Caputo_per Catalano

Transcript

Caputo_per Catalano
PIRANDELLO “NON CONCLUDE”.
ANCORA QUALCHE OSSERVAZIONE SULLA VITA
E SULL’ARTE DI PERSONAGGI E GIGANTI
di Rino Caputo*
È molto noto il percorso della costruzione del personaggio da Paulo Post a
Leandro Scoto e al dottor Fileno (e tanti altri, più e meno abbozzati, nelle novelle e nei
romanzi); ma è ormai riconosciuto che l’archetipo è il “caro Gioja”, personaggio
che fronteggia l’autore Pirandello quasi ancora adolescente, fantasma della mente
pronto a “balzar vivo”, già dotato dei connotati poietici delle più mature figure1.
In una lettera del 1 aprile 1886 il giovanissimo Luigi così descrive “il mio caro
Gioja”:
Caro Gioja – non ridetegli in faccia – “è un deforme gobbetto dalla statura umile,
dalle gambe corte, dal largo petto e le spalle tirate in su, e la testa enorme affannosamente
seppellita fra li omeri sporgenti... Il colore dei suoi grandi occhioni si confonde tra il celeste scialbo e il verde mare pallidissimo; il suo naso è piccolo e schiacciato, ma trova largo
compenso nella immensa bocca prominente, aperta sempre a un sogghigno, che mette il
freddo nelle ossa...”. Ma non vo’ farvi più oltre paura: è un uom fatto per ischerzo. – Dovunque io volga gli occhi o dove muova il pensiero, io trovo sempre la figura del mio caro
Gioja. L’ho scontrato mille volte per le vie, e per fino sui libri, anzi vedete, mentre ch’io
scrivo a voi, me lo vedo seduto a canto, e perfino nel parlare naturalissimo che io faccio
con voi, egli trova materia di sogghignare. Così che non trovo altro modo di liberarmene,
che in occuparmi esclusivamente di lui2.
Ed ecco come, è presentato il dottor Hinkfuss in una delle prime didascalie di
Questa sera si recita a soggetto3:
In frak, con un rotoletto di carta sotto il braccio, il Dottor Hinkfuss ha la terribilissima e ingiustissima condanna di essere un omarino alto poco più di un braccio. Ma se ne
vendica portando un testone di capelli così. Si guarda prima le manine che forse incutono
ribrezzo anche a lui, da quanto son gracili e con certi ditini pallidi e pelosi come bruchi4.
* Università di Roma2.
1
Cfr. L. Pirandello, “Amicizia mia”. Lettere inedite al poeta Giuseppe Schirò (1886-1887), a cura di
A. Armati e A. Barbina, Roma, Bulzoni 1994. Per lo sviluppo teorico e diacronico della dinamica
del “personaggio” cfr., anche, il mio Il Piccolo Padreterno, Euroma, Roma 1996, in part. pp. 17-36.
2
Ivi, p. 37.
3
Cfr. L. Pirandello, Questa sera si recita a soggetto, in Id., Maschere nude, Vol. IV, Mondadori,
Milano 2007, pp. 245-396.
4
Ivi, p. 301.
217
Sono gli anni Dieci, appunto, il tempo e il luogo della conferma della maturazione progressiva della teoresi pirandelliana in ordine all’arte umoristica come
arte del (contemporaneo) Novecento e, forse, come Arte tout-court; dello sviluppo
della teoria del personaggio e della sua incipiente pratica drammaturgica, dopo
esperimenti narrativi più e meno infruttuosi. Ma si tratta altresì, e in modo altrettanto perentorio, di registrare una particolare attitudine della pagina pirandelliana
mirante ad esprimere l’impulso poietico primario dell’autore. Quello stesso che
è stato finalmente apprezzato nel panorama critico contemporaneo in una con
il rifiuto dell’idealismo ontologico, che, con Croce, ma non solo con lui, ha teso
a risolvere il fatto artistico nell’intuizione irrelata piuttosto che nell’espressione
comunicativamente concreta. E, per Pirandello, ciò significa rintracciare nei testi
che formano la sua opera, costanti stilistiche, tematiche e ideologiche collocate in
sedi di espressioni plurivoche. Così come è possibile registrare anche cronologicamente la presenza della tematica del «balzar vivi su la scena» (un altro modo di
esistenza del personaggio senza/in cerca dell’autore), dalle prime prove epistolari
e lirico-poetiche ai romanzi, come Suo Marito, dichiaratamente versati sulla poetizzazione dell’esperienza artistica, ai lavori, narrativi e criptoteatrali del primo
ventennio del Novecento, fino ai Sei Personaggi e, poi, sempre avanti, fino ai Giganti
della Montagna. Con l’exploit drammaturgico-teatrale del 1921, la concitazione tematica (e testuale) appena descritta sembra attenuarsi soltanto in apparenza; se è
vero che già in Questa sera si recita a Soggetto, fin dalle prime battute di Hinkfuss, si
ritrova che:
l’arte è il regno della compiuta creazione, laddove la vita è, come deve essere, in una infinitamente varia e continuamente mutevole formazione. Ciascuno di noi cerca di crear
sé stesso e la propria vita con quelle stesse facoltà dello spirito con le quali il poeta la sua
opera d’arte [...] Ma non sarà mai vera creazione, prima di tutto perché destinata a deperire e finire con noi nel tempo; poi perché, tendendo a un fine da raggiungere, non sarà mai
libera; e infine perché, esposta a tutti i casi impreveduti, imprevedibili, a tutti gli ostacoli
che gli altri le oppongono, rischia continuamente d’esser contrariata, deviata, deformata5.
In più, rispetto ai decenni precedenti c’è forse, dopo la trionfale conferma dei
Sei Personaggi, l’ammissione del tema più recondito e tuttavia congeniale, pur mascherato dalla drammatizzazione poietica del “personaggio-regista”: la coscienza
competitiva dell’autore, che nell’ordine artistico è vero e proprio creatore:
E tante volte, vi dico anzi, m’è avvenuto di pensare con angoscioso sbigottimento
all’eternità di un’opera d’arte come a un’irraggiungibile divina solitudine, da cui anche il
poeta stesso, subito dopo averla creata, resti escluso: egli, mortale, da quella immortalità6.
Ivi, pp. 306-307.
Ivi, p. 307.
5
6
218
Ma è nei Giganti come si vedrà tra breve, che Pirandello cerca di porre l’ultima parola sull’inesausta querelle fra il dramma dell’autore e quello delle sue creazioni. Alla base, in Pirandello, c’è il desiderio persino ossessivo e, certo, in qualche
modo compulsivo, di fare arte. Non è solo euforia tardoromantica e decadente,
comune a tanti begli spiriti tra Otto e Novecento. È appunto, come egli ebbe a
dire e scrivere talvolta, la coscienza di sapere – e potere – vivere la vita «se non
scrivendola», anche quando è in questione la possibilità stessa di vivere e scrivere.
Si torni con altri occhi a quell’intenso colloquio con la Madre, nel secondo dei tre
Colloquii coi Personaggi7 del 1915, in cui, pure, storia e psiche s’incontrano deliberatamente. Si noterà che anche in quel frangente decisivo il Figlio sta al cospetto
della Madre nella forma del rapporto del Personaggio nei confronti del suo Autore. È lui il vero “pensionato della memoria”. L’intensa dichiarazione d’amore e
d’affetto, che è poi l’ammissione della perdita, si sostanzia di metafore autoriali:
Potrei seguitare a immaginarti così, con una realtà di vita che non potrebbe esser
maggiore: quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così da lontano, t’ho data sapendoti realmente seduta là in quel cantuccio. Ma io piango per altro, Mamma! Io piango
perché tu, Mamma, tu non puoi più dare a me una realtà! È caduto a me, alla mia realtà,
un sostegno, un conforto [...] Nulla. Tu sei e sarai per sempre la Mamma mia; ma io? io,
figlio, fui e non sono più, non sarò più8.
Pirandello non rinuncia mai a stabilire il suo momento e il suo posto di autore
nella vita e nell’arte, fino a riaffermare, senza accenti dichiaratamente faustiani,
ma con intatta luciferina eccitazione, la parentela divina della creazione artistica,
fino a predicare il verbo della similarità dell’esperienza dell’artista e di Cristo:
Ora, pensate: chi al suo tempo potrà dare senso e valore, un senso e un valore non
particolari, da servire ai momenti della vita d’un singolo – ma universali, in cui ciascuno,
e sempre, possa ritrovarsi, se non l’uno che riuscirà a porli col più assoluto disinteresse, in
modo che la sua voce possa sonare come propria nel petto di chi l’ascolta? Non dunque
colui che praticamente costruirà per sé nella vita; ma quegli che afferma “il mio regno
non è di questa terra” e tuttavia afferma di avere un regno; chi, dunque, crea la vita a sé e
a tutti; chi, dunque, riesce a far consistere una sua organica e totale visione della vita; chi,
dunque, è come lo spirito intero e puro che sa rivelarsi compiutamente; egli è il poeta, il
fattore, il creatore: egli potrà dare al suo tempo un senso e un valore universali, perché col
suo assoluto disinteresse, fa sì che tutti gli avvertimenti dei suoi sensi schietti e aperti alla
vita (i suoi occhi nuovi), pensieri e rapporti di concetti, sentimenti, immagini, assumano
in lui un organismo autonomo e compiuto, e quell’organismo egli voglia realizzare in sé
quale la vita liberamente lo vuole per sé stessa; di modo che egli, in questo senso, è veramente uno spirito servo dello spirito, il creatore servo della sua creazione. In quell’organismo di vita egli ha un luogo come tutti gli altri; egli ha creato non per dominare e
Cfr. L. Pirandello, Colloquii coi personaggi I, in Id., Novelle per un anno, vol. Terzo, t. II, Mondadori, Milano 1985, pp. 1145-1153.
8
Ivi, pp. 1152-1153.
7
219
reggere, ma per sistemare. E perciò Cristo, poeta, fattore, creatore di realtà, si disse figlio
dell’uomo; e dava senso e valore alla vita per tutti gli uomini9.
È il Pirandello del 1922 (reiterato peraltro, nel 1934) quello che si esprime
in questi termini, solo apparentemente sorprendenti. Eppure è pur sempre
Pirandello quello che, nel 1886, alle soglie della giovinezza, stende un poema in
cui il “caro Gioja” cerca di mantenere in vita “Lazzaro”10!
Ora, è interessante notare che tale tematica poietica viene piegata da Pirandello verso la comprensione del mondo contemporaneo, società, istituzioni, vita,
arte. E il personaggio diventa “fantasma” autonomo che, tuttavia, nulla può contro la materialità fisica e la realtà ideologica dei “giganti”, i nuovo protagonisti del
mondo; i nuovi possibili interlocutori dell’Arte e, in particolare, del Teatro.
Nell’inconcluso terzo atto dei Giganti della Montagna, l’opera composta lungo l’arco dell’ultimo intenso e sofferto decennio della sua vita, Luigi Pirandello,
accademico d’Italia, premio Nobel per la letteratura del 1934 e – nonostante le
continue polemiche astiose con i burocrati intellettuali del regime fascista – ancora convinto sostenitore di Mussolini, così fa descrivere dal suo alter ego Cotrone
(il mago che si è ritirato dalla vita sostanziale per nutrirsi soltanto di “fantasmi”)
coloro che costituiscono gl’indiretti personaggi principali del dramma ovvero i
nuovi diretti protagonisti della vita contemporanea, i “giganti”:
Non propriamente giganti […] sono detti così, perché gente d’alta e potente corporatura, che stanno sulla montagna che c’è vicina […] L’opera a cui si sono messi lassù,
l’esercizio continuo della forza, il coraggio che han dovuto farsi contro tutti i rischi e
pericoli d’una immane impresa, scavi e fondazioni, deduzioni d’acque per bacini montani, fabbriche, strade, colture agricole, non han soltanto sviluppato enormemente i loro
muscoli, li hanno resi naturalmente anche duri di mente e un po’ bestiali. Gonfiati dalla
vittoria offrono però facilmente il manico per cui prenderli: l’orgoglio: lisciato a dovere,
fa presto a diventar tenero e malleabile…11
La grande arte sa rappresentare incisivamente la realtà al di là, talora, delle
intenzioni dell’artista e delle aspettative del pubblico. Si pensi, altresì, pur in modo
collaterale e progressivamente esiguo, all’impresa delle bonifiche e alla fondazione delle nuove città (che sono, però, sentite unanimemente anche come città
“nuove”) che, in tal senso, possono essere commisurate all’operosità “immane”
dei pirandelliani Giganti degli anni Trenta12.
Cfr. L. Pirandello, Teatro nuovo e teatro vecchio, in L. Pirandello, Saggi, poesie e scritti vari, a cura
di M. Lo Vecchio Musti, Mondadori, Milano 1960, pp. 233-234.
10
Cfr. L. Pirandello, Amicizia mia, cit., pp. 72-77, in cui si può leggere, nella lettera del
settembre 1886 inviata da Pirandello all’amico Schirò, un brano del componimento drammatico
avente come protagonisti i due personaggi menzionati, direttamente e indirettamente presenti in
tutta l’opera di Pirandello (si pensi al più tardo “mito” Lazzaro).
11
Cfr. L.Pirandello, I giganti della montagna, Mondadori, Milano 1989, in part. pp. 191-192.
12
Cfr., in proposito, la specificazione analitica contenuta nel volume Futurismo e agro pontino,
nono quaderno delle Edizioni Novecento, Latina, 2000.
9
220
E tuttavia, perché non ci siano equivoche ovvero ormai implausibili congetture riduttive, basterà tener presente, sia pur con riferimenti sintetici, altre considerazioni del drammaturgo siciliano, l’artista che ancora nel 1934 sente come atto
“dovuto” andare “in camicia nera al grande discorso del Duce alla II Assemblea
Quinquennale del Regime”13, pur ritenendosi ormai (per dirla con alcune sue notissime formule) un “viaggiatore senza bagaglio” che ha in odio ogni “marsina
stretta”. Pirandello, come si è testé visto, fa acutissime osservazioni a proposito
di ciò che, nei primi anni Trenta, sta accadendo intorno all’Italia fascista. Nella
già citata intervista al “Corriere della Sera” del 26 giugno 1929 Pirandello, infatti,
dichiara:
Ciò che soprattutto in America mi interessa è la nascita di nuove forme di vita. La
vita premuta da necessità naturali e sociali, vi cerca e vi trova nuove forme. Vederle nascere è un’incomparabile gioia per lo spirito. In Europa, la vita seguitano a farla i morti,
schiacciando quella dei vivi col peso della storia, della tradizione e dei costumi. In America la vita è dei vivi14.
La “nuova frontiera”, sia essa quella keynesiana e rooseveltiana dei giovani
statunitensi all’indomani della Grande Depressione ovvero quella che, in nome
dei soviet e dell’elettrificazione, sposta masse enormi di uomini da un distretto
all’altro del subcontinente russo eurasiatico, è un contrassegno della prima metà
degli anni Trenta, così come è marca storica indelebile, al di là della specificazione
ideologico-istituzionale assunta, la funzione totalitaria e interventista dello Stato
che, nel regolare l’economia, regola altresì la società civile e, per dirla col Gramsci
dei Quaderni del carcere, i “costumi” degli uomini e delle donne, fino a cambiare
il mondo e le idee sul mondo e fino al tragico, solo apparentemente paradossale,
epilogo estremistico della barbarie nazista.
Russia, America, nuova frontiera delle terre redente. Il riconoscimento di una
sorta di “spirito del tempo” dedito al (rapido e tumultuoso) mutamento, al dinamismo delle forze umane in campo, è affrescato ancora una volta intensamente
dai grandi artisti e pensatori: si pensi a Chaplin di Modern Times, al Benjamin
registratore acuto della “riproducibilità tecnica dell’opera d’arte”, verso l’estetizzazione “fotografica” dell’ambiente umano parallela all’irruzione delle masse nella sfera della produzione e dei consumi in serie delle merci, comprese, appunto,
quelle artistiche; ma si pensi anche, ancora una volta, allo stesso Pirandello dei
Quaderni di Serafino Gubbio operatore, osservatore disincantato del cinema come arte
connaturata alle dimensioni di massa. L’arte, come non di rado è accaduto nei secoli della storia documentabile e spesso senza deliberatamente volerlo, è al servizio della realtà che l’uomo intende, nel bene e nel male – per così dire – edificare.
Come Pirandello testimonia nella lettera del 19 marzo a Marta Abba, in Lettere a Marta
Abba, cit., p. 1113.
14
Cfr. Il piccolo Padreterno, cit., p. 138.
13
221
Emerge dalla lettera a Marta Abba del 23 maggio del 1933), quando Marinetti
veniva definito un “imbecille” che
con le sue intemperanze e incongruenze ci ha alienato almeno una parte della stampa.
Purtroppo abbiamo da combattere non solo contro i nemici veri [i burocrati teatrali
fascisti avversari e gelosi di Pirandello] ma anche contro gl’imbecilli che si fanno con la
loro imbecillità complici di quelli15.
Enrico Prampolini, quando, già nel 1934 su “Stile Futurista” mette in guardia
le gerarchie artistiche e politiche del regime dall’inseguire passivamente le opzioni
artistico-letterarie hitleriane, fin dall’inizio compiutamente naziste:
Le dichiarazioni del nuovo Capo del Reich, al Congresso di Norimberga, sul pensiero e l’arte tedesca della Germania nazista, contrastano con i principi che sono sempre
stati alla base delle rivoluzioni artistiche e sociali di un popolo […] Il vuoto pneumatico
creato in Germania intorno agli intellettuali superstiti, non può essere giustificato da alcuna teoria razzistica […] Decisamente il Fűhrer, con la sua pretesa di ipotecare il tempo
e gli eventi, taglia i ponti all’avvenire e alle nuove generazioni ansiose di libertà spirituali16.
Per Pirandello, invece, e in particolare per i suoi rapporti con la cultura e la
politica, può valere, forse, oggi, a tanti anni di distanza dall’intensità urgente della
problematica, l’esplicito giudizio di Benito Mussolini, nelle non improbabili vesti
di storiografo critico-letterario:
Dopo averne subito il fascino nel corso della giovinezza mi parve di dovermi ricredere, di dover riconsiderare l’area del dubbio, da lui scavata nel profondo, come impresa improducente. Né valse il Nobel attribuitogli a sottrarmi a tale impressione. La gratitudine,
che gli dovevo, non faceva velo alla critica di cui mi ritenevo giusto proponitore…Forse,
Pirandello, più che la coscienza dell’epoca, era [ scil.: rappresentava] quella dell’insicurezza che tutti ci sommerge. Egli [dopo la morte] ha spiccato il volo. La sua fuga è stata la
sua verità, per noi tutti, era più che mai indecifrabile17.
Ma nel 1934 a Pirandello sta a cuore ben altro che la pur evidente politicizzazione della sua arte. Il disegno dei Fantasmi muta rapidamente in quello dei Giganti e, forse, si potrebbe aggiungere che la stessa messinscena della dannunziana
Figlia di Jorio, con cui Pirandello chiude il Convegno Volta, vuole rispondere al Cfr. Lettere a Marta Abba, cit., p. 1093.
Cfr., in proposito, la specificazione analitica contenuta nel volume Futurismo e agro pontino,
nono quaderno delle Edizioni Novecento, Latina 2000, in part. p. 230.
17
“Belfagor” 319, cit., p. 42. Non diversamente si esprime un altrettanto nitido critico e
competitore di Pirandello, Gordon Craig quando afferma che il drammaturgo italiano “…non
può rappresentare il fascismo, anche se mi dicono ch’è vero fascista. Con tutti quei dubbi e incertezze non coronerà il fascismo…” (cfr. Donato Santeramo, Craig contro. Dai primi manifesti futuristi
al Convegno Volta in “Biblioteca Teatrale” 52, ottobre-dicembre 1999, pp. 69-85, in part. p. 82.
15
16
222
tresì, oltre che alla tradizionale querelle tra i due autori, ad altre annose polemiche
di varia e talora opposta provenienza intorno alla libertà d’espressione artistica)18.
Nel 1934, in concomitanza con la promozione, l’organizzazione e la realizzazione del Convegno Volta, urge allo scrittore, drammaturgo celebrato e accademico d’Italia, il confronto con le nuove forme, attive e passive, di espressione
e comunicazione degli artisti e del pubblico tra le quali, soprattutto, lo sport e il
cinema. È anche per tali pressioni teoriche e poieticamente operative che s’impone la riconsiderazione del tema del Teatro, su cui lo scrittore si era arrovellato fin
dalla giovinezza, attraverso una tematizzazione, che è il Programma e l’Indice del
Convegno Volta, che va dalle “Condizioni presenti del Teatro drammatico in confronto con gli altri spettacoli (Cinema, Opera, Radio, Stadii)” all’“Architettura dei
Teatri, Teatri di Masse e Teatrini”, alla “Scenotecnica e scenografia”, allo “Spettacolo nella vita morale dei popoli” e, infine, all’ultima sezione “Teatro di Stato.
(Esperienze delle organizzazioni esistenti. Necessità. Programmi. Scambi)”, ulteriormente articolata in “Lo Stato e il Teatro” e in “Gli Stati europei per il Teatro
drammatico”19. Certo, l’occasione del Convegno Volta è un coagulo decisivo e per
tanti aspetti grandiosamente conclusivo, com’è testimoniato dalla fitta e totalizzante attività organizzativa apprestata per la buona riuscita dell’assise mondiale20.
Il Convegno è anche la meta più aggiornata di un percorso preparato da tappe
significative come, soprattutto, la messinscena argentina, prima, e italiana, poi,
di Quando si è qualcuno, dell’autunno del 1933, il dramma della monumentalizzazione autobiografica di ***, l’Autore “vecchio” che, per un momento, sfugge
alla condanna del tempo, tramutandosi nel “giovane” Poeta, che viene dalla democratica America, dove, come nella sovietica Russia (“Ma sì: Russia, America,
umanità che rivégeta” è una battuta del dramma), “la vita è dei vivi”, mentre nella
decrepita Europa “la vita seguitano a farla i morti, schiacciando quella dei vivi
col peso della storia, della tradizione e dei costumi” (da un’intervista al “Corriere
della Sera” del 26 giugno del 1929)21.
D’altra parte, pur essendo lontano e di là da venire il tempo del postbellico
“impegno”, della battaglia per il “realismo”, ovvero del neorealismo degli scrittori
per la letteratura, per il cinema, e per le altre arti, Il Convegno Volta appare, l’orgogliosa riproposta di chierici che non tradiscono, alla fine, la libertà della cultura
che, come affermerà dopo la guerra Elio Vittorini, si interpreta come “storia”
contro la politica che si autoriduce a “cronaca”22.
Cfr., nello stesso fascicolo di “Biblioteca Teatrale”, cit., dedicato a Pirandello 1934. Spettacolo e potere al Convegno Volta, il contributo di N. Borsellino, Pirandello e la crisi del teatro, pp. 13-23.
19
Cfr. Reale Accademia d’Italia. Fondazione Alessandro Volta. Atti dei Convegni. 4. Convegno di Lettere, 8-14 ottobre 1934-XII. Tema: Il Teatro Drammatico, Reale Accademia d’Italia,
Roma 1935-XIII, in part. pp. 557-563.
20
Cfr. BT.
21
Cfr. Il piccolo Padreterno, cit., in part. il cap. VI, pp. 137-158.
22
Cfr., per uno sguardo storico e bibliografico riassuntivo, Il piccolo Padreterno, cit., in part.
p 228.
18
223
Ma, per Pirandello, è infine il Teatro il luogo dell’identità pubblica, espressiva
e comunicativa, poietica ed estetica, socio-culturale e politico-culturale. Ecco perché, ancora una volta, in modo solo apparentemente paradossale, è da Pirandello
che può venire, di fronte ai massimi rappresentanti mondiali della drammaturgia,
della scenotecnica, della formazione dell’attore, e così via, la difesa orgogliosa
della libertà dell’arte, dell’indipendenza delle creazioni artistiche dalla politica:
Tutto, certo, può essere materia d’arte, e l’artista riflette, né potrebbe non riflettere,
nella sua opera, la vita del suo tempo, in quanto è lui stesso un prodotto della civiltà e
della vita morale del suo tempo stesso. Farlo però di proposito, cioè con l’intenzione che
sia azione pratica e volontaria del momento, anche per fini nobilissimi ma estranei all’arte, sarà far politica e non arte23.
Una ragione in più, come si può notare, per apprezzare l’inesaurita attualità
di Pirandello ma, anche, per considerare, forse, con curiosità euristica e simpatia
intellettuale, il tentativo plurivoco del Convegno Volta con uno sguardo che, dalla
ricostruzione attenta e partecipe del passato, si volge alle condizioni del presente,
culturali e non, del popolo e dei suoi chierici.
La libertà dell’espressione artistica futurista, pur rimaneggiata dal compromesso estetico classicistico, preavverte dell’imminente e incombente baratro che
sostituisce distruzione a costruzione, rudere a cantiere; ma, nello stesso tempo, si
candida a iterare il discorso dell’arte e della vita, fino ai nostri tempi comunicativi,
mediatici, ibridamente globalizzati e contrassegnati, appunto come aveva intuito
Pirandello, dalla “cotidiana sete di spettacoli”.
Cfr. Convegno Volta, cit., p. 19).
23
224