nei con­
fronti della loro base in patria. Le scorriban­
de del capitalismo ai quattro angoli del globo
non avrebbero potuto verificarsi senza il sup­
porto di forti stati nazionali che edificavano
imperi e fondavano colonie. L’ascesa degli
stati nazione europei fu una delle condizioni
per la creazione di un ambiente favorevole al­
la crescita economica, per la diffusione delle
tecnologie e del commercio e, come ha sugge­
rito Eric Lionel Jones, “in molti paesi per la
creazione di manifatture al posto delle vec­
chie botteghe artigiane” 51. Molte società
multinazionali non esisterebbero se prima
non fossero state in grado di operare in un
mercato nazionale protetto dallo stato e,
spesso e volentieri, dallo stato socialdemo­
cratico52 .
Lo stato nazione ha fornito la cornice es­
senziale per le attività del capitale, che tutta­
via non è mai rimasto circoscritto nei confini
dello stato. Il capitalismo europeo, in parti­
colare, è stato costretto a fuoriuscire dalle
frontiere nazionali molto più dei suoi “rivali”
50 C. Lindblom, Politics and M arkets , cit., p. 173.
51 Eric Lionel Jones, The European Miracle. Environments, Economies and Geopolitics in the H istory o f Europe and Asia,
Cambridge, Cambridge University Press, 1981, pp. 149 e 124 (// miracolo europeo. Ambiente, economia e geopolitica nella
storia europea e asiatica, tr. di Giovanni Vigo, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 181 e 151).
52 In Svezia, per esempio, la catena di mobili Ikea si è sviluppata arredando i milioni di appartamenti costruiti nell’am­
bito della politica di edilizia sociale svedese negli anni cinquanta e sessanta; cfr. Rudolf Meidner, Why D id the Swedish
M odel Fail?, in Ralph Miliband, Leo Panitch (a cura di), ReaI problems. False Solutions, Socialist Register 1993, Lon­
don, The Merlin Press, 1993, p. 226.
L’ombra del capitalismo
giapponese e americano. Gli stati europei so­
no piccoli, i loro mercati interni ristretti. Il fe­
nomeno dell’interdipendenza può toccare
tutti i sistemi capitalisti, ma nessuno più di
quelli europei5’. Questi ultimi potranno fon­
dersi in un capitalismo globale, ma i regola­
menti nazionali per il momento esistono an­
cora e senza dubbio, per quanto possiamo
prevedere, sono destinati a sopravvivere in
futuro, sebbene con efficacia minore. Prima
di imporre o di mantenere qualsiasi regola
esistente, i politici devono prendere in consi­
derazione la posizione relativa dei “loro” ca­
pitalisti (cioè di quelli che operano entro lo
stato nazione) rispetto ai concorrenti esterni.
Il benessere del loro elettorato dipende dal
capitalismo, mentre non sempre vale il con­
trario. Il capitale può trasferirsi altrove; l’e­
lettorato no.
I socialisti hanno reagito a questa situazio­
ne tentando di ricreare un nuovo quadro di
regole a livello europeo. Hanno perciò messo
da parte il loro atteggiamento di iniziale osti­
lità nei riguardi dell’integrazione europea.
Jacques Delors, lungimirante esponente, nel
corso degli anni ottanta e nei primi anni no­
vanta, della prospettiva di un socialismo
“postnazionale” , ha indicato una via per il
futuro quando, nel 1989, ha spiegato come
il problema principale dell’età contempora­
nea fosse 1’esistenza di un’economia mondia­
le che nessuno pilota. Si sarebbe dovuta sta­
bilire una nuova divisione politica del lavoro.
Nel vecchio continente, “la via europea non
dev’essere quella di privare di sostanza i pote­
ri degli stati nazionali, bensì quella di ricreare
un margine di autonomia che li metta in gra­
do di svolgere i loro compiti essenziali. La
597
politica macroeconomica dovrebbe essere in­
vece riconfigurata al livello della Comunità
Europea” ' 4. Nello stesso anno in Francia
sotto la guida di Michel Rocard, un tempo
acerrimo avversario del mercato e ora fervi­
do federalista, il governo socialista ha pro­
mulgato un piano nazionale che, per la prima
volta nella storia della pianificazione in
Francia, ha accolto la lezione di Monnet,
cioè ha descritto il futuro della Francia nei
termini del suo destino in Europa: il titolo
del piano era La Francia, VEuropa: il piano
1989-1992^s. Inizialmente recalcitranti di
fronte alla prospettiva europea, i socialisti
finlandesi, quelli svedesi, quelli austriaci e,
senza successo, quelli norvegesi, hanno ap­
poggiato l’adesione dei loro paesi all’Unione
europea nel 1994. Nel 1993 John Smith, lea­
der di quello che una volta era il partito so­
cialista meno filoeuropeo, ha dichiarato:
“Ci piaccia o no, l’interdipendenza è la realtà
del mondo moderno. Questioni di importan­
za vitale per le nostre esistenze, come la pro­
sperità economica e la protezione dell’am­
biente, dipendono tutte dalla collaborazione
internazionale. In questi tempi nessun paese
può farcela da solo”56. L’Europa veniva ora
vista come un terreno in cui la politica poteva
riconquistare i livelli di controllo perduti sul
piano nazionale.
Questo progetto, i cui contorni essenziali
in questa fase possiamo a malapena intravvedere, è carico di difficoltà. Tanto per comin­
ciare, i partiti socialisti hanno dovuto accet­
tare il fatto che la regolamentazione del capi­
talismo in Europa debba passare attraverso
le istituzioni dell’Unione europea, situazione
che pone molti problemi. Uno di questi è che
53 Paul Krugman, The Age o f Diminished Expectations. U. S. Economie Policy in the 1990s, Cambridge-London,
The Mit Press, 1990 (edizione riveduta e aggiornata Cambridge Mass, London 1994), p. 197 (Il silenzio dell'econo­
mia. Una politica economica per un’epoca di aspettative deboli, tr. di Giuseppe Barile, Milano. Garzanti, 1991, pp.
189-190).
54 Jacques Delors, Une nouvelle frontière pour la social-démocratie: l'Europe?, in Pierre Dankert, Ad Kóoyman (a cura
di), Europe sans frontières. Les socialistes et l ’avenir de la Cee, Antwep, Epo, 1989, p. 9.
55 Ian Davidson, France charts a new course fo r the economy, “Financial Times’ . 21 febbraio 1989. p. 2.
56 John Smith. No One Can Go It Alone , “Socialist Affairs”, 1993, n. 1, p. 4.
598
Donald Sassoon
l’Unione europea non ha alcuna legittimità
democratica — a questo ci si riferisce quando
si parla di “deficit democratico” — perché i
governanti di ogni stato membro non voglio­
no che sia democratica. Di conseguenza, l’U­
nione europea evoca nella mente degli euro­
pei un’immagine fortemente tecnocratica37.
Un altro problema consiste nel fatto che la
Comunità europea è stata originariamente
concepita come un’area di libero commercio,
come un “club capitalista”, per usare il gergo
del tradizionale antieuropeismo di sinistra.
Ed è molto più difficile riformare e reindiriz­
zare uno stato di cose esistente che crearne
uno ab initio. Inoltre, la pressione decisiva
per la formazione di un mercato unico —
per quanto moderata dalle iniziative di Delors — è venuta da una potente cultura neo­
liberale che puntava alla rimozione delle bar­
riere nazionali al commercio5758. Creare istitu­
zioni e norme europee che sostituiscano quel­
le di ogni singolo stato nazione sarà un’im­
presa impegnativa e di esito incerto.
Nell’Europa odierna sono presenti poche
— per non dire nessuna — delle precondizio­
ni esistenti nel diciannovesimo secolo per la
costruzione delle nazioni: non vi è, neppure
nelle élite intellettuali, alcuna coscienza euro­
pea, non vi è alcuna autorità centrale — e
quindi alcun esercito o forza di polizia — in­
stauratasi a seguito di una conquista, di una
rivoluzione o esistente per tradizione, che
possa realizzare il compito di “fare gli euro­
pei” . Non vi è alcun sentimento comunitario
né solidarietà, non vi è alcuna reale o imma­
ginaria minaccia esterna nei confronti del­
l’Europa (occidentale) nel suo insieme. In
più, l’Unione europea è stata creata dagli sta­
ti nazione nel perseguimento di quelli che ri­
tenevano essere i loro interessi nazionali.
Che piaccia o no, lo stato nazione è una
realtà duratura. La ragione principale di ciò
è che si tratta della prima costruzione politica
dotata di una qualche forma di legittimità de­
mocratica. Benché l’edificazione della nazio­
ne sia sempre stata avviata da un’élite, alla fi­
ne le nazioni si sono assicurate una massiccia
adesione popolare. Esse forniscono pertanto
la necessaria cornice politica sia per lo svilup­
po capitalistico, sia per la democrazia. Sarà
perciò quasi inevitabile che le prerogative
delle nazioni, reali o immaginarie che siano,
vengano difese dagli elettorati nazionali,
comprensibilmente preoccupati di evitare
qualsiasi erosione del controllo democratico.
Nel fare ciò, essi troveranno l’appoggio dei
loro governi nazionali — anche di quelli
che fervidamente sostengono l’integrazione
economica e politica — poco desiderosi di ce­
dere potere a un’unità statale più vasta.
In definitiva, gli stati nazione europei han­
no unito le forze per ottenere grazie alla coo­
perazione europea quello che non erano riu­
sciti ad assicurarsi a livello nazionale. Come
ha spiegato Milward, “ogniqualvolta gli stati
membri della Comunità hanno dovuto ren­
dere effettive le loro parziali cessioni di so­
vranità, hanno escogitato un sistema che la­
sciava allo stato nazionale quasi tutto il pote­
re politico” 39. Benché questi stati abbiano
sfruttato i sogni e le aspirazioni dei federalisti
europei, la loro intenzione non è mai stata
quella di abolire lo stato nazione. La costru­
zione dell’Unione europea è in gran parte av­
venuta mediante cicli di negoziati fra i gover­
ni nazionali. Ovviamente una cessione di so­
vranità è avvenuta. Il che non è una novità: la
sovranità assoluta esiste soltanto nella fanta­
sia di qualche nazionalista. Ma l’aspetto de­
cisivo nella costruzione dell’entità europea è
57 Così argomenta Jean-Louis Quermonne in Le spectre de la technocratie et le retour de la politique, “Pouvoir”, 1994, n.
9, p. 11.
58 Si veda John Grahl, Paul Teague, 1992, The Big M arket. The Future o f the European Community, London, Lawrence
and Wishart, 1990, in particolare capitolo I.
Alan S. Milward (con la collaborazione di George Brenan e Federico Romero), The European Rescue o f the NationState, London, Routledge & Kegan, 1992, p. 446.
L’ombra del capitalismo
rappresentato dal fatto che il controllo di
questa sovranità condivisa è rimasto nelle
mani dei governi degli stati nazione. Questo
controllo non è mai stato ceduto a un’ammi­
nistrazione statale senza volto (come i pro­
pagandisti antieuropei ripetono ad nau­
seam), né a un parlamento democraticamen­
te eletto e pubblicamente responsabile. E im­
probabile che i partiti socialisti si mettano
d’impegno a distruggere le prerogative na­
zionali. Anch’essi traggono la loro legittimi­
tà da elettorati a base nazionale. Quando so­
no all’opposizione, la mancanza di potere
può indurli ad appoggiare un allargamento
dei poteri del Parlamento europeo, ma
quando sono in carica le pressioni possono
agire nella direzione inversa, in direzione
cioè di una tutela dei diritti del loro stato na­
zione. La stretta collaborazione fra il moder­
no stato nazione democratico e i partiti della
sinistra ha profondamente segnato l’espe­
rienza degli ultimi cento anni. Non sarà faci­
le abbandonare questo atteggiamento con­
solidato. I socialisti non hanno potuto evita­
re di divenire “nazionalisti”, nella misura in
cui rispondevano alle aspirazioni dei loro
elettori “nazionali”.
Il capitale non è altrettanto vincolato.
Marx lo ha descritto come il mezzo storico
per sviluppare le forze materiali di produzio­
599
ne e creare un adeguato mercato mondiale60.
Esso può viaggiare per il mondo: fin dal suo
inizio (lo si faccia risalire al sedicesimo seco­
lo, o a un periodo successivo) il capitalismo
come sistema economico ha operato nel­
l’ambito di un territorio più ampio di quello
controllabile da qualsiasi stato61. Tuttavia,
esso dipendeva dal sostegno degli stati na­
zionali e la globalizzazione non è mai stata
una tendenza costante: il suo progresso si è
fermato nel 1914 e negli anni fra le due guer­
re si è registrato un regresso62. Oggi il capi­
talismo è entrato in una fase di transizione
da un’economia internazionale, in cui gli
stati nazione sono ancora i principali agenti
della regolamentazione e in cui le compagnie
multinazionali hanno un’importante base in
patria, a un’economia veramente “globale”
libera dai suoi vari involucri nazionali. Ov­
viamente non è detto che questa transizione
si realizzi completamente. In larga misura,
comunque, la crisi contemporanea del socia­
lismo è un prodotto secondario della globa­
lizzazione del capitalismo63.
Del fatto che “lo stato nazione come unità
economica ha ormai quasi esaurito la sua
funzione ” si sono accorti lucidi economisti
come Charles Poor Kindleberger già nel
1969, sebbene egli immediatamente aggiun­
gesse che “lo stato nazione [...] sopravviverà
60 K. Marx, II Capitale, voi. Ili, cit., pp. 313-321.
61 Immanuel Wallerstein, The M odem World-System, voi. I: Capitalist Agricolture and the Origins o f the European
World-Economy in the Sixteenth Century, San Diego, Academic Press Inc., 1974, p. 348 (Il sistema mondiale dell'econo­
mia moderna, voi. I: L ’agricoltura capitalistica e le origini dell'economia-mondo europea nel X V Isecolo, Bologna, Il Mu­
lino, 1978, seconda edizione riveduta e corretta, p. 475).
62 E.J. Hobsbawm, Age o f Extremes, cit., p. 88; Il secolo breve, cit., p. 119.
63 Sull’argomento esiste un’ampia letteratura, specie di sinistra. Fra i pionieri moderni vanno segnalati Robin Murray,
The Internationalisation o f Capital and the Nation State, "New Left Review”, maggio-giugno 1971, n. 61, e I. Waller­
stein, di cui segnaliamo, oltre al testo sopra citato, The Politics o f the World-Economy, Cambridge, Cambridge Univer­
sity Press, 1984. Si vedano inoltre: David M. Gordon, The Global Economy: New Edifice or Crumbling Foundations?,
“New Left Review”, marzo-aprile 1988, n. 168; Perry Anderson, The Figures o f Descent , “New Left Review”, gen­
naio-febbraio 1987, n. 161; Stuart Holland, The Global Economy: from Meso to Macroeconomics, London, Weidenfeld
& Nicholson, 1987; Robert Cox, Production, Power and World Order, New York, Columbia University Press, 1987; L.
Panitch, Globalization and the State, in R. Miliband, L. Panitch (a cura di), Between Globalism and Nationalism, Socia­
list register 1994, London, The Merlin Press, 1994 (il testo contiene anche utili contributi di Manfred Bienefeld e Arthur
McEwan). Secondo Paul Hirst e Grahame Thompson la globalizzazione è ancora una possibilità remota (cfr. The Pro­
blem o f “Globalization": international economic relations, national economic management and the form ation o f trading
blocs, “Economy and Society”, novembre 1992, n. 4).
600
Donald Sassoon
e prospererà”64. In ogni caso, ammesso che si La sua politica sociale è meno costosa da am­
possa parlare in generale di una crisi dello ministrare del più tradizionale sistema di welstato nazione, essa riguarda la sua incapacità fare socialista (che socializzava le spese del­
di soddisfare le aspettative di tutta la popola­ l’assistenza) perché non implica un aumento
zione, nonostante i poteri dei governi nazio­ della spesa pubblica (salvo che per i datori di
nali si siano immensamente accresciuti anche lavoro del settore pubblico). Il limite principa­
nei più deboli fra gli stati contemporanei, co­ le di questa politica è che essa finirà per mirare
semplicemente alla tutela di chi ha già un im­
me alcuni stati dell’Africa occidentale6’.
A differenza degli autentici neoliberali, i piego e farà poco per fornire un lavoro ai di­
socialisti incontreranno difficoltà nell'impo- soccupati. Ma la disoccupazione sarà la più
stare un livello di lotta politica appropriato importante sfida che i socialisti si troveranno
a questa nuova fase. Dovranno distinguere di fronte nei prossimi decenni. Non si può sot­
fra le riforme dipendenti da accordi interna­ tovalutare il problema: in Europa occidentale
zionali e quelle riforme interne che incidono nel 1992 il numero dei disoccupati ammonta­
sulla spesa pubblica o sui costi a carico dei va a 18.455.700 unità, più della popolazione
datori di lavoro. La politica sociale interna­ totale della Danimarca, della Norvegia e della
zionale e a base europea cercherà di stabilire Svezia messe insieme. Oggi come ieri — così
un quadro che comprenda quelle norme mi­ Keynes affermava nelle Note conclusive alla
nime riguardanti il welfare e le condizioni di sua Teoria generale — “I difetti più evidenti
lavoro i cui costi gravano sui datori di lavoro, della società economica in cui viviamo sono
vale a dire un tipo di regolamentazione che l’incapacità a provvedere un’occupazione pie­
non incide direttamente sulla spesa pubblica. na e la distribuzione arbitraria e iniqua delle
È questo l’indirizzo assunto dalla Commis­ ricchezze e dei redditi”67.
Fra tutti i campi in cui si esercita l’attività
sione dell’Unione europea quando ha adotta­
to la Carta sociale a Maastricht nel 199266. economica dello Stato, la politica monetaria
Finché la regolamentazione è imposta su ba­ è quello in cui i governi hanno subito la mag­
se sovranazionale, gli effetti sulla concorren­ giore perdita di autonomia. Ma molte altre
za andranno a beneficio delle imprese meglio funzioni che tradizionalmente costituivano
organizzate. I socialisti alla guida di econo­ il “nucleo” degli stati nazione europei sono
mie capitaliste floride potranno esigere forme state, almeno in parte, “europeizzate” : con­
di regolamentazione internazionale più pro­ trolli di frontiera, scambi commerciali, am­
gressive rispetto ai socialisti dei paesi meno ministrazione dell’economia, politica indu­
avanzati.
striale, immigrazione, politica estera, tassa­
L’Unione europea è un buon esempio del zione. Solo l’assistenza è rimasta saldamente
sistema di regolamentazione appena descritto. nelle mani dei governi nazionali68. Le riforme
64 Charles Poor Kindleberger, American Business Abroad. Six Lectures on Direct Investment, New Haven-London, Yale
University Press, 1969. pp. 207-208.
65 Questa tesi e sostenuta da John Dunn in Introduction: Crisis o f the Nation S tate , in Contemporary Crisis o f the Nation
Slate?, a cura di J. Dunn, numero speciale di “Political Studies”, 1994, p. 7.
66 Questa tesi e sostenuta da Laura Cram, Catling the Tune without Paying the Piper? Social Policy Regulation: the Role
o f the Commission in European Community Social Policy, “Policy and Politics”, 1993, n. 2, p. 141.
67 John Maynard Keynes, The General Theory o f Employment, Interest and Money, in Collected Writings, vol. V I I , Lon­
don and Basingstoke, Macmillan, 1972 (prima edizione 1936), p. 372 (Occupazione, interesse e moneta. Teoria generate,
tr. di Alberto Campolongo, Torino, Utet, 1947, p. 331).
68 William Wallace, Rescue or Retreat? The Nation State in Western Europe 1945-1993, in Contemporary Crisis o f the
Nation State?, cit., pp. 65-66.
L’ombra del capitalismo
interne significative saranno principalmente
quelle che affronteranno questioni come l’or­
ganizzazione del settore pubblico (più che
l’investimento in tale settore), in particolare
dell’istruzione (compresi i servizi per l’infan­
zia) e della sanità. Questi ambiti sono i meno
soggetti all’autorità dell’interdipendenza e,
almeno nel breve periodo, l’organizzazione
dell’istruzione e della sanità (in quanto sgan­
ciata dai costi) non incide sulla competitività
delle imprese capitalistiche. Nel lungo perio­
do, ovviamente, l’istruzione è di importanza
decisiva per la crescita economica.
Il fatto che quanto accade in una parte del
mondo possa influire su quanto accade altro­
ve non è una novità. Alcune fra le menti più
acute della sinistra, come il leader comunista
italiano Paimiro Togliatti, alla fine degli anni
cinquanta avevano segnalato che ciò avrebbe
richiesto un mutamento nella politica dei so­
cialisti69. Il fatto nuovo, specialmente a parti­
re dagli anni ottanta, è che l’interdipendenza
ha raggiunto un livello tale da mettere in crisi
i concetti tradizionali di politica nazionale
nonché tutti i partiti e le ideologie politiche.
I socialisti hanno subito questo effetto più
dei conservatori a causa della loro essenziale
convinzione che la politica possa governare
l’economia. In un’economia globale, la poli­
tica nazionale può sopravvivere solo riducen­
do le sue ambizioni, anche se questo non im­
plica che debbano necessariamente sparire le
più significative differenze nella politica eco­
nomica della sinistra e della destra70.
601
Come si manifesta l’interdipendenza? In pri­
mo luogo, nella spettacolare crescita del com­
mercio internazionale, che oggi supera di oltre
il doppio la crescita della produzione mondia­
le71. In secondo luogo, nello sviluppo di un
mercato monetario internazionale dieci volte
più ampio di quello richiesto dal volume degli
scambi commerciali. Questo mercato in gran
parte speculativo di moneta essenzialmente
“a piede libero” è sensibile alla diffusa incer­
tezza riguardo ai futuri movimenti dei prezzi72.
Questa incertezza è l’altra faccia della natura
non regolamentata dei mercati. Essa costringe
gli operatori in una catena di reazioni a brevis­
simo termine in risposta a fluttuazioni anche
minime. In gran parte questo fenomeno è stato
originato da decisioni dei singoli stati, oppure
dalla mancanza di tali decisioni73. Ad esempio
nell’ottobre del 1979 il governo inglese abolì i
controlli sul cambio. Cosi facendo creò una si­
tuazione irreversibile: i controlli non avrebbe­
ro potuto esse ripristinati senza provocare
una disastrosa svendita di valuta74.
Sciogliendosi dai sicuri ormeggi dello stato
nazione, il capitalismo ha perso il suo princi­
pale quadro di riferimento normativo. In as­
senza di un soggetto che provveda alla rego­
lamentazione a livello mondiale — questo è
stata la Pax americana per quasi cinquan­
tan n i — il sistema precipiterà forse nell’a­
narchia? I pronostici non sembrano dar ra­
gione agli ottimisti. Finché il fardello del de­
bito continuerà a gravare sui paesi del Terzo
mondo, questi ultimi non potranno mai aspi-
69 Si veda Paimiro Togliatti, Alcuni problemi della storia dell'Internazionale comunista (1959), in Opere 1956-1964, a
cura di Luciano Gruppi, Roma, Editori Riuniti, 1984, voi. VI, p. 380. Togliatti riteneva erroneamente che l'interdipen­
denza avrebbe condotto a un ordine mondiale di tipo socialista.
70 Come invece sostengono Geoffrey Garrett e Peter Lange in Political Responses to Interdipendence: What's “left" fo r
the left?, “International Organization”, autunno 1991, n. 4, pp. 539-564 e, nello stesso numero e nella medesima ottica,
Jeffrey A. Frieden, Invested Interests: The Politics O f National Economic Policies in a World o f Global Finance, pp. 425451.
71 Michael Stewart, The Age o f Interdependence, Cambridge Mass.. Mit Press, 1984, p. 20.
72 Susan Strange, Casino Capitalism, Oxford, Basil Blackwell, 1986, p. 111 ( Capitalismo d ’azzardo, prefazione di Clau­
dio Demattè, tr. di Oliviero Pesce, Roma-Bari, Laterza, 1988, pp. 114-116).
73 Sul potere di “non decisione” si veda la brillante analisi di S. Strange, Casino Capitalism, cit., pp. 26-46 (nella tra­
duzione italiana la citazione si trova alle pp. 28-50).
74 M. Stewart, The Age o f Interdependence, cit., p. 85.
602
Donald Sassoon
rare ad alcun tipo di prosperità. Tutto il sur­
plus che essi ricavano dal commercio si dis­
solve rapidamente per pagare i debiti: duran­
te il “decennio di sviluppo” delle Nazioni
Unite i paesi del Terzo mondo, ben più pove­
ri, hanno versato oltre 236 bilioni di dollari ai
paesi avanzati, in una sorta di “sostegno allo
sviluppo” capovolto73.
Non è stato solo il capitalismo a venire
“globalizzato” . Anche i politici nazionali
(compresi i socialisti) hanno dovuto affronta­
re gli effetti internazionali di questa globaliz­
zazione. Praticamente tutti i problemi am­
bientali sono oggi divenuti problemi interna­
zionali e quasi tutti sono legati alla questione
dello sviluppo economico: gas di scarico delle
auto, pioggia acida, inquinamento dei fiumi e
dei mari, perdite di petrolio, energia nucleare e
riscaldamento dell’atmosfera. È divenuto im­
possibile individuare problemi “nazionali”
circoscritti che non siano destinati a coinvol­
gere prima o poi altri paesi. Nell’era della co­
municazione di massa tutto si trasmette da un
luogo all’altro: il fondamentalismo islamico
quanto i comportamenti sessuali, le notizie
della Cnn quanto la musica pop. I problemi
del cosiddetto Terzo mondo non sono circoscritti al Terzo mondo. Tossicodipendenza e
terrorismo sono stati problemi dibattuti alme­
no a partire dal diciannovesimo secolo, ma so­
lo a partire dagli anni settanta sono diventati
questioni capitali di politica pubblica, tale da
richiedere un coordinamento internazionale.
La reazione a questo fenomeno è stata il
moltiplicarsi delle agenzie internazionali fi­
nalizzate a trattare problemi che travalicano
le frontiere e la crescita della cooperazione
internazionale fra regioni, di fatto fra blocchi
commerciali — tutti basati sugli stati nazio­
ne. Il l e gennaio 1995 l’Unione europea com­
prendeva tutti i paesi dell’Europa occidentale
ad eccezione della Svizzera, della Norvegia e
dellTslanda, venendo così a costituire il più
grande mercato unico del mondo. Prima di
allora gli Usa, il Canada e il Messico avevano
formato l’Area del libero commercio nordatlantico; i paesi dell’Organizzazione dell’U­
nità africana avevano unito le loro forze a
quelle della Comunità economica africana
(1991); l’Algeria, la Libia, il Marocco, la
Mauritania e la Tunisia avevano creato l’U­
nione del Maghreb arabo (1989); nel dicem­
bre del 1991 la Bolivia, il Venezuela, l’Ecua­
dor, il Perù e la Colombia avevano rimesso
in vigore il Patto andino finalizzato ad aboli­
re tutti i dazi doganali entro il 1996, mentre il
Brasile, l’Argentina, l’Uruguay e il Paraguay
avevano istituito il Mercado Comùn del Sur
(Mercosur o “ Mercato comune del Sud”);
poco dopo aver acquisito l’indipendenza l’E­
stonia, la Lettonia e la Lituania hanno for­
mato un Mercato comune del Baltico, mentre
l’Asean, l’Associazione delle nazioni del Sud­
est asiatico comprendente la Tailandia, Sin­
gapore, le Filippine, la Malesia, l’Indonesia
e il Brunei, è stata riattivata7576. A livello inter­
nazionale sono stati conclusi i negoziati per
l’Accordo generale sulle tariffe e sul commer­
cio (Gatt), che hanno condotto alla forma­
zione dell’Organizzazione mondiale del com­
mercio. In tutti questi casi si tratta di associa­
zioni di stati nazione “sovrani” . La risposta
all’indebolimento defacto dei poteri naziona­
li è dunque consistita nel consolidare i gover­
ni nazionali come i migliori negoziatori per
conto della nazione nel suo insieme. In futuro
la politica interna assomiglierà sempre più a
una competizione fra partiti per stabilire chi
75 Elmar Altvater, Die Zukunft des M arktes. Ein Essay über die Regulation von Geld und Natur nach dem Scheitern des
"realexistierendes” Sozialismus, Munster, Verlag Westfalisches Dampfboot, 1992 (The Future o f the M arket. An Essay
on the Regulation o f M oney and Nature after the Collapse o f Actually Existing Socialism, tr. di Patrick Camiller, LondonNew York, Verso, 1993, pp. 162-165).
6 Sulla nascita di queste organizzazioni regionali vedi Henri Bourguinat, L'émergence contemporaine des zones et blocs
régionaux, in Louis Mucchielli, Fred Célimène (a cura di), Mondialisation et régionalisation. Un défi pour l ’Europe, Paris,
Economica, 1993, in particolare la tabella a p. 6.
L’ombra del capitalismo
sa meglio difendere l’“interesse nazionale”. Il
nuovo stadio globale del capitalismo condi­
zionerà i socialisti assai più dei conservatori.
I conservatori utilizzeranno la loro credibili­
tà come nazionalisti per negoziare condizioni
migliori nell’arena internazionale per conto
del loro stato nazione. Nello stesso tempo,
in nome delle esigenze internazionali del ca­
pitalismo moderno, accetteranno di abban­
donare la regolamentazione interna, ossia
nazionale. Ai vecchi marxisti non resterà
che sorridere a denti stretti davanti a questa
appropriazione da parte del fronte conserva­
tore di nozioni un tempo cosi centrali per la
dottrina socialista, come “ internazionali­
smo” e “estinzione dello stato” .
Qualunque discorso politico in grado di
coniugare il capitalismo globale e sciolto da
vincoli e il nazionalismo offrirà al conserva­
torismo un enorme vantaggio politico. Men­
tre il capitale (e i problemi che lo accompa­
gnano) si internazionalizza sempre più, la po­
litica sempre più si “nazionalizza” . Forza in
ascesa nell’ex area comunista, il nazionali­
smo sta riacquistando in Europa occidentale
nuove prospettive di vita. Nel 1993 il Partito
socialista francese, fervidamente europeista,
è stato sbaragliato alle lezioni da una destra
che non nascondeva la sua freddezza nei con­
fronti dell’Europa. Intanto in Gran Bretagna
il Partito conservatore “difendeva” gli “inte­
ressi” britannici (cioè quelli di inefficienti im­
prenditori britannici capaci di essere compe­
titivi in Europa solo negando alla propria
forza lavoro diritti riconosciuti altrove) deci­
dendo di escludersi dalla regolamentazione
europea del mercato del lavoro. In Italia nel
1994 è emersa una nuova forza che ha strap­
pato dalle mani della sinistra la vittoria tanto
a lungo inseguita. E stata chiamata, non a ca­
603
so, Forza Italia, il grido lanciato allo stadio
dai sostenitori della squadra nazionale di cal­
cio. Il suo principale alleato era Alleanza na­
zionale, forza erede di Mussolini, oggi piena­
mente legittimata.
Altrove il nazionalismo coesiste con la ten­
denza all’integrazione europea come in Gre­
cia, dove il Pasok agita la bandiera del pa­
triottismo per impedire al nuovo stato della
Macedonia di chiamarsi come l’omonima
provincia della Grecia, mentre il risanamento
economico del paese dipende completamente
dai fondi dell’Unione europea che ammonta­
no al cinque per cento del prodotto interno
lordo77. Persino in un paese piccolo come la
Norvegia, l’unica a votare contro l’ingresso
nell’Unione europea nel 1994, qualche simu­
lacro di sovranità nazionale viene patetica­
mente conservato anche se la realtà è che la
Norvegia, stando al di fuori di una comunità
politica ed economica che comprende la qua­
si totalità dell’Europa occidentale sarà sem­
plicemente obbligata a conformarsi a regole
stabilite altrove e circa le quali non avrà alcu­
na voce in capitolo'8.
I governi accrescono i loro poteri a spese
dei parlamenti nazionali — la cui funzione
residua è quella di fornire ai primi legittimità
democratica. Il dibattito parlamentare in fu­
turo sarà meno rilevante perché, in un clima
di incessanti negoziati il cui esito non può
mai essere assicurato in anticipo (né perciò
garantito in un programma preelettorale),
ciò che diventerà sempre più importante sarà
l’idea della fides implicita fra elettorati e uo­
mini politici — cioè la decisione di delegare
le decisioni a qualcuno non sulla base di quel­
lo che promette o alle cause che sostiene, ben­
sì alla convinzione che di lui o di lei “ci si può
fidare”79. Se le linee politiche non sono chia-
7 Kerin Hope, European prosperity proves elusive , “Financial Times”, Survey on Greece. 14 novembre 1994.
78 Si vedano le osservazioni di Inger-Lise Ostrem, La Norvège et la communauté européenne: d ’une appartenance de fa it à
une appartenance de droit?, “ Revue du Marché commun et de l’Union européenne”, gennaio 1993, n. 364, pp. 8-23.
79 Sulla nozione di fides implicita si veda Pierre Bourdieu, Questions de sociologìe, Paris, Éditions de Minuit, 1981. pp.
245-248.
604
Donald Sassoon
re e non sappiamo come questo o quel politi­
co agiranno, la questione della personalità
dei politici (già messa fortemente in rilievo
dalla televisione) diventerà sempre più im­
portante. In linea di principio questo feno­
meno non dovrebbe favorire a priori la sini­
stra o la destra. Il suo effetto, tuttavia, è quel­
lo di riprodurre una concezione della politica
in cui gli elettori — una volta scelti i loro go­
vernanti — restano spettatori passivi di un
gioco che si svolge a distanza, sebbene ciò
non impedisca l’esplodere sempre più fre­
quente di battaglie su problemi specifici.
Può allora destare meraviglia che in queste
condizioni gli elettorati desiderino mantenere
per sé l’unico potere che ancora può contare
— il potere d’acquisto — eleggendo governi
che riducono le tasse? Stati nazione svuotati
nella sostanza, oggi semplici attori in un’are­
na internazionale complessa, governati da
personalità effimere elette per il loro aspetto
fisico, per il gradimento che suscitano i loro
comportamenti privati o per la loro abilità
nell'affrontare le domande in televisione,
non offrono certo ai socialisti il contesto mi­
gliore per tentare di modellare il futuro. 1 so­
cialisti saranno tentati — e molti di loro han­
no già ceduto a questa tentazione — di sven­
dere i loro valori nel turbine del rinnovamen­
to, dimenticando la lezione di Machiavelli se­
condo cui i veri innovatori sono coloro che
mutano la loro strategia e la adattano alla
nuova situazione, non quelli che perdono la
bussola, ossia i valori che orientano la loro
politica. L’ideologia della “fine dell’ideolo­
gia” non fa parte dell’ideologia dei socialisti,
e quanto a coloro che sostengono che la di­
stinzione fra sinistra e destra ha perso ogni si­
gnificato, farebbero bene a ricordare un fa­
moso aforisma che Alain scrisse nel 1930:
Quando mi chiedono se la distinzione fra sinistra e
destra ha ancora un senso, la prima cosa che mi
viene in mente è che la persona che pone la do­
manda non è di sinistra80.
Dei vincoli che forzano tutti i partiti, spe­
cie i socialisti, a restare così avviluppati negli
involucri nazionali non ci si può sbarazzare.
E impossibile prevedere come i partiti reagi­
ranno a questa costrizione e come la politica
nazionale si svilupperà nel corso del secolo a
venire. I partiti possono continuare a vivere
anche quando le condizioni che ne hanno
determinato la nascita da tempo non esisto­
no più. Il progetto socialista, comunque lo si
definisca, può dissolversi, e i partiti socialisti
invece sopravvivere. Non so se l’idea del so­
cialismo sopravviverà al grande caos che ca­
ratterizza la fine di questo millennio e l’ini­
zio del prossimo. Coloro che si sono ricono­
sciuti nel progetto socialista e ne hanno con­
diviso le speranze e i timori, ma hanno vissu­
to con insofferenza le continue prevaricazio­
ni, gli infiniti compromessi, le vanificanti
esitazioni dei partiti socialisti organizzati fa­
rebbero bene a ricordare che, alla fin fine,
questi partiti sono l’unica sinistra che ci ri­
mane.81
La sorte e probabilmente il futuro del so­
cialismo in Europa occidentale non possono
essere separati da quelli del capitalismo euro­
peo. La crisi della tradizione socialista e so­
cialdemocratica in Europa occidentale non
è la crisi di un’ideologia sconfitta dalla supe­
riore forza politica e organizzativa dei suoi
avversari, come è stato per il comunismo. Es­
sa è parte integrante di uno sconvolgimento
di fin de siècle che sta cambiando forma al
pianeta con grande velocità. Per la sinistra
restare una forza nazionale mentre il capitali­
smo ha una dimensione internazionale sareb­
be come diventare un Peter Schlemihl alla ro­
vescia, un’ombra che ha perso il suo corpo.
Ma quale sorte sarebbe a sua volta riservata
a un capitalismo privato della sua “ombra”
K0 Alain, Propos, a cura di Maurice Savin, Paris, Gallimard, 1956, p. 983.
81 Gioco di parole intraducibile: “These parties are the only Left that is left” [A.
d. T. ].
L’ombra del capitalismo
socialista? Alcuni neoliberali hanno sostenu­
to che il capitalismo, non più impedito dalla
forza costrittiva dell’umanità organizzata,
prospererà a beneficio di tutti. Altri, e fra
questi tutti i socialisti, temono che un capita­
lismo senza vincoli si comporterà come un
cannone libero di muoversi all’interno della
605
nave terra: a ogni tempesta economica colpi­
rà e danneggerà lo scafo, finché la nave che
dà a esso (e a noi) vita e sostentamento affon­
derà. Allora sì saremmo alla fine della storia.
Donald Sassoon
[traduzione dall’inglese di Anna Sordini]
Donald Sassoon è docente di storia al Queen Mary and Westfield College dell'Università di Londra. Ha
pubblicato in Italia Togliatti e la via italiana al socialismo (Einaudi) e L ’Italia contemporanea (Editori
Riuniti). È in corso di stampa il suo volume su One Hundred Years of Socialism. The West European Left
in the Twentieth Century (Londra, I.B. Tankis) e sta lavorando alla nuova edizione aggiornata del volu­
me sull’Italia contemporanea.
IL PENSIERO ECONOMICO MODERNO
Sommario del n.3, luglio-settembre 1995
Articoli
A. Fazio, L e b a n c h e e il s is te m a fin a n z ia rio in Italia-, M. Arcelli, S u l s a g g io d e ll'in te r e s s e ; B.
Rossignoli, Il te s to u n ic o d e lle le g g i in m a te ria b a n c a r ia e c re d itiz ia : a lc u n e c o n s id e r a z io n i
re tro s p e ttiv e -, P. Massa Piergiovanni, In d u s tria e d ip lo m a z ia tra G e n o v a e la F ra n c ia in u n a
re la z io n e d e l p r im o S ettece nto-, A. Dell’Orefice, U n d iffic ile e s o rd io : il c e n tro a e ro n a u tic o
d e ll’A lfa R o m e o di Pomigliano d’Arco; L. Fornaciari Davoli, E c o n o m ia e c u ltu ra : a lc u n e
o s s e rv a z io n i.
Osservatorio
M. Santillo,
G u id o P e s c o s o lid o s u llo s v ilu p p o e c o n o m ic o ita lia n o n e l p r im o
p o s tu n ita r io ;
S. Trucco,
v e n te n n io
P re s e n ta ta d a C a rlo B o la riv is ta “ N u o v a e c o n o m ia e s to ria ".