MARZO 2012 n. 3 MENSILE DI POLITICA E CULTURA euro

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MARZO 2012 n. 3 MENSILE DI POLITICA E CULTURA euro
euro 2,50
MARZO 2012 n. 3 MENSILE DI POLITICA E CULTURA
ZOWART
Alberto Angela
Ambasciatore UNICEF
Foto: Andrea Sabatello
Ogni giorno
muoiono 22.000 bambini
per cause prevenibili.
Vogliamo arrivare a zero.
La morte di un bambino è la tragedia più grande, soprattutto quando può essere evitata.
Io sto con l'UNICEF, che lavora ogni giorno per salvare la vita dei bambini attraverso
vaccinazioni dal costo di pochi centesimi, cure mediche, acqua potabile, alimenti terapeutici,
zanzariere antimalaria.
Ogni giorno muoiono 22.000 bambini. È inaccettabile.
Io voglio che questo numero arrivi a zero. E tu?
Dona su www.unicef.it o chiama il numero verde: 800 745 000
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Vogliamo zero.
MARZO 2012 n.3 ANNO II MENSILE DI POLITICA E CULTURA
Moleskine
di
Diapason
Società
di
di
POLITICA
Ma dove va il Pd
24
32
62
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47
75
di
Urbi et orbi
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Le possibili revisioni costituzionali
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La lega e il declino del capo
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IL DOMANI
D’ITALIA
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Obama (ri)prenota la Casa Bianca
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ISCRIZIONE AL REGISTRO DEGLI OPERATORI
DI COMUNICAZIONE N. 19596
NUMERO 3 -MARZO 2012 ANNO II
ECONOMIA
Basilea 3
di
Disoccupazione e inattività giovanile
di
COSTUME & SOCIETÀ
Moving Design
Intervista a Livia Toccafondi
di
Tina Modotti e HenryCartier-Bresson
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Andy Warhol
di
(PRO)MEMORIA
Quando si faceva la Costituzione
di
Ciao Lucio
Ricordo di Lucio Dalla
SPECIALE
Lo spirito della sussidiarietà
di
SOCIETA’ EDITRICE
Il Domani d’Italia soc. coop
piazza Cola di Rienzo, 85
00192 Roma
PRESIDENTE
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CONSIGLIERE DELEGATO
Salvatore Turano
RUBRICHE
CHIAMA IL NUMERO VERDE 800.901.050
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M@LESKINE
m@leskine
Il Punto
di vista
di Lucio D’Ubaldo
DA BUSH A OBAMA, CON GLI OCCHI DI UN BARZINI - Matteo Barzini ha raccontato con le immagini la sua esperienza americana, girando prima "United we stand" (2003) e poi "Change"
(2008). Recentemente l'uno e l'altro sono stati raccolti in un unico documentario che la Fondazione Italia-Usa, il 24 Febbraio scorso, ha presentato nella Sala del Mappamondo di Palazzo Montecitorio.
Il giovane Matteo, discendente di una famiglia che ha molto dato
al giornalismo, segue con altri mezzi le orme del nonno Luigi, prestigioso corrispondente estero di varie testate tra cui "Il Corriere
della Sera", autore del fortunato saggio O America, edito nel 1978
da Mondadori. Il suo doppio reportage ci mette innanzi tutto a contatto con le reazioni contrastanti di una nazione in guerra - parliamo della guerra di Bush contro l'Iraq - e successivamente ci porta dentro la campagna elettorale del 2008 per la Casa Bianca.
Ne esce trasformato il solito, meglio dire logoro, ritratto di un'America rocciosa, sicura, persino altera nella sua dimensione sociale e politica. La democrazia americana è invece come un vulcano sempre attivo: non mancano gli aspetti più marcati e anche
fastidiosi di una continua critica del potere.
Eppure, nel magma di mille contraddizioni, agisce la vitalità di una
nazione che si considera speciale, senza nasconderlo. Questo è
sempre il fascino che l'american way of life esercita sulla pubblica opinione mondiale. Ecco, vedendo il filmato, si può apprezzare uno sforzo ben riuscito di cogliere gli umori dell'America profonda in questo primo decennio del XXI secolo.
L'autore merita un encomio, dopo i riconoscimenti già raccolti in
vari festival. Un'ultima annotazione. Colpisce la rapida e dolente
confessione del regista che nelle ultime sequenze, mentre si accinge a prendere l'aereo per Roma, sente nel cuore il peso del distacco. Dov'è casa sua, in Italia o in America? Non sa dirlo e non
vuole nemmeno saperlo.
LA CASTA DI METTERNICH - Il pensiero conservatore, quando
è grande, penetra la realtà con acume finanche superiore. Sui libri di scuola, contrariamente a questa constatazione ardita,
emerge sempre un'immagine deteriore dei personaggi più illustri
della tradizione controrivoluzionaria.
Complici le ragioni anti-austriache del nostro Risorgimento, la figura di Metternich è stata racchiusa nella cornice di un bieco po-
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M@LESKINE
foto: Giuseppe De Rita
tere repressivo. Invece l'aristocratico Cancelliere sapeva dare alla
politica imperiale uno spirito di potenza e una visione politica universale. Di fronte ai moti sovversivi del 1820 scriveva al vacillante Zar Alessandro, diviso tra prassi autocratiche e auspici liberalizzanti, una lettera lucidissima sul carattere unitario delle specifiche rivendicazioni nazionali. Sul piano europeo, ovunque s'invocava il diritto alla Costituzione, era in pericolo l'ordine della Santa
Alleanza. Metternich respingeva però la spiegazione dei liberali: la
Costituzione, a suo dire, non era il frutto del progresso che plasmava
in forme tutte nuove gli ordinamenti civili. Piuttosto i popoli la ponevano al centro della loro lotta perché sospinti, in verità, dall'inquietudine generata dalla comunicazione e dalla stampa. Scrive
Metternich: "Religione, morale, legislazione, economia politica, amministrazione, tutto sembra essere divenuto un bene comune e accessibile a tutti". Da qui scaturisce quella grave malattia che debilita le società e distrugge le basi della Monarchia, ovvero la "presunzione". Si ritiene che nulla debba sfuggire al potere della critica. Cittadini sempre più informati, riuniti in una nuova casta, presumono di sapere tutto immaginando, conseguentemente, di poter tutto decidere in base al loro grado di istruzione.
Essi pertanto, scrive ancora il Cancelliere allo Zar delle Russie, "s'industriano a persuadere i re che i loro diritti si limitano a quello di
restare assisi sul trono, mentre quello della casta consiste nel governare e nell'attaccare tutto ciò che i secoli hanno lasciato di sacro e di positivo al rispetto degli uomini". La Costituzione diveniva pertanto lo strumento con il quale un classe emergente - la borghesia dei commerci e dell'industria - puntava al pieno controllo
del potere politico.
Come si vede, dopo quasi duecento anni, la responsabilità del crollo di fiducia nelle istituzioni è sempre della casta. Solo che Metternich pensava che la casta fosse quella della società civile, con
i suoi scrittori e i suoi giornalisti. I reggitori dello Stato ne erano le
vittime.
Dunque, il mondo si è rovesciato.
LA SOLLECITAZIONE DI DE RITA - Ancora una volta De Rita ha
lanciato il sasso in piccionaia. Distaccando lo sguardo dal piccolo dettaglio, ha colto in un rapido e preciso intervento sul "Corrie-
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re della Sera" (Domenica 4 Marzo) l'imbarazzo del mondo cattolico di fronte al governo tecnico di Monti. Anche la foto di Todi, secondo il fondatore del Censis, sembra ormai invecchiata. Dopo solo
qualche mese, non si parla più del nuovo soggetto politico d'ispirazione cristiana, ma dei crucci o imbarazzi della Chiesa in ordine alle norme restrittive sulla esenzione dall'imposta municipale sugli immobili.
Eppure, dietro questo disagio cova una preoccupazione che incidentalmente prende corpo nel contenzioso appena accennato
sulla fiscalità locale. In realtà, il processo di verticalizzazione del potere e l'intonazione pedagogica del "montismo" conferiscono all'azione del governo un tratto incompatibile con la sensibilità sociale e culturale dei cattolici. L'analisi è tutta condotta sul filo di un
velato pessimismo. I cattolici dovrebbero reagire. "Sarebbe bello”, dice De Rita, “se potessero riprendere un ruolo dialettico nella gestione sociopolitica di questo delicato momento della società".
Ecco, il pessimismo non è dunque l'ultima parola. Ma la ripresa di
un ruolo pubblico passa per la ripresa di una autonoma iniziativa
politica. Questa è la vera difficoltà: come "pensare" il passaggio
a un nuovo protagonismo dei cristiani? L'ombra del partito unico
condiziona ogni ragionamento. In cambio si assiste a un rispetto
liturgico del bipolarismo, anche a dispetto delle insufficienze che
ha finora palesato.
Nei primi del Novecento, contro l'aspirazione a un partito di democratici cristiani, dominava la linea vaticana della distinzione tra
"deputati cattolici" (non ammessi) e "cattolici deputati" (ammessi), solo per ribadire il vincolo del non expedit. Non volendo, chiuso il lungo ciclo democristiano, siamo tornati a un'analoga dialettica anche al di fuori di antistoriche prescrizioni ecclesiastiche. La
divisione è spontanea e allude alla inesausta contesa sul ruolo dei
cristiani nel mondo.
Se ha un senso il discorso di De Rita, in apparenza fuori sincrono
rispetto alle idee dominanti, lo ha dunque nella sollecitazione a ritrovare le basi di un pensiero politico autonomo - decisamente laico e dunque non integralista - all'altezza delle esigenze poste in
essere oggi dai valori che discendono della fede e dall'insegnamento della Chiesa.
DIAPASON
IL CORAGGIO
di una politica responsabile
E' tempo che il Partito democratico sciolga il nodo delle sue continue incertezze
politiche. L'Italia ha bisogno di una guida stabile, capace di mettere a regime
l’impegno del governo Monti. E' inevitabile che la sinistra radicale spinga sulla
linea dell'opposizione, dunque in conflitto con la proposta dei riformisti
I
di Giuseppe Fioroni
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l dibattito in seno al Partito democratico non può este-
democrazia in quanto tale. I partiti sono infatti i polmoni che fanno
nuarsi nella rendicontazione quotidiana di torti o ragioni,
respirare la vita pubblica, dando ossigeno alla pluralità di visioni so-
autorizzando a pensare dall'esterno che questioni se-
ciali e alla dialettica degli interessi legittimi. La loro degenerazione
rie e impegnative possano ridursi a contumelie fasti-
aumenta il malessere della nazione. Al momento del suo battesi-
diose. Stiamo affrontando una congiuntura economi-
mo, il Partito democratico esibiva orgogliosamente il volto della no-
ca difficilissima e nonostante i successi di questi mesi riportati
vità: finalmente il riformismo prendeva posto in un ambiente poli-
dal Governo Monti - lo spread ne fa testo - l'ombra della crisi con-
tico adatto a rappresentarne e a svilupparne, in modo organico, tut-
tinua a pesare sul futuro di tante famiglie e tante imprese. Il crol-
te le grandi potenzialità rimaste impigliate nel canone della tradizionale
lo di fiducia nei partiti rappresenta un monito per tutta la classe
lotta politica ampiamente condizionata dalla Guerra Fredda. In bre-
dirigente del Paese, perché dovrebbe essere chiaro, a riguardo,
ve tempo, però, dopo le elezioni del 2008, sopraggiungeva sull'onda
che proprio senza l'elemento della fiducia entra in sofferenza la
della sconfitta l'idea di mettere le gambe a un tentativo di recupe-
ro di qualcosa che fosse riferibile a una storia tipica delle "nar-
Invece il Partito democratico potrebbe fare molto di più nell'am-
razioni" ideologiche del secolo scorso. Cambiavano, in questo bito della complessa transizione guidata da Monti. Non manca di
scenario, i protagonisti e le coordinate del messaggio politico. generosità, è vero; dietro le scelte ordinarie o straordinarie s'intravede
Le primarie dell'anno dopo veicolavano l'idea di un certo re-
sempre il nostro contributo; ed è un impegno persino più ampio
vanscismo para-ideologico sostanzialmente legato alla convin-
di quello che normalmente la pubblica opinione riesce a cogliere
zione che il progetto di un nuovo riformismo fosse solo un'in-
in base all'informazione di giornali e televisioni. Tuttavia non è il cen-
venzione retorica piuttosto che non una proposta politica co-
tro gravitazionale della politica governativa o meglio dell'impresa,
raggiosa e alla lunga vincente. Ad oggi, le continue fibrillazioni messa sulle spalle di una élite, strettamente connessa al recupeche segnano il lavoro della segreteria Bersani sono fondamen-
ro di credibilità internazionale e al rilancio dell'economia del Pae-
talmente il frutto avvelenato di questa manipolazione del patri-
se. Il senso di responsabilità non dovrebbe limitarsi all'opera di fil-
monio genetico del nuovo partito.
tro delle posizioni più radicali, come se Monti presiedesse un governo amico da controllare e possibilmente archiviare in fretta. Il
Ancora sinistra e destra?
coraggio deve guidare ad altri compiti la classe dirigente demo-
In effetti, la voglia di tornare a fare la sinistra lasciando ad altri il cratica e riformista. È evidente, infatti, che l'Italia profonda cerchi
mestiere di contendere il voto dei moderati in uscita dal recinto risposte più alte e più calde al bisogno diffuso di una nuova spedella vecchia coalizione di centrodestra, diventa la cifra discu-
ranza per il futuro, incentrata soprattutto sulla ricerca di una con-
tibile della condotta di un partito che dovrebbe scommettere sul-
dizione di maggiore giustizia.
la trasformazione del sistema e degli equilibri consolidati inve-
Sul calco dell'esperienza di Monti occorre plasmare un program-
ce di puntare sulla semplice riarticolazione dei ruoli all'interno del ma e un quadro di alleanze in grado di accompagnare nell'arco dei
medesimo quadro di riferimento. In un tempo che continua a di-
prossimi anni l'azione diretta al risanamento finanziario, all'equità
stillare la critica alla mitologia del Novecento, con ciò declassando e alla coesione sociale, alla crescita e al progresso del nostro Paesinistra e destra a categorie del passato, l'inclinazione al lessi-
se. E' inevitabile che la sinistra tenda a organizzare un polo di op-
co e all'iconografia del vecchio partito di massa depotenzia lo posizione ed è altrettanto inevitabile che il Partito democratico stasforzo dei riformisti. A una politica liquida, accusata di suscita-
bilisca con questo polo una relazione dialettica, dunque con un in-
re emozioni senza riscontri in un disegno realistico, segue per-
dirizzo strategico alternativo. La convergenza tra forze politiche re-
tanto una onesta e puntigliosa sequela di regole e precetti, si-
sponsabili come il Partito democratico e il Terzo Polo, unite da un
curamente mirabile per lo sforzo che implica e le energie che mo-
comune afflato riformatore e da una sincera volontà di collabora-
bilita, ma al tempo stesso un po' arida come tutte le modalità di zione, è l'unica prospettiva su cui far leva, oggi e domani, per il bene
presenza che esaltano il potere della procedura organizzativa. comune della società italiana.
EGOPATIA, IL MALESSERE DELLA POLITICA ITALIANA
Si deve riconoscere che la partita attorno al dopo Berlusconi vede i moderati disposti con più ordine sulla linea di combattimento. Tuttavia, anche
l'annunciato passaggio dall'Udc a un più vasto aggregato centrista patisce i limiti e le incongruenze della nostra democrazia. Qual è la strategia
delle alleanze? Eludere il quesito porta a dilatare il gioco delle immagini. Lo spettacolo e la personalizzazione corrodono dall'interno l'impegno della classe dirigente. I veri o finti leader non perseguono un obiettivo generale - almeno così appare - ma inseguono l'esigenza di allargare lo spazio
di manovra a loro disposizione. L'egopatia diffusa è all'origine del malessere della vita pubblica italiana. Invece di riprendere oggi la lezione di Moro
sulla natura e la funzione strategica del centro-sinistra, ci si accanisce sulla riforma dei meccanismi elettorali nella speranza di guadagnare per via
tecnica una soluzione al vero problema politico. In realtà, si è aperto un vuoto di rappresentanza al centro: come lo si può colmare? I riformisti devono uscire dal guscio. Hanno la responsabilità di accompagnare e guidare il mutamento di fase politica, interpretando le attese di molti elettori
che non si dichiarano né di destra e né di sinistra. Altrimenti, per inerzia o distrazione, subiranno il duro contraccolpo degli eventi. Con Monti o senza Monti, l'Italia ha bisogno di un nuovo centro di gravità. [IL DOMANI D’ITALIA]
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Pittura
Scultura
numero 1 2012
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Solers
Uomo pubblico,
coperto da
pseudonimo e
riottoso alla politica
spettacolo, talvolta
arcaico per la critica
corrente, prono
nonostante tutto alla
information
technology.
Amante del ciclismo,
si definisce a riguardo
un "nostalgico
gimondiano"
POSIZIONE
Roma, Italia
WEB
page under
construction
*
LA POLITICA DI DOMANI !
vignetta di Giancarlo Buffo
Tante parole sul futuro nascondono la tirannia del
presente. In qualche misura si
sconta una logica del paradosso.
Monti deve pensare all’oggi e non
al domani, i partiti sono proiettati al
domani e non possono mettere
mano all’oggi.
L’effetto è quello della sospensione, in attesa che qualcosa si produca. Ma quando?
Non bisogna andare lontano: le imminenti amministrative si vanno
configurando, a giudizio dei commentatori politici, come il tornante
decisivo della vita repubblicana. Le
alleanze si vanno logorando perché
il fuoco degli dei della Prima Repubblica si è spento. La Lega si
specchia nella sua solitudine, il terzo polo nel pantano del fortuito. Ai
riformisti tocca muoversi nel borgo
antico della sinistra, "intra gli affan-
ni" che albergano nelle ricordanze
dell'antiberlusconismo.
E’ molto probabile che il centro-destra vada in frantumi, con problemi
di rappresentanza dell’area moderata. Questo dovrebbe indurre a ragionare sull'allargamento delle basi
del riformismo, immaginando con
ciò la costruzione di un centro-sinistra più forte e più omogeneo. In
effetti, sotto la promessa di governabilità del sistema preme l'esigenza di ridefinizione del baricentro
politico.Tuttavia, alla luce di un certo immobilismo, prevale la disputa
sui contenitori da inventare o restaurare ai fini della continuità del
bipolarismo. Vince il culto delle regole e delle procedure, dando così
la scena all'asettica algebra del formalismo. Invece la politica ha bisogno di ideali, tanto più validi quanto
più incarnati nella realtà degli inte-
ressi e dei bisogni della comunità
nazionale. Dunque, cosa immettere
nei futuri contenitori politici?
A seconda delle scelte, essi potranno mutare di segno e di valore. Ma
se dividersi, proprio in funzione dell'alternativa, è nella fisiologia della
democrazia e della lotta per il potere, il modo in cui riorganizzare questa condizione di normalità costituisce il problema della politica italiana. L'ambizione sta nella volontà di
operare alla possibile formazione di
due schieramenti - entrambi a impianto popolare e tutt'e due a vocazione riformatrice - al fondo diversi solo per ciò che lo specifico
connotato di cultura e sensibilità
politica potrebbe o dovrebbe rappresentare nel vivo della dialettica
democratica. Alla politica serve
come il pane una ritrovata capacità
di ispirazione ideale.
15
SOCIETÀ
Quando i fatti vengono
travistati, e sui
media la prescrizione
di un processo diventa
un’assoluzione, come
si può raccontare
la verità?
18
di GIUSEPPE SANGIORGI
SOCIETÀ
“Berlusconi assolto”
era il titolo del TG4 di Emilio Fede la sera
di sabato 25 febbraio, nel dare la notizia della conclusione del cosiddetto
“processo Mills” avvenuta poche ore prima. In effetti la lettura della sentenza diceva altro: che il processo finiva in un
nulla di fatto per intervenuta prescrizione. Berlusconi quindi non era stato assolto dalle accuse di corruzione in atti
giudiziari che gli erano state rivolte; era
stato prosciolto dalle accuse per decorrenza dei termini. La differenza non
è da poco. Quel titolo del TG4 poneva
dunque tre diverse, rilevanti questioni
che restano tuttora aperte: i tempi della giustizia italiana, le polemiche che
questi tempi provocano e le caratteristiche di una parte almeno della nostra
informazione.
I tempi Le aperture dell’anno giudiziario 2012 hanno messo nuovamente sotto gli occhi di tutti il quadro della situazione. L’arretrato della giustizia
italiana in sede penale e in sede civile è
di milioni di cause e non si vede come
uscirne se non, appunto, con le prescrizioni. La nostra è ormai una “Giustizia
orizzontale”: è il passare del tempo e non
l’accertamento dei fatti a segnare la fine
dei processi. E’ questa la vera amnistia
non dichiarata. Che fine ha fatto il “processo telematico” che avrebbe dovuto
dare un colpo decisivo alla lentezza
delle procedure? Il caso Mills – Berlusconi è stato identico a centinaia di migliaia di altri. Il reato si è prescritto senza neppure arrivare alla sentenza di
primo grado. Ciò significa che se anche
Berlusconi fosse stato condannato, durante il proseguimento dell’iter giudiziario
20
sarebbe egualmente scattata la prescrizione per decorrenza dei termini.
Le polemiche Berlusconi ha
detto di avere ricevuto solo “mezza
giustizia” perché lui si aspettava l’assoluzione. I suoi avversari lo hanno accusato di avere adoperato ogni mezzo
processuale per ritardare il processo. Ma
il garantismo a intermittenza non funziona. L’istituto della prescrizione significa che passato un certo tempo lo
Stato non ha più interesse che un determinato reato continui a essere perseguito. Nel caso della corruzione in atti giudiziari, questo tempo è stato ridotto dalla legge detta “ex Cirielli” del 2005 da 15
a 10 anni per i tre gradi di giudizio. S’era detto che accorciare i termini avrebbe accelerato i tempi dei processi. Così
non è stato. Bisogna riallungare i termini della prescrizione o riformare l’organizzazione della giustizia? Questa è la
domanda a cui rispondere. I radicali hanno posto da anni questo problema al
centro della loro iniziativa politica. Gli altri partiti dove sono? Sembrano ricordarsene solo occasionalmente quando
c’è di mezzo un avversario politico.
L’informazione La notizia
è sacra, il commento è libero recita il co-
‘’
dice deontologico del giornalismo. Il
punto è proprio questo: davvero da noi
la notizia è sacra? Se è così, l’informazione assolve pienamente al suo ruolo di
terzietà e di garanzia nei confronti dei cittadini. Ma se così non è, la verità diventa
come entrare nel labirinto degli specchi
di un luna park. L’immagine riflessa ti viene restituita una volta più alta, poi più bassa, più stretta, più larga... L’informazione
italiana moltiplica questo gioco degli
specchi: il cittadino non sa se l’immagine che vede riflessa del suo Paese è quella vera o una sua deformazione. Le opinioni, anche le più faziose e purché non
violino la dignità altrui, sono sempre legittime. Travisare i fatti e le notizie e su
questo travisamento indurre comportamenti e reazioni, no.
La conclusione del processo Mills deve
fare riflettere su questo. La vera posta in
gioco non è se e quando un tribunale riuscirà a incastrare Berlusconi, dando finalmente ai suoi avversari la soddisfazione almeno di una condanna di primo
grado nella sequela di procedimenti giudiziari che lo riguardano. La vera posta
in gioco è se “il caso Berlusconi” possa
finalmente tradursi in una giustizia tempestiva, priva di polemiche pretestuose,
raccontata con verità dai mezzi di comunicazione.
Davvero da noi la notizia è sacra?
L’informazione italiana è come un gioco
degli specchi: il cittadino non sa se
l’immagine che vede riflessa del suo
Paese è vera o è una deformazione
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o
il Pd?
Ma dove va
di ETTORE MARIA COLOMBO*
Eppere il Pd è il progetto politico
più innovativo tra quelli concepiti
in Europa negli ultimi anni: parla il
senatore Mauro Ceruti, ideatore del
Manifesto dei valori
Professor Ceruti, “a che punto è la notte” in merito al Partito democratico?
Il Pd è stato il progetto politico più innovativo e coraggioso tra quelli
concepiti in Europa negli ultimi vent’anni. Abbiamo avuto la consapevolezza che i problemi che ci apprestavamo ad affrontare fossero del
tutto inediti: sul piano nazionale, la notevole diversificazione della società, quanto a culture, obiettivi e bisogni dei gruppi che la compongono; sul piano continentale, la ricerca di una nuova collocazione dell’Europa nel mondo; sul piano mondiale i processi di globalizzazione,
con la necessità di un loro governo che promuova i necessari equilibri fra equità, libertà, sostenibilità ecologica. Presi insieme, tutti questi processi comportano la necessità di reinventare gli stati nazionali,
le loro forme politiche e la loro stessa coesione sociale. E tutti questi
processi sono strettamente connessi: politica nazionale e internazionale, italiana ed europea, europea e mondiale. L’attuale situazione in
cui i vincoli europei determinano il corso di tutte le politiche nazionali
non è che la conferma di una situazione di cui da tempo eravamo consapevoli. Una situazione che richiede una nuova analisi della società
italiana ed europea, e uno scatto di immaginazione e di coraggio per
concepire e affrontare una nuova fase storico-politica.
Peccato che dentro il Pd si torni a parlare di approdo al Pse e all’Internazionale socialista…
In effetti, la storia successiva alla nascita del Pd ci fa capire che quel
Manifesto dei valori da un lato era davvero necessario, ma che dall’altro
lato quel Manifesto non è sempre stato concretamente realizzato e, anzi,
talvolta mal compreso se non messo da parte. Subito dopo la stagione fondativa, nel partito è prevalsa una tendenza inerziale, volta ad adottare risposte precostituite per problemi considerati (assai erroneamente)
interpretabili secondo vecchi codici. L’idea di partito realmente inno-
23
Pd live
vativo, aperto, multivocale non sempre è stata alimentata con la dovuta energia e creatività, e spesso si è caduti nella tentazione di ripiegare su un aggiornamento superficiale di visioni tradizionali. Ma
se il modello riproposto fosse quello delle socialdemocrazie siamo
destinati a non andare molto lontano, dato che proprio il ventennio
successivo alla svolta del 1989 ha segnato una profonda crisi dell’intera famiglia politica europea di tradizione socialista e socialdemocratica. E questo è successo sia per la tipologia organizzativa dei
partiti appartenenti a questa tradizione, che non sono più in grado
di intercettare i nuovi e plurali attori sociali e generazionali, sia perché quei partiti non corrispondono più ai processi di società postindustriali in profonda e complessa trasformazione, sia perché l’interesse pubblico per nuovi legami sociali, nuovi contesti comunitari, nuovi modi di vita maggiormente sostenibili esprime un’esigenza
di partecipazione politica che certo non trova una risposta adeguata nelle logiche burocratiche e di apparato. Dobbiamo anche
aggiungere che il blocco sociale cui facevano riferimento
Dobbiamo
le socialdemocrazie e i partiti socialisti è divenuto col
guardarci dal
tempo minoritario in tutte le società europee, e che
rischio di essere un
quindi è necessario aprirsi ad altri attori sociali, oggi
partito a
di grande potenzialità innovativa. Il risultato è che
“vocazione
oggi, per governare, i partiti socialisti e socialminoritaria”: il Pd
democratici in tutta Europa devono costruire coadelineato nel
lizioni con forze di altre tradizioni: di volta in volManifesto mirava a
ta, appunto, ambientalista, liberale di sinistra, cricontaminare
tradizioni, valori
stiano-democratica, regionalista. Ma il Pd è nato
ed esperienze
non per essere una riedizione di un vecchio partidiverse
to di sinistra, chiuso nell’orizzonte del Novecento, ma
per diventare qualcosa di inedito e più ampio, capace di
chiamare a raccolta le grandi tradizioni riformiste e riformatrici italiane, fra cui non vi erano più ragioni di contrapposizione. Insomma, c’era la consapevolezza che nessuna delle tradizioni politiche preesistenti (quella cattolica-democratica, quella post-comu-
PRIMARIE SI
24
PRIMARIE NO
A che servono le primarie? Da quando Angelo Panebianco
ha sollevato la questione se ne parla fuori dagli imbarazzi e
dalle rigidità protocollari. Sul piano nazionale potrebbero perdere il valore che finora è stato loro attribuito, se davvero la
riforma elettorale, imperniata sul proporzionale, dovesse cancellare l’obbligo di indicare il nome del candidato alla guida
del governo. Si confermano, invece, come la migliore leva possibile per una scelta avveduta dei vertici delle amministrazioni
locali e regionali. Tuttavia gli infortuni di Bersani rivelano l’esistenza di un intrinseco aspetto anarcoide. Fortunatamente a Palermo è prevalsa una candidatura, quella di Ferrandelli, funzionale alla costruzione di un nuovo centro-sinistra.
Ma le primarie sono solo uno strumento, nulla di più e nulla
di meno. Quando i partiti erano forti, si usava ripetere che nei
congressi usciva ciò che entrava: il bene o il male della proposta iniziale. Se nelle primarie entra il caos, fatalmente esce
qualcosa che del caos riproduce gli effetti. O no?
MAURO CERUTI
Senatore, docente ordinario
di Filosofia della Scienza (è
stato lui a introdurre in Italia
il tema della “filosofia della
complessità”), già membro
del Comitato Nazionale di
Bioetica. Ha partecipato alla
nascita del Pd, è membro
della Assemblea
costituente e ha avuto un
ruolo di primo piano
nell’atto fondativo del Pd, la
stesura del Manifesto dei
valori che ha scritto
a quattro mani con Alfredo
Reichlin
nista, quella liberale e, più recente, quella ambientalista) fosse da
sola in grado di affrontare sfide e problemi non solo inediti, ma che
richiedono una pluralità di prospettive e di punti di vista per essere affrontati adeguatamente. Da quell’intreccio e da quella rielaborazione condivisa dei migliori valori e programmi di diverse tradizioni è nato il Pd, un partito volto a delineare nuovi orizzonti, più
ampi e più concreti nello stesso tempo, senza essere bloccato dalla pesantezza di visioni ideologiche aprioristiche e onnicomprensive, né dall’ossessione delle mediazioni a tutti i costi fra culture
politiche che si percepiscono come separate. In Italia, con il Pd,
abbiamo ancora la possibilità concreta non di costruire coalizioni che giustappongano e bilancino prospettive differenti, ma di mirare a una articolata integrazione di concezioni che si trasformino per generare un nuovo modo di concepire e di fare la politica.
Se ne deduce che se il Pd dovesse aderire al Pse tradirebbe
il Manifesto dei valori?
Il rischio è che, nella situazione attuale, questa non sia una semplice scelta organizzativa, comunque praticabile, ma la ratificazione
dell’immobilismo e sostanzialmente della regressione della visione politica del Pd. In questo senso le potenzialità innovative del
Pd sarebbero pesantemente ridotte. Certamente il Manifesto dei
valori era tutto basato sull’andare avanti, non sul tornare indietro.
Dobbiamo guardarci dal rischio di trovarci con un partito a “vocazione minoritaria”, espressione di singoli settori e di singoli modi
di vita della società, mentre il Pd delineato nel suo Manifesto mirava a un’integrazione e a un’ibridazione di tradizioni, di valori e di
visioni ben più ampia di quelli manifestati nella stretta appartenenza
a una singola tradizione, fosse pure quella socialista, per divenire
davvero una forza attivamente levatrice di un nuovo sistema storico-politico. Capace di accordarsi alla nuova complessità sociale nazionale e alla inedita comunità di destino planetaria, delineando
la prospettiva di una politica di civiltà capace di rigenerare nel tempo nuovo le grandi acquisizioni della tradizione europea.
*ETTORE MARIA COLOMBO, giornalista
Il blocco
sociale cui
facevano
riferimento le
socialdemocra
zie europee è
divenuto
minoritario in
tutta Europa: è
necessario
aprirsi ad altri
attori sociali, di
grande
potenzialità
innovativa
25
CITY live
Urbi
et
orbi
le città rinnovano la politica
RIFLESSIONI SUL RAPPORTO TRA POLITICA E CITTADINI
A DUE MESI DALLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE
MOLTE CITTÀ ITALIANE sono chiamate a rinnovare le amministrazioni locali.
Perché il voto non sia soltanto un dirittodovere svuotato di senso, è bene riflettere
sul rapporto politica-cittadino e sul valore che le città rivestono a livello territoriale
e universalistico. Prima di condividere alcune personalissime riflessioni su questo
tema, mi piace ricordare un passaggio del
discorso tenuto da Giorgio La Pira al Convegno dei Sindaci delle capitali di tutto il
mondo, tenutosi a Firenze il 2 ottobre
1955. “Le generazioni presenti non hanno il diritto di distruggere un patrimonio a
loro consegnato in vista delle generazioni future! Il diritto all’esistenza che hanno
le città umane è un diritto di cui siamo titolari noi delle generazioni presenti, ma più
ancora quelli delle generazioni future.
Un diritto il cui valore storico, sociale, politico, culturale, religioso si fa tanto più
grande quanto più riemerge, nella attuale meditazione umana, il significato misterioso e profondo delle città. Ogni città
è una città sul monte, è un candelabro de-
26
stinato a far luce al cammino della storia.
Ciascuna città e ciascuna civiltà è legata organicamente, per intimo nesso e intimo scambio, a tutte le altre città e a tutte le altre civiltà: formano tutte insieme un
unico grandioso organismo. Ciascuna
per tutte e tutte per ciascuna. Storia e civiltà si trascrivono e si fissano, per così
dire, quasi pietrificandosi, nelle mura,
nei templi, nei palazzi, nelle case, nelle officine, nelle scuole, negli ospedali di cui
la città consta. Le città restano, specie le
fondamentali, arroccate sopra i valori
eterni, portando con sé, lungo il corso tutto dei secoli e delle generazioni, gli eventi storici di cui esse sono state attrici e testimoni… La città è lo strumento in un certo modo appropriato per superare tutte le
di GERO GRASSI*
possibili crisi cui la storia umana e la civiltà umana vanno sottoposte nel corso
dei secoli. La crisi del nostro tempo – che
le elezioni
amministrative
devono
rappresentare il
punto di partenza
per la nostra
rinascita
è una crisi di sproporzione e di dismisura rispetto a ciò che è veramente
umano – ci fornisce la prova del valore, diciamo così, terapeutico e risolutivo che in ordine a essa la città possiede. Come è stato felicemente detto, infatti, la crisi del tempo nostro può essere definita come sradicamento della
persona dal contesto organico della
città. Ebbene: questa crisi non potrà essere risolta che mediante un radicamento nuovo, più profondo, più organico, della persona nella città in cui essa
è nata e nella cui storia e nella cui tradizione essa è organicamente inserita…”. Trovo di straordinaria attualità
questo discorso di Giorgio La Pira e
perfettamente calzante alla situazione
di crisi economica e di valori che viviamo oggi. La crisi dei valori è prodotta
secondo La Pira dallo sradicamento della persona dal contesto organico della
città. Può essere risolta mediante un radicamento nuovo, più profondo, più organico, della persona alla città. Ecco la
chiave di volta. La città è il nucleo della cellula che può determinare la rinascita. Le elezioni amministrative devono rappresentare il punto di partenza
per la nostra rinascita. La politica è ancora molto distante dai problemi della
gente. Le città sono fagocitate dalla dilagante disoccupazione, che non trova spazio adeguato sui media. I servizi essenziali cominciano a mostrare i segni della precarietà: penso ai tagli inferti
ai trasporti, all’istruzione, alla formazione, alla sanità. I cittadini meritano di
vivere in città sicure, con scuole efficienti, ospedali funzionanti, strade illuminate, aria salubre. La fiducia si conquista con le azioni, non con le promesse. Ogni strategia di comunicazione
non è sufficiente a ridare il lavoro a chi
lo ha perso o a chi è condannato a non
trovarlo mai. Lo sviluppo va incentivato a 360 gradi. Il diritto alla salute e all’istruzione deve essere garantito a
tutti. Per rispondere a queste necessità,
VERSO UNA NUOVA LEGGE
ELETTORALE
Rifondare i partiti, cambiare la legge elettorale. Attorno a questo tema, proposto
dalla nostra rivista in un convegno svoltosi a Roma il 21 febbraio, si sono articolate le riflessioni di Lorenzo Cesa, Lucio D’Ubaldo, Giuseppe Fioroni, Maristella
Gelmini, Gaetano Quagliariello, con Gianfranco Marcelli dell’“Avvenire” a fare da
moderatore. Un proficuo scambio di vedute, influenzato evidentemente dal clima
di fiducia che da tempo avvolge le trattative in corso tra le forze politiche. C’è chi
ha visto un limite nell’iniziativa, ovvero l’ancora sfuggente legge elettorale che dovrebbe innervare la formazione di un partito neo-democristiano. L’obiettivo non era
e non poteva essere questo. Invece l’orizzonte è un altro: si tratta di accordarsi
non sulla riforma più conveniente a un partito o a una coalizione, ma agli interessi generali del Paese. A emergerere dai lavori
del convegno è stata questa consapevolezza: chiuso il ciclo del maggioritario con
partiti deboli e leadership carismatica, occorre ricostruire la democrazia della partecipazione e del confronto, nonché del
limpido equilibrio dei poteri. Il problema è
come modulare il ritorno al proporzionale, sebbene corretto, con l’esigenza di governabilità del sistema. L’accordo sembra
vicino, non tanto però da scongiurare i rischi di rottura, ben nascosti come sempre nei dettagli di un’operazione delicata
e complessa. Nel corso del dibattito, infine, ha trovato eco la suggestione del voto
differenziato per classi anagrafiche o
consistenza familiare. A Quagliariello non
è piaciuta molto la proposta, per la sua somiglianza con la formula della Costituzione
spagnola del 1821 che assegnava il diritto di voto ai soli capifamiglia. Oggi però
i giovani costituiscono la parte debole di
una società che vede la netta preminenza di una popolazione matura o anziana.
Come correggere questo squilibrio nella
distribuzione dei pesi demografici se non
introducendo una “discriminante positiva”
nella legislazione, con un mirato ritocco
alla Carta costituzionale? Èprobabile che
se ne discuta ancora.
ci vuole una classe dirigente lungimirante, capace di guardare oltre le decisioni
prese hic et nunc. I programmi sulla
carta servono a poco in questo momento. Occorrono idee chiare su come creare sviluppo, lavoro e su come tutelare la
salute pubblica. Non è più tempo di assemblare sigle. È necessario che uomini di buona volontà, capaci e volenterosi trovino il modo di lavorare insieme per
far ripartire le città. Ripensando a Giorgio
La Pira o ad Alcide De Gasperi ho nostalgia per una politica che poneva al centro “la persona”. Andare avanti a tutti i costi e travolgere chi è più debole, chi è più
fragile, è una politica che non condivido,
che non mi appartiene. L’Italia non ha più
bisogno di leader costruiti all’interno di
un’agenzia pubblicitaria. Ha bisogno di
persone carismatiche, capaci di ascoltare,
disposte a ridurre le distanze tra Palazzo e cittadini. Dalla crisi si può uscire, ma
serve un colpo d’ala, serve innovazione
e profondità d’animo.
A questo punto si impone per il Partito democratico una svolta che riassumo in pochi consigli: alleanze possibili, programmi precisi e intellegibili, candidati moralmente ineccepibili e disponibili a seguire
quanto Paolo VI disse a proposito della
politica: “È la più alta forma di carità”. Aggiungo che la carità si fa a chi ne ha più
bisogno: i cittadini.
*GERO GRASSI, deputato
27
SOS GIUSTIIZIA
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dell’art. 138
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della Costituzion
di GIOVANNI GALLONI*
Si dovrebbe ritrovare in Parlamento una maggioranza
qualificata che consenta il voto di fiducia al governo e faccia del Senato
l’espressione delle regioni e dei corpi intermedi
Sull’impossibilità di giungere, attraverso
il Parlamento, a una revisione dei principi fondamentali della Costituzione,
contenuti nella prima parte della Carta
(artt. 1-54) e non solo alla forma repubblicana dello Stato decisa dal referendum
del 2 giugno 1946, è importante ricordare
la sentenza n. 1146 del 1988 della Corte Costituzionale, che sancisce: “La
Costituzione italiana contiene alcuni
principi supremi che non possono essere
sovvertiti e modificati nel loro contenuto essenziale, neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali”. Tali sono, come già detto,
oltre alla forma repubblicana anche i principi che appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione. Alcune forze politiche della
maggioranza di governo, che avevano
preso nel 2010 e 2011 l’accordo generale di non procedere a una revisione dei
primi 54 articoli della Costituzione, hanno poi proposto l’abrogazione dell’art. 41
della Costituzione stessa, che disciplina
il principio fondamentale dell’iniziativa
economica. La mia opinione è nettamente contraria a tale abrogazione. E
coincide con l’opinione espressa da
due dei maggiori giuristi italiani, docenti universitari. Il primo è Natalino Irti, che
si espresse in una lezione svolta il 29
marzo 1995 nell’Aula Magna dell’Università di Firenze e pubblicata in un saggio sulla “Rivista di Diritto civile” 1995 (I,
pagg. 289-98). Il secondo è Stefano Rodotà in due più recenti articoli pubblicati
sul quotidiano “la Repubblica” del 29
agosto 2011 e del 23 gennaio 2012. Secondo Irti “la disciplina giuridica dà
sempre risposte a conflitti di interessi” e
nel primo comma dell’art. 41 della Costituzione è stabilito il principio fondamentale del mercato. Ovvero che l’iniziativa economica, e cioè l’impresa, è libera, ma nel secondo comma dello
stesso articolo è enunciato il limite non
superabile dell’iniziativa economica.
Ancora più attuale è la critica alla proposta abrogazione dell’art. 41 della Costituzione contenuta negli articoli di Rodotà: si tratta in sostanza di una proposta definita “insensata e pericolosa”.
Essa, in ogni caso, “dovrebbe essere
bocciata dal voto dei cittadini come accadde nel 2006, quando più di sedici milioni di italiani dissero no alla riforma costituzionale del centro-destra”. Anche
Rodotà, come già l’Irti, si richiama al principio fondamentale dell’art. 2 della Costituzione, che riconosce e garantisce “i
diritti inviolabili dell’uomo” come quelli indicati dall’art. 41 per chiamare “all’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”.
La revisione costituzionale possibile
su alcuni punti dell’ordinamento della Repubblica oggetto di un compromesso tra De Gasperi e Dossetti
Le possibili, per un certo aspetto auspicabili, revisioni degli articoli contenuti nella seconda parte della Costituzione sull’ordinamento della Repubblica,
riguardano oggi punti sui quali negli
anni 1946-47 vi furono compromessi nella Costituente. Essi non furono tuttavia
relativi a un compromesso tra le ideologie dei partiti antifascisti (della sinistra,
del centro e della destra), quanto invece tra coloro che alla Costituente, pur
avendo raggiunto un accordo per un superamento delle rispettive posizioni
ideologiche, guardavano alle future elezioni del Parlamento che avrebbero formato le maggioranze politiche dopo il
1948, e temevano il rischio di un conflitto
internazionale tra i paesi guidati dal comunismo sovietico e l’Occidente. In sostanza temevano, come De Gasperi, che
il Pci con i suoi alleati potessero conquistare, dopo il 1948, una maggioranza relativa, almeno in un ramo del Parlamento. De Gasperi infatti non aveva alcun dissenso con Dossetti sui principi
fondamentali contenuti nella prima parte della Costituzione. Anche quando,
dopo il giugno 1947, i comunisti e i loro
alleati erano stati collocati all’opposizione, De Gasperi non aveva mai messo in dubbio l’alleanza alla Costituente con tutti i partiti antifascisti cooperanti per la redazione della Costituzione fino al voto conclusivo comune del
27 dicembre 1947. E ancora dopo la vittoria del 18 aprile, De Gasperi non aveva mai dubitato che sulla Costituzione
e sulla continuità della Repubblica fos-
Il rebus sotto la lente
di Monti
Si faranno le riforme? Il tempo è breve. E lo è, soprattutto, perché le
forze politiche ritengono necessario attendere i risultati delle prossime
amministrative. Solo dopo, definiti i nuovi rapporti di forza, si entrerà
nel vivo della partita. Tuttavia, invece di aggiustamenti e correzioni,
dalle urne può venire uno tsunami: il centrodestra può andare in
frantumi. A quel punto bisognerà vedere quale possa essere l'asse
politico su cui imperniare la complessa e delicata azione riformatrice.
Come che sia, il rebus è già ora sotto la lente d'ingrandimento del
"tecnico" Monti.
29
SOS GIUSTIIZIA
se necessario anche il consenso comunista. Tanto è vero che nella replica al
Congresso di Napoli della Dc della fine di
giugno 1954, aveva parlato della necessità dell’esistenza di una unità di tutti i partiti partecipanti al governo, e dell’unità più
ampia di tutti i partiti che avevano dato
vita alla Costituzione e alla Repubblica democratica fissata nel referendum del 2
giugno 1946. In conclusione, un compromesso alla Costituente sicuramente vi
fu, ma esso non fu tra le ideologie dei partiti antifascisti; vi fu invece su alcuni
bicameralismo del Parlamento. Si dovrebbe innanzi tutto ritrovare nell’attuale
Parlamento una maggioranza qualificata
come politica che consenta il voto di fiducia
al governo, e faccia della seconda Camera l’espressione delle regioni e dei corpi intermedi: Comuni, Province e Città metropolitane. (così Dossetti, Rivista “Nuova
Fase” cit. 1996 n. 2 pag. 63). È generalmente richiesta dai partiti di maggioranza
e di opposizione una riduzione dei componenti la Camera dei Deputati, fissati al
secondo comma dell’art. 56 della Costi-
In sede costituente l’art. 138 era
stato formulato nella sua attuale
stesura sul presupposto di un
sistema elettorale strettamente
proporzionale
dovrebbe avvenire nella prima elezione
della Camera dei Deputati e del Senato
successiva all’entrata in vigore della revisione costituzionale, in attuazione dell’art. 138 della Costituzione.
Possibilità dell’introduzione, con una
revisione costituzionale, di un “regional-federalismo”
È oggi ampiamente richiesta e, in certe
condizioni, non è in contrasto con i principi fondamentali di cui alla prima parte
della Costituzione, l’adesione a un “regional-federalismo” (così Dossetti nel saluto al Coordinamento nazionale dei
Comitati della Costituzione, da lui fondati,
il 2 febbraio 1996 in “Nuova Fase” n. 2
op. loc. cit.). Il 16 settembre 1994 a Monteveglio, in occasione del primo convegno nazionale dei Comitati di difesa della Costituzione, Dossetti sottolineò come
Un federalismo come quello sostenuto
dal partito della Lega non potrebbe
avere il consenso del presidente della
Repubblica e sarebbe con sicurezza
dichiarato illegittimo dalla Corte
Costituzionale
punti della seconda parte della Costituzione riguardanti l’ordinamento della Repubblica.
Le revisioni costituzionali possibili del
Parlamento
La prima revisione possibile del testo della Costituzione sul quale si era realizzato
negli anni 1946-47 il compromesso con le
tesi allora sostenute dal presidente del
Consiglio De Gasperi, riguarda il perfetto
30
tuzione. Il massimo della riduzione richiesta è della metà dei deputati (315, sei dei
quali eletti nella circoscrizione Estero).
Anche i senatori elettivi, fissati dal secondo comma dell’art. 57 della Costituzione
nel numero di 315, di cui sei nella circoscrizione Estero, dovrebbero essere ridotti, secondo la richiesta massima della metà (158, dei quali tre eletti nella circoscrizione Estero).
La riduzione del numero dei parlamentari
desiderabili nel merito alcune modificazioni per una migliore disciplina delle regioni nei
rapporti con lo Stato. Un federalismo come
quello sostenuto dalla Lega guidata da Umberto Bossi, che ne ha fatto in più occasioni
la condizione per l’essenziale sostegno al
governo Berlusconi, non potrebbe avere il
consenso del presidente della Repubblica
e, anche se dovesse passare in Parlamento, sarebbe con sicurezza dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale (art. 136
della Costituzione).
Limitate possibilità di revisione delle
norme costituzionali relative ai poteri esecutivi del governo
Il rapporto tra il potere espresso dal Parlamento e il potere del governo (e cioè
tra il potere legislativo e il potere esecutivo) può essere variato a favore del
potere esecutivo, pur mantenendo un
equilibrio tra i due poteri. Il candidato
alla Presidenza del Consiglio dei ministri designato deve restare indicato al
Capo dello Stato, dopo una consultazione delle forze politiche alle quali nelle elezioni sia stato attribuito il voto dei
cittadini elettori. Dal presidente della
Repubblica devono sempre essere nominati anche i ministri su proposta del
designato presidente del Consiglio. Il
che vuol dire che su alcuni ministri de-
signati dal presidente del Consiglio,
come spesso è avvenuto, il presidente della Repubblica può porre un veto.
Così è avvenuto quando era presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro: nella formazione del primo governo di centro-destra dopo le elezioni del marzo 1994, Scalfaro pose il veto
alla nomina di Cesare Previti, amico di
Berlusconi ma fortemente compromesso sul piano penale, quale ministro
di Grazia e Giustizia (v. Galloni, “Da
Cossiga a Scalfaro”, op. cit., pag.
105). Deve essere confermata nell’attuale Costituzione la fiducia data dalle due Camere al governo, che può essere revocata solo con mozione motivata (art. 94). Un rafforzamento dei poteri del governo rispetto ai poteri del
Parlamento può invece essere stabilito con una revisione della Costituzione,
per consentire all’esecutivo modifiche
nella sua composizione, nel corso della legislatura e senza aprire una crisi di
governo. Il governo può revocare o
cambiare i ministri, dandone sempre
comunicazione al Parlamento – e riferendo al Parlamento – per un possibile controllo politico.
Possibile revisione dell’art. 138 della Costituzione nel caso si dovesse
varare una legge elettorale politica
con sistema maggioritario
Le possibili revisioni della Costituzione,
delle quali si è sin qui discusso, possono avvenire solo attraverso lo strumento dell’art. 138 della Costituzione.
In sede costituente l’art. 138, nella
sua attuale stesura, è stato formulato
sul presupposto che il sistema elettorale politico fosse strettamente proporzionale, come già era avvenuto subito dopo la Prima guerra mondiale nel
1919. Ma se il sistema elettorale nelle
elezioni del Parlamento assume, sia pur
parzialmente, un profilo maggioritario,
l’art. 138 della Costituzione, che disciplina la revisione costituzionale, deve
essere oggetto, a mio avviso, di una revisione. L’art. 138 prevede infatti, nella sua ultima parte, che la legge di revisione è senz’altro approvata se, sottoposta al voto di ciascuna delle Camere con successive deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi, è approvata nella seconda votazione di
ciascuna Camera a maggioranza di due
terzi dei suoi componenti. Se invece la
legge di revisione costituzionale è
adottata da ciascuna Camera (sempre
con intervallo non minore di tre mesi)
solo con la maggioranza assoluta dei
componenti nella seconda votazione,
può essere proposta, entro tre mesi dalla pubblicazione, domanda di referendum popolare o da un quinto dei membri di una Camera o da 500 mila elettori o da cinque consigli regionali. Ora,
se la legge elettorale dovesse mantenere un profilo anche solo in parte maggioritario, sarebbe opportuna, o forse necessaria, una revisione dell’art. 138. Se infatti non si vogliono ribaltare i principi fondamentali della Costituzione, dovrebbe
essere impedito alla stessa maggioranza parlamentare che consente di dare la
fiducia al governo, di procedere poi alla
revisione di una norma costituzionale in
una Costituzione definita rigida.
*GIOVANNI GALLONI,
saggista e politico
31
SANITA’ LUCI E OMBRE
Il collo di bottiglia rappresentato dalle strutture di prima
accoglienza. Ma un’assistenza
adeguata h 24 non è affatto
di MARIA PIA GARAVAGLIA*
un’utopia
S.O.S
inferno
A fronte di oltre 23 milioni di accessi
annui ai Pronto soccorso, solo il 5% si
traduce in ricoveri per urgenza
32
Per gli anziani occorre una accurata
programmazione fondata su dati epidemiologici e
demografici, attrezzando il territorio con Rsa
pronto soccorso
Le immagini che la televisione ha diffuso sul Pronto soccorso del Policlinico Umberto I, e di altri come quello del San Camillo, hanno suscitato grande indignazione e timore tra i cittadini, che temono di dover ricorrere a ricoveri in tali gironi infernali. Come sempre, problemi reali e complessi, attraverso
la divulgazione mediatica acquistano una dimensione che rende meno facile l’analisi e le proposte. Il ministro Balduzzi, utilizzando correttamente gli strumenti a sua disposizione di carattere ispettivo, aiuterà il sistema a reagire in modo che i servizi di prima emergenza siano adeguati alle esigenze. Appunto
di questo si tratta: delle effettive esigenze di accesso al Pronto soccorso. È questo il punto di maggior crisi di un ospedale e la sua utilizzazione è consequenziale a una buona programmazione dei ricoveri e della gestione dei posti letto ospedalieri. I dati sono stati più volte evocati. A fronte di oltre 23
milioni di accessi annui ai reparti di Pronto soccorso, solo il 5%
dà origine all’iter di ricovero per urgenza. Il nostro sistema sanitario, che è tra i più qualificati al mondo, soffre però della cultura consumistica in sanità dei suoi utenti potenziali. Come è
noto, ci sono vari gradi di urgenza-emergenza (anche questa
è un’anomalia terminologica italiana, perché basterebbe l’urgenza) contrassegnati dai codici rosso, bianco, giallo… Purtroppo al Pronto soccorso degli ospedali si affollano, soprattutto di notte, il sabato e la domenica, i cittadini che temono
31
SANITA’ LUCI E OMBRE
di non trovare il medico curante. Inoltre il Pronto soccorso garantisce una serie di interventi diagnostici per i quali non si deve contribuire con il ticket, riuscendo anche a saltare le spesso intasate liste di attesa. Finora ho illustrato comportamenti anomali, ma che
non possono essere gli unici che, una volta rimossi, consentano una
migliore utilizzazione dei servizi di urgenza. Premesso che, soprattutto in inverno e nelle città dove gli ospedali sono i più grandi e rinomati accade quanto abbiamo è stato denunciato dalla cronaca
e che, invece, altre situazioni sono mediamente accettabili e di buona qualità, urge ridefinire con accuratezza quali e quanti Pronto soccorso devono esistere e in quali ospedali. Tutto ciò perché deve esserci un congruo numero di posti letto nelle retrovie dei dipartimenti
di urgenza che coordinino tutte le aree diagnostiche. In altri ospedali invece, dove non c’è un dipartimento di emergenza, il numero
dei posti letto deve essere perequato alle specializzazioni in esso
afferenti. Indubbiamente, bisogna agire prima di arrivare al Pronto
soccorso con azioni selettive affidate ai medici curanti di medicina
generale oppure alle centrali del 118 che, quando sono attivate attraverso i medici di guardia, siano in grado di indirizzare l’ambulanza
al presidio più idoneo, evitando perdite di tempo in percorsi resi inutili, con un calvario da ospedale a ospedale che, talvolta, si risolve
anche in una drammatica situazione di ritardo assistenziale con esiti infausti. Un ulteriore elemento programmatico coinvolge la situazione della popolazione anziana che, soprattutto nella stagione invernale, è la più bisognosa di ricoveri, non per acuzie. La situazione si può risolvere con una accurata programmazione fondata su
dati epidemiologici e demografici, attrezzando il territorio con presidi dedicati (Residenze sanitarie assistenziali). Da quanti anni stiamo ripetendo queste affermazioni? Purtroppo non basta il governo Monti, tecnico, per ottenere dalle regioni che svolgano i loro compiti istituzionali, affidati dal titolo V della Costituzione e delegati dal
decreto legislativo 517 del 1993. La regionalizzazione avrebbe dovuto rimediare al municipalismo ospedaliero (ogni sindaco vuole l’ospedale nel suo paese) e programmare l’integrazione dei servizi ospedalieri, territoriali e domiciliari, con quelli sociali, per realizzare le finalità del Servizio sanitario nazionale: prevenzione, cura e riabilita-
manifestanti mimano i disservizi
ospedalieri ma ciò che occorre programmare è
l’integrazione di questi servizi con quelli
territoriale e domiciliari
zione. Finita la polemica sui Pronto soccorso, non appena qualche opinion leader solleverà il dramma delle lunghe liste d’attesa
per l’accoglienza in strutture per malati gravi non autosufficienti,
ci troveremo altri servizi televisivi che ci presenteranno altri inferni… La politica dovrebbe aver appreso dal metodo Monti che è
meglio il consenso per le soluzioni trovate ai problemi, anziché quello ottenuto col quieto vivere, senza disturbare gli interessi consolidati di tutti i tecnocrati interni alla gestione del sistema sanitario.
In questa ottica è quanto mai necessario valorizzare il merito, la
qualità e la capacità manageriale a tutti i livelli. I direttori generali
siano scelti e valutati per qualità dimostrate e non per collegamento
partitico al politico di turno. Al Ministero chiediamo criteri di valutazione oggettivi. I medici di famiglia siano reperibili 24 ore su 24
ed esercitino l’arte che conoscono senza inviare acriticamente i pazienti all’ospedale. I cittadini usino il sistema sanitario nazionale con
giudizio. Una domanda, da anni mi frulla per la testa e mi angustia il cuore: se le centrali elettriche funzionano giorno e notte, perché gli ospedali no? Se si tratta di contratti per il personale e di costi, c’è chi sa come la spesa sanitaria possa essere mantenuta sotto controllo se ciascuno fa la sua parte.
*MARIAPIA GARAVAGLIA, deputato
quando l’informazione invece di
aiutare a comprendere i problemi
li strumentalizza ai fini del
sensazionalismo
34
Occorre valorizzare il merito, la qualità e la capacità manageriale a tutti i livelli. I medici di famiglia siano reperibili
24 ore su 24 e i cittadini usino con giudizio il sistema sanitario nazionale
CASO THIESSENKRUP
eternit
sentenza storica
di DONATELLA FERRANTI*
Grazie al lavoro della Magistratura
si è compiuto un fondamentale
passo in avanti nella tutela di diritti
costituzionalmente garantiti: il lavoro e la salute
36
La sentenza pronunciata il 13 febbraio 2012 a Torino ha accertato, per la prima volta al mondo, che le migliaia di morti dovute alle polveri d’amianto non debbono considerarsi una dolorosa
necessità, il conto da pagare a fronte del progresso tecnologico, ma rappresentano una conseguenza addirittura prevista, con
accettazione del rischio, di una condotta imprenditoriale basata esclusivamente sulla logica del profitto: con ribaltamento pieno dell’ordine di priorità imposto dall’art.41 della Costituzione.
Si tratta di una verità importante che serve a individuare responsabilità penali e che valorizza un principio fondamentale della nostra Costituzione, che vede nel lavoro un mezzo di promozione umana e sociale, garanzia per il raggiungimento di un’esistenza “libera e dignitosa”. Ma – giustamente – è stato detto
che un disastro come quello accertato a Torino non si produce
per colpa degli imprenditori soltanto. La storia dell’amianto è segnata da un’impressionante serie di omissioni: di misure di protezione, di rilevazioni e di controlli; di adeguate previsioni nel sistema assicurativo obbligatorio; di pagamenti di premi da parte dei datori di lavoro per mascherare o tacitare i rischi della salute. Dopo una condanna nel 1990 emessa in sede comunitaria per omesso recepimento della direttiva CEE 477/1983, lo Stato italiano ha disciplinato l’uso dell’amianto con il d.lgs. n.
277/1991, e poi con la legge n. 257 del 1992, decidendo di ban-
dire la produzione e l’utilizzo di amianto e di corrispondere un
indennizzo attraverso una maggiorazione dei contributi previdenziali a chi era stato sottoposto da più di dieci anni alla sostanza, nella assoluta mancanza di cautele atte alla informazione
e protezione. Circa 600 mila sono state le domande presentate dai lavoratori esposti per più di dieci anni, ai fini del beneficio che può definirsi di risarcimento previdenziale, perché anche senza malattia un danno vi è comunque per chi è stato esposto all’amianto. Ma dopo la legge del 1992 la giurisprudenza si
è prodigata per mantenere una interpretazione in chiave restrittiva, per evitare un eccessivo carico sulle casse dello Stato. La Commissione Lavoro del Senato, il 22 luglio 1997, concludendo le indagini sulla salute nei luoghi di lavoro, osservava: “Benché sia noto che l’impiego di tale sostanza sia
all’origine dei tumori dell’apparato respiratorio e che l’utilizzo eccessivo che se ne è fatto in passato avrebbe determinato circa 4000 casi di tumore di origine professionale all’anno, i riconoscimenti di tumori come malattia professionale sono stati una decina l’anno”. Sul versante del processo penale, poi, la elevata cifra dei morti non ha generato spesso controlli diffusi e coordinati da parte degli inquirenti; solo in
alcune procure sono state avviate inchieste per accertare la responsabilità penale per la catena infinita di vittime del lavoro.
La storia dell’amianto è segnata
da una lunga serie di omissioni
La Costituzione concepisce il lavoro
come mezzo di promozione umana e
gjghjghj
sociale, garanzia per il raggiungimento
nelle misure di protezione e nei
sistemi assicurativi, oltre ai
rischi della salute
di un’esistenza “libera e dignitosa”
L’organizzazione in pool garantisce
l’efficienza e l’efficacia del sistema
giudiziario
La sentenza del tribunale di Torino sulla vicenda dell’Eternit ha un’importanza non solo per il diritto ma per i riflessi sociali e politici e impone di interrogarsi sulla interazione di molteplici aspetti del nostro ordinamento, che interessa il diritto penale, civile, previdenziale, processuale, comunitario, ambientale, urbanistico e l’aspetto
medico-legale. Ciò in quanto non solo ripropone anche la drammaticità e la dimensione nazionale della problematica dell’amianto, ma valorizza il tema dell’organizzazione come strumento volto a garantire l’efficienza e l’efficacia del sistema giudiziario; la modalità organizzativa che ha prodotto notevoli risultati consiste nella distribuzione dei magistrati in pool specialistici, che assicurano
le necessarie sinergie, l’uniformità dell’intervento nonché la possibilità di destinare risorse umane adeguate all’attività investigativa. La specializzazione è un elemento fondamentale per il conseguimento di risultati positivi: alcuni uffici professionali, nell’ambito dell’avvocatura, ne fanno una vera e propria ossessione, restringendo quanto più possibile l’ambito specialistico. In una Procura questo livello di parcellizzazione è impossibile, ma indubbiamente la costituzione di un pool può produrre ottimi risultati, come
si può evincere dall’esito dei processi Thyssen-Krupp ed Eternit.
Altra problematica riguarda la qualità della legislazione in materia,
che è adeguata e migliore della pur efficace normativa varata negli anni Cinquanta. Il problema fondamentale riguarda la manca-
ta applicazione della legge e la carenza dei controlli affidati agli organi di vigilanza e alla magistratura. L’intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della sicurezza sul lavoro è ancora largamente inadeguato: vi sono aree del paese in cui i processi in materia di sicurezza non si svolgono, e altre situazioni in cui essi si svolgono
con una lentezza tale che porta spesso alla prescrizione di reati anche molto gravi. Questa situazione produce conseguenze devastanti, diffondendo indifferenza verso la problematica della sicurezza e un’inquietante impressione di impunità in chi danneggia i
lavoratori e le imprese virtuose, che subiscono la concorrenza sleale di quanti violano la normativa vigente nella quasi certezza di non
incorrere in alcun tipo di sanzione. Anche la nomina di consulenti, che può rilevarsi essenziale per l’esito del processo, diventa in
alcuni contesti estremamente difficoltosa.
Quali soluzioni per assicurare l’applicazione della legge e i controlli?
L’istituzione di una Procura nazionale è stata suggerita in un’audizione al Senato dal procuratore della repubblica di Torino Caselli
e dal procuratore aggiunto Guariniello, finalizzata alla realizzazione di indagini incisive e all’accertamento dei responsabili delle grandi tragedie che continuano a verificarsi, nonché per garantire la presenza di pubblici ministeri particolarmente esperti nella materia. In
secondo luogo sarebbe possibile non limitarsi a operare in seguito
a tragedie già consumate, ma svolgere azioni sistematiche e organiche di prevenzione dei problemi che maggiormente insidiaLa politica deve far
sì che il riconoscimento
dei diritti delle
vittime del lavoro non
sia un unicum ma diventi
una certezza giuridica
CASO THIESSENKRUP
senzialmente di studio. L’osservatorio persegue scopi diversi, non meno importanti, consistenti nell’individuazione
di responsabilità ‒ anche la vicenda Eternit si origina dall’attività dell’osservatorio ‒ nella garanzia del risarcimento
alle famiglie delle vittime e nell’agevolazione della prevenzione. I casi segnalati, infatti, consentono spesso di individuare sedi insospettabili di esposizione ad agenti cancerogeni. L’aumento delle denunce all’Inail di casi di tumori
professionali, l’esercizio generalizzato dell’azione di regresso,
che consente all’ente assicuratore di recuperare risorse, può
anche provocare l’effetto di incentivare le imprese a tutelare meglio la sicurezza e l’igiene nei luoghi di lavoro, sia pure
per finalità economiche.
Necessaria l’uniformità
di comportamenti delle Procure
su casi analoghi
no la sicurezza del lavoro in violazione delle norme penalmente
sanzionate. Una terza finalità da
perseguire consisterebbe nell’adozione di metodologie di indagine innovative, poiché le procedure abituali si sono rivelate ampiamente superate. I processi Thyssen-Krupp ed Eternit hanno messo in luce la necessità di metodi
più penetranti di indagine, che non si fermino all’accertamento della responsabilità dei livelli più bassi della gerarchia aziendale, ma
vadano a fare chiarezza sui centri decisionali dove si definiscono le politiche anche per quanto riguarda la sicurezza. A questo
scopo, si sono rivelati molto fruttuosi atti come la perquisizione,
riferita anche ai computer e supporti informatici ovvero ai server
accessibili dalle sedi aziendali. Proprio queste nuove metodologie di indagine hanno condotto in alcuni casi a contestare il dolo
eventuale. Un altro punto essenziale riguarda la possibilità di estendere a tutto il territorio nazionale la ricerca dei tumori professionali. L’eziologia occupazionale dei tumori è rimasta a lungo misconosciuta: presso la Procura della Repubblica di Torino è stato creato un osservatorio sui tumori professionali per individuare casi che rimarrebbero altrimenti ignoti. Sono state prese in considerazione le patologie più note e, su ogni caso refertato dai medici, l’osservatorio verifica la sussistenza dell’esposizione ad agenti patogeni. Sono stati analizzati 25.981 casi, riguardanti 1.629
aziende facenti capo a 264 comparti; sono risultati prevalenti i tumori vescicali ‒ 20.201 ‒ ai quali si aggiungono 1.936 mesoteliomi
pleurici, 169 mesoteliomi peritoniali, 576 tumori alle cavità nasali. All’esito degli accertamenti, su 25.981 casi, 15.673 sono risultati con esposizioni lavorative. Occorre altresì considerare che in
varie regioni sono istituiti i registri dei tumori e dei mesoteliomi che
però, diversamente dall’osservatorio, si prefiggono finalità es-
38
È altresì evidente che l’estensione da Torino a tutto il territorio nazionale dell’esperienza dell’osservatorio potrebbe
produrre risultati estremamente importanti. Non è infatti infrequente il caso di malattie professionali che si verificano
tra i lavoratori di aziende facenti capo alla medesima società e che non coinvolgono pertanto una sola zona. In questi casi, occorre evitare comportamenti delle Procure
coinvolte di differente incisività e valutazioni troppo eterogenee, per cui una stessa società che effettua la stessa lavorazione, con livelli di nocività analoghi in stabilimenti diversi, può subire un processo per iniziativa di una Procura, mentre un’altra può chiedere l’archiviazione per gli stessi fatti. Ci vuole l’attivazione massima del coordinamento
di indagini collegate e della formazione professionale di magistrati e forze di polizia improntata a metodologie analoghe. Nei processi Thyssen-Krupp ed Eternit l’accusa
mossa ai vertici dell’impresa non è stata soltanto quella tradizionale dei delitti di omicidio o lesione personale, ma ha
puntato su altre ipotesi di reato, già previste dal Codice penale del 1930 ma mai contestate, quali l’omissione dolosa di cautele antinfortunistiche e il disastro. Queste ipotesi di reato non sono state prese in considerazione in altri
casi perché il loro accertamento è particolarmente complesso e richiede tecniche investigative sofisticate, quali possono essere assicurate soltanto da un’organizzazione
adeguatamente dotata di risorse umane e materiali. Le interpretazioni e applicazioni delle norme di sicurezza non sempre sono collimanti, con ricadute negative sia sui lavoratori
sia sulle imprese. Anche gli organi di vigilanza previsti dall’articolo 13, comma 1-bis del decreto legislativo n. 81 del
2008, dal punto di vista della efficacia dovrebbero garantire la terzietà dei servizi ispettivi che tendono a identificarsi
con il datore di lavoro.
*DONATELLA FERRANTI, deputato
Cosa insegna la vicenda
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L’esperienza torinese mostra l’utilità della riunione periodica
tenuta dalla Procura con gli organismi di vigilanza, che consente di chiarire dubbi e promuovere la necessaria uniformità
di comportamenti. Occorre inoltre porre fine all’attuale, larga
disapplicazione del sistema di responsabilità amministrativa
delle società, introdotto dal decreto legislativo n. 81. Finora,
la normativa in materia si è rilevata di difficile attuazione per
la complessità degli accertamenti circa l’effettivo adempimento degli obblighi di sicurezza da parte delle imprese. Un
altro punto rilevante riguarda i rapporti tra le Procure e l’Inail: l’articolo 61 del decreto legislativo n. 81 prescrive che
in caso di esercizio dell’azione penale il pubblico ministero
ne dia notizia all’Istituto, ai fini della costituzione di parte
civile per l’esercizio dell’azione di regresso. Molte Procure
disattendono questa norma, per difficoltà organizzative che
potrebbero essere agevolmente superate in presenza di un organismo a carattere nazionale. Altra questione è data dalla
semplificazione dei non sempre facili rapporti con le autorità
giudiziarie degli altri Paesi, rapporti necessari nei casi di infortuni che si verifichino in stabilimenti posti alle dipendenze
di una società multinazionale con sede all’estero. Come dimostra la vicenda Eternit, le risposte alle rogatorie internazionali giungono tardivamente e spesso non sono
soddisfacenti. In generale, come segnalato dal dottor Guariniello, occorre che la magistratura inquirente comprenda che
i processi per la violazione delle norme sulla sicurezza sul lavoro sono altrettanto importanti di quelli per criminalità organizzata o per terrorismo e, in alcuni casi, presentano
maggiore complessità. Dall’esperienza maturata nel corso
dell’inchiesta parlamentare è stato evidenziato che il confronto con altri Paesi europei ha consentito di verificare che
se in Francia il tradizionale centralismo giustifica e agevola
una gestione verticistica del sistema di sicurezza, anche la
Germania, paese a ordinamento federale, si è incamminata,
nello stesso ambito, lungo la strada della centralizzazione. Il
sistema di prevenzione e sicurezza italiano non deve essere
globalmente riconsiderato; è stata promossa un’indagine sulla
realtà delle diverse regioni per comprendere come e in che
misura sono state attuate le disposizioni in materia di coordinamento contenute nel decreto legislativo n. 81 del 2008.
Emerge un quadro differenziato, nel quale le Regioni operano
sulla base di impostazioni diverse, così come sovente anche
l’azione delle Asl di una stessa regione si presenta notevolmente differenziata. Pertanto, le preoccupazioni del procuratore Guariniello sulla eterogeneità e frammentazione
dell’azione giudiziaria possono essere estese anche all’ambito
amministrativo. Si avverte l’esigenza di introdurre un indirizzo uniforme e soprattutto un’attività di efficace coordinamento per affrontare i temi della salute e della sicurezza.
Un osservatorio nazionale consentirebbe di indirizzare l’attività della magistratura, sfoltirla e razionalizzarla, indagando
solo sui casi che poggino su presupposti scientifici attendibili. Le decisioni riguardanti la Thyssen ed Eternit hanno
modificato radicati convincimenti sull’assenza di ipotesi di
reato per le malattie professionali. Analoga considerazione
vale per il dolo eventuale, per l’accertamento del quale occorrono adeguate ricerche sulla politica aziendale della sicurezza. Ricerche che, nei casi richiamati, hanno prodotto
effetti importanti. Occorre diffondere la cultura della sicurezza, che deve essere affiancata da un affinamento delle
tecniche di indagine, promuovendo la diffusione delle
pratiche più virtuose in sede di prevenzione e di repressione
delle condotte illecite. Comunque, grazie all’opera della magistratura, si è compiuto ancora una volta un clamoroso passo
avanti nella tutela di diritti costituzionalmente garantiti: il
diritto al lavoro e il diritto alla salute. Ora la politica deve
fare la sua parte e cercare di individuare le lacune legislative
e amministrative da colmare per far sì che il riconoscimento
dei diritti delle vittime del lavoro e delle malattie professionali non sia un unicum e, soprattutto, affinché il progresso, la
crescita economica, il diritto di impresa non siano mai a discapito del diritto alla salute del lavoratore.
PONTIDA story
Lega
il declino del capo
di MIMMO SACCO
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lombardo, tra B
Il Carroccio ha fatto parlare molto di sé
in quest’ultimo periodo.Tre i fatti fondamentali: la crisi dei rapporti tra Bossi e
Berlusconi, sfociata nella rottura (per il rifiuto del Cavaliere di lasciare Monti) , lo
scandalo che scuote la Lega, a causa
dell’indagine per corruzione a carico del
presidente del Consiglio regionale della Lombardia, Boni: “vogliono sfasciarmi il partito”, ruggisce Bossi. Il terzo fatto è il violento scontro interno tra “il cerchio magico” dei bossiani e i “barbari sognanti” di Maroni. Sommovimenti che
40
avevano spinto alcuni osservatori e politologi a domandarsi: la Lega “si slega?”.
Non mi pare siamo a questo punto finora
e proverò a esporre il possibile percorso interno per evitare la frattura definitiva, anche se in questa fase politica la
Lega sembra affetta dal “male oscuro”
delle divisioni. A riattizzare un fuoco mai
spento, acceso molti mesi fa, c’è stata
prima la brusca estromissione di Tosi
(uomo forte del carroccio maroniano) dall’incarico di vicepresidente del parlamento padano. E a distanza di qualche
giorno, il “no” esplicito di Bossi, sempre
nei confronti del sindaco di Verona, di
presentare una sua lista alle prossime
elezioni amministrative di maggio. Per
una adeguata comprensione del dissidio
interno, è opportuno descrivere la sequenza degli avvenimenti. Nella fase incandescente erano volate parole molto
forti anche contro Maroni, tacciato addirittura di “tradimento”. Poi, a seguito di
incontri e “chiarimenti precari” tra Bossi e Bobo sembrava subentrato, repentino e inatteso, il “sereno, molto variabi-
le”, evidenziato plasticamente nel “Maroni day” a Varese, capitale della Lega,
dall’abbraccio ostentato tra il Capo e lo
storico delfino. Ma la sorridente “foto di
gruppo” ha, piuttosto, il sapore di un
messaggio verso una base delusa, disorientata e gonfia d’ira e, al tempo stesso, quello di “épater le bourgeois”, sbalordire l’uomo comune che non li conosce da vicino. Il tutto sembra rivestire
piuttosto la fisionomia di una tregua apparente nel tentativo di ricomporre i
cocci di un vaso che da tempo mostra
vistose crepe. Ma i fischi a Bossi a Milano sono stati la riprova che la temperatura nel Carroccio resta molto alta e
anzi segnano il declino del Capo. Il
nella logica delle cose) ma, al tempo
stesso, dà il benservito al cerchio magico, i fedelissimi del Capo. Lo ha fatto,
a Varese, con toni fermi e aggressivi: “Bisogna cacciare chi mi voleva cacciare”.
Il primo a essere sacrificato è stato Reguzzoni, antimaroniano viscerale e uomo
di punta del cerchio magico. Al suo posto, come capogruppo alla Camera, il veneto Paolo Dozzo. Il designato ha avuto l’approvazione convinta di Maroni: la
considera la scelta migliore. Le avvisaglie delle forti tensioni e dello scontro tra
le fazioni andavano avanti già da tempo,
con un percorso a volte carsico, altre volte platealmente scoperto. La frattura nella Lega era esplosa in maniera deva-
La richiesta di liberarsi di Maroni
era già affiorata la scorsa estate tra
alcuni falchi del cerchio magico
un cartello della Lega: “Maroni in Padania Cosentino in Tanzania”. Maroni, d’altronde, in quei giorni si era spinto a evocare “la Lega degli onesti” contrapposta
alla “Lega degli intrallazzi” e dei conti all’estero (in Tanzania). A suo giudizio, in
sostanza, il Carroccio è corrotto dal
potere. Ma è fallita la prova di forza, il tentativo maldestro e intempestivo, soprattutto punitivo, di mettere fuori dal movimento l’ex ministro dell’Interno con un
atto di imperio. Da Maroni il tentativo è
stato considerato una sorta di fatwa, che
gli avrebbe impedito di partecipare a
eventi politici sul territorio. Il leader
maximo ha dovuto rimangiarsi il diktat a
causa della pronta reazione della base leghista. Lo stesso Capo padano ha ammesso di essere rimasto colpito dalla reazione dei militanti. Ma il vecchio leone,
con il fiuto politico che non gli ha mai fatLa strategia
dell’opposizione risulta
sopportabile
finché viene esercitata
contro il governo tecnico:
ma che succede dopo?
compromesso raggiunto, per di più precario, è valso a evitare, in prospettiva, una
rottura insanabile. Il vento soffia, oggi, decisamente a favore di Maroni. Che parla e si muove da vincitore, anche se l’esito finale della partita non si deciderà domani. Bobo accoglie e apre a Bossi (era
stante con la vicenda Cosentino alla Camera. La scelta di Maroni di votare per
l’arresto del parlamentare del Pdl come richiesto dalla magistratura - è stata lacerante per il Carroccio e ha colpito la capacità di ricatto esercitata da Berlusconi verso Bossi. Molto emblematico
to difetto, ha fiutato rapidamente l’orientamento del vento e si è affrettato ad
adeguarsi. La richiesta di “liberarsi” di
Maroni era affiorata già la scorsa estate tra alcuni falchi del cerchio magico. Lo
scontro era emerso già a Varese dove,
a ottobre, il candidato bossiano Mauri-
41
PONTIDA story
lio Canton è stato proclamato segretario senza essere stato votato, suscitando la vivace protesta dei militanti. A questo punto, il chiarimento di fondo dovrebbe avvenire al Congresso chiesto da
Maroni. Una mossa prevedibile, in una
fase di confusa e grave crisi. Indubbiamente a questa fondamentale scadenza non si potrà arrivare se non sulla base
di “un’intesa di facciata” tra il fondatore del Carroccio e il suo storico delfino.
Bisogna risalire indietro di molti anni, al
’95, per ritrovare una analoga crisi di rapporto tra i due protagonisti del Carroccio, ma mai prima d’ora i due erano entrati così in rotta di collisione. Del resto
a Maroni non piace affatto offrire l’immagine dell’uomo di rottura, non rientra
nel suo Dna e, d’altronde, il loro peso all’interno del partito oggi non differisce di
molto: 33% Bossi, 29% Maroni. C’è chi
ritiene che le due figure non siano alternative e competitive ma complementari. Il populista (Bossi) e il governativo (Maroni). Con il primo che recita (ma è solo
questo?) il ruolo del partner fedele a Berlusconi, mentre l’ex ministro dell’Interno
si accredita come il leader della Lega di
opposizione. Non so se questa sia la foto
che entrambi vogliano sia diffusa all’esterno. Comunque non sarà facile che
leader così diversi possano coabitare a
lungo sullo stesso Carroccio. Si può ipotizzare una possibile via d’uscita: offrire
al Congresso a Bossi che, a giusto titolo, viene considerato il “padre nobile”, il
ruolo di presidente (carica che finora non
esiste) e a Maroni la guida del partito
come segretario. Il modello carismatico
ma anche autoritario e la conduzione personalistica e in parte familistica esistente all’interno del cerchio magico non
regge più e Bossi stenta a suscitare entusiasmo e passione.
È bene poi osservare che alla “guerra di
secessione” era subentrata la “guerra di
successione” dinastica a causa di Renzo Bossi, figlio del Capo. L’investitura del
Trota, che faceva parte del libro dei sogni, è destinata a entrare in un cono
d’ombra definitivo, alias a dissolversi.
Come sono lontani i riti celtici con le cerimonie alle sorgenti del Po! La Lega deve
affrontare, in questa fase, un complesso problema politico. La strategia del-
l’opposizione risulta sopportabile finché
viene esercitata contro il governo. Lo si
è visto anche nella manifestazione di Milano dove Bossi, con linguaggio truculento, aveva parlato di governo “infame”
e aveva lanciato un ultimatum a Berlusconi: o lascia il governo o cade Formigoni che, invece, è tuttora in piedi. Ma
come tornare alla “lotta” dopo tanti
anni di “governo”? Come riscoprirsi antiberlusconiani dopo tredici anni di fedele
alleanza con l’uomo di Arcore? Il primo
appuntamento importante saranno le
prossime elezioni amministrative. Bossi ha ribadito il suo no all’alleanza con
Berlusconi e insiste per la corsa solitaria. C’è chi dice che tenti di esorcizzare l’incubo di un possibile flop. Ma
dopo il giro di boa di questa scadenza, si staglia l’appuntamento più atteso: i congressi nazionali, cioè regionali. È lì che si gioca la grossa partita interna della leadership.
Alla “guerra di
secessione” è subentrata
la “guerra di successione”
dinastica a causa di Renzo
Bossi
Come riscoprirsi
tredici anni di fedele
antiberlusconiani dopo
alleanza con l’uomo di Arcore?
42
EMERGENZA
GRECIA
Plaka, il quartiere vecchio in cima
i siti turistici
a cui sorge l’Acropoli, e
continuano l’attività ma chiunque
attraversi il centro di Atene
ra città
in bus o a piedi, percorre un’alt
CRISI
Atene, metropoli fantasma
Per non finire “come la Grecia” bisogna applicare ai Paesi
indebitati dell’Europa la ricetta Monti
Intervista a Dimitri Deliolanes di BEATRICE NENCHA
Quando è stato l’ultima volta in Grecia e che immagini la
hanno colpita maggiormente?
L’ultima volta, a settembre, mi ha colpito la desolazione del
centro di Atene. Una città di 5 milioni di abitanti, una grande metropoli, con un centro in balia di criminali, tossicodipendenti, sbandati. I negozi chiusi, pochi passanti impauriti, case cadenti, immondizia. Insomma, una città abbandonata. La crisi ha comportato la desertificazione di tutto il cuore commerciale di Atene, a cui si sono aggiunte le
devastazioni delle proteste. Rimangono aperti solo gli uffici pubblici, poche banche e qualche sporadico negozio,
che resiste in mezzo al caos. Plaka, il quartiere vecchio in
cima a cui sorge l’Acropoli, e i siti turistici continuano l’attività tranquillamente ma chiunque attraversi il centro di Atene, in bus o a piedi, percorre una città devastata.
Le immagini trasmesse dai media stranieri rappresentano
la complessità della situazione greca?
Gli scontri di piazza sono stati visti dai media come la ribellione del popolo greco alle nuove misure di austerità. La verità è che la protesta si manifesta tuttora in forma pacifica. Quella del 22 gennaio, per esempio, era sottotono. Le violenze appartengono agli anarchici-insurrezionalisti, che avevano già scatenato devastazioni nel centro di Atene nel dicembre 2008, prima della crisi, in occasione dell’assassinio dello studente quin-
44
dicenne Alexis Grigoropoulos. Sono violenze di una ben precisa area politica, diffusa tra la gioventù greca. Sinora il malessere greco si è manifestato sempre in forme pacifiche e questo non è un periodo di proteste ma di grande depressione
e imbarazzo dei cittadini perché, nella stessa protesta, non vedono una realistica alternativa. Anche perché chi guida la protesta, i sindacati e i partiti della sinistra, non sono convincenti
nel proporre un’alternativa.
Oltre alle colpe dei governanti, ci sono responsabilità
dei cittadini greci?
Undici milioni di greci concordano sul fatto che le responsabilità politiche sono da attribuire di pari grado ai due partiti che
hanno governato nell’ultimo decennio: il Partito socialista Pasok e i conservatori di Nuova democrazia. I socialisti per aver
aderito all’euro falsificando i conti e non informando la popolazione sul fatto che entrare nell’euro significasse accettare anche un rigore di bilancio. La popolazione è rimasta sorpresa di come all’improvviso, prima il governo conservatore
fino all’ottobre 2009, e in seguito i socialisti che hanno vinto
le elezioni con lo slogan “I soldi ci sono”, siano stati costretti a prendere misure di austerità e che la situazione reale fosse tanto diversa da come questi due partiti di governo l’avevano presentata. Ecco perché tutti i greci sono d’accordo nell’attribuire le colpe alla classe politica che ha governato.
fine di un’epoca ?
Riportiamo un breve stralcio della parte conclusiva del saggio di Dimitrios Keramidas, dottore in Missiologia della Pontificia Università Gregoriana di
Roma, apparso recentemente sulla rivista dei Gesuiti di Milano “Aggiornamenti Sociali”.
C’è stata connivenza tra i principali schieramenti politici
nell’omettere lo stato di salute del Paese?
Come sistema di consenso elettorale, questi due partiti usano lo stesso metodo: ognuno ha la sua clientela, alla quale chiede il voto, e in cambio garantisce l’assunzione nel settore pubblico. E questo spiega il perché sia così gonfio di gente inutile. Inoltre si garantiva, in termini giuridici, una certa “anomia”.
L’indifferenza verso la legge: un proliferare di abusivismo, la
diffusione dell’evasione fiscale, una diffusissima corruzione verso lo Stato. Questa è la situazione che, a una buona percentuale della popolazione, stava bene. E tuttora molti di loro non
vedono alcun motivo per cambiare.
Alle prossime elezioni di fine aprile, è ipotizzabile una vittoria delle forze populiste e anti europeiste e che quadro
politico si prevede?
Dichiaratamente antieuropeista è il Partito comunista, di ispirazione staliniana. Tutti gli altri partiti sono a favore della permanenza della Grecia nell’euro e nell’Ue. Le forze populiste
si identificano con i due partiti di governo, socialisti e conservatori. Sono loro i primi a usare la tematica populista con
il loro elettorato. In base ai sondaggi avremo un Parlamento
con una molto relativa maggioranza che andrà ai conservatori. Non per premiare il loro malgoverno ma perché una parte dell’elettorato vede in questo voto una garanzia che i 15 mila
Abbiamo cercato di mostrare come il processo di europeizzazione della Grecia, nelle discussioni intellettuali
come nel dibattito popolare, sia stato caratterizzato da
diversi problemi. Se infatti, la Grecia ha sempre cercato
di raggiungere il resto dell’Europa, intraprendendo percorsi di occidentalizzazione, sempre si è mostrata attiva l’altra sua anima che propone, con varie argomentazioni, il “nostos”, ossia la nostalgia e il rimpianto per la patria perduta, per lo spirito dei “padri”, sostituiti da altri riferimenti spirituali estranei alla cultura
greca. Nel nostro caso si tratterebbe della perdita del
topos di Costantinopoli, intendendo la nostalgia per Bisanzio non tanto in senso nazionalistico, quanto piuttosto nel senso della riscoperta di una civiltà autorevole.
Si può ora capire perché entrambe le correnti di pensiero, quella orientalista e quella filo-occidentale, si sentano oggi deluse. Se da una parte infatti si vive nel rimpianto per lo splendore perduto di una civiltà antica e
orgogliosa, spesso accompagnata dal sospetto nei confronti dell’Occidente, dall’altro si ammette che non si
è riusciti a completare le istanze dell’occidentalizzazione.
È per questo che la crisi greca attuale è vissuta come
una crisi epocale, che potrebbe addirittura porre fine
alla Grecia stessa come si è venuta configurando da
quasi due secoli.
(La crisi greca dietro lo specchio, “Aggiornamenti sociali”, n. 1, gennaio 2012)
licenziamenti da attuare entro quest’anno, e i 150 mila entro il 2015
nel settore pubblico, colpiranno in prevalenza l’altra clientela politica, e non loro. Le elezioni avranno una percentuale di voto di
astensione spaventosa, si ipotizza attorno al 30-40%. Avremo una
grande crescita dei tre partiti della sinistra: i comunisti arriveranno
al 12%, al partito della sinistra radicale è accreditato un altro 12%
mentre un impressionante 16-18% alla sinistra democratica. I socialisti sembra crolleranno dal 40% all’8%, ed è a rischio la loro
unità organizzativa. Scontano un forte problema di leadership: Papandreou è screditato ma si comporta come il proprietario del
45
EMERGENZA
GRECIA
Il suo libro, “Come la Grecia”, riprende un’espressione usata dai leader europei, spesso in termini negativi. La Grecia resta un monito per l’Italia e
l’Europa, o il contagio ellenico non fa più paura dopo il maxi prestito di
130 miliardi e la firma dei “Memorandum”?
La Grecia rappresenta il 2,5% del valore dell’euro ed è quindi insignificante in termini di tenuta dell’economia europea. Però è importante perché ha tirato fuori, nella maniera più drammatica, tutte le ambiguità della politica europea. Si è andati avanti nel creare la moneta unica senza corazzarla con l’unità politica. E in
questo vuoto è riemersa la vecchia logica, che come Unione speravamo estinta, delle grandi potenze. Oggi l’azionista di riferimento è Berlino, ma questa è una situazione che
fa male all’Europa, alla Grecia e alla stessa Germania perché consegna la politica europea nelle mani delle promesse populiste e fa riemergere la vecchia arroganza
dei tedeschi, che hanno colmato un vuoto di governance dell’Europa e dell’euro. A questo bisogna porre rimedio e Monti lo sta sottolineando nella maniera
più vigorosa possibile.
In questo quadro così fosco per Atene, intravede un
barlume di luce per il suo popolo?
Dall’estate del 2010 in Grecia c’è la totale liberalizzazione
dei licenziamenti; con le nuove misure lo stipendio base
del settore privato è di 400 euro, in un paese dove i prezzi sono quelli europei e il tasso di inflazione è pari a quelLa denuncia: ” lo statale greco è qualcosa più del
lo dell’Italia. Ad Atene ci sono le code nelle mense dei pone
fo
ca
veri e con il gelo di febbraio hanno aperto le palestre olimun
è
a:
ro Brunett
‘fannullone’ del minist
piche per accogliere migliaia di senzatetto. Abbiamo 3
milioni di persone sotto la soglia della povertà, e intenripulito, di regola venuto dalla remota
do la soglia greca, che è molto più bassa di quella europrovincia, dal greco incerto ma dalle
pea. È un paese ridotto alla miseria, inutilmente. In base a degli
assiomi ideologici neoliberisti perché qualcuno – questo è
i”
amicizie politiche molto potent
il sospetto del popolo greco – vuole depredare la Grecia, applicando una politica di saccheggio e non di aiuti. Se si continua su questa strada, si arriverà non solo al fallimento di AtePasok ed è restio a mollare la poltrona.
ne, che è il male minore a livello internazionale, ma al disfaQueste elezioni avranno ripercussioni sulla stabilità della
cimento della stessa Unione europea, di cui già si intravedonazione, già “commissariata” permanentemente dalla
no i sintomi con il riemergere di stereotipi sugli europei “del
Troika?
sud” contrapposti a quelli “del nord”. Questo culturalmente
è molto pericoloso perché, dopo 70 anni di convivenza paIo non capisco l’utilità di queste elezioni. A chiederle con incifica, ci sono forze che stanno puntando ancora oggi a metsistenza è il leader dei conservatori ma temo che sia una sotere i popoli gli uni contro gli altri.
luzione inutile, se non dannosa. Altrimenti non si capisce perché si sia fatto un governo con un tecnocrate, Papademos, e
Lei che ricetta alternativa applicherebbe al suo Paese?
che cosa ha da offrire questo leader conservatore per portare
avanti una battaglia in favore dello sviluppo. Invece bisogneBisogna trattare la Grecia e tutti i paesi indebitati del sud come
rebbe seguire la strada del governo Monti: non solo manteneè stata trattata in Germania la Ddr al momento dell’unificazione,
re il governo Papademos, ma fare in modo che vengano socon comprensione e aiuti allo sviluppo. Sono convinto che alla
stituiti gli attuali ministri politici con dei tecnocrati, che possafine il buon senso prevarrà, altrimenti sarà la catastrofe. Non
no offrire garanzie di credibilità in questo scenario di crisi.
solo della Grecia, ma di tutta l’Europa.
46
GRECIA
default
di Gabriele Papini
Nonostante il pacchetto
Troika,
di aiuti
tecnico
L’ADESIONE BULGARA ALLO SWAP PROPOSTO DA ATENE HA EVITATO IL DEFAULT E HA
CONVINTO I CREDITORI CHE E’ MEGLIO PERDERE IL 75% OGGI CHE IL 100% DOMANI
Il 20 marzo scade una tranche consistente del debito pubblico greco, pari
a 14 miliardi di euro, e il 29 aprile si
tengono le elezioni politiche nel
Paese. Quali sono i punti di rottura
per la Grecia, considerando le misure
di austerity imposte dalla Troika per
concedere il pacchetto di aiuti da 130
miliardi di euro per evitare il default?
La questione greca continua a essere circondata da una grande incertezza. Il Paese sconta un crollo del Pil iniziato nel
2008 e sulla scia dell’ultimo trimestre
2011, che ha registrato una contrazione
del 7%, si accinge a entrare nel quinto
anno consecutivo di pesante recessio-
ne. Non c’è dubbio che il risanamento fiscale e le misure di riforma strutturale siano ineludibili e nell’interesse della stessa Grecia. Tuttavia, misure draconiane
come quelle imposte dalla Troika, con ulteriori tagli ai salari, riduzione sensibile
delle pensioni e licenziamenti in massa
dei pubblici dipendenti, pongono seri in-
49
“Sarebbe utile rafforzare il fondo Salvastati, aumentandone la dotazione dagli attuali 500 milioni a un miliardo di euro”
EMERGENZA
Giu sep pe
Schlitzer
GRECIA
È docente di
“International Financial
and Foreign Exchange
Markets” presso
l’Università Carlo
Cattaneo di Castellanza.
Ha lavorato presso la
Banca d’Italia, la
Confindustria, il Fondo
monetario internazionale
e la Federazione Abi-Ania.
Attualmente dirige l’Aitec,
Associazione
rappresentativa dei
produttori italiani di
cemento aderente a
Confindustria
terrogativi circa il raggiungimento del
punto di rottura. Con un mercato del lavoro già pesantemente gravato da un
tasso di disoccupazione del 19% e in cui
quasi un giovane su due è senza lavoro, gli scontri e le fiamme di Piazza Syntagma potrebbero rapidamente diffondersi, aprendo le porte a un inquietante
scenario in cui le imminenti elezioni potrebbero avere degli esiti istituzionali
populisti e anti-europeisti.
Come mai Atene sta registrando
performance borsistiche rilevanti, nonostante l’elevato rischio Paese?
Il corso dei titoli azionari non è condizionato soltanto dall’andamento generale
dell’economia, peraltro già ampiamente
scontato dagli investitori privati. È certamente vero che se il mercato è fiducioso sulle prospettive di crescita di un
Paese, generalmente la sua piazza borsistica ne trae il giusto vantaggio. Ugual-
50
mente però sussistono anche motivazioni
di carattere più speculativo. Tra i provvedimenti imposti dalla Troika rientrano
i massici piani di dismissione di aziende
strategiche direttamente controllate dal
governo di Atene. Il fondo statale greco
per le privatizzazioni conta di lavorare a
pieno ritmo già a partire dalle prossime
settimane mettendo in vendita molte delle società più interessanti in mano allo
Stato. Si va dall’azienda pubblica del gas
alla Hellenic Defense Systems, e dalla
compagnia petrolifera governativa al
vecchio aeroporto di Atene. Il rally borsistico degli ultimi tempi è imputabile proprio al flusso di capitali degli investitori
stranieri desiderosi di cogliere l’occasione
d’oro di fare shopping a prezzi di saldo
dei “gioielli” ellenici.
Quali sarebbero gli effetti sull’euro e
sull’Unione economica e monetaria
europea se Atene dovesse uscirne?
E in particolare per l’Italia?
Un’uscita di Atene dall’euro è una soluzione dall’esito incerto. L’esperienza più
recente è quella dell’Argentina nel 2001.
Oltre a ristrutturare pesantemente il
proprio debito estero, l’Argentina abbandonò il regime di cambio fisso
(“currency board”) dando luogo a un
consistente deprezzamento del “peso”.
Dopo un biennio di forte recessione, l’economia riprese a crescere a ritmi sostenuti. Lo stesso potrebbe valere oggi
per la Grecia, che potrebbe recuperare la competitività perduta anche grazie
all’aggiustamento del cambio. C’è però
una fondamentale differenza tra il caso
dell’Argentina e quello attuale della
Grecia, e questa sta negli effetti di
contagio. Mentre nel caso del paese latinoamericano questi furono molto contenuti, nel caso della Grecia un’uscita
dall’euro avrebbe pesanti ripercussioni
sugli altri paesi “deboli” dell’eurozona,
il Portogallo in primis. Gravi conseguenze si avrebbero anche per il nostro
Paese, che dovrebbe fronteggiare nuovamente l’altalenante andamento del
proprio differenziale di rendimento con
il bund tedesco, il famoso spread. Sa-
recessione senza colpire eccessivamente i cittadini?
Vorrei essere chiaro. La via d’uscita primaria per la Grecia sta nell’intraprendere le riforme a lungo rinviate e che da sole
possono consentirle una rilancio duraturo
della competitività. Ma come ho detto
occorre stare attenti a non arrivare al punto di rottura. Oltre a evitare di imporre ulteriori misure di aggiustamento draconiane che rischiano solo di minare il consenso sociale alle riforme, e nei confronti
della stessa costruzione europea, un aiuto potrebbe venire da un rafforzamento
del fondo di salvataggio europeo, il cui
Tra i provvedimenti imposti dalla
Troika ad Atene rientrano i piani di
dismissione di aziende strategiche
controllate dal governo greco
milioni di euro in direzione Germania. Esiste già nei fatti un euro a due
velocità?
Non c’è dubbio che vi sia stato uno spostamento rilevante delle scelte di investimento a favore dei titoli tedeschi, considerati a minor rischio. Tuttavia questo
fenomeno di recente si è ridimensionato
per Italia e Spagna, come dimostra il
calo dei rispettivi spread, mentre resta
importante e potrebbe anche peggiorare
nel caso del Portogallo. La capienza del
fondo europeo salva-stati (Efsf) in questo senso può giocare un ruolo determinante, poiché esso svolge una forma
di “assicurazione” contro i potenziali default, ma allo stato attuale è difficile immaginare che si possa andare oltre il miliardo di euro, per l’opposizione della
Germania. Per quanto riguarda infine l’iL’uscita della Grecia
dall’euro avrebbe pesanti
ripercussioni sugli altri
paesi deboli dell’eurozona,
il Portogallo in primis
rebbe probabilmente a rischio la stessa
moneta unica. Per questo occorre fare
tutto il possibile per non mettere la Grecia nell’angolo e costringerla a uscire dall’eurozona.
capitale potrebbe essere portato a un miliardo di euro invece dei 500 milioni attualmente previsti. Si tratterebbe di un gigantesco “firewall” capace di scoraggiare
ogni tipo di speculazione.
L’intervento del Fondo monetario è
stato spesso criticato perché chiedeva aggiustamenti strutturali
senza guardare quale settore sociale andava a colpire. Nel caso
della Grecia non servirebbero interventi che aiutassero a superare la
L’agenzia Bloomberg, in un editoriale
diffuso in rete il 20 febbraio, stima
che per erigere un “firewall” efficace
servono non meno di 3 miliardi di dollari al cambio attuale con l’euro e che
nel solo mese di dicembre da Italia,
Spagna e Portogallo sono usciti 500
potesi di un euro a due velocità non mi
risulta che sia al momento praticabile.
Si tratterebbe di sdoppiare l’euro, creando un “euro 2” per i paesi deboli dell’eurozona che beneficerebbero di un
cambio svalutato. Potrebbe avere un
senso per la Grecia e il Portogallo.
Ma per l’Italia, se riflettiamo bene, il
cambio non è il vero problema, tant’è
vero che il nostro export va benissimo.
Le ragioni della bassa crescita sono da
ricercare altrove, in particolare nella
bassa produttività.
51
ELEZIONI
USA
Il campo repubblicano si
muove senza bussola ed è
attraversato dalle divisioni
tra i candidati e nella base
del partito
L’ Economist parla di
“lotta fratricida” tra i
due front runner, il
moderato Mitt Romney e
l’ultraconservatore Rick
Santorum
52
Obama
campo
Dopo il Super Tuesday, il
ancora diviso:
repubblicano è
per il presidente
lezione
aumentano le chance di rie
presa economica
ie alla prevista ri
anche graz
(ri)prenota la Casa Bianca
di MIMMO SACCO
La ritrovata fiducia popolare nei suoi confronti è plasticamente esemplificata da
un recente titolo del New York Times:
Why Obama Will Embrace the 99 Percent
che riecheggia chiaramente gli slogans
dei manifestanti Occupy Wall Street.
Questi oppongono l’1% dei privilegiati
che continua ad arricchirsi al 99% della gente comune. Il campo repubblicano si muove, invece, senza bussola ed
è attraversato nelle primarie per la nomination, da laceranti divisioni interne che
rendono obiettivamente debole e confusa la posizione repubblicana di fronte
alla rinnovata forza trainante del Presidente americano.
Al di là della debolezza dei candidati, si
nota che il partito, entrato di slancio in
una stagione elettorale che credeva di
poter dominare, si sta trovando sempre
più smarrito. Per questo motivo continua
ad affiorare il dubbio di non avere ancora
un candidato credibile da opporre al Presidente americano e c’è chi pensa addirittura di ricorrere ad un outsider.
La partita ormai si gioca tra i due front
runners, il moderato Mitt Romney e l’ultraconservatore Rick Santorum che, nei
comizi e nel fiume degli spot televisivi non
si risparmiano colpi bassi e pesanti denigrazioni reciproche. L’arma degli spot
feroci viene ampiamente impiegata tra i
duellanti specialmente da chi più dispone
di grandi risorse finanziarie come l’imprenditore miliardario Romney. L’Economist parla di “lotta fratricida”.
Nel Michigan il primo aveva vinto di stretta misura ma Rick gli ha tenuto testa. Su
Santorum il giudizio del New York Times
è molto severo e netto: “Il suo modo di
pensare è troppo ristretto per poter ambire alla Casa Bianca”. Ma anche nel Par-
tito Repubblicano non sono affatto teneri
con lui. La soluzione Santorum viene
considerata un “suicidio elettorale”.
Era comunque importante che Romney
(dopo le sconfitte a raffica in Minnesota, Colorado e Missouri) non fallisse nel
Michigan. Oltre tutto giocava in casa (vi
è nato e cresciuto). Suo padre fu un Governatore molto amato in questo Stato.
Dire “Romney” in Michigan è come dire
“Kennedy” nel Massachussets.
Ma il SuperTuesday (6 marzo scorso) non
ha risolto la sfida per la nomination repubblicana alla Convention di Tampa in
agosto. Romney ha vinto in sei Stati (tra
cui l’Ohio che ha sempre “previsto” i futuri vincitori), Santorum ne guadagna tre.
La partita appare tuttora aperta.
E veniamo al grande “Favorito”. La macchina elettorale di Obama, ben oleata,
(che ha il suo quartiere generale a Chi-
53
ELEZIONI
USA
cago) si sta muovendo a pieno regime.
Il suo staff tiene a far sapere, con orgoglio: “il nostro sforzo sul terreno e l’uso
della tecnologia faranno sembrare preistoria la campagna del 2008”.
Obama, però, da buon pragmatico sa di
non poter ripetere i toni di quella campagna tutta slancio ed entusiasmo.
Ma le elezioni, in America, si vincono o
si perdono, da sempre, sui temi dell’economia e la ripresa di consenso nei
confronti del Presidente americano è proprio dovuta al suo andamento positivo.
Durante l’ultimo trimestre del 2011 l’economia Usa è cresciuta del 2,8%,
dato registrato molto positivamente a
Wall Street.
La disoccupazione è ai minimi da quattro anni (8,3%). Il numero dei senza lavoro è sceso del 13%. In un solo mese,
gennaio, oltre 240 mila posti di lavoro
sono stati aggiunti al netto dei licenziamenti. In tre mesi la creazione media di
nuova occupazione non è mai scesa sotto le 200 mila unità mensili. Obama non
ha mai accettato i diktat dell’austerity,
neppure quando venivano dalle triplici
pressioni dei mercati, dalle agenzie di rating e della destra repubblicana maggioritaria alla Camera. In sintesi, l’America di Obama sta vincendo la sfida alla
crisi anteponendo la crescita al rigore.
Obama, poi, ha aperto la battaglia del fisco proponendo la riduzione delle imposte alle imprese (scenderebbe dal
35% attuale al 28 o 25%), la più alta del
mondo industrializzata assieme a quella in vigore in Giappone.
E sempre nell’ottica di creare un “fisco
più giusto” prevede una quota del 30%
sui redditi di chi supera il milione di dollari all’anno. A questo proposito va segnalato che da un sondaggio apparso
sul New York Times e sulla catena televisiva CBS News il 66% degli americani ritiene che la distribuzione dei redditi e delle ricchezze dovrebbe “essere più
giusta”. Inoltre l’andamento dei consumi in America è positivo ma non ecces-
54
zar Put in tor na
al Cremlino
Zar Putin ha vinto di nuovo. Ma a Mosca non
è arrivato al 50%. Il vento del cambiamento, che
continua a soffiare nella capitale e a San Pietroburgo (manifestazioni contro le elezioni
truccate ci sono state anche il giorno dopo il
voto), non ha toccato affatto la Russia profonda. Si avvertono anche segni di scoramento per
l’ennesima vittoria di un potere senza fine.
È il modello di sviluppo imposto da Putin che
viene contestato dai giovani e da una nuova
classe media. Il male dell’ “era putiniana” resta,
infatti, la nasglost, l’arroganza degli oligarchi potenti, ricchi e corrotti. E sul piatto della bilancia
pesano corruzione, riforme mancate, poteri ingiusti e media asserviti. Alla vigilia delle elezioni
questo il titolo in copertina dell’Economist: The
beginning of the end of Putin. Troppo ottimista
o molto lungimirante? E c’è da supporre che
guardi molto lontano Novaja Gazeta, il quotidiano di Anna Polikvoskaja (la giornalista assassinata a Mosca nel 2006) quando scrive, il
giorno dopo il voto: “Il gioco è finito”, riferito a
Putin. Questo, ora, il dilemma di fronte allo zar.
Essere più autoritario o più liberale? Capire cioè
la voglia di cambiamento e assecondarla avviando la stagione delle riforme (tra l’altro libertà
di stampa e spazio ai partiti di opposizione) o
comprimere la spinta che viene dal basso verso la democrazia? Con il pugno di ferro, con una
repressione miope ed autodistruttiva. Entrambe le opzioni vengono considerate rischiose per
la durata del suo mandato. Quindi, hic Rhodus,
hic salta!
sivo, anzi le famiglie stanno approfittando della ripresa per ridurre i debiti e ritrovare una propensione positiva al risparmio.
Ma Obama, per una sua forma mentis, e perché leader di una grande potenza mondiale,
segue con attenzione gli avvenimenti sullo
scacchiere internazionale e tra questi gli inquietanti sviluppi sul Medio Oriente. In particolare la situazione potenzialmente esplosiva
tra Israele e Iran. Nella strategia politica ed economica di Obama è riservato un posto di primo piano anche ai rapporti con la Cina.
I due colossi sono legati l’uno all’altro dall’interesse alla comune sopravvivenza. E questo
spiega perché il presidente in pectore cinese
Xi Jinping (che succederà a Hu Jntao a ottobre prossimo) è stato ricevuto a Washington
con calore e curiosità, (sua figlia studia negli
Stati Uniti).
Va ricordato che la Cina con 1159 miliardi di
dollari è la principale detentrice del debito pubblico americano. Con parole piuttosto lusinghiere il prossimo numero uno di Pechino ha
detto: “siamo di fronte ad un nuovo storico inizio delle relazioni tra i nostri due Paesi”. E ancora tra Cina e Stati Uniti “continua a scorrere un fiume inarrestabile”. Per Obama costituiscono indubbiamente dei riconoscimenti
preziosi che potrà utilmente sfruttare nella sua
strategia politica. Avviandomi alla conclusione ritorno molto brevemente alla campagna
per le presidenziali. Da parte repubblicana per
attaccare Obama si fa anche ricorso ad argomenti da salotto e davvero convincenti.
Un’autentica perla: gli si rimprovera ad
esempio di essere troppo popolare fuori dagli Usa. E ancora, viene accusato di essere
il Presidente che si scusa. La critica riguarda le scuse espresse da Obama a Karzai per
il deplorevole episodio dell’incendio dei libri
del Corano, in Afganistan, da parte di soldati
americani.
Ma questi rilievi diventano involontariamente
piuttosto riconoscimenti dello stile e dell’ampiezza di vedute di un leader.
Obama sente di poter completare il lavoro. “Il
Paese è in piedi e i motori stanno ricominciando a girare”. È un messaggio di ritrovata
fiducia: Yes we can.
Il presidente cinese in pectore Xi Jinping è stato ricevuto a Washington con calore: segno dei buoni rapporti
diplomatici tra Cina e Stati Uniti. Per Obama costituisce un riconoscimento prezioso
ECONOMIA
L’Eba raccomanda alle banche europee di adottare misure di ricapitalizzazione, in modo
da preservare le stesse dai rischi, specifici e sistemici, indotti dalla crisi del debito sovrano
LA CRISI FINANZIARIA, POI ECONOMICA E INFINE DEI DEBITI SOVRANI
INIZIATA NEL 2008 HA INDOTTO L’UE
a ridefinire sostanzialmente il quadro regolamentare in materia creditizia e finanziaria, adottando una vasta gamma di misure, anche innovative, per eliminare le carenze che sono state evidenziate in questi anni. L’Unione europea, per ora unica
giurisdizione ad averlo fatto, ha avviato il
processo di recepimento dell’accordo di
Basilea 3, nella piena consapevolezza che
il rafforzamento dei requisiti prudenziali e
di vigilanza degli enti creditizi rappresenti la strada maestra per superare la crisi,
soprattutto in termini di credibilità e affidabilità rispetto ai mercati. Due strumenti sono in corso di approvazione: una direttiva che disciplina l’accesso all’attività
degli enti creditizi ridefinendo autorizzazione all’attività, esercizio della libertà di
stabilimento e poteri delle autorità di vigilanza; e un regolamento che prevede la
revisione della disciplina dei requisiti prudenziali applicabili agli enti creditizi e alle
imprese di investimento - che discendono dagli accordi di Basilea 3 - rivedendo
la gestione del rischio di liquidità, definendo livelli adeguati di liquidità a breve
e a lungo termine, mirando soprattutto agli
BASILEA 3
il nuovo quadro
regolamentare europeo
di MARIA LEDDI*
Il rafforzamento dei requisiti
prudenziali e di vigilanza degli enti
creditizi è la strada maestra per
uscire dalla crisi
56
strumenti più rischiosi e meno controllati
derivanti da operazioni di cartolarizzazione, quelli complessi e strutturati e quelli cui
ricorrono con frequenza le banche sul mercato all’ingrosso con scadenza a breve termine. In sostanza si prevede che, a partire dal 2015, sia introdotto un coefficiente di copertura di liquidità, con riserve di
elevata qualità per un periodo di 30 giorni in grado di coprire deflussi netti di liquidità determinati da situazioni specifiche
o da shock sistemici.
Si interviene specificatamente su:
- definizione dei fondi propri col rafforzamento dei criteri di ammissibilità degli stru-
PER UN CAPITALISMO
PIÙ RESPONSABILE
menti di capitale valido ai fini di determinare l’importo del patrimonio di vigilanza,
in modo da ottenere un notevole incremento di tale parametro.
- rischio di credito di controparte imponendo alle banche di adottare adeguate
misure per fronteggiare il rischio di controparte, anche con l’incoraggiamento di
compensare gli strumenti fuori mercato
tramite controparti centrali.
- accumulo eccessivo di leva finanziaria e
dell’indebitamento non controllato con l’introduzione di un coefficiente di leva finanziaria non basato sul rischio, con la
prospettiva di introdurre dal 2018 una misura vincolante.
In tale contesto “de iure condendo” si inserisce la gestione della crisi del rischio sovrano e i conseguenti riflessi sulla percezione del rischio delle banche detentrici di
tali titoli. L’Agenzia bancaria europea ha
formulato una raccomandazione alle banche europee di adottare misure di ricapitalizzazione, in modo da preservare le stesse dai rischi, specifici e sistemici, indotti
dalla crisi del debito sovrano, condizione
certamente inedita sia per la drastica riduzione del valore dei titoli pubblici che per
l’interconnessione con la solidità degli istituti di credito. Per quanto l’azione dell’Eba (l’Autorità bancaria europea) sia da considerarsi giustificata in quanto a controllo e monitoraggio degli effetti della situazione, è evidente che abbia comportato a
sua volta conseguenze non positive, in
particolare sul settore creditizio italiano. In
una condizione di “scomparsa” del mercato di approvvigionamento tramite obbligazioni non garantite nella seconda
metà del 2011 e le estreme difficoltà di
“funding” delle banche europee, i tempi e
le modalità di calcolo del cuscinetto
straordinario di capitale e la sua stessa elevatezza, conseguenti l’esercizio Eba, hanno avuto effetti di grave appesantimento
dei corsi azionari delle banche italiane,
esponendole a un rischio di scalata e a un
restringimento del credito in particolare alle
Pmi (Piccole e medie imprese). È urgente ora che il governo italiano intervenga
nelle sedi negoziali appropriate perché
venga valutata la proposta di ampliare i termini temporali entro cui le banche dovranno procedere all’attuazione dei piani
di ricapitalizzazione, prorogando il termine di giugno 2012 e siano individuate le
modalità per definire in misura diversa rispetto a quella prevista dalla raccomandazione Eba le tipologie di titoli di Stato detenute dalle banche rientranti nel calcolo
dei requisiti patrimoniali, prevedendo che
la valutazione di mercato sia utilizzata solo
per i titoli detenuti per finalità di negoziazione (trading book) e non quelli detenuti fino alla scadenza del titolo stesso. Il nostro sistema del credito ha, più e meglio
di altri, retto all’impatto della crisi. Quasi
tutti gli altri Paesi, a partire dagli Stati Uniti che la crisi l’hanno generata, hanno visto caricare sulla collettività il “disastro”
creato dalle storture di questo sistema, con
lievitazioni pesanti dei debiti pubblici.
Non è avvenuto così nel nostro Paese, che
ora rischia di perdere questo vantaggio:
occorre un presidio costante alla fase di
costruzione della nuova normativa e altrettanto alla fase applicativa.
*MARIA LEDDI, senatrice
C’è chi lo battezza “capitalismo
inclusivo” e chi preferisce usare
l’espressione “capitalismo
democratico”. Non conta
l’etichetta ma il contenuto: un
cambio radicale di priorità, regole
e valori, un nuovo umanesimo che
comanda l’economia,
caratterizzato da meno finanza,
meno disuguaglianze, una diversa
gerarchia nei luoghi di lavoro e un
mondo imprenditoriale con finalità
alternative al profitto. Non è un
libro dei sogni, ma il risultato di
una vasta consultazione avvenuta
negli Stati Uniti tra imprenditori,
innovatori, giuristi e studiosi di
varie discipline, dalla finanza alla
proprietà intellettuale. Il dibattito è
stato lanciato dalla rivista “The
Nation”, laboratorio di idee della
sinistra americana, con il titolo
“Ripensare il capitalismo” seguito
dalla domanda: “Immaginate di
poter reinventare il capitalismo,
cosa si può cambiare per renderlo
meno distruttivo, più centrato sui
reali bisogni dell’umanità, per
rendere migliori le nostre vite?”. Il
successo dell’iniziativa rivela un
desiderio di riforme ben più diffuso
di quanto emerge nel dibattito
politico tradizionale: alcune di
queste proposte si stanno già
facendo strada nella società civile
americana, con un’esplosione di
iniziative dal “basso”. Poche di
queste proposte circolano nei
partiti: i repubblicani sognano lo
Stato “minimo” mentre i
democratici si limitano a invocare
“più Stato”. Filo conduttore del
dibattito è la consapevolezza che
serva uno Stato “più forte, non più
grosso”: distinzione importante,
visto che l’Occidente dovrà
affrontare nei prossimi anni il
problema del risanamento delle
finanze pubbliche.
ECONOMIA
Disoccupazione
e inattività
giovanile
Una proposta di riforma
del mercato del lavoro per
stare al passo con l’Europa
di MARCO MARTINO
Il 2011 si è chiuso con una disoccupazione in Italia pari
all’8,9% e soprattutto con un tasso del 31% di disoccupazione giovanile. Dati in crescita sensibile rispetto all’anno precedente, ma che non fotografano in
modo esaustivo la realtà del nostro Paese. La nostra
particolarità è quella di avere almeno altri due indicatori significativamente negativi. Sono il popolo dei cosiddetti inattivi, che non cercano un impiego ma sono
disponibili a lavorare, e dei Neet (Not in Education,
Employment or Training), giovani tra
i 15 e 29 anni non più impegnati in
un percorso formativo e al di
fuori del mondo del lavoro. Questi due indici ci forniscono un
quadro ancora più preoccupante.
Nel 2010 gli inattivi erano 2 milioni e
764 mila unità, pari all’11,1% della forza lavoro, contro il 3,5% della media Ue, superiore al
dato di tutti i paesi aderenti all’Unione. Se sommiamo questi numeri ai disoccupati “ufficiali” arriviamo a superare i 5 milioni di persone potenzialmente impiegabili che sono fuori dal mondo del
lavoro. Scoraggiamento esplicito, la cura dei figli o
di altri familiari e in generale un welfare che non dà ri-
58
UN GIOVANE su tre in Italia è senza lavoro.
E’ un dato che ci vede perdenti rispetto a quasi tutti
i paesi dell’Unione europea
sposte adeguate, sono le cause principali
su cui riflettere per dare una svolta significativa. Un focus importante lo meritano anche i giovani Neet. Nel 2009, nella fascia d’età compresa tra 15 e 29 anni,
poco più di 2 milioni di giovani, il 21,2%
del totale, risultava fuori dal circuito formativo e anche da quello lavorativo. La
quota è più elevata tra le donne, 24,4%
rispetto al 18,2% degli uomini. Nella
graduatoria dell’Unione europea la percentuale è significativamente più alta rispetto ai maggiori paesi come la Spagna
(16,9%), il Regno Unito (14%), la Francia
(12,3%) e la Germania (11,6%). È evidente un minore inserimento dei giovani italiani nel mondo del lavoro e uno scoraggiamento che porta a maggiore inattività rispetto ai coetanei degli altri paesi. Il rischio ulteriore è che la permanenza prolungata in questa condizione si trasformi in una condizione permanente. Ed
è questo il quadro sul tavolo della riforma del mercato del lavoro che l’Italia sta
affrontando, insieme a una sempre maggiore precarietà di chi il lavoro ce l’ha già
e a una richiesta di maggiore flessibilità
in uscita nei processi di riorganizzazione
delle varie realtà industriali e produttive.
Se però, sull’obiettivo di una riduzione
della precarietà, governo, partiti politici e
parti sociali si sono trovati d’accordo, è
sulla cosiddetta flessibilità in uscita che
si è incontrato il vero scoglio da aggirare. Anche in questo caso però deve venirci in aiuto il confronto con gli altri paesi europei, dove la situazione non appare assai differente da quella italiana. In
tutti gli ordinamenti europei, come emerso duranti i lavori dell’ultimo seminario
annuale dell’European Labour Law
Network, il licenziamento per motivi
economici è ammesso, ma sottoposto al
controllo del giudice con criteri diversi da
paese a paese. Per fare un raffronto con
la locomotiva tedesca, in Germania il
reintegro nel posto di lavoro può essere
deciso dal giudice con la prova che
quanto previsto dal datore di lavoro rispetto ai processi di riorganizzazione produttiva si sia poi rivelato infondato. Certamente il funzionamento del sistema giudiziario italiano è la vera spada di Damocle anche in questo ambito, con tem-
pi di decisione di anni che scoraggiano
le imprese a investire.
E il nostro Paese aggiunge a questo quadro un ulteriore elemento di disparità di
trattamento. È la differenza di diritti tra chi
è in una condizione di lavoro tutelato, nelle imprese al di sopra dei 15 dipendenti, e i precari, i lavoratori delle piccole imprese, il popolo delle partite Iva che in
realtà mascherano rapporti di subordinazione, che ormai costituiscono la metà
della forza lavoro e non hanno nessun
salvagente in caso di perdita di occupazione. La vera differenza, dunque, la
troviamo nei sistemi di protezione e di
reinserimento di chi viene espulso dal
mondo del lavoro. Forme di protezione
adeguata e di accompagnamento attraverso percorsi di formazione e riconversione per un reinserimento in altra occupazione sono il vero deficit che ci separa dal modello di “flexsecurity” tipico dei
paesi nord-europei. In Italia non esiste un
sistema di ammortizzatori sociali universali che garantisca a tutti un sussidio di
disoccupazione di livello adeguato. Ma
non sarebbe sufficiente neanche una
previsione di questo genere. Senza un sistema di formazione e di collocamento al
lavoro veramente collegato al mondo
dell’impresa, non sarà possibile dare risposte ai milioni di disoccupati che nel
nostro paese corrono il pericolo di incrementare ancora di più la fascia di popolazione a rischio impoverimento.
59
moving
design
nel paesaggio urbano
Intervista a Livia Toccafondi
di FABIO MONGELLI*
RAFFORZARE
L'IDENTITÀ
DEI PRODOTTI
È UNA CONDIZIONE
INDISPENSABILE
PER UN PAESE COME
L'ITALIA IL CUI
SUCCESSO NEL
MERCATO
INTERNAZIONALE
È SOSTENUTO
PRINCIPALMENTE
DAL DESIGN
La foto
STUDIO STARTT. WHATAMI piazzale esterno del museo MAXXI di Roma
.
WHATAMI è un arcipelago di un mare immaginario composto di isole
mobili, che si dispongono liberamente lungo la superficie di cemento: un
playground per il tempo libero, ma anche un intervento per le nostre città,
una natura costruita su un originario suolo artificiale.
61
arte.costume&società
La foto
STUDIO MA0.
Piazza Risorgimento
a Bari
Le nostre città sono il luogo di continue trasformazioni che portano a
nuove configurazioni urbane. Cosa
pensa a proposito dei diversi paesaggi
metropolitani contemporanei?
La mobilità come esigenza della società
contemporanea ha modificato l’immagine della città come era stata descritta fino
alla metà del Novecento. Strade, viadotti e soprelevate sono stati i primi segni fisici delle trasformazioni che rispondevano ai diversi modi dello svolgersi del lavoro. Oggi assistiamo a un nuovo fenomeno di mobilità urbana. È l’individuo che
ha necessità di stimoli per conoscere e
sperimentarsi in situazioni fuori dagli
schemi tradizionali. A questa esigenza dovrebbe corrispondere una organizzazione degli spazi urbani che spesso non riescono a dilatarsi per accogliere il gran numero di individui che ne vorrebbe godere. Alcune grandi dilatazioni nelle città
mostrano come questa esigenza prenda
forma in configurazioni architettonicamente molto interessanti per gli spazi vuoti e per gli edifici di uso collettivo. Si stabilisce un nuovo rapporto fra interni ed
esterni fuori dagli schemi tradizionali,
permettendo interpretazioni individuali.
Quale è il contributo dell’architetto del
62
Uno spazio pubblico
continuamente
riconfigurabile: le
sedute sono delle
panchine rotanti che
gli abitanti possono
spostare
paesaggio alla molteplicità dei modi
di progettare la città?
L’architetto paesaggista ha per sua cultura una predisposizione a leggere e capire lo spazio soprattutto nelle sue dimensioni, colori, coerenze. L’atteggiamento critico consente al paesaggista di
rilevare discordanze e alterazioni da modificare quando necessario e nel contempo gli permette di sottolineare la
poesia dei luoghi e come restituire a
essi, attraverso il progetto, le nascoste potenzialità. Il confronto con i diversi modi
in cui si trasforma la città trova il paesaggista partecipe come promotore di linguaggi che si adeguino al cambiamento
della vita contemporanea, con la conoscenza dei valori intrinseci delle forme e
delle relazioni spaziali, non disgiunte dai
valori radicati del sito da confermare o modificare. Questo equilibrio fra nuovo ed
esistente vede la figura del paesaggista
partecipe in primo piano come studioso
dei valori storici e innovativi dello spazio
urbano.
Nel suo libro “Azioni di paesaggio” afferma che “l’azione della mente, di immaginare luoghi, è l’esercizio che il
paesaggista deve imparare a conformare e trasmettere” attraverso il progetto di nuovi paesaggi. Quali considerazioni sull’Urban Design come
ambito progettuale stimolante con cui
“immaginare i luoghi”?
L’Urban Design è una declinazione del
progetto di paesaggio. Questo settore disciplinare richiede una poetica legata
alla interpretazione del “cretto” urbano, dei
suoi spazi dilatati o incisi ‒ piazze, strade e viali ‒ e al come questi spazi devono essere vissuti. Lo stare e il percorrere, il clima e le alberature più opportune,
il materiale delle pavimentazioni, il disegno per la definizione dei luoghi. Sculture colorate e percorribili, tappeti gommati,
fessure per la raccolta d’acqua o per appoggiare biciclette e le illuminazioni: nuovi modi di stare e vivere la città. La produzione industriale ci offre stimoli per inventare sedute che ruotano, aiuole come
sedute, rigature d’acqua che creano suoni rilassanti, ecc. La poetica delle forme
d’arte del Novecento e di quelle attuali, i
materiali che richiamano la storia dei
luoghi e i più stimolanti materiali e forme
contemporanee, le coloriture e le tracce
dei percorsi che sostituiscono modi di
comportamento nella città è il coacervo
di conoscenze con le quali stimolare la
mente per comporre l’insieme urbano.
La qualità della vita nelle città è una
questione profondamente sentita.
Quali architetti e artisti degli ultimi decenni hanno saputo ben interpretare
questa esigenza?
Moltissimi progetti, poche realizzazioni.
Negli ultimi anni abbiamo assistito in
Europa a sperimentazioni interessanti
come a Barcellona con il piano per la riconquista del mare e l’affidamento a
molti architetti spagnoli e non per la costa: Busquets e altri. Esemplari sono
l’orto botanico di Ferrater sul Montjuic e
il Forum di Herzog e De Meuron lungo la
Diagonal dove è anche il parco di Mansilla Tuñón. Non dimentichiamo la piazza
sotto il Centre Pompidou di Renzo Piano
che ha in sé il germe dei nuovi spazi urbani. Molti waterfront e orti botanici han-
STUDIO OSA
Corte-giardino
del liceo
Benedetto Croce
Progetto di
autocostruzione.
Tutte le opere sono
state realizzate a
mano dai
progettisti e dai loro
collaboratori
no caratterizzato luoghi abbandonati –
Mosbach a Bordeaux ‒ la stessa New
York ha sistemato la riva dell’Hudson e la
ferrovia soprelevata con magistrale interpretazione delle esigenze della città. Arroyo ha creato un mosaico fra verde e pietra per caratterizzare un ampio spazio costiero non superando il magistrale Burle
Marx di Rio. Ippolito Pizzetti ci ha trasmesso l’amore per le piante e il racconto della poetica dei luoghi. Il nostro Zagari
ha contribuito con la sistemazione delle
piazze di Saint-Denis oltre alla pregevole collina di sanpietrini del Parlamento di
Roma.
Il landscape designer si trova spesso
a coordinare o a inglobare nella propria visione altre discipline che ri-
guardano il territorio, dalla geologia
all’antropologia, passando attraverso
numerose questioni pratiche. In che
modo la formazione affronta questa
multidisciplinarietà?
È necessario che sia preparato anche nelle altre discipline per poter collaborare e
usare altre conoscenze specifiche. La preparazione del paesaggista deve essere
ampia e articolata, deve essere invitato a
conoscere e apprendere conoscenze
fuori dalla specificità della propria materia. Questi studi “laterali” dovrebbero mirare a completare il coro delle discipline
necessarie per approfondire il progetto nei
differenti aspetti, senza essere specificatamente approfondite.
*FABIO MONGELLI
direttore Rome University of Fine Arts
CHI È LIVIA TOCCAFONDI
Architetto, ha ricoperto la cattera di Progettazione urbana e Architettura del paesaggio presso
l'Universitŕ "Sapienza" di Roma. Svolge attivitŕ di ricerca e progettazione nel suo studio di
Roma. Ha realizzato edifici per abitazione a Roma (S.Basilio, Acilia, Ponte di Nona, Casal
Monastero) e a Colle Barco. Ha curato mostre e saggi, tra cui Le forme sorgono, Architettura
come conoscenza della realtŕ, Azioni urbane e Azioni di Paesaggio.
63
arte.costume&società
Roma. A Palazzo Incontro e al Cervantes colpiscono
le lmmagini del quotidiano filtrate dalla percezione
visiva di due autentici protagonisti
della fotografia, di quel meraviglioso
mondo del bianco e nero che, spesso suggerisce
emozioni più colorate stranamente dei finti
arcobaleni ottici della
comunicazion contemporanea
Tina Modotti
64
e Henry Cartier-Bresson
COME NON RIFLETTERE SULL’ESSENZA
DELLA FOTOGRAFIA?
di GENNY DI BERT*
Il termine “photography” (fotografia), dal greco “fós” (luce) e “grafé” (iscrizione o scrittura), è
stato coniato in Inghilterra nel 1839 da sir John William Herschel, per definire l’azione “scrittrice” della luce su lastre sensibili. Allora era, prettamente, l’arte di formare o fissare su una
superficie l’emissione luminosa, diretta o riflessa, di un oggetto. Passano pochi anni e la fotografia diventa una tra le più rivoluzionarie scoperte del mondo moderno, talmente importante che al riguardo Nadar, pseudonimo di Gaspard-Félix Tournachon (Parigi, 1820 –1910),
afferma: “Nient’altro potrà altrettanto meravigliarci”. Infatti, ancor oggi, ci stupiscono le quarantaquattro fotografie in bianco e nero di Henry Cartier-Bresson (Chanteloup-en-Brie 1908
– L’Isle-sur-la-Sorgue 2004)) esposte a Palazzo Incontro (Roma). Immagini accompagnate da
commenti di intellettuali amici famosi, come Gombrich, Sciascia, Balthus. Ci colpiscono altrettanto le ventisei fotografie scattate, tra il 1923 ed il 1927, dalla friulana Assunta Adelaide
Luigia Modotti Mondini, conosciuta come Tina Modotti (Udine 1896 – 1942 Città del Messico), esposte all’Istituto Cervantes a Roma.
Storie e temperamenti diversi, “obiettivi” differenti, sguardi sulla realtà filtrata dalla macchina fotografica, con l’occhio dell’operatore-artista che scruta una società da rappresentare,
raccontare, bloccando il flusso delle proprie sensazioni con un clic. Immagini del quotidiano
filtrate da percezioni visive di due autentici protagonisti della fotografia, di quel meraviglioso
mondo del bianco e nero che, stranamente, spesso suggerisce emozioni colorate, più incisive dei frequenti arcobaleni ottici finti della comunicazione contemporanea.
Cartier-Bresson e Modotti vogliono immortalare l’attimo e renderlo proprio, sia esso documentazione o riflessione, per goderlo nel tempo e tramandarlo, per far rivivere l’immagine al-
65
arte.costume&società
Tina Modotti può definirsi una artista “sociale”,
attenta a luoghi e persone,
di cui ama riproporre espressioni, atteggiamenti,
a volte enfatizzati da “messe in posa” fortemente simboliche
l’osservatore. Apparenze e verità. O meglio, come afferma
la scrittrice Susan Sontag, “finzioni visive ed esperienze vissute”. Momenti di vita raccontati con passione da entrambi. Tina Modotti può definirsi una artista “sociale”, attenta
a luoghi e persone, di cui ama riproporre espressioni, atteggiamenti, a volte enfatizzati da “messe in posa”, fortemente simboliche. Compagna, nei primi anni Venti, del celebre fotografo americano Edward Weston, Tina Modotti apprese da lui alcune tecniche, superandolo poi con una personale nitidezza del segno grafico e una accurata composizione ricca di emblemi e significati. Oltre la forma, la ricerca
della realtà. Durante gli anni messicani del periodo attraversato dalla mostra, le poetiche delle narrazioni della Modotti, siano ritratti o visioni d’insieme, sono contaminate dall’opera di noti pittori messicani dell’epoca: Siqueiros, Rivera
e Orozco. Le figure immortalate sono ricche di significati,
messaggi, spesso di stampo politico e sociale. Ama “popolarmente” indagare la realtà, ponendo attenzione ad oggetti e contesti. Tina Modotti vuole far conoscere la condizione umana tramite immagini che rimangono sempre all’interno di un “racconto” e non – come avviene in Henry Cartier-Bresson – in sintesi fotografiche di stampo giornalistico. Per Tina ogni foto è una storia, mentre per Henry ogni
scatto è un capitolo di quella storia.
“Una fotografia è il riconoscimento simultaneo, in una frazione di secondo, da una parte del significato di un fatto, e
dall’altra dell’organizzazione rigorosa di forme percepite visualmente, che esprimono questo fatto” diceva Cartier-Bresson. Intorno al 1928, il fotografo francese si dedica anche
allo studio della pittura e, successivamente, segue alcuni cor-
In Cartier-Bresson prevale sempre più
il reportage “ad arte”: vuole dare la sensazione a chi
osserva di essere sul posto dove è stata scattata la foto,
cogliere l’attimo senza manipolazioni
66
si di letteratura all’Università di Cambridge. In lui prevale sempre più il reportage “ad arte”, che va oltre il mezzo meccanico, dando ampio spazio al pensiero e al sentimento verso ciò che fotografa. Ambientazioni. Cartier-Bresson vuole ormai dare la sensazione a chi osserva di esser sul posto dove è stata scattata la foto, per cogliere l’immediatezza,
l’attimo. Nessuna manipolazione. L’immagine è ottenuta per
ingrandimento, usando una piccola macchina: la Leica che,
negli anni Cinquanta, lui rende leggendaria. Le fotografie sono
essenziali, quindi niente sfocature, mai eccessivi neri o bianchi, luce ambientale e non artificiale, contrasti normali. Il significato-fulcro delle immagini emerge facilmente, solitamente è il centro-oggetto-figura attorno alla quale ruota il
resto del “flash”. Il fotogiornalismo di Cartier-Bresson fissa
l’immagine per diffonderla. Luoghi e persone riflettono spesso una notizia, intercettata quasi per caso. Del resto egli ha
sempre manifestato interesse per i “fotografi di strada” come
Atget o Kertész. Spontaneità che nasce da pensieri, conoscenza delle arti ed ideologie, principi alla base della mitica agenzia foto giornalistica cooperativa “Magnum Photos”,
da lui fondata nel 1947 assieme a Maria Eisner, Robert Capa,
David Seymour, George Rodger e William Vandivert.
*GENNY DI BERT, critico d’arte
Andy
Warhol
E L’AVANGUARDIA AMERICANA
Lauren Hinkson cura la rassegna “Il Guggenheim. L’avanguardia americana 1945–1980”, che si può visitare fino al
6 maggio 2012 a Palazzo delle Esposizioni di Roma. In mostra, opere fondamentali di artisti appartenenti alla Guggenheim Collection, che hanno siglato l’avanguardia degli
States. Dipinti, sculture, fotografie e installazioni provenienti
soprattutto dalla collezione permanente del museo di New
York. Ed ecco che anche a Roma (come nella mostra in corso a San Marino) si possono assaporare il clima artistico, le
intuizioni e le sensazioni di autori protagonisti dell’arte contemporanea. Jackson Pollock e Robert Rauschenberg, Arshile Gorky e Willem de Kooning. Quest’ultima coppia ben
rappresenta una tendenza a carattere informale di tipo astratto-figurativo, in un momento in cui gli artisti americani stavano cercando di superare la presenza dell’immagine figurativa. Si possono ammirare opere-emblema di quel periodo, che va dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, in cui si
consolida una iconografia di stampo prettamente statunitense. Ed ecco alcune “zoomate visive” degli anni Sessanta:
Roy Lichtenstein, Dan Flavin, Frank Stélla, Kenneth Noland.
Infine, gli anni Settanta: Lawrence Weiner, Robert Motherwell,
Robert Bechtlen, Robert Morris, Richard McLean, Charles
Bell, Richard Estes.
A Palazzo delle Esposizioni non potevano mancare le ope-
AUTORITRATTO di G.D.B.*
Persona fragile
dentro una
“scultura pop”
69
arte.costume&società
A Palazzo delle
Esposizioni si
possono assaporare il clima
le intuizioni e le sensazioni di protagonisti dell’arte
contemporanea: Jackson Pollock, Robert Rauschenberg,
Arshile Gorky suo arrivo. Decisi di vivere quell’esperienza esattamente nella stessa
maniera con la quale mi era stata presentata: improvvisando. Immoe Willem
bile davanti al capolavoro di Leonardo, scattava foto e prendeva apde Kooning
punti. Poi si sedette a terra, continuando a fotografare. Sembrava esre di Andy Warhol. Non era concepibile l’assenza del pop artista che,
per eccellenza, amava verbi come quantificare, comunicare e standardizzare. Il numero “uno” delle opere seriali, “eroe e antieroe dell’arte
moderna”, come lo definisce il critico Jean Baudrillard. Lo incontrai nella seconda metà di gennaio del 1987. Ricordo che, entrata da poco
nel mondo dell’arte contemporanea, lo guardavo con attenzione, lo studiavo: un mito, una sorta di oggettivazione dell’artista-icona. Era il giorno in cui veniva chiuso, per restauri, il refettorio di Santa Maria delle
Grazie a Milano, sede dell’ “Ultima cena” di Leonardo. Per motivi di
sicurezza chiusero le porte: la vera “opera d’arte” – pensai – in quel
momento era Warhol. Stavo collaborando all’interno. Warhol doveva
realizzare alcune foto del Cenacolo. Al refettorio si accedeva da una
piccola stanza. Entrò e allontanò tutti. A me, stranamente, permise di
assistere al suo “reportage”. È un segno del destino, dissi tra me e me,
soddisfatta. Si avvicinava e si allontanava dall’opera di Leonardo, con
timore e rispetto. Visto da vicino, sembrava celare una tristezza intima. Con il passare del tempo, emanava una sensazione di malinconia. Guardava curioso intorno. Sorrideva con una accurata mimica facciale, direi studiata. A volte, invece, sembrava agire d’istinto. Abiti eccentrici, la parrucca color giallo chiaro, appariva sicuro e del tutto indifferente alla insistente attenzione di cui era oggetto. Mi sentivo impreparata a godermi il suo spettacolo, non mi era stato annunciato il
70
sersi isolato. Forse, avrebbe voluto essere il… tredicesimo apostolo
oppure addirittura lo stesso Leonardo… Continuavo a fissarlo, consapevole di assistere a una cerimonia, una sorta di preghiera pronta
a trasformarsi in “performance”. Nella sala il silenzio era assoluto e la
sua figura sembrava contrastare con il luogo sacro. Improvvisamente si voltò e mi chiese se avessi qualche curiosità. Gli domandai allora cosa gli interessasse maggiormente di ciò che stava fotografando.
Mi rispose “i particolari e l’insieme di un artista che rispetto”, e poi, “i
colori”, ma erano quelli che immaginava. Mi fece capire che aveva bisogno di spiritualità e l’opera di Leonardo gliela trasmetteva, anche grazie allo spazio in cui era collocata. Prima di incontrare Warhol lo avevo immaginato superficiale: scoprii invece, istintivamente, una personalità fragile dentro una “scultura pop”, fuori tempo. Non guardava in modo sfuggevole, almeno non lo fece con me, forse notava il mio
imbarazzo, dettato da timidezza. Sensazioni, lezioni del mondo dell’arte contemporanea. Prima di tornare “all’aperto” mi propose:
“Cosa vuoi che ti firmi?” ed io: “Niente, grazie”. Mi disse, tra il serio
ed il faceto, che il suo autografo era importante, di valore, ma io affermai senza esitazione che era stato più importante aver passato del
tempo a osservarlo “in azione”. Stava per uscire, si voltò e mi chiese
se poteva fotografare il mio viso, non mi opposi. Poi uscì lentamente, lasciandomi a riflettere. Quelle foto non le ho mai viste.
*GENNY DI BERT, critico d’arte
(pro)memoria
QUANDO
si faceva la Costituzione
La comunità del Porcellino fu un laboratorio democratico
frequentato dai maggiori protagonisti della stagione della
Costituente di BARTOLO CICCARDINI*
NEL 1945-46 ATTORNO ALLA
CHIESA NUOVA SI FORMÒ UN PICCOLO VILLAGGIO DI IMMIGRATI. Il nucleo era bresciano, come erano in gran
parte bresciani i padri della Chiesa Nuova,
originari dell’oratorio di Brescia, caro a
Giovan Battista Montini. Una partigiana
bresciana trovò ospitalità nella casa delle
signorine Portoghesi, portò con sé una
parlamentare di Genova e un gruppo di
giovani deputati provenienti dall’Università Cattolica, dove avevano costituito, da
alcuni anni, un gruppo per studiare i problemi di quella ora tragica. Questo piccolo gruppo si sistemò in un appartamento del primo piano, che poi diventò
una sorta di noviziato e di punto di incontro per la generazione successiva. Nella
stessa via i padri dell’oratorio avevano
aperto una mensa che era frequentata dai
dirigenti della Fuci e da un gruppo di studenti dalla promettente carriera accademica. Questo cenacolo aveva la qualità di
essere aperto. Si sviluppa attorno a questo gruppo l’incontro di culture diverse,
uomini che avevano fatto altri percorsi e
avevano in comune una “cultura della
crisi”, che era il punto più alto del pensiero
occidentale negli anni Trenta. Queste personalità, costrette a stare assieme dalle
condizioni ambientali di una Roma uscita
72
Si ritrovarono
insieme persone che
venivano da
esperienze diverse ma
che avevano in
comune la “cultura
della crisi”
dalla guerra, si comportarono in modi diversi. Fanfani fu eminentemente politico e
la sua attitudine a realizzare programmi lo
portò presto a dissentire dalle grandi teorie. Lazzati ebbe un percorso più spirituale
in cui la coscienza della crisi determinò la
scelta di dedicarsi alla cultura e all’Università cattolica. La Pira trovò il modo di
esprimersi nella vita di una comunità: fu
sindaco di Firenze e ne fece il centro del
mondo che colloquiava di pace e di guerra
con tutte le potenze. Erano modi differenti
per affrontare la “coscienza della crisi”.
IL RUOLO DI DOSSETTI- Ma colui che
attirò energie e pensieri, che li fece dialogare con libertà e responsabilità, fu Dossetti. Il contributo di Dossetti si manifestò
in diversi momenti e in diversi
modi: prima nella redazione della
Costituzione, poi nella formazione di un collegamento fra
gruppi eterogenei che avevano
la “coscienza della crisi”, poi nell’episodio straordinario di Bologna, infine nel Concilio e, per ultimo, nel suo drammatico
appello alla difesa della Costituzione. Dossetti, partendo da una
sua preparazione tecnica al Diritto canonico e reinterpretando
i valori che aveva vissuto nella Resistenza,
di cui era stato un capo “disarmato”, fu
uno degli artefici più accorti nella costruzione di questo edificio. La Costituzione
non è stata solo una costruzione giuridica
ma soprattutto l’esplorazione di un programma di convivenza fra mondi diversi.
Per una stranezza della storia, l’Italia che
era uscita dalla tragedia della guerra si era
trovata di nuovo divisa: quelli che insieme
avevano combattuto con la speranza di
rinnovare il mondo, si trovarono contrapposti nella gestione dell’esistente. Un
Paese che aveva avuto un’Unità difficile e
che aveva perso il significato della sua
identità, si trovò diviso fra due mondi: il nostro muro di Berlino correva in ogni città, in
ogni paese, in ogni famiglia. Pure le due
forze che si contendevano la scelta del
Paese, fra occidente e oriente, salvaguardarono l’unità contrapponendosi, come
avviene nell’arco degli etruschi. Subito
dopo la Costituzione, Dossetti si poneva il
problema di un rinnovamento profondo
dello Stato democratico, che fosse per la
sua novità capace di coinvolgere anche gli
oppositori. Era questa la ragione della sua
opposizione al Patto Atlantico, al congelamento delle ragioni di una divisione radicale. Ma presto si rese conto che la Dc,
impegnata nella difficile gestione del contingente, non avrebbe potuto svolgere
questo compito. Pensò di trovare un’altra
strada da percorrere attraverso il rinnovamento della vita cattolica come presupposto di una grande “renovatio imperii”.
LA CANDIDATURA DI DOSSETTI A SINDACO DI BOLOGNA - mentre Dossetti
segue il suo percorso, avviene un fatto
nuovo e contraddittorio. Il cardinale Lercaro gli chiede di candidarsi a Bologna.
Questo episodio segna una svolta nel
comportamento di Dossetti. Dossetti si
presenta in modo nuovo: da cattolico
indipendente non facente parte del partito, chiede di essere confermato con un
suo programma da un’elezione primaria.
Propone un programma con una conce-
DOSSETTI si poneva il problema di un rinnovamento
profondo dello Stato democratico, che fosse capace di
coinvolgere anche gli oppositori
zione tutta nuova del Comune. Il Partito
comunista non capisce la novità di questa proposta e reagisce in modo inadeguato. Togliatti, che pur aveva avuto una
certa attitudine nel proporre un diverso
rapporto fra comunisti e cattolici, attacca Dossetti secondo il vecchio
schema della prevaricazione temporalista e clericale. Dozza risponde in modo
rozzo al concetto di austerità che Dossetti aveva in qualche modo registrato.
Io ho assistito alla reazione di Dossetti,
che fu molto dura, e alla crisi che egli
stesso ebbe, perché temeva di essere
stato distruttivo nei confronti di un rapporto che voleva mantenere in termini
creativi. Ma al momento qualcosa si
ruppe. Ci volle del tempo perché si recuperasse la stima e la fiducia dei comunisti per la proposta di Dossetti. Ma
ormai Dossetti seguiva la sua strada e si
dedicava, assieme al cardinal Lercaro,
alla grande impresa di rinnovamento
dello spirito ecclesiale nel Concilio.
LA “CULTURA DELLA CRISI” - De Gasperi, impegnato nell’impresa di salvare il
Paese da una sciagura incombente, non
era in grado di apprezzare o capire la forte
tensione della cultura della crisi che animava questi gruppi. Anche lui si trovò, diffidente, in una cena della comunità. Ammirava Dossetti, ma non lo capiva. Scrive
Pombeni: “De Gasperi in una sua nota privata del 1950 definì la ‘mentalità dossettiana’ come ‘munita di allucinazioni e presunte divinazioni suggestive’, oltre che di
un calore di sentimento e di un’abilità di
espressione e di manovra non comune, di
fronte alla quale mancano nella direzione
del Partito e dei Gruppi, uomini forti e altrettanto suggestivi”. Le allucinazioni e le
presunte divinazioni suggestive altro non
erano che la punta dell’iceberg della “cultura della crisi”, che era maturata anche
nel mondo cattolico, per l’esperienza tragica della ferocia dei totalitarismi, della
guerra totale, della Shoah e dell’uso della
bomba atomica. Questo giudizio duro non
73
(pro) memoria
Fanfani fu eminentemente politico, Lazzati più spirituale e La Pira trovò
il modo di esprimersi nella vita di una comunità. Ma colui che attirò
energie e pensieri, che li fece dialogare con libertà e responsabilità fu Dossetti
impedirà a De Gasperi di consegnare il
Partito ai superstiti dell’esperienza dossettiana, traghettati da Mariano Rumor,
sotto l’accigliata leadership di Fanfani.
Quando Dossetti decide di abbandonare il
suo eremo per dare l’allarme in difesa della
Costituzione, si giustifica con un importante
richiamo alla storia della prima Chiesa: “Se
posso fare un paragone, certo sproporzionato, penserei all’esempio degli antichi Padri del deserto che ritornavano in città in occasioni di epidemie, di invasioni o di altre
calamità pubbliche”. È interessante che
Giuseppe Dossetti, che incomincia il suo
nuovo cammino di monaco del deserto a
Gerico, ricorra a questo esempio storico
assai poco conosciuto. Del resto, La Pira,
quando dirigeva le preghiere comunitarie
nella sua piccola chiesa fiorentina, invitava
a dire un Ave Maria per Dossetti: “Perché è
un uomo singolare”. È limitativo interpretare
questo appello come una difesa della Costituzione scritta. C’è anche questo, ma di
fronte al tentativo di abolire la democrazia
partecipata nei primi anni del secolo, c’è soprattutto un modo di intendere “la cultura
della crisi” che si ripropone.
74
LA DIFESA DEI VALORI DELLA COSTITUZIONE - la vittoria del capitalismo e la
successiva globalizzazione dei mercati ha
portato alla possibilità che i grandi capitali
accumulati nel mondo finanziario imponessero una sorta di vassallaggio alle economie
basate sul lavoro. Questa mentalità di nuovi
corsari che, moltiplicando con la finanza
creativa la forza di impatto del loro capitale impongono una forma nuova e potentissima di usura sulla economia dei
popoli e sul lavoro delle popolazioni, altro non è che un’edizione forte e nuova
della guerra. Una guerra mondiale dei
ricchi contro i poveri, dell’usura contro il
lavoro. È la manifestazione ultima della
crisi mondiale che molti ritenevano superata. È a questo che si riferisce Dossetti quando parla di difesa dei valori
della Costituzione ricordando che la Costituzione fu un documento, forse unico,
per organizzare una società che voleva liberarsi dalla guerra e dal dominio. La coscienza di un’intesa fra tradizioni diverse
per aprire uno spazio di “coscienza della
crisi” rimaneva un punto di riferimento
per affrontare la nuova crisi mondiale che
si stava preparando. Ho voluto tratteggiare la profondità dei temi che stanno
sullo sfondo di questo libro, che non ha
l’ambizione di dare ad essi una soluzione,
ma che, attraverso la cronaca quotidiana,
la descrizione dei sentimenti, delle vocazioni personali, ci descrive l’atmosfera di
un momento molto particolare. Questa
atmosfera è un’assoluta novità, anche
per coloro che l’hanno vissuta e la ricordano. Un estraneo potrebbe immaginare
la disciplina di un ordine religioso o la regola di un’impresa di volontari o l’atteggiamento quasi militare di un’aristocrazia
dedicata a una milizia. Niente di tutto
questo, ma solo la dolce e allegra convivialità di persone comuni, felici di stare insieme. La “ospitalità” della signorina
Laura, “l’accoglienza” intesa nel senso
antico delle opere di misericordia, è piena
di valori profondi, che il libro ci restituisce. Ora che le nubi della grande crisi,
che ritenevamo allontanata, si stanno assiepando all’orizzonte di un mondo attanagliato da nuove oppressioni e da
nuove ingiustizie, sentiamo attorno a noi,
in special modo fra i cristiani, quella sete
di giustizia e quella sofferenza per il pericolo che vi era allora e che gli autori ci
hanno restituito in questo libro. E di questo li ringraziamo.
*BARTOLO CICCARDINI,
saggista e politico
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(pro)memoria
L'ANNO CHE VERRÀ
Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po'
e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò.
Da quando sei partito c'è una grossa novità,
l'anno vecchio è finito ormai
ma qualcosa ancora qui non va.
Si esce poco la sera compreso quando è festa
e c'è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra,
e si sta senza parlare per intere settimane,
e a quelli che hanno niente da dire
del tempo ne rimane.
Ma la televisione ha detto che il nuovo anno
porterà una trasformazione
e tutti quanti stiamo già aspettando
sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno,
ogni Cristo scenderà dalla croce
anche gli uccelli faranno ritorno.
Ci sarà da mangiare e luce tutto l'anno,
anche i muti potranno parlare
mentre i sordi già lo fanno.
E si farà l'amore ognuno come gli va,
anche i preti potranno sposarsi
ma soltanto a una certa età,
e senza grandi disturbi qualcuno sparirà,
saranno forse i troppo furbi
e i cretini di ogni età.
Vedi caro amico cosa ti scrivo e ti dico
e come sono contento
di essere qui in questo momento,
vedi, vedi, vedi, vedi,
vedi caro amico cosa si deve inventare
per poterci ridere sopra,
per continuare a sperare...
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speciale
LO SPIRITO della sussidiarietà
L'autentica visione autonomista racchiusa nella nostra Carta costituzionale, fornisce
una risposta di libertà ai dettami burocratici, alle ipertrofie procedurali e alle distorsioni
politiche del federalismo. L’importante è prendere sul serio il principo di sussidiarietà
di MARIO SIRIMARCO*
La cultura della sussidiarietà può essere il
lievito del federalismo. Tuttavia, poiché l'ingegneria istituzionale è fantasiosa e si
adatta agli interessi storici concreti, non è
detto che automaticamente il federalismo
si proponga e si realizzi in armonia con il
concetto della sussidiarietà. Può essere, al
contrario, un modello che porta a declinare in maniera distorsiva l'espansione dell'idea di autonomia e partecipazione nel
contesto specifico delle democrazie occidentali più avanzate. Il caso italiano, con tutte le ombre del bossismo, ne è la conferma più evidente. Anche se rude, il progetto
territorial-corporativo della Lega ha infatti
esercitato negli ultimi vent’anni una grande forza di attrazione: in un modo o nel-
l'altro, salvo rare eccezioni, politici e intellettuali si sono professati federalisti. Si è
cambiata la Costituzione, sono state approntate nuove leggi, ha preso forma un ordinamento a variabili multiple e con torsioni
burocratiche e neo-centraliste. Il risultato
è ampiamente negativo. Le autonomie
sono sfibrate, nonostante l'epica o l'eresia
del federalismo. Ecco allora la domanda:
sono state tradite le premesse o queste, essendo sbagliate, hanno prodotto l'inevitabile fallimento? Fin quando la posizione democratica e riformista continuerà a eludere il quesito, evocando la purezza di un federalismo diverso, continuerà essa stessa
ad alimentare una politica sbagliata. Rilanciare la visione di uno Stato fondato sul-
le autonomie, grazie soprattutto a una rinnovata concezione della democrazia della sussidiarietà, vuol dire uscire da ciò che
nel nostro Paese si è andato confi
IL RITORNO ALLA SUSSIDIARIETÀ
Negli ultimi due o tre decenni diverse
problematiche hanno riproposto prepotentemente il tema della sussidiarietà: il processo di costruzione dell’Europa come entità politica e non più solo come mercato
comune; il disfacimento del comunismo nei
paesi dell’est europeo; la crisi dello stato
sociale, nella sua versione di stato provvidenza, nei paesi occidentali; la progettazione istituzionale più o meno federalista
anche in paesi come il nostro; la necessità
79
speciale
Una qualunque autorità deve esercitarsi per sopperire
all’insufficienza di un’autorità più piccola. Se questa
insufficienza si manifesta, essa ha per contro non solamente
il diritto ma il dovere di intervenire
di ripensare la fenomenologia dei rapporti tra lo Stato, gli organismi territoriali e i privati, basato su un nuovo modo di intendere
i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione nella prospettiva di un rapporto
di parità delle parti o comunque di un maggiore coinvolgimento dei cittadini; il fenomeno della info-globalizzazione e della crescente complessità della società e delle sue
problematiche economiche ed ambientali. Ebbene uno dei tratti comuni a queste
tematiche è la riproposizione, appunto, al
centro del dibattito e della progettazione
giuridico-politica del problema dell’autorità, del suo esercizio, dei suoi limiti che
è il vero punto focale del principio della
sussidiarietà: «l’idea di sussidiarietà concerne – infatti – il ruolo dell’autorità in generale, e non solamente l’autorità dello Stato, e richiede che nella società nessuna autorità travalichi la sua sfera di competenze […] il difficile è proprio delimitare que-
sta sfera di competenze, che si individua
a partire dalle competenze dell’autorità inferiore – inferiore non quanto al valore, ma
quanto all’estensione del potere. Una
qualunque autorità deve insomma esercitarsi per sopperire all’insufficienza di
un’autorità più piccola. Se questa insufficienza si manifesta, essa ha per contro
non solamente il diritto, ma il dovere di intervenire» (Millol-Delsol).
Parlando del principio di sussidiarietà il rischio che si corre è di contribuire ad una
sorta di utilizzazione retorica dell’espressione “principio di sussidiarietà” spesso
usata solo come orpello per rendere più
presentabile la comunicazione politica
senza che, da parte di coloro che così agevolmente la maneggiano, ci sia un serio
approfondimento sulle profonde valenze
teoretiche ed etiche del principio. Altre volte, ed è un altro rischio molto attuale che
si corre, è quello della utilizzazione in chia-
ve ideologica della nozione di sussidiarietà
sicuramente per la sua complessità o per
la sua intrinseca ambiguità. In altre impostazioni si registra un certo sospetto
verso un principio elaborato in un preciso contesto culturale e sociale e caratterizzato, sul piano teoretico, da altrettanto precise coordinate.
Del resto, sembra che la storia stessa del
principio della sussidiarietà sia la constatazione della distanza sempre presente tra
la enunciazione del principio, abbastanza chiaro pur nella paradossalità della sua
formulazione teorica, e i tentativi di applicazione che spesso hanno condotto, e
ancora conducono, a risultati completamente divergenti.
Emblematica da questo punto di vista, anche per le enormi conseguenze in termini
di diffidenza generata, è la vicenda dello
snaturamento del principio avvenuto con
la tentata costruzione del corporativismo
fascista. Ma si potrebbe ricordare l’esempio dell’ordinamento giuridico europeo
Sembra
80
che la storia stessa
del principio della
sussidiarietà sia la
constatazione della
distanza sempre presente
tra la enunciazione
del principio e i tentativi
di applicazione,
che spesso hanno condotto
a risultati completamente
divergenti
Il corporativismo, con
tutte le sue implicazioni,
ha rappresentato un
terreno di notevole
elaborazione culturale,
al di là della sua
concreta realizzazione
nel Ventennio fascista
che proclama solennemente in ogni occasione il principio, ma poi produce continuamente, rinnegandolo nei fatti, una
normazione invadente e asfissiante. O
ancora si potrebbe pensare a quella che è
stata definita la “mancata attuazione” in
una prospettiva sussidiaria dell’art. 2 della nostra Costituzione.
SUSSIDIARIETÀ VS. CORPORATIVISMO
Il tema del corporativismo, in particolare,
offre l’occasione per procedere ad una serie di precisazioni essenziali per delimitare correttamente il contesto teorico nel
quale la sussidiarietà si colloca e per
sgombrare il campo da alcuni fraintendimenti che certamente non hanno giovato alla riflessione sul principio, direi, dalla Costituente in poi.
Il corporativismo, con tutte le sue implicazioni teoretiche, politiche e giuridiche, ha
rappresentato senza dubbio un terreno di
notevole elaborazione culturale, al di là naturalmente della sua concreta realizzazione nel ventennio fascista. Non è facile dare
conto di un tema tanto complesso, oltre
che estremamente controverso, in poche
righe. Mi sembra molto corretta la ricostruzione di chi ritiene che, in realtà, «si
trattò dell’avvio di un itinerario lungo e faticoso, che si svolse per tutta la durata del
ventennio e che non ebbe mai né un
compimento né concreta effettività nel
tessuto socio politico» soprattutto perché
«l’anima arrogantemente autoritaria del
fascismo mal sopportava il significato pluralistico, più o meno coperto, che il corporativismo comportava, e fu proprio per
questo che non si pose concretamente
mano alla prevista e ipotizzata “seconda
fase” di una strutturazione corporativa, e
cioè alla realizzazione di una programmazione dell’economia nazionale affidata alle
stesse forze sociali, all’autogoverno dei produttori» (P. Grossi). In questa sede mi
preme solo ricordare quelle tesi che troppo sbrigativamente mettono insieme, partendo dalla comune matrice filosofica della rivisitazione del pensiero aristotelico-tomista, corporativismo (ma sarebbe meglio
dire ‘corporativismi’ del ‘900), ideologia
controrivoluzionaria cattolica e Dottrina
sociale della Chiesa come espressioni di un
comune tentativo di superare lo stato liberale ponendosi più radicalmente contro
la modernità. Strumento essenziale di
questa reazione è, appunto, il recupero dell’organicismo con la conseguente articolazione sussidiaria della società e dei suoi
rapporti con lo Stato. Sono state evidenziate, in questo senso, alcune assonanze,
se non vere e proprie identità di formulazione, tra la Carta del lavoro (del 1927) e la
lettera enciclica Quadragesimo anno (del
1931) quasi a voler rivendicare una sorta di
matrice fascista al principio della sussidiarietà, dimenticando però la enciclica Rerum Novarum, con tutta la riflessione successiva; ignorando completamente, prima
ancora, la figura straordinaria di Antonio
Rosmini, nelle cui opere si trovano interessanti spunti nella prospettiva della sussidiarietà; non considerando o sottovalutando le riflessioni di Luigi Sturzo, non tenendo conto, insomma, di tutto uno sforzo culturale, anche grazie all’influenza di
pensatori stranieri come Maritain, teso a
stabilire un dialogo, un ponte tra mondo
cattolico, pur nella sua straordinaria varietà
sul piano della visione sociale e politica, e
il mondo moderno. È una prospettiva
questa che si collega chiaramente alla tesi
ripresa da ultimo da Pietro Prini, ma sostenuta soprattutto da Del Noce, secondo
la quale, almeno per quanto riguarda l’Italia, «la filosofia cattolica, piuttosto che trat-
81
speciale
tenersi nei falsi concetti dell’antimoderno
o del postmoderno, ha rilevato una direzione diversa della modernità – quella
teologica da Cartesio a Rosmini, accanto
e contro quella atea da Cartesio a Nietzsche – aprendo la via alla fondazione di una
metafisica civile, finalmente libera dalla mistificazione degli assoluti terrestri». In questa «metafisica civile», mi sembra, giganteggi la figura di Giuseppe Capograssi con
le sue fondamentali opere di filosofia giuridica e politica, che rappresentano senza
ombra di dubbio una delle critiche più vigorose allo Stato onnipotente, e con
il suo magistero, non da tutti ancora conosciuto, di Socrate cattolico.
La giurista Ilenia Massa Pinto, in un
documentato volume, ha ricostruito il dibattito richiamato nelle pagine precedenti ricordando che nelle tesi accennate fascismo e dottrina sociale in qualche modo avrebbero avuto l’obiettivo «di presentarsi
come “terza via” rispetto ai due cattivi estremi del liberalismo e del socialismo: in comune avevano la
convinzione della impossibilità di definire il soggetto nel chiuso della sua
assoluta individualità, e della esi-
La filosofia cattolica,
piuttosto che
trattenersi nei falsi
concetti
dell’antimoderno o
del postmoderno, ha
rilevato una direzione
diversa della
modernità aprendo la
via alla fondazione di
una metafisica civile,
libera dalla
mistificazione degli
assoluti terrestri
82
genza di individuare legami orizzontali fra
soggetti che permettessero loro di sentirsi solidalmente responsabili di un’unità di
cui si sentivano parte». Insomma corporativismo fascista e sussidiarietà della
dottrina sociale sarebbero accomunati,
sul piano teorico-politico, dal riferimento ad
una visione organicistica e dalla elaborazione di un modello Stato-società tendente
all’individuazione di una “terza via” contro
il liberalismo e il socialismo.
Sulla inconsistenza teorica dell’equazione
organicismo corporativo-pensiero della
sussidiarietà non è il caso di indugiare più
di tanto. Mi limito a richiamare una felice ricostruzione di Zagrebelsky: la caratteristica dell’organicismo sociale cattolico, rappresentato in primis proprio dalla Rerum
Novarum, è dato dall’idea, ottimistica,
che «i corpi sociali “naturali” siano destinati ad una pacifica coesistenza rivolta al
rispetto e alla cooperazione, oppure che la
società, nelle sue varie componenti sia in
grado di sviluppare le energie materiali e
spirituali per superare le proprie difficoltà
da ciò la conseguenza che allo Stato
deve attribuirsi un compito solo “sussidiario” nei confronti del libero esplicarsi delle forze sociali organiche la vita sociale deve
trovare alimento e forza non dall’intervento dello Stato ma dallo sviluppo della solidarietà delle parti». Nell’organicismo tipico del corporativismo fascista, invece, lo
Stato assorbe la società civile trasformandosi «in una grande impresa in cui ogni
suo elemento sociale è chiamato a svolgere
una funzione data, sotto la guida di un comando unitario. L’unità massima cui questo tipo di organicismo può aspirare si ha
quando l’intera società viene indivisibilmente unificata sotto un unico principio di
vita organica e identificata con un solo organismo vivente. Con questo, si distruggono i ‘gruppi intermedi’ e lo Stato appare come un unico organismo in cui ciascun
individuo, come funzionario del tutto, è posto senza intermediazioni sotto il potere totalmente assorbente dello Stato».
Il corporativismo, in definitiva, lo ha nota-
to puntualmente la Millon-Delsol, è vittima
del paradosso delle conseguenze per cui
«il principio è snaturato, nel senso che il criterio dell’ingerenza – l’incapacità o il bisogno – si trova arbitrariamente spostato a
livello troppo basso o troppo precoce, a seconda che si faccia riferimento all’ingerenza
nello spazio sociale o nello svolgimento dell’attività. Si dice che lo Stato interverrà solo
in caso di incapacità o di bisogno, ma questa situazione viene dichiarata esistente
subito, poiché l’interesse individuale – e
dunque la libertà individuale – è considerato nefasto perché separato dall’interesse collettivo. Questa svalutazione
morale dell’azione individuale rende il principio di sussidiarietà inoperante perché
l’intervento statale diventa necessario
dovunque, o quasi».
IL SIGNIFICATO FILOSOFICO DELLA
SUSSIDIARIETÀ -il notevole lavoro di ricostruzione di storia del pensiero sul principio di sussidiarietà realizzato dalla MillonDelsol, nonostante le difficoltà che una simile impostazione comporta nel momento in cui si procede alla individuazione di
profondissime e ramificate radici con lontanissimi precursori, oltre ad indicare una
prospettiva essenziale per il giurista per
zamento ontologico e la graduazione assiologica sono perfettamente simmetrici»
(G. Scaccia). Questa premessa teoretica di
caratterizzazione genetica del principio
avrebbe comportato, in generale, la sua declinazione antinomica rispetto alla modernità e più in particolare, sul piano sociale
e politico, la sua contrapposizione allo Stato liberale che aveva distrutto l’antico e ricco pluralismo sociale attraverso l’attuazione
concreta dei principi della Rivoluzione
francese. In questa prospettiva, che mi
sembra estremamente riduttiva rispetto alla
portata teoretica ed etica del principio, la
sussidiarietà non sarebbe altro che l’espressione di teorie politiche e giuridiche reazionarie che auspicano il riAllo Stato deve
torno ad una concezione pre-moattribuirsi un compito solo derna dello Stato e del diritto.
“sussidiario” nei confronti A questa tesi si può contrapporre quella che vede invece nel principio in quedel libero esplicarsi delle
stione un tentativo di gettare un ponforze sociali organiche e la te tra cattolici e modernità. Questo tentativo, mi sembra, si collochi in una
vita sociale deve trovare
prospettiva diversa da quella del ‘modernismo’ che, secondo l’aspra critialimento e forza non
ca di Del Noce, ha avuto il limite di vodall’intervento dello Stato ler piegare il pensiero cattolico a
quello moderno. Nella prospettiva
ma dallo sviluppo della
qui delineata, utilizzando ancora Del
solidarietà delle parti
Noce, possiamo dire che si percorre
la strada individuata da Vico che pardare un significato alla formula, offre tan- te non dalla semplice negazione del mote utili indicazioni, permettendo di chiariderno ma dalla «enucleazione in esso di un
re alcune controverse questioni e di far svamomento positivo che non è però quello ilnire quell’alone di sospetto. Sospetto aliluministico e rivoluzionario».
mentato, come accennato, sia dal conte- La elaborazione del principio di sussidiasto sociale e culturale nel quale il principio rietà avviene certamente in un contesto fisi colloca che è quello della dottrina sociale losofico-politico che si preoccupa codella Chiesa, sia dalla prospettiva teoretistantemente di individuare un percorso dica che lo caratterizza: e cioè il principio di verso rispetto ai modelli totalitari e colletsussidiarietà come norma etica di diritto nativistici allora dominanti, che fanno leva sul
turale che rispecchia l’ordine gerarchico onparadigma organicistico-corporativistico,
tologico delle comunità umane, cioè l’orevitando però, allo stesso tempo, il modello
dine nel quale si dispongono i corpi sociali, teorico individualista (ma sarebbe meglio
caratterizzato dal fatto che «il grado estidire soggettivista), pur nella consapevolezza
mativo della natura di ogni essere è stabidi vivere in una società individualista.
lito in relazione al fine ad esso proprio e alla Se il corporativismo e l’organicismo guarcapacità di raggiungerlo, sicché l’apprezdano nostalgicamente ad un modello di or-
83
speciale
Il corporativismo distrugge i “gruppi
intermedi” e lo Stato appare come un unico
organismo in cui ciascun individuo, come
funzionario del tutto, è posto senza
intermediazioni sotto il potere dello Stato
dine sociale che non c’è più ma che si vuole comunque ripristinare (da qui il totalitarismo e le dittature, e da qui il tentativo, rifiutando organicismo e corporativismo, di
ripudiare i modelli totalitari), ci sono altre
correnti di pensiero che si pongono il problema di conciliare la dottrina sociale alla
modernità fondando diversamente il ruolo dello stato contemporaneo.
Queste correnti sono essenzialmente due:
il solidarismo di Pesch e il personalismo di
Maritain. Il solidarismo apporta una «filosofia della finitudine nel senso che non bisogna attendersi dalla società temporale
nessun paradiso, né che le strutture sociali
producano formule magiche» (Millol-Delsol). Concetto, come è noto, costantemente ripreso dall’etica sociale cristiana.
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Scrive ad esempio Höffner: «La dottrina sociale cristiana – soprattutto nel suo orientamento politico, etico e pedagogico – non
si prefigge come traguardo né un paradiso in terra, né una glorificazione trionfalistica del “mondo moderno”, bensì quell’ordine sociale che permette all’uomo di
adempiere la volontà di Dio e di condurre
una vita cristiana. Essa respinge pertanto
sia l’utopismo sociale sia un cristianesimo
spiritualistico da ghetto, che non riconosce
alla fede cristiana alcuna capacità ordinatrice nel campo del sociale e abbandona
il mondo al suo destino».
Il personalismo, invece, porta alla accettazione e alla giustificazione della società
individualista secondo, però, la tradizione
tomista. Il principio di totalità, letto in alcuni
Il principio di
sussidiarietà come
norma etica di
diritto naturale
che rispecchia
l’ordine gerarchico
ontologico delle
comunità umane,
cioè l’ordine nel
quale si
dispongono i corpi
sociali
contesti in prospettiva totalitaria, in realtà
non significa che l’uomo possa essere considerato un mezzo o che sia completamente sottomesso alla comunità. Significa che l’uomo può raggiungere meglio
i suoi fini grazie al suo essere inserito in
comunità più vaste. L’uomo, nella visione di San Tommaso, «non è né indifferenziato, né frammento incompleto, né ingranaggio privo di una propria finalità: ma
un cosmos in se stesso, caratterizzato dalla sua attitudine all’amore nel senso proprio d’istinto naturale nell’ordine della grazia e di volontà morale dopo il peccato.
Così il principio di totalità, per quanto possa apparire strano ai moderni, non esclude che il pensiero tomista sia la prima giustificazione della persona come un tutto»
(Millol-Delsol).
In questa ricostruzione, il tema del bene comune, connesso al concetto tomista di totalità, ha rappresentato uno dei momenti più delicati del dibattito perché in esso
la metafora organicistica rischiava di offrire lo spunto ai nostalgici di cui abbia-
mo accennato e soprattutto perché facilmente interpretabile in senso totalitario
nel momento in cui si spiega l’attitudine
umana al bene comune come appartenenza della parte al tutto.
Sul piano teoretico solidarismo e personalismo evitano, quindi, l’organicismo totalitaristico perché sono accomunati dal
medesimo fondamento: entrambi pongono la persona umana come perno centrale della società. Evitano, altresì, il rischio dell’individualismo perché legittimano la dignità della persona sulla base del suo rapporto con Dio conferendo, così, all’individuo una dimensione trascendente: «una
società razionalistica come la nostra può
sorridere nel vedere che il valore essenziale
della società si basa su un mistero teologico. Ma forse è proprio per questo che il
valore della dignità rimane inalienabile. Avvalersi di un mistero – perché di questo si
tratta – per sostenere l’uguale valore di tutti gli uomini, permette di sfuggire a tutte le
descrizioni della dignità che finirebbero per
rendere certi uomini più degni di altri […]
In mancanza di un criterio veramente oggettivo, il criterio fondato sulla trascendenza
rassicura quanto meno il desiderio profondo di una dignità inalienabile e assolutamente uguale per tutti» (Millol-Delsol).
È su questa nozione di dignità che si giustifica il necessario rispetto dovuto all’uomo e la predisposizione dei mezzi, tra i quali si colloca l’intervento dello Stato, per contribuire allo sviluppo della sua personalità.
Questa prospettiva è stata adottata sempre più chiaramente dalla Dottrina sociale. In una lettera destinata ai partecipanti
al Convegno dei medici cattolici del 1956
ad Amsterdam, Pio XII riassume e fissa con
chiarezza la posizione sua e dei suo predecessori: «Non è assolutamente provato
che il punto di partenza e il fondamento di
ogni struttura giuridica e di ogni giustificazione del diritto, sia la realizzazione voluta dal Creatore della natura umana perfetta, e che questo bene postuli la subor-
dinazione dell’individuo
alla società da cui dipende immediatamente,
e di questa società alla
società superiore, e così
di seguito fino alla società
perfetta, allo Stato. È una
deviazione del pensiero
chiaramente espresso dai
Papi, considerare l’uomo
nella sua relazione con la
società, come se fosse inserito nel pensiero organico dell’organismo fisico. Il
principio civitas propter cives, non cives propter civitatem è un’eredità antica
della tradizione cattolica e fu
ripresa nell’insegnamento
dei Papi Leone XIII, Pio X,
Pio XI non in maniera occasionale, ma in termini espliciti, forti, precisi. L’individuo
(ecco il punto di partenza ufficiale della Chiesa) non è soltanto anteriore alla società per la sua origine, ma le è superiore per il suo destino.
La società non è che un mezzo universale per mettere le persone in rapporto con
le altre persone. Questa relazione della parte al tutto è qui interamente differente da
quella che esiste nell’organismo fisico.
Quando l’uomo entra per nascita nella società è già provveduto dal Creatore di di-
ritti indipendenti. Egli spiega la sua attività
dando e ricevendo, e attraverso la sua collaborazione con altri uomini crea dei valori e raggiunge risultati, che da solo non sarebbe capace di ottenere, e dei quali egli,
come persona individuale, non può essere il portatore. Questi nuovi valori manifestano che la società possiede una preminenza e una dignità propria; ma da ciò non
deriva una trasformazione
della relazione indicata fra
individuo e società, perSul piano teoretico
ché questi stessi valori,
solidarismo e personalismo
come la società stessa,
evitano l’organicismo
sono rapportati a loro volta,
totalitaristico perché sono
di loro natura, all’individuo e
accomunati dal medesimo
alla persona».
4. Sussidiarietà, “terza via”
fondamento: entrambi
e
“stato minimo”: alcune
pongono la persona umana
precisazioni
come perno centrale della
Il diritto della sussidiarietà,
società
nel senso di diritto-dovere di
85
speciale
ingerenza dello Stato, ha come fondamento, dunque, la dignità della persona e
il bene comune; la sua finalità è quella di
valorizzare la persona ponendola al centro
della dimensione sociale e politica come
soggetto responsabile e creativo (autore/attore), sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si trova ad operare.
Ecco perché, per esempio, tra ente superiore ed ente inferiore il principio offre la
priorità a quello inferiore.
Questa priorità o anteriorità operativa significa, allora, che la sussidiarietà si traduce
sempre in «un’azione di aiuto, di stimolo, orientamento, incoraggiamento, integrazione e solo in ipotesi
residuali ed estreme di autentica ed
integrale supplenza», che comporta, anche, «la consapevolezza che
il rispetto del naturale (perché ontologicamente derivato) ordine gerarchico nell’azione sociale possa
essere di ostacolo all’intrapresa
delle azioni pubbliche indispensabili
all’ordinato funzionamento delle
economie del capitalismo avanzato»
(G. Scaccia).
Il fatto che l’autorità sia supplente o
secondaria non significa considerarla
inutile o dannosa e non significa nep-
Una società
razionalistica come
la nostra può
sorridere nel vedere
che il valore
essenziale della
società si basa su un
mistero teologico. Ma
forse è proprio per
questo che il valore
della dignità umana
rimane inalienabile
86
pure sminuirla. Sussidiario significa anche
secondario ma non eventuale perché
«l’autorità non è la riserva, nel senso di una
truppa di riserva della quale si spera di non
doversi servire. Essa è una supplenza
della quale la società ha sempre bisogno»
(Millol-Delsol). Più specificamente: l’autorità è un mezzo, quindi è necessaria sulla
base del bisogno che ne abbia la comunità/istanza inferiore; l’autorità è suppletiva perché viene incontro alle esigenze/insufficienze della società; ma, soprattutto,
l’autorità è sussidiaria nel senso che si propone un soccorso positivo che si può spingere oltre perché «essa garantisce in qualche misura un supplemento d’anima, se
vogliamo intendere così i mezzi della felicità perfetta, della quale Aristotele dice che
è possibile solo nella città». In altri termini, l’autorità è necessaria perché non
garantisce soltanto il benessere di ciascuno ma si preoccupa di lavorare alla
completa realizzazione della società concepita come comunità.
Questa conclusione permette di chiarire
due nodi problematici strettamente connessi e che sono al centro del dibattito.
Il primo riguarda il tema della c.d. “terza
via”. Dalle considerazioni svolte in precedenza credo sia emerso che, nella prospettiva della dottrina sociale, la sussidiarietà non possa essere intesa come uno
strumento di raffigurazione di una terza via
tra liberalismo e socialismo, una formula
compromissoria o eclettica che si costruisce attingendo dall’uno o dall’altro. Si
tratta di un principio che esprime, invece,
una concezione autonoma sia per quanto
riguarda i presupposti teoretici, sia per
quanto riguarda i contenuti e le possibili sfere di applicazione. Si tratta di un principio
che esprime un pensiero fondamentalmente diverso dal liberalismo e dal socialismo. Di fronte al dibattito tra liberalismo
e socialismo, la proposta della sussidiarietà
è, sul piano teorico e sulle applicazioni pratiche, assolutamente “altra”. La dignità della persona, su cui si basa il dovere di ingerenza che caratterizza la sussidiarietà,
Il fatto che l’autorità sia
supplente o secondaria
non significa
considerarla inutile o
dannosa e non significa
neppure sminuirla.
Essa è una supplenza
della quale la società ha
sempre bisogno
non coincide pur comprendendoli né con
l’uguaglianza né con la libertà che giustificano l’intervento statale nella visione socialista e liberista. Anzi, le applicazioni di
questi modelli, nel capitalismo e nel
marxismo, rappresentano (lo ha detto Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis) un ostacolo all’autentico sviluppo
della persona umana.
Nella visione socialista non c’è spazio
per una dignità umana su cui fondare i diritti e lo Stato, ma anche la responsabilità
e l’azione del soggetto. Nell’individualismo
filosofico, caratterizzato da contratti utilitaristici, non c’è spazio per una visione ontologica del bene comune, nel senso di un
bene che attiene alla socialità e alla relazionalità umane1. Il nesso inscindibile tra
una concezione sussidiaria della società e
delle istituzioni di governo e la complessa
questione del bene comune, “implica che
il punto focale e fontale dei processi sociali
e politici non sia, primariamente, l’anomico scontro di interessi e di diritti precosti-
tuiti nella rispettiva e reciproca impermeabilità, ma un asse di relazione e di riconoscimento che ne fa un luogo di autentico, seppur difficile, incontro tra gli esseri umani» (P. Savarese). Si tratta, in definitiva, come ha scritto bene la Millon-Delsol, di «un modello adatto all’uomo com’è,
utilizzabile come norma nella misura in cui
la descrizione dell’uomo individuale e sociale permette di esprimere una nozione di
diritto naturale e fedele alla realtà moderna. La scomparsa della società olista obbliga a respingere la comunità organica a
meno di non intenderla nella coercizione.
Ma la certezza che l’uomo è un essere socievole obbliga pure a cancellare l’idea che
esso agisca e si associ solo per interesse».
L’altro punto riguarda un tema che in
qualche modo ha contribuito a creare
quel clima di diffidenza che aleggia su molti discorsi sulla sussidiarietà che per alcuni sarebbe, partendo dall’aspetto economico, lo strumento principale per realizzare
la prevalenza del privato sul pubblico o del
mercato sullo Stato. Infatti, lo slogan
“meno Stato più mercato” ha accompa-
gnato in modo più o meno strumentale
molte discussioni in materia.
Anche su questo punto credo che dalle
considerazioni di natura teorica svolte in
precedenza sia emerso che questa tesi non
possa certo intendersi come corollario
necessario, automatico, della sussidiarietà. Dalla formulazione del principio non
si può ricavare l’oggettiva conseguenza della prevalenza del privato sul pubblico, o dei
corpi intermedi legati al territorio sugli altri. La coesistenza direi genetica del dovere
di non ingerenza e dell’obbligo di intervento
comporta che nella sussidiarietà si pone
solo, a livello di principio, una opzione di
fondo per le formazioni sociali che non significa certo svuotare lo Stato facendone
uno Stato debole.
Questo perché, sul piano politico, «le condizioni che giustificano una deroga a questo effetto traslativo “verso il basso” sono
oggetto di una valutazione politica rimessa proprio all’ente autorizzato a porre in essere gli atti derogatori, al quale si offre così
un formidabile e non sempre adeguatamente controllabile strumento per verticalizzare le competenze» (G.
Scaccia). Con la conseguenza che «la norma di
Crocevia essenziale
competenza sussidiaria»
del nuovo cittadino
possa essere utilizzata
dovrebbe essere una
come «strumento unilaterale
sussidiarietà che non si
di accentramento», come è
limiti ad un
avvenuto nel caso dell’integrazione comunitaria o
trasferimento di funzioni
come
avviene laddove l’imamministrative ai privati
postazione autenticamente
ma che si caratterizzi più
autonomista segna il passo
radicalmente come
o si presenta estremamente
deregolazione
in favore dell’autonomia
dei privati
87
speciale
cietà, non è giusto invece, per una malintesa pregiudiziale cristiana spiritualistica e
personalistica, volere uno Stato debole, inconsistente, incolore. Il vincolo sociale in
cui lo Stato si risolve e costituisce la sua
ragion d’essere è, o può essere, cosa talmente grande, talmente importante, talmente decisiva per l’uomo, che i tipici mezzi della giustizia forte, quelli storicamente
più efficaci, debbono essere adoperati con
ogni impegno, perché sorga con l’immancabile aiuto di uno Stato forte e serio
una società sana e operosa».
Questa concezione dello Stato deve essere
coniugata, per Moro, con quella che riconosce i limiti dello Stato e il suo essere inE’ una deviazione
serito in un «complesso travaglio sociale»
zioni morotee, che sintetizza in modo imperché è grazie alla complessità dell’epeccabile il nostro tema: «l’impegno ed il
del pensiero
sperienza umana nella vita sociale che si
vigore con i quali i cattolici operano in sede
chiaramente espresso
stempera ogni pretesa monopolistica: «la
sociale e politica, l’interesse che dimoconsiderazione della famiglia, il favore per
strano ed il contributo che danno al raffordai Papi, considerare
le autonomie sociali che sono presidio di
zamento delle strutture dello Stato manil’uomo nella sua
libertà, la rivendicazione costante e vigofestano che quell’azione non è episodica,
relazione con la società, non è frutto di improvvisazione o di de- rosa dei diritti di tutte le libere associazioni umane sono i segni di questa complesdalle linee essenziali della concome se fosse inserito nel viazione
sa visione. La preoccupazione cristiana di
cezione cristiana, ma risponde ad una insalvare la società nelle sue ricche e varie
tuizione profonda e ad una ardita visione
pensiero organico
espressioni dal monopolio statale si salda
delle vie da battere per una instaurazione
dell’organismo fisico
intimamente con la difesa e il potenziacristiana nel mondo». Questa intuizione è
mento dello Stato. Vero è che non si diil valore dello Stato come vincolo di solifende la società, senza volere lo Stato e che
darietà che stabilisce, come condizioni faoperando con una larga, organica, storica
contraddittoria.
vorevoli che determina allo sviluppo di tutvisione per lo Stato si opera a servizio delMa lo Stato non può essere debole perché
ti i valori umani. In base a questa intuiziol’uomo e della società tutta».
il perseguimento della giustizia sociale e
ne, scrive Moro, «se è giusto nell’azione poQuesta tesi trova oggi ulteriori conferme nel
della solidarietà richiede uno Stato in gralitica volere costruire uno Stato che promomento in cui si concretizza uno «Stato
do di intervenire nella economia per rimuova una solidarietà veramente umana,
sociale sussidiario»: dopo la caduta dei sicondurla alla sua finalità sociale preveche salvi ad un tempo la persona e la sostemi socialisti e la crisi dello stadendo anche la proprietà pubto sociale nei paesi occidentali,
blica di quei beni che «portano
anche a seguito della integraseco una preponderanza ecoIl principio della sussidiarietà
zione sovranazionale e dell’innomica per cui non si possono
ha come fondamento la dignità
ternazionalizzazione dell’econolasciare in mano di privati cittamia, la ripresa del principio di susdini senza pericolo del bene
della persona e il bene comune:
sidiarietà «si pone certamente al
comune» (Pio XI).
la sua finalità è quella di
di là dei modelli dello Stato-MoViene subito in mente, a tal provalorizzare la persona ponendola
loc realizzatisi con il paralizzante
posito, l’espressione di Aldo
assistenzialismo statale, ma non
Moro dello Stato come forma oral centro della dimensione
affida la dinamica sociale e i pringanizzativa suprema della solisociale e politica come soggetto
cipi che la governano, come la vadarietà umana. C’è un piccolo
responsabile e creativo, sia come
scritto (Valore dello Stato), coelorizzazione del merito e della
vo al dibattito in Assemblea cocompetizione, ad una deregolasingolo sia nelle formazioni
stituente e alle più note posisoc
88
iali in cui si trova ad operare
mentazione generalizzata del mercato, ed
anzi richiede strumenti di controllo dell’economia più sofisticati che consentano di
trarre tutti i benefici delle intraprese private senza, tuttavia, dimenticare i compiti di
solidarietà e di promozione della persona
umana che presiedono alla stessa formazione dello Stato moderno e del costituzionalismo” (S. Mangiameli).
In altri termini, lo stato sociale sussidiario
comporta un cambiamento di mentalità del
pubblico; occorre soprattutto un atteggiamento diverso da parte dell’amministrazione pubblica verso il mercato, per l’erogazione dei servizi pubblici e la fornitura di beni pubblici.
È importante ricordare, concludendo su
questo punto, la ricostruzione radicale di
Francesco Gentile, che è stato senza
dubbio uno degli studiosi italiani che ha
maggiormente riflettuto su questo tema. Il
principio di sussidiarietà (che Gentile definisce “eversivo” in quanto si muove all’interno delle istituzioni trasformandole, destabilizzandole) pone al centro della sua attenzione la persona, i diritti della persona.
L’incontro tra i diritti fondamentali e la sussidiarietà determina «il nuovo paradigma in
grado di superare le dicotomie moderne
(stato e società, autorità e libertà, pubblico e privato)» che hanno portato da parte
del privato, «all’assoluta “ombelicità” al
pensare soltanto al proprio ombelico» di-
Scrive Moro: “Se è giusto nell’azione
politica voler costruire uno Stato che
promuova una solidarietà
veramente umana, che salvi ad un
tempo la persona e la società, non è
giusto, invece, volere uno Stato
debole, inconsistente, incolore”
ventando sempre più “privato” e da parte
del pubblico alla irresponsabilità del potere dovuta ad una progressiva statalizzazione dei fatti sociali: «la progressiva statalizzazione dei fatti sociali, economici e
tecnici e insieme le teorie materialistiche
che concepiscono la storia come un processo necessario, sono il tentativo di abolire il carattere della responsabilità personale, sino a scindere il potere dalla persona. E rendere il suo esercizio simile ad un
fenomeno naturale, laddove per fenomeno naturale si intende un fenomeno di tipo
meccanico». Rispetto a questo esito la sussidiarietà rappresenta «una vera e propria
boccata di ossigeno, perché introduce tutti i meccanismi per i quali, da un lato, il privato non può pensare solo al suo ombelico. E, dall’altra parte, si mette in atto una
presa di coscienza della responsabilità personale (anche da parte di chi esercita il po-
tere), che non può essere disattesa e che travolge e recupera una forma di relazione tra cittadini liberi cittadini attivi. Ma per essere attivi bisogna essere liberi. Perché altrimenti non si è attivi:
il cittadino meccanico, non è
un cittadino attivo» (F. Gentile). Corollario del “nuovo
paradigma” e crocevia essenziale del nuovo cittadinoattivo dovrebbe essere, in definitiva, una
sussidiarietà che non si limiti ad un trasferimento di funzioni amministrative ai privati ma che si caratterizza più radicalmente
come deregolazione in favore dell’autonomia dei privati. È in questa prospettiva
che si colloca la centralità della figura del
contratto sempre più chiamato, soprattutto
a seguito della globalizzazione, a prendere il posto che nel diritto moderno è stato
occupato dalla legge, che perde progressivamente la sua capacità regolatrice sulla società. Questo tema investe, naturalmente, più in generale il problema del quid
ius perchè, «si può sostenere la funzione
suppletiva ed ausiliaria del diritto legale,
cioè del diritto sancito mediante la legge,
espressione della volontà sovrana dello
Stato, solo se si riconosce preventivamente
che l’ordinamento giuridico delle relazioni
interpersonali comincia prima ed indipen-
89
speciale
L’impegno ed il vigore con cui i cattolici
operano in sede sociale e politica,
dimostra che la loro azione risponde ad
un’intuizione profonda e ad una ardita
visione delle strade da seguire per un
nuovo umanesimo cristiano
dentemente della legislazione statale. Ma
per sostenere che l’ordinamento giuridico
delle relazioni interpersonali precede la legislazione pubblica è necessario riconoscere preventivamente come esso proceda dalla disposizione naturale dell’uomo,
di ciascun uomo, all’autonomia» (F. Gentile). La discussione sul principio di sussidiarietà potrebbe, quindi, rappresentare
un’utile occasione per affrontare uno
dei punti cruciali della riflessione giuridica e politica dei nostri tempi: impostare
sul piano teorico, anche e soprattutto a
seguito delle straordinarie trasformazioni seguite alla info-globalizzazione, una
riconsiderazione, un profondo ripensamento del diritto e della politica partendo dalla constatazione della crisi di quel
modello giuridico-politico caratterizzato
dalla eccessiva positivizzazione del giu-
ridico, dal quel processo di monopolizzazione della produzione giuridica (magistralmente descritto da Bobbio), che ha
portato alla esasperazione della dimensione formale del diritto e alla sua inevitabile subordinazione alla politica e al potere. Il principio di sussidiarietà, nella sua
forma più corretta, ossia come principio
che parte dalla centralità della persona e
della sua autonomia, ci richiama, sul piano del diritto, a recuperare una dimensione della giuridicità che fa leva sulla essenzialità della esperienza giuridica. Per
questa via si supera «il preconcetto, veicolato dalla geometria legale, circa l’inettitudine dell’individuo a disciplinarsi,
che conduce ad identificare l’ordine nelle relazioni intersoggettive con la volontà
del sovrano, quale unico modo per creare una regolarità, quella artificiale impo-
Lo slogan “meno
Stato più mercato”
ha accompagnato
in modo più o
meno strumentale
molte discussioni
in materia
90
sta dalla legge, laddove vi sarebbe soltanto anomia» (L. Franzese).
In questa prospettiva, nella prospettiva
della sussidiarietà, il diritto non è solo strumento del potere, non è solo forma in cui
la politica riversa dei contenuti normativi; il diritto è prima di tutto qualcosa che
è legato alla esistenza dell’uomo, alla sua
dimensione relazionale ed intersoggettiva: «il diritto prende forma nell’esperienza umana coinvolgendo, più o meno direttamente, i suoi attori e destinatari nel
loro riferirsi gli uni agli altri. Il diritto, in altri termini, prende forma, ben al di là del
dato normativo immediato, come fenomeno socionomico, in un modo quindi
che non può essere separato dall’ortonomia del movimento di costituzione
della soggettività» (P. Savarese). Il diritto,
in altri termini, prima di estrinsecarsi in norme ed istituti è essenzialmente “vita”
secondo la lezione che da Antonio Rosmini porta, nel novecento italiano, a
Giuseppe Capograssi e Sergio Cotta.
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92
HANNAH ARENDT
Ebrea, profuga, senza patria, allieva di Heidegger, filosofa antisistematica, guardata con sospetto sia dalla sinistra che dall’accademia: stile troppo assertivo (oggi
chi non dubita è considerato poco intelligente), ideologicamente ambigua (le piace troppo la Costituzione americana). Quando lessi nel 1983 “Sulla rivoluzione”
di Hannah Arendt (si pubblicò da noi vent’anni dopo l’edizione americana: era
stato il libro-culto della rivolta di Berkeley) ho capito due cose per me fondamentali.
La rivoluzione americana a differenza di quella francese non deviò nel sociale,
non venne sopraffatta dalla compassione (da cui nasce quasi sempre il terrore,
poiché per la Arendt è proprio il “cuore” a “scatenare un oceano di infinita violenza”). E poi che quella che in Francia era una passione ideale ‒ elaborata dai
“philosophes” ‒ in America era un’esperienza: gli americani del Settecento sapevano bene, perché lo avevano sperimentato e non lo avevano letto sui libri,
che la libertà pubblica consiste nel partecipare agli affari pubblici e che ciò poteva generare una felicità: il piacere di “discutere, deliberare, prendere decisioni”.
E dunque per la riuscita di una rivoluzione è più importante il rapporto con il passato, con una esperienza già vissuta, che quello con il futuro e con utopie palingenetiche. Nel suo percorso intellettuale Hannah Arendt riformula la sua posizione intorno alla politica. Per schematizzare un po’: da una difesa a oltranza
della politica a una posizione anarchica che contrappone la libertà individuale
alla socializzazione. Nella sua più recente elaborazione, che data verso la fine
degli anni Cinquanta, il male non coincide tanto con l’apatia politica, con il prevalere della sfera privata su quella pubblica quanto con l’assenza di pensiero.
L’ordinario Eichmann, burocrate dello sterminio, incarna per lei il nazismo proprio per l’assenza di pensiero. E anche nell’ultima opera, “La vita della mente”
(di cui uscirono i primi due volumi prima che morisse), ritorna sul linguaggio di
Eichmann, dominato dai cliché, quasi per “proteggersi” dalla realtà (troppo complessa, per lui ingovernabile). Se pensiamo all’attuale videocrazia potremmo scoprire che certe premesse del nazismo sono tutt’altro che superate… L’idea della politica, come luogo dell’autenticità deve essere intesa nel suo verso giusto,
anche perché è subito corretta da una ispirazione fortemente libertaria (dai soviet, prima della rivoluzione bolscevica, ai consigli ungheresi del Cinquantasei),
è cioè la possibilità del dialogo tra eguali, la possibilità di una comunicazione
interpersonale disinteressata, totalmente slegata dal potere. In una lettera a Scholem scriverà che lei non ama i popoli o gli Stati ma soltanto i suoi amici. Come
se l’autenticità più profonda, quella dei nostri affetti intimi, si riservasse unicamente agli individui concreti, tangibili con cui, casualmente e per scelta, entriamo in relazione durante l’esistenza, e non riguardasse organismi collettivi.
Per la Arendt resta fondamentale la frase di Rahel Levin Varnhagen (ebrea tedesca vissuta nel periodo romantico): “Tutto dipende dal riuscire a pensare da
soli”. In un saggio sul “Castello” di Kafka, uscito nel 1944 (vedi “Il futuro alle spalle”) la Arendt ripropone il tema di una normalità disperatamente voluta e poi negata. Il movimento del Sessantotto, imbevuto di cattivo romanticismo, sembrava
voler aspirare alla trasgressione full time come utopia massima, ignorando il
più elementare funzionamento della mente umana, il suo bisogno di stabilità
e di radicamento, accanto a quello di novità e varietà. La Arendt ci ricorda che
“la vera umanità non può mai stare nell’eccezione, neppure in quella del perseguitato, ma solo in quello che è o dovrebbe essere la regola”. La riflessione
dell’ultima Hannah Arendt, a partire dagli anni Sessanta, non finisce di stupirci per la sua originalità. Nelle riflessioni sul Kant della “Critica del giudizio” il
giudizio estetico riguarda la sfera politica. Il giudizio estetico infatti, benché soggettivo, è quel giudizio “del particolare” che si fonda su un senso comune, sul
senso di appartenere a una comunità. Quando – kantianamente – formulo un
giudizio anticipo la comunità, la immagino, tengo conto delle obiezioni e dei
93
punti di vista degli altri. Non posso costringerti a concordare col mio giudizio
però tenterò di “sollecitare e corteggiare” il tuo consenso.
libri
Più che l’immigrazione e la politica estera è l’economia a
rappresenta l’ago decisivo della bilancia elettorale
della bilancia elettorale, più che l’immigrazione o la politica estera. Il destino di Obama è infatti legato a doppio filo alla ripresa della locomotiva
americana: se questa riparte, il secondo mandato appare un traguardo
a portata di mano. Le previsioni dei
principali analisti segnalano la produzione industriale in ripresa e il tasso di
disoccupazione in discesa (8,1 % a
febbraio). L’autore osserva come i repubblicani sono sembrati “quasi rassegnati a scegliere il proprio sfidante
alla Casa Bianca tra personaggi sen-
OBAMA E LA CORSA
(ad handicap) alla Casa Bianca
di GABRIELE PAPINI
L’identikit del “contender” di Barack
Obama alle elezioni presidenziali americane del 6 novembre prossimo è ancora fluido. Archiviato il Supertuesday, sembra che il Partito repubblicano non abbia ancora trovato il leader carismatico in grado di coagulare
il radicalismo di una parte della base
dell’elettorato conservatore. Giampiero Gramaglia, direttore dell’agenzia
Ansa dal 2006 al 2009 dopo esserne
stato per trent’anni corrispondente
da Bruxelles, Parigi e Washington,
traccia alcuni scenari possibili per il
Grand Old Party, nei quali l’economia
rappresenta sempre l’ago decisivo
94
za carisma” ricordando come i conservatori più radicali abbiano contribuito a “divorare i loro potenziali favoriti” e ciò ha rappresentato un indubbio vantaggio per Obama. Sebbene i primi mesi di Primarie siano già
alle spalle, la lunga corsa del Partito repubblicano è ancora oggetto di analisi e dibattiti. Il volume di Gramaglia è
una “guida elettorale” che illustra il profilo dei principali candidati repubblicani
che hanno animato questi primi mesi
di corsa elettorale, a partire dall’icona
del movimento Tea Party Sarah Palin.
Senza di lei “la campagna repubblicana è risultata più noiosa e quindi
meno seguita dai cittadini”, considerazione analoga per l’altra leader radicale Michelle Bachmann. In pole
position resta naturalmente Mitt Romney, imprenditore mormone, già governatore del Massachusetts, sposato con cinque figli e uomo chiave del
successo organizzativo delle Olimpiadi invernali di Salt Lake City nel 2002.
Romney è un repubblicano che, come
presidente, piacerebbe molto agli europei ma che, proprio per questo, fatica a convincere i conservatori dell’America profonda. Così lo descrive
l’autore: “Moderato, il suo atteggiamento piace all’ala di centro del partito (e lui potrebbe infatti contendere
a Obama il voto di centro), all’establishment, alla finanza e ai tanti elettori indipendenti che alla fine decidono
il voto. I molti soldi raccolti fino ad ora
per la sua campagna, più di 50 milioni
di dollari, lo confermano”. In questi
primi mesi di Primarie, si sono messi in luce anche l’outsider italoamericano Rick Santorum “cattolico sempre in prima linea in difesa dei valori etici”, l’ex speaker della Camera Newt
Gingrich “politico di esperienza dotato di tenuta sulla distanza” e il veterano Ron Paul, decano dei candidati repubblicani, considerato un “padrino intellettuale” del movimento del Tea
Party. La seconda parte del libro è dedicata alle “regole del gioco” del lungo viaggio elettorale iniziato in Iowa il
3 gennaio scorso e che terminerà con
la Convention repubblicana di Tampa,
in Florida, dal 27 al 30 agosto prossimi. Interessante è l’illustrazione della
“macchina” elettorale: attraverso elezioni primarie e “caucus” (assemblee
locali) gli elettori designano i delegati
degli Stati alla Convention del partito,
vincolandoli a sostenere un aspirante
alla candidatura. Nelle elezioni presidenziali del 6 novembre invece, gli elettori decidono a quale candidato assegnare i voti elettorali del loro Stato
(California, Texas, New York e Florida
i più “prolifici”), espressi dai cosiddetti
“Grandi Elettori”. L’attuale inquilino
della Casa Bianca riuscirà a essere riconfermato? Secondo l’autore quello
del presidente in carica è stato un
mandato “ad handicap”, nel quale
Obama “non ha certo trovato lo slancio della campagna elettorale, deludendo i propri sostenitori senza, peraltro, soddisfare i suoi oppositori”.
Mentre in politica estera, le uccisioni di
Bin Laden e di Gheddafi e il ritiro delle truppe americane dall’Iraq (e in
previsione dall’Afghanistan) sono indubbi punti di forza per il Partito democratico e un secondo mandato di
Obama significherebbe un rilancio di interesse per un partner strategico come
l’Europa, in un mondo globale in cui si
sono ormai affacciate grandi potenze
che aspirano ad avere voce in capitolo nel governo della leadership mondiale. Tuttavia, spiega Gramaglia, nelle abitudini del cittadino americano
“economia, lavoro e società sono in genere sempre in testa ai criteri di scelta
quando si vota”. Molto dipenderà dunque dalla congiuntura economica prevista per i prossimi mesi, in un’America dove il movimento degli indignados
e di Occupy Wall Street “ha per protagonisti proprio quei giovani idealisti che
nel 2008 avevano fornito supporto e sostegno, entusiasmo e capacità tecnologica, alla campagna di Obama”. Riconquistarli sarà fondamentale.
Giampiero Gramaglia,
Tutti i rivali del Presidente,
(Editori Internazionali Riuniti,
2011, 255 pag, 20 euro
PERCHÉ
IL VANGELO PUÒ
SALVARE L’ITALIA
Dove va l’Occidente? Dove va l’Italia? La
parola “crisi” ricorre frequentemente nella risposta a queste domande. I più pensano alla crisi economica e politica, perfino vistosa nella sua evidenza. C’è però,
più in profondità e con un’incidenza decisiva, una crisi morale e spirituale in atto.
Se le speculazioni finanziarie hanno prodotto disastri, il cui prezzo è stato pagato in maniera durissima specialmente
dai più deboli, ciò è dovuto al fatto che
gente senza scrupoli ha giocato sulla
menzogna, inducendo a credere alla perfetta corrispondenza di economia reale ed
economia virtuale. Se i politici hanno illuso
le masse con un gioco di maschere di bonario ottimismo, nascondendo così rischi
e costi in agguato per tutti, è perché hanno anteposto la vanità alla verità, la rincorsa del consenso facile e velleitario alla
costruzione umile e quotidiana del bene
comune. È necessaria, allora, una svolta:
la scelta di fondo è precisamente fra vanità e verità, una scelta morale, che
affonda le sue radici in una spiritualità vis-
suta nella fedeltà dei giorni, in una continua, onesta verifica della coscienza,
chiamata a misurare l’impegno quotidiano sulle cose penultime alla luce di ciò che
è ultimo e vero. L’inganno è stato sostituire la maschera alla verità, il fenomeno
al fondamento, l’applauso della vanità al
giudizio della verità. Davanti a questo scenario le pagine che seguono intendono
proporre un farmaco, una stella che guidi il cammino, mostrando la via soprattutto
attraverso esempi alti di valore morale, testimonianza di scelte forti, vissute nel crogiuolo delle contraddizioni a volte inaudite
della vita e della storia. Il richiamo alle esigenze del Vangelo - che, prima di essere un compito, sono un dono d’amore offerto alla libertà dell’assenso - si fa tangibile in prese di posizione concrete, in
storie scritte nella carne e nel sangue di
persone come noi, che hanno avuto il coraggio di credere nella forza della verità
che libera e trasforma.
Chi era san Francesco prima della conversione se non un giovane ammaliato
dallo scintillio della vanità, caratterizzato
da uno stile di vita non dissimile da quello che oggi conquista tanti? E chi era John
Henry Newman prima dell’approdo al
porto della comunità universale della
fede, se non un cercatore della luce, fiducioso nel giudizio della ragione e pronto a misurarsi su tutto con essa? E, ancora, che cosa può dirci oggi un Alcide De
Gasperi, il politico capace di coniugare
fede rocciosa e rispetto della laicità?
Voci autentiche – queste e altre – che tuttora parlano al nostro presente e suggeriscono che la svolta è possibile e che vale
la pena tentarla per tutti.
Una sfida, ma anche una promessa per
ognuno, specie per chi - per compito o
vocazione - si è gettato o intenda gettarsi nella mischia per servire il bene comune
e fare di quest’Italia ferita un Paese più
giusto, libero e sereno per tutti. Il Vangelo,
insomma, può salvare l’Italia. È la convinzione e l’appello di queste pagine. Un
invito a pensare, senza pregiudizi e
scappatoie tranquillizzanti, e a fare una
scelta di vita…
95
lettere scarl
te
LA LEZIONE DI
at
CATERINA
IN ALMENO TRE OCCASIONI NEL CORSO DEL SUO PONTIFICATO, BENEDETTO XVI HA AVUTO
MODO DI RIBADIRE LA NECESSITÀ “DI UNA NUOVA CLASSE POLITICA CATTOLICA”. LE RICORDO TUTTE DISTINTAMENTE PERCHÉ, DA CATTOLICA IMPEGNATA IN POLITICA, QUELLA FRASE EBBE
MODO DI COLPIRMI MOLTO PER ALMENO UN PAIO DI RAGIONI. Primo perché mi pone un interrogativo dirimente: il Papa è scontento dell’attuale classe politica cattolica, tanto da evocarne una nuova? E
allora chi sono oggi i veri referenti della Chiesa nelle istituzioni secolari? Oppure in quelle parole va letto
un altro messaggio, cioè l’invito ai politici di tradizione cattolica a unirsi, a ritrovare una casa comune non
solo in Italia ma anche in Europa? L’altro interrogativo che mi viene ripensando a quelle parole è: cosa vuol
dire oggi per un cattolico fare politica? Non è certo facile rispondere tanto all’uno quanto all’altro quesito. Tralasciando il primo – che peraltro comporterebbe troppe variabili per poter essere affrontato in così
poche righe – preferirei concentrarmi sul secondo interrogativo. A fornirmi lo spunto è la relazione di Bartolo Ciccardini tenuta qualche settimana fa al Centro Internazionale di Studi Cateriniani, nell’ambito di un
ciclo di conferenze dedicato quest’anno all’attualità politica di Santa Caterina da Siena. Proprio Lei, la Santa Patrona d’Italia e d’Europa, rappresenta ancora oggi un punto di riferimento per noi politici cattolici. Santa Caterina, nata Benincasa a Siena il 25 marzo del 1347, era una giovane popolana, ventiquattresima di
venticinque tra fratelli e sorelle. Non ebbe, come migliaia di persone nell’Italia dei Secoli Bui, la possibilità di studiare. Imparò da sola a leggere; più tardi anche a scrivere, rimanendo comunque sostanzialmente
analfabeta. Ciò non le impedì di essere canonizzata da Pio II nel 1461 e di essere dichiarata Dottore della Chiesa da Paolo VI nel 1970. Il suo percorso mistico cominciò a sei anni, quando nella Basilica di San
Domenico a Siena ebbe la prima visione: Gesù Cristo in trono con i Santi Pietro e Paolo. A sette anni Caterina fece voto di castità e iniziò un percorso fatto di mortificazione e digiuni. A sedici anni entrò nel terzo ordine delle Domenicane. La straordinarietà di Santa Caterina è però legata alla sua esperienza politica. Parlava con autorità e dottrina a uomini politici, a religiosi, a capi di Stato e perfino allo stesso Papa.
Dette una svolta alla storia della Chiesa convincendo il Papa a tornare a Roma, ma dettò anche regole
morali e politiche. Scrisse di teologia con grande dottrina, un prodigio vista le sua inesistente formazione scolastica. Santa Caterina ancora oggi può insegnare molto ai cattolici italiani, soprattutto a coloro che
sono impegnati in politica. Dal sepolcro di Santa Maria sopra Minerva, a due passi dai palazzi del potere, Caterina ci ammonisce. Così come in vita intercesse per siglare la pace tra Firenze e la Santa Sede,
oggi ci suggerisce di guardare con altri occhi alla cosa pubblica. Viviamo in un periodo di enorme incertezza. Una fase politica in cui, dopo la morte dei partiti tradizionali avvenuta al crepuscolo della Prima Repubblica in seguito a Tangentopoli, anche i grandi partiti come siamo abituati a conoscerli da vent’anni
sembrano vacillare, scossi dal governo dei professori, dall’antipolitica e da una latente incapacità della
classe politica di dare risposte concrete ai cittadini. Attraversiamo una fase così confusa, in cui la disgregazione
e la riaggregazione può essere un rischio ma anche un’opportunità. Ogni giorno leggiamo di inchieste, di
corruzione, di malaffare. Santa Caterina ancora oggi esorta i cattolici a essere vigili e a perseguire sempre quel bene comune, peraltro riconoscibilissimo nei suoi scritti. Per politici e gli amministratori il monito di Caterina pare essere questo: entrare in una nuova fase della politica aggregandosi con un unico scopo, il bene comune. Tanto è richiesto al cattolico. [SERENA VISINTIN]
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