Numero 5 - Reporter nuovo
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Numero 5 - Reporter nuovo
Anno III - Numero 5 Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli Reporter 12 Febbraio 2010 nuovo Outsourcing Sventolano stelle e strisce ‘cinesi’ Icaro Stragi stradali come bloccarle Nomi strani Indro Schizogeno Montanelli Toto caffè I mille modi della tazzina SONDAGGI PORTA-VOTO POSSONO ORIENTARE GLI ELETTORI? PARLANO PAGNONCELLI E PIEPOLI Politica Verso le regionali. Non solo comizi, interviste e dibattiti per vincere la competizione L’irresistibile fascino del sondaggio Come le rilevazioni d’opinione condizionano il consenso e le scelte Da comprimari ad attori protagonisti. I sondaggi d’opinione hanno ormai un ruolo preminente all’interno delle campagne elettorali. Strumento politico più che d’informazione, vengono utilizzati dai contendenti accanto alle tradizionali “armi di persuasione” come comizi, interviste e dibattiti. La rivoluzione mediatica che ha caratterizzato l’ultimo ventennio ha infatti accen- tuato la ricerca del consenso, consacrando il sondaggio come mezzo principe per individuare gusti e preferenze del pubblico e, dunque, dei preziosi elettori. Un boccone troppo appetitoso per la politica: vincere la guerra dei sondaggi nell’era della sondaggiocrazia è diventato un obiettivo fondamentale. Perchè la popolarità genera popolarità e, di conseguenza, voti. Per questo mo- tivo negli ultimi anni si sono moltiplicati gli istituti di ricerca. Anche se, secondo Renato Mannheimer, dell’istituto di ricerca Ispo, i sondaggi orientano i leader politici ma non l’elettorato. Abbiamo approfondito questo discorso con Nando Pagnoncelli, amministratore delegato di Ipsos e con Nicola Piepoli, fondatore e presidente dell’Istituto Piepoli. Pagnoncelli: una vera bussola Piepoli: è sbagliato confidare che orienta l’azione politica nel cinque per cento in più Professor Pagnoncelli, secondo lei i sondaggi orientano la politica? “I sondaggi orientano sicuramente la politica e questo è, a mio parere, un elemento di distorsione del sistema politico. E’ come se vivessimo in un’epoca di democrazia del consenso dove, ai momenti istituzionali di verifica rappresentati dalle elezioni si somma una esigenza di disporre di un sistema di controllo “day by day”. In questa situazione è evidente che, non avendo più un arco temporale lungo tra la misurazione del consenso istituzionale e quella successiva, la politica tende a privilegiare nella propria azione iniziative, proposte e misure volte a massimizzare il consenso. Questo determina come conseguenza il fatto che in Italia serie politiche di profonde riforme non vengono attuate perchè evidentemente riformare il paese significa adottare anche misure impopolari”. Dunque un partito o un politico può modificare la sua linea politica in base ai sondaggi? “In realtà il sondaggio viene utilizzato quasi come una vera e propria bussola dell’azione politica, proprio per andare ad individuare temi o azioni che consentono di massimizzare il consenso. Non sempre è così, evidentemente, ma quando non è così, la politica usa il sondaggio non come azione ma come strumento per individuare leve efficaci di comunicazione”. Pensa che sia la politica allora a strumentalizzare i sondaggi? “Sicuramente sì. A mio avviso c’è stato un cambiamento della destinazione d’uso del sondaggio negli ultimi anni. Il sondaggio da strumento di conoscenza di- 2 12 Febbraio 2010 Nando Pagnoncelli venta sempre di più strumento di comunicazione e bussola dell’attività politica e quindi, in quanto strumento di comunicazione, viene utilizzato per orientare l’opinione pubblica, dunque non per misurarla ma per costruirla. E’ chiaro che diventa qualcosa di diverso, e quindi da strumento di democrazia può diventare un rischio per la democrazia stessa”. Come si spiegano le elevate divergenze di percentuali tra sondaggi effettuati su argo- menti simili? A volte sembra che i sondaggi tendano ad avere una casacca politica. “Sì, a volte può sembrare così. Ma non bisogna mettere sullo stesso piano tutti i sondaggi e soprattutto le differenti società che li producono. Si deve poi considerare che i media non sono mai neutrali. Bisognerebbe per questo separare nettamente l’attività di ricerca e analisi demoscopica, rispetto all’attività di consulenza politica. Perchè nel secondo caso si entra inevitabilmente in un terreno che non prevede una neutralità forte”. Come si colloca il panorama italiano rispetto al resto del mondo? Ci sono differenze? “Le società che producono sondaggi in Italia non hanno nulla da invidiare a nessuno. La differenza che percepisco con il resto del mondo è legata all’utilizzo del sondaggio. In Italia è molto più frequente l’uso del sondaggio in termini strumentali”. Professor Piepoli, secondo lei i sondaggi orientano la politica? “A mio avviso i sondaggi non orientano la politica, la disorientano. Solitamente quando faccio campagna elettorale consiglio ai miei clienti di non fare sondaggi perchè i sondaggi sono controproducenti. Se per esempio io sono in campagna e il sondaggio mi dice che sono sotto di 5 punti rispetto al mio concorrente perdo la voglia di battermi. Viceversa se sono 5 punti sopra posso pensare di aver vinto. Quindi, sia da una parte che dall’altra, i sondaggi non servono”. Dunque un partito o un politico può modificare la sua linea politica in base ai sondaggi? “In una società depressa e terzomondista sì, in una società evoluta e affluente no. Per esempio in Francia i sondaggi non influenzeranno mai la politica, In Italia forse è diverso, ma è un discorso di humus e non di sondaggi. Cre- Nicola Piepoli do che i sondaggi servano a dare gli orientamenti dell’opinione pubblica. Poi il Governo decide in base ai bisogni del paese, così diceva De Gaulle e così dicono i ricercatori seri, al servizio di politici seri”. Come si spiegano le elevate divergenze di percentuali tra sondaggi effettuati su argomenti simili? A volte sembra che i sondaggi tendano ad avere una casacca politica. “Sembra. Ma i sondaggi sono fatti con domande stan- dard. Noi istituti siamo un clan, un gruppo di professionisti mondiali. E quando rivolgiamo delle domande, rivolgiamo sempre le stesse. Sono le stesse qui, a Toronto, a New York, in Cina, in Africa e in Europa. Così possiamo confrontare i risultati a livello mondiale, non a livello locale”. Dunque non c’è il rischio di una strumentalizzazione dei sondaggi? “Le persone serie e gli istituti seri utilizzano metodologie standard. Le cito 4 istituti seri in Italia: noi, Mannheimer, Ipsos, Gipieffe. Noi rivolgiamo agli intervistati, quando facciamo sondaggi politici, le stesse domande multinazionali che si rivolgono in tutto il mondo. Quindi chi si serve di uno di questi istituti entra in contatto con il pianeta. Sono 40 i paesi in cui si fanno sondaggi seri attraverso istituti seri. Poi dopo c’è sempre, diciamo, il bucaniere... Ma alla lunga il bucaniere ha scarsa vita”. Ma la fabbrica del consenso non sempre ci azzecca Se l’erba del vicino è sempre più verde, il sondaggio del concorrente è sempre sbagliato: i propri numeri sempre veri, trasparenti e stabili; quelli degli avversari sistematicamente giudicati falsi, irreali e taroccati. Ufficialmente il sistema politico non li ama. Lo documenta, ad esempio, Filippo Ceccarelli di Repubblica che ricorda come Gianfranco Fini sostenesse che con i sondaggi “ci si incartano le patate”, mentre una frase di Romano Prodi non ha bisogno di grande interpretazione: “I sondaggi? Suvvia!”. Bettino Craxi, invece, nei giorni precedenti il referendum sulla preferenza unica del 1991 disse che avrebbe vo- Dal severo giudizio di Craxi alla celebre “toppata” di Fede lentieri tolto la licenza agli istituti demoscopici in caso di errore. Una dichiarazione mai passata alla storia, a differenza dell’invito, sempre di quegli stessi giorni, ad andare al mare. Insomma tutti contro i sondaggi. Salvo poi commissionarli perchè la fabbrica del consenso è un’arma troppo importante nella bagarre elettorale. Tuttavia, se i politici avessero un po’ di memoria, non si fiderebbero così ciecamente. Certo “the show must go on” e le elezioni politiche si susseguono ciclicamente come le stagioni. Così nel frullatore mediatico gli strafalcioni e gli errori clamorosi finiscono frettolosamente nel dimenticatoio. Come nel 1993 quando gli istituti di ricerca furono costretti a spiegare il risultato sbagliato degli exit poll zeppi di differenze con l’esito delle elezioni dei Pagina a cura di Marco Cicala sindaci. In quella occasione Ennio Salamon, amministratore delegato della Doxa, fu costretto a fare “mea culpa” per il divario (fino al 5 per cento) con i risultati definitivi. Memorabili poi le bandierine azzurre piazzate festosamente, ma altrettanto inutilmente, da Emilio Fede su tutta Italia durante le amministrative del 1995. L’istituto demoscopico Datamedia di Luigi Crespi aveva sbagliato clamorosamente gli exit poll assegnando al Polo 11 regio- ni su 15. Il giorno seguente le regioni effettivamente conquistate dal centrodestra furono invece soltanto 6 e Crespi chiese scusa pubblicamente “a Fede e agli italiani”. Più recentemente si è assistito al flop dei sondaggi durante le elezioni politiche del 2006. Rassegnato, il direttore di Nexus Fabrizio Masia, pronunciò la sua resa a “Porta a Porta”: “Non so se sia una considerazione ironica o drammatica, ma siamo nella totale impossibilità di dire chi ha vinto. Queste sono le peggiori elezioni della storia”. Era da poco passata l’una di notte e i risultati del Senato in alcune regioni erano ancora una chimera. Reporter nuovo Economia Tigri orientali e outsourcing. L’invasione dei mercati si estende dall’Est asiatico a quello europeo Sventolano stelle e strisce “cinesi” Apple, Disney, Ralph Lauren e perfino bandierine. Anche Fiat delocalizza Lorenzo d’Albergo Prima era solo il “made in China”, oggi seguono il trend anche Indonesia, Sri Lanka, Hong Kong e Vietnam. È il frutto di uno sbalorditivo sviluppo economico, che ha portato i paesi asiatici a ridosso delle grandi potenze mondiali. Secondo gli analisti della PricewaterhouseCooper, società che offre servizi di consulenza in materia fiscale alle imprese, l’apripista d’Oriente si sta preparando al grande salto: la Cina potrebbe sorpassare, salvo imprevisti, gli Stati Uniti già nel 2020. Ed è proprio nelle metropoli americane che il ruggito della tigre asiatica riecheggia più forte. A New York basta mischiarsi tra i tanti turisti alla ricerca di un capo Ralph Lauren a buon mercato o dell’ultima tecnologia con la “meletta”, per scoprire che le loro borse conterranno ben poche stelle e strisce alla fine della giornata. Il “made in China” che campeggia sulle etichette delle coloratissime polo col cavallino trova infatti il suo ge- IL SIMBOLO Sventoliamo con orgoglio le nostre bandiere “made in China”, dice la didascalia di una cartolina postale americana mello sul retro di ogni iPhone nel più elegante “Designed by Apple in California. Assembled in China”. E non si salvano nemmeno giocattoli Disney e repliche della bandiera americana, simboli di democrazia provenienti da fabbriche di regime. Per toccare con mano gli effetti del boom cinese si può guardare anche in casa. Prato, la “capitale degli stracci”, è stata colonizzata già a partire dagli anni ’90. Le oltre 4.000 aziende che compongono il distretto asiatico continuano a correre nonostante la crisi e dalla Toscana parte quotidianamente un milione di capi destinati ai mercati europei. Una produzione imponente, spesso collegata alle strategie della malavita italiana, che punta forte sulla contraffazione dei capi delle grandi firme. Oggi la Cina non si limita a esportare prodotti e manodopera. Da tempo ospita multinazionali dei paesi ricchi, la cui produzione contribuisce per il 60 per cento al volume delle esportazioni della potenza asiatica. Ora compra e riadatta per il mercato locale i grandi marchi globali. È il caso dell’italiana Basic Net, che ha venduto per 35 milioni di dollari definitivamente i diritti di sfruttamento della griffe “Kappa” per la Cina al gigante dell’abbigliamento China Dongxiang. Rimanendo tra tessuti e pellami, il passo dall’Est asiatico a quello europeo è brevissimo. Qui, negli utlimi dieci anni, hanno spostato la propria produzione oltre 35.000 aziende italiane. Si tratta di paesi come la Roma- nia o la Repubblica Moldava, dove prima esportiamo stoffe e macchinari e da cui poi importiamo prodotti “quasi” finiti. Agli stock che arrivano nello stivale manca solo il marchio di qualità. Quel “made in Italy” per il quale, come stabilito dalla Cassazione, basta che il prodotto abbia subito “un’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale” in Italia. Anche la Fiat ha scoperto i miracolosi benefici della manodopera a basso costo: Sergio Marchionne, amministratore delegato del gruppo, ha annunciato un imminente spostamento della produzione della Panda dalla Polonia a Pomigliano d’Arco, dove vengono attualmente assemblate le Alfa Romeo. Così saranno sdoganate le automobili del “biscione”: potrebbero presto essere fabbricate in Cina dalla Chery, azienda che già oggi fornisce motori al colosso torinese. Per non farsi mancare proprio nulla in tema di outsourcing, la Fiat ha recentemente ampliato la fabbrica di Bielsko-Biala, con un investi- mento che si avvicina ai 400 milioni di euro. Lo stabilimento polacco produrrà mezzo milione di motori a benzina l’anno. Nel settore automobolistico siamo in buona compagnia: anche Francia e Germania hanno fatto della delocalizzazione produttiva un credo. La Mercedes, una volta affidata la Classe C agli impianti americani, è stato costretta a venire incontro alle richieste degli operai tedeschi a cui aveva tolto il lavoro. Negli stabilimenti di Sindelfingen l’occupazione è garantita almeno per i prossimi vent’anni. Per la Renault si è scomodato Sarkozy. Quando il presidente è venuto a conoscenza del possibile trasferimento di parte della produzione in Turchia, ha convocato all’Eliseo i dirigenti dell’azienda francese. Mentre i governi europei intervengono per tutelare i diritti dei propri lavoratori, minacciati da una globalizzazione selvaggia, in Italia il destino degli operai di Termini Imerese sembra sempre più incerto. Con la globalizzazione cambiano le modalità di trasferimento dei contanti Ora il filippino si fa casa da qui Roberta Casa Basta con lo stereotipo dell’immigrato che custodisce i soldi nel materasso. È finito il tempo della colf che nasconde i risparmi rigorosamente in contanti nel reggiseno, portandoli con sé durante il viaggio di ritorno verso la famiglia. La globalizzazione e i suoi effetti si vedono anche nel cambiamento di usi e costumi delle comunità straniere che si sono stabilite in altri paesi. La facilità con cui ingenti capitali possono spostarsi da una parte all’altra del globo grazie ad un click, hanno aperto di fatto nuove frontiere economiche per i più audaci che hanno avuto il coraggio di sviluppare settori prima inesistenti. Fino a poco tempo fa l’ingegnosa mente economica aveva pensato ad agenzie che permettevano agli immigrati di trasferire elettronicamente i propri risparmi alle famiglie nel paese d’origine, con tutti i relativi vantaggi prodotti da uno Reporter nuovo spostamento virtuale anziché fisico del denaro. I successivi investimenti toccavano poi a chi era restato in patria, provvedendo a soddisfare le necessità dell’intera famiglia. Oggi invece è possibile impiegare i propri risparmi in beni immobiliari, direttamente dall’Italia. A prezzi abbordabili e con della realizzazione personale e dello status sociale del proprietario: la casa. Anche l’aspetto esteriore degli immobili filippini sembra voler accentuare tale visione: nei prospetti compaiono verande colonnate, siepi e prati all’inglese. Ma le offerte sono onnicomprensive, e per filippini e Agenzie italiane permettono di acquistare immobili direttamente a Manila. Ma l’extra lusso promesso nei prospetti non è per tutti modalità di pagamento pensate proprio per andare incontro alle esigenze di lavoratori immigrati, case, villette che in Italia sarebbero considerate di lusso, a Manila possono essere acquistate con investimenti minimi, a partire da 30mila euro. Le agenzie propongono pagamenti elastici, che promettono rate a cui con piccoli sforzi si riesce a far fronte, in nome di un bene da sempre simbolo italiani più esigenti, esistono investimenti “luxory budget”, che consentono l’acquisto di appartamenti ed attici in grandi complessi residenziali che non si fanno mancare proprio nulla: negozi d’alta moda italiana, viali alberati in perfetto stile parigino e parchi americaneggianti che ricordano quelli di Manhattan. Tutto ciò al centro di Manila. Tutto ciò restando seduti in un’agenzia immobiliare italiana. I prospetti però non lasciano trasparire una triste verità, che si ripropone con le medesime modalità in ogni parte del mondo dove nuovi edifici e sviluppi urbani prendono il posto degli insediamenti preesistenti: la popolazione della periferia di Manila, la più povera, ha dovuto lasciare quelle che erano le loro case, per trasferirsi in altre zone, sicuramente non più ricche. Dunque l’investimento edilizio non aiuta la popolazione locale, che non riceve ritorni economici, anzi è costretta a vivere in situazioni sempre più precarie. Kasiglahan Village ne è un esempio: area di riallocazione di tali comunità, la zona, che precedentemente era adibita a discarica, sorge su una collinetta di rifiuti. Grandi investimenti, grandi guadagni, futuro prospero per una città che cerca, come succede sempre più spesso, di trasformarsi in una grande metropoli extra lusso. Ma non per tutti. LA PROPOSTA Così l’agenzia immobiliare di via Padova pubblicizza case a Manila 12 Febbraio 2010 3 Mondo Con Giulia Zoli e Camilla Desideri di l’Internazionale una riflessione sulle donne al potere Va la politica dei tacchi a spillo Anche in Brasile si prepara una sfida presidenziale tutta al femminile L’ attualità impone una riflessione: dalle quote rosa fino alla vittoria femminile nelle più alte cariche di governo, in America come in Europa, sembra arrivato il momento delle donne al potere. Ne parliamo con due giornaliste dell’ Internazionale, Giulia Zoli e Camilla Desideri, esperte, rispettivamente, di America del Nord ed America Latina. Come giudicare questo fenomeno?Come spiegare questa rivoluzione? “Non si deve definire questo fenomeno una rivoluzione. Forse sarebbe più giusto parlare di evoluzione del ruolo della donna in politica. In tal senso, per gli Usa, si può pensare, più che a Sarah Palin, a Hillary Clinton come personaggio chiave, in cui si può maggiormente riconoscere tutta la tradizione del femminismo americano” Giulia Zoli, si parla di una probabile candidatura proprio di Sarah Palin alle prossime elezioni presidenziali americane del 2012. Davvero può essere considerata come la “Marianna” della destra americana che condurrà il Popolo a riprendersi la Casa Bianca? “Non c’è dubbio. E’ vero anche che quando fu annunciata la sua candidatura alla vicepresidenza ci fu un grande entusiasmo, che però non durò molto. Ha dato prova di essere abilissima nel promuovere se stessa e gestire la sua immagine nei rapporti con i media, facendo perno sul suo essere donna. Da questo punto di vista Sarah è una contraddizione vivente, perché da un lato è una donna giovane, bella che è arrivata in alto, dall’altro fa un uso della propria femminilità in maniera spregiudicata e irrispettosa verso le altre donne e nega la libertà ad alcune di esse (penso in questo caso alla sua politica antiabortista). Anche le femministe storiche sono rimaste spiazzate da questo atteggiamento. Si è fatta praticamente usare da McCain: è questo il suo paradosso. Non bisogna solo vedere le donne che ce l’hanno fatta, ma anche e soprattutto come hanno raggiunto il successo politico” 4 12 Febbraio 2010 PALIN E TYMOSHENKO: IL DOLCE E L’AMARO DELLE DONNE IN POLITICA Barracuda Sarah si prepara a guidare gli Usa La Pasionaria di Kiev non rinuncia al potere Madrina del neonato movimento dei “Tea party”, infiamma la destra e annuncia: “L’anti-Obama sono io”. E la folla: “Corri, Sarah, corri” Yulia, amica dell’Occidente, non riconosce la vittoria dell’avversario e pensa ad ottenere un terzo turno. Avanzate ipotesi di brogli RIVINCITA Sarah Pallin ci riprova Sarah Palin, ex governatore dell’Alaska ed ex candidata alle elezioni presidenziali Usa del 2009 come vice del repubblicano McCain, è pronta ad una nuova esperienza da protagonista nella vita politica americana. Con indosso un tailleur scuro, gonna sopra il ginocchio e tacchi alti, Sarah “Barracuda”, come è chiamata dai tempi della scuola, ha fatto da madrina al neonato movimento conservatore dei “Tea party”, concepito in opposizione alla politica fiscale di Barack Obama. Ed è qui che ha annunciato che la sua America “è pronta per un’altra rivoluzione”. Proprio il Presidente è stato al centro dei suoi attacchi, per assistere ai quali fan scatenati hanno pagato in tutto centomila dollari ed hanno alzato cartelli con la scritta “Sarah Power”. Si tratta di attacchi sull’economia perché “aumenta il deficit indebitando le future generazioni”, sul terrorismo “per essere un debole”, e sul troppo facile “cambiamento promesso” perché non è avvenuto nulla di tutto questo. Vedendo nel nuovo movimento il futuro della politica americana, come testimoniato dalla vittoria nella roccaforte democratica in Massachusetts, ha affermato che sarebbe assurdo non considerare una sua candidatura nel 2012, anche perché in questo momento i sondaggi la indicano come il volto repubblicano più popolare. Si presenta come il personaggio che può catalizzare tutte le spinte movimentiste e populiste della destra americana. In molti la sostengono perché è “prima di tutto americana e conservatrice e ci tiene alla famiglia”. SCONFITTA Ma Yulia non si arrende “Ci sono donne che considerano il centro della vita avere una famiglia ed accudire i propri figli. Io le rispetto molto. Ma per me la cosa più importante è la politica, la costruzione del mio paese”. Queste le parole di Yulia Timoshenko, alla vigilia del terremoto politico che ha travolto la sua Ucraina. Ex imprenditrice nel periodo post-comunista, scelse di fare politica per gli uomini che videro in lei le potenzialità di giovane donna e ben educata, che avrebbe potuto rappresentare la rinascita del Paese e assicurare l’indipendenza dell’economia dal potere delle strutture politiche. Dopo essere stata la protagonista di quella “rivoluzione arancione”, che portò Kiev lontano dall’orbita russa e vicino all’ Occidente, insieme a Victor Iushenko, è stata per quattro anni a capo del governo, e continua a dimostrare la sua forza e determinazione anche dopo gli ultimi ballottaggi presidenziali, che hanno decretato la sua sconfitta. Non avendola riconosciuta, sta suggerendo l’ipotesi di un terzo turno. Molto ambiziosa, ha un passato di forte oppositrice alla politica moscovita di Kiev, e il suo obiettivo è quello di portare definitivamente l’ Ucraina nell’orbita dell’ Occidente, chiedendo persino l’ingresso nell’ Alleanza Atlantica. Anche se “la Pasionaria di Kiev” tenta nello stesso tempo di aumentare la collaborazione con la Russia in un’ottica di interesse personale, come per esempio gli accordi nel settore energetico. Dopo Cile e Argentina, tocca al Costarica: Laura Chinchilla eletta presidente Laura Chinchilla è soltanto l’ultima delle donne sud americane che hanno raggiunto prestigiosi incarichi di responsabilità nei governi dei loro paesi, ed il primo presidente in 189 anni di storia del Costarica. Politologa cinquantenne, è riuscita a sbaragliare la concorrenza, conquistando il quarantasette per cento dei voti, più del doppio dei suoi diretti avversari. Di formazione socialdemocratica, la Chinchilla ha ottenuto la vittoria grazie all’alta percentuale di donne al voto. Ha rivolto un appello al dialogo ai diversi settori sociali, e ha promesso di continuare le politiche del suo predecessore Arias: migliorare la qualità della salute, Rivoluzione rosa in Sud America l’educazione, la sicurezza e soprattutto l’uguaglianza di genere. La neo presedente costaricana si va così ad aggiungere ad altre donne, che si sono imposte in un’America Latina solitamente dominata dagli uomini. Come la cilena Michelle Bachelet, eletta presidente del suo paese nel 2006. Madre single di tre bambini, non ha mai rinnegato il suo passato socialista e la sua laicità. Ha distribuito equamente i suoi ministeri tra uomini e donne, ha aperto centinaia di asili nido, ha creato una legge contro la violenza e la discriminazione ai danni delle donne e vorrebbe annullare il decreto che ha imposto l’amnistia ai responsabili delle atrocità dell’epoca di Pinochet. Ha portato a termine con l’ottantatre per cento dei consensi il suo mandato nel gennaio 2010. L ’ar- Pagina a cura di Ida Artiaco gentina Cristina Fernandez ha invece ottenuto il successo nel 2007, succedendo al marito Nestor Kirchner, e contro un’altra donna Elisa Carrìo. Bella raffinata e curata, presa di mira dai suoi oppositori per il frequente ricorso a collagene e botulino, spicca per la sua capacità di comunicare e non a caso ha concentrato la sua campagna elettorale sulle relazioni con gli altri leader sud americani e con potenziali investitori statunitensi. La sua popolarita’ è in parte il riflesso della leadership del marito che ha risollevato le sorti del Paese dopo il collasso economico del 2001, anche se ha ereditato dal suo governo il compito di frenarne l’inflazione. Il fenomeno della “politica con i tacchi a spillo” sta avendo grande successo anche in Sud America. Laura Chinchilla in Costarica, Michelle Bachelet in Cile e l’argentina Cristina Fernandez si sono riuscite ad imporre in Paesi solitamente dominati da uomini. Camilla Desideri, come giudicarlo? “Soprattutto la vittoria delle prime due è stata una grande rivoluzione. Per Cristina Fernandez il discorso è diverso, perché arrivata al potere grazie al marito, che continua a gestire soprattutto la sua politica economica. Se pensiamo che Michelle Bachelet è una donna divorziata, che ha figli da due matrimoni diversi e che in Cile il divorzio è stato legalizzato solo nel 2004, la sua elezione è stata davvero un fatto eccezionale. Anche per le politiche che ha messo in atto. Pur avendo ricevuto molte critiche sul sistema della scuola e della pubblica sicurezza, è stata molto apprezzata sulle politiche sociali. Ha introdotto la legge sull’allattamento, ha dato la possibilità alle ragazze over quattordici di acquistare gratuitamente la pillola del giorno dopo. Dunque, oltre al fatto che c’è una donna al potere, ci sono anche politiche che tutelano le donne madri e lavoratrici. La storia di Laura Chinchilla è diversa: è stata a capo della polizia, per cui l’ obiettivo sarà soprattutto la lotta alla criminalità, al fine di evitare che il suo Costarica diventi una seconda Colombia. Un altro dato interessante è che probabilmente a ottobre anche in Brasile trionferà una donna: il candidato di Lula è Dilma Rousseff, ex guerrigliera, personaggio forte. C’è anche un’altra donna candidata, Marina Silva, ministro dell’ambiente nel governo Lula, allontanatasi dal partito dei lavoratori per dissidi interni e appoggiata da Al Gore.Che in un’elezione in un paese emergente come il Brasile ci siano due donne a contendersi il potere con un uomo, Josè Serra, è un fatto abbastanza eccezionale”. Reporter nuovo Cronaca In una tavola rotonda alla Luiss superesperti a confronto su un’emergenza sociale: le cifre, i rimedi Stragi stradali, come bloccarle Occorre dialogare di più con i giovani e instillare una cultura delle regole LA PSICOLOGA IL DIRIGENTE Dialogo e prevenzione Il tutor salva la vita “La prospettiva psicologica è fondamentale per attuare una prevenzione efficace”. Paola Carbone, docente alla Facoltà di Psicologia 2 presso l’università di Roma La Sapienza, ha appena pubblicato il libro “Le ali di Icaro: capire e prevenire gli incidenti stradali”, in cui sono riportati i risultati di una ricerca-intervento condotta su un campione di 400 ragazzi in quattro ospedali romani. “La valutazione del rischio è una percezione soggettiva: i giovani calcolano il pericolo in maniera differente dagli adulti. ” La voglia di sfida, un diverso rapporto con la morte, il bisogno di aderire a comportamenti gruppali: sono questi i fattori che determinano il comportamento dei ragazzi. “Affinché la prevenzione sia efficace, bisogna seguire dei criteri. Intanto bisogna costruire delle relazioni dirette, dialogando con loro e facendoli sentire protagonisti. Poi bisogna passare per la cultura del gruppo: agire solo sul singolo individuo non serve. L’adulto, infine, non deve imporsi come un insegnante ma come un catalizzatore”. In due parole: prevenzione attiva. “Un ascolto attento è necessario per una prevenzione efficace. Bisogna aiutare i ragazzi a riconoscere meglio i pericoli e a renderli responsabili della loro incolumità”. “L’infrastruttura, da sola, non può eliminare il problema ma può ridurre le conseguenze ed eliminare la probabilità di incidente”. Gian Maria Gros-Pietro, direttore del Dipartimento di Scienze economiche e aziendali della Luiss nonché presidente di Autostrade per l’Italia Spa, sottolinea l’importanza della sicurezza basata sulle infrastrutture. In Italia, tra il 2001 e il 2008 il tasso di mortalità dovuto agli incidenti stradali è diminuito del 33 per cento, sulle autostrade invece ben del 73 per cento. Questo risultato è stato ottenuto grazie al tutor, un sistema che “infallibilmente” registra la velocità istantanea con la quale un veicolo passa davanti a un sensore e calcola il tempo medio di percorrenza di una tratta. “Non è possibile ingannare il tutor, bisogna rispettare il limite di velocità. Le macchine vanno necessariamente più piano, quindi sicuramente diminuiscono gli incidenti ma soprattutto diminuiscono i decessi ”. Grazie a questa nuova tecnologia, sperimentata e brevettata da Autostrade, il tasso di mortalità è diminuito del 51 per cento e il numero di incidenti del 19 per cento. Per aumentare la sicurezza, inoltre, negli Autogrill presenti sulla rete autostradale la notte non vengono venduti superalcolici e vengono distribuiti, per chi lo richiede, caffè gratuito. IL MEDICO Evitare alcol e droga “Quella delle stragi di giovani sulle strade è una vera e propria emergenza sociale”. Gian Paolo Cioccia, docente della Scuola di Specializzazione in Medicina Legale dell’Università La Sapienza, traccia una classifica delle principali cause degli incidenti stradali: l’eccesso di velocità, il mancato utilizzo dei dispositivi di sicurezza e, al terzo posto, l’assunzione di sostanze. “Guidare dopo aver assunto sostanze è estremamente pericoloso perché modificano la valutazione del rischio del mondo che ci circonda ed aumentano enormemente la probabilità di incidenti”. L’Italia su questo fronte vanta un triste primato: i ragazzi iniziano a consumare bevande alcoliche a soli 11 anni. Tra i giovani sotto i 30 anni, il 25-30 per cento consuma cannabinoidi, il 9-10 per cento cocaina e il 5 per cento usa ecstasy. Tra le sostanze “sballanti” c’è anche una new-entry: i farmaci. Antidepressivi o stimolanti, le medicine - se possibile - sono ancora più pericolose perché si possono reperire in farmacia anche senza ricetta. Ma tra i giovani - e meno giovani - è ancora l’alcol la sostanza più diffusa: “Non esistono quantità stabilite né rimedi immediati per sentirsi sicuri alla guida. L’unico metodo efficace è aspettare dopo aver bevuto”. Reporter nuovo GIUNGLA La presenza di cartelli stradali può distogliere l’attenzione dalla strada M illeduecentotrentacinque. Un numero troppo lungo da scrivere, una cifra troppo alta da sopportare. Sono i giovani tra i 15 e i 29 anni morti in Italia a causa di incidenti stradali nel 2008. E’ questo il dato che ha rimbombato come una triste eco nella sala Colonne della Luiss, dove mercoledì scorso si è tenuto il convegno “E Icaro volò sull’asfalto. I giovani e gli incidenti stradali: quale prevenzione?”, organizzato dall’Università con la Fondazione Ania. All’iniziativa hanno partecipato Rita Santarelli, Vice Presidente Esecutivo della Luiss, membri autorevoli del mondo accademico come il direttore del Dipartimento di Scienze economiche e aziendali della Luiss Gian Maria Gros-Pietro, Paola Carbone e Gian Paolo Cioccia della Facoltà di Psicologia 2 dell’Università La Sapienza di Roma, e dell’associazionismo sociale come Sandro Salvati presidente dell’Ania. (interventi riassunti nei box) Primo dato: l’incidentalità stradale è la prima causa di morte tra i ragazzi. Ogni giorno in Italia tre giovani tra i 15 e i 29 anni perdono la vita e altri 283 vengono feriti. Un risultato drammatico che mette l’accento su una piaga sociale paradossalmente ritenuta “normale”. Fino a quando una nazione che sta invecchiando come la nostra potrà continuare a tollerare la perdita di così tante giovani vite? E quali le cause? Sono le domande che tutti si pongono. Secondo quanto emerso da un’indagine condotta dalla professoressa Carbone in quattro ospedali romani e raccolta nel libro “Le ali di Icaro: capire e prevenire gli incidenti stradali”, le cause degli incidenti in età giovanile sono riconducibili a una scorretta valutazione del rischio. “Il pericolo viene visto come una sfida eccitante, perché hanno l’illusione di essere invulnerabili e si assumono rischi fatali”. Ben il 68 per cento dei ragazzi che accede al Pronto Soccorso a causa di uno scontro ha già subito almeno un incidente, “alcuni sono addirittura Ogni giorno in Italia tre ragazzi muoiono e 283 vengono feriti al quarto o al quinto”. “In Italia è diffusa la cultura dell’illegalità. La sicurezza stradale è solo una sfumatura di un problema più profondo”. La dura accusa arriva da Gianluca Melillo, consigliere vicario del Forum Nazionale dei Giovani. “Il problema è che nella politica di sicurezza i giovani non vengono coinvolti, mentre potrebbero dare un valore aggiunto nella progettazione” di una nuova e più efficace opera di prevenzione. A focalizzare il problema del rispetto delle regole è PiePagina a cura di Giulia Cerasi ro Caramelli, Direttore della I Divisione Servizio Polizia Stradale. L’Italia è il primo paese al mondo per numero autovetture, con ben 36 milioni di guidatori. Il costo degli incidenti stradali non si calcola solo in termini di vite spezzate, ma anche in termini economici: nel 2008 la collettività ha speso ben 30 miliardi di euro, pari al 2,4 per cento del Pil. Risolvere il problema della sicurezza sulle strade è quindi prioritario. “Occorre dialogare con le persone, perché le norme non devono solo essere imposte ma spiegate e interiorizzate” ha osservato Caramelli. Daniele Rossi, presidente della Federalimentare, concorda con quest’analisi: “C’è una forte propensione a risolvere il problema dei giovani in maniera protettiva, eliminando le sostanze per eliminare i comportamenti a rischio, oppure inasprendo le norme. Ma sono misure inefficaci”. Bisogna agire sui fattori informali che contribuiscono a determinare i valori degli adolescenti, come lo sport o un partner. Nonostante l’Italia vesta la maglia nera in Europa per il numero di incidenti, negli ultimi anni il trend è in diminuzione. Dal 2001 a oggi la mortalità sulle nostre strade è diminuita del 33 per cento, un buon risultato anche se ancora lontano da quel 50 per cento che l’Unione Europea aveva posto come obiettivo da raggiungere entro il 2010. L’ANIA No alle auto-salotto “In Italia non c’è la cultura della sicurezza stradale”. L’amara constatazione è di Sandro Salvati, Presidente della Fondazione Ania per la Sicurezza Stradale. “Viviamo in una società anestetizzata, bisogna rivalorizzare la vita. La società deve capire che c’è bisogno di consapevolezza”. Salvati parla di diritti. “Come fa uno Stato a garantire il diritto alla mobilità con un tasso di probabilità di incidenti così alto?”. C’è poi un altro diritto, fondamentale, quello di non essere ammazzato da un altro. Il problema, secondo il presidente dell’Ania, riguarda le sanzioni: “Ciò che succede con una macchina in Italia viene ritenuto meno grave di ciò che succede con la pistola. Il messaggio che deve passare, invece, è che anche la macchina può essere un’arma letale”. Tra le cause degli incidenti, soprattutto tra i giovani, Salvati cita l’alcol ma si concentra sulla guida distratta. “Le macchine stanno diventando ogni giorno di più dei salottini. L’industria preme in questa direzione: schermi, hi-fi, telefonini, computer. Poi ci sono le sigarette. Gli automobilisti hanno sempre più distrazioni”. Quel che serve, invece, è la tolleranza zero. “Abbiamo bisogno di poche norme, severe, e vanno fatte applicare”. 12 Febbraio 2010 5 Cronaca Vigili del fuoco, vita e problemi. Sono in 1.700 ad assistere Roma e provincia. 20.000 a Londra “Santo pompiere aiutami tu...” Pagati poco più di una badante. Parla un caposquadra di via Genova Emiliana Costa Il caposquadra Raffaele Ciotola è quasi alla fine della sua carriera di pompiere. Venticinque anni trascorsi su quei mastodonti che a sirene spiegate corrono da un capo all’altro della capitale in soccorso dei cittadini. E’ una passione ereditata la sua, figlio e nipote di ex vigili del fuoco. “Questo lavoro – racconta il caposquadra – è come una seconda pelle. Non lo si sceglie come quello di impiegato o di postino, ma rappresenta una missione. Almeno era così fino a qualche anno fa, prima che la crisi spingesse alla divisa anche chi non è pervaso dal sacro fuoco del mestiere”. In tempi di cattiva congiuntura economica mille e trecento euro al mese fanno gola ai giovani che ambiscono a imbracciare l’idrante. “In realtà siamo il corpo di sicurezza meno pagato. Il mio stipendio non supera i 1.450 euro, poco più di quello di una badante. Eppure anche noi come poliziotti e carabinieri abbiamo una famiglia da mantenere”, puntualizza il vigile. Raffaele presta servizio a via Genova, il comando centrale che gestisce gli interventi su Roma e provincia. La caserma, collocata in pieno centro tra piazza della Repubblica e l’altare della Patria, organizza il lavoro di 1.200 uomini. Un piccolo contingente davvero, se si pensa che nella sola Londra i vigili del fuoco in servizio sono oltre ventimila. Le risorse a disposizione del corpo di sicurezza sono legate alla Finanziaria di ogni anno, “ma il ministero degli Interni, dal quale dipendiamo, ci ha sempre considerato figli di serie B, rispetto all’Arma e alla Polizia. Eppure lavoriamo ogni giorno a contatto con la morte”, spiega il pompiere. Gli occhi del caposquadra diventano lucidi passando di fronte al muro di via Genova con le foto dei colleghi che non ci sono più. Ogni comando ha il suo altarino dei ricordi, ma il caposquadra preferisce parlare degli interventi più stravaganti e curiosi, quasi come se il dolore insito nel mestiere fosse qualcosa di troppo privato per poter essere condiviso. I duecento interventi giornalieri non hanno tutti la stessa gravità e a volte ci sono perfino risvolti bizzarri. “Mi è capitato di dover trasportare 6 12 Febbraio 2010 IN PRIMA LINEA Squadre di vigili del fuoco romane sono intervenute all’Aquila nei giorni del terremoto, raddoppiando i turni di lavoro fuori da un edificio in fiamme un uomo così grasso che in cinque persone non riuscivamo a sollevarlo. L’unica soluzione è stata la gru. Lo abbiamo appeso al braccio meccanico e lo abbiamo fatto uscire dalla finestra”. Esilarante anche la storia del nonnetto. “Una famiglia ha chiamato il 115, perché non riusciva più a trovarlo. Dopo aver scassinato la porta di ingresso, lo abbiamo cercato in tutta casa. Alla fine l’ho scovato in un armadio che fumava di nascosto per non farsi rimproverare dai figli”. In una carriera lunga venticinque anni sono tanti gli aneddoti che Ciotola ricorda con un sorriso. “Quante risate quella volta che siamo intervenuti in un palazzo di Campo de’ Fiori per un’infiltrazione d’acqua. Siamo saliti all’ultimo piano dello stabile, poiché la perdita proveniva dall’attico. Non avendo rispo- sto nessuno al campanello abbiamo fatto irruzione nell’appartamento. E che abbiamo trovato? Due amanti focosi che, travolti dalla passione, avevano lasciato il rubinetto della vasca aperto, allagando tutto il palazzo”. I vigili del fuoco, infatti, vengono chiamati dai cittadini per le motivazioni più diverse, anche quando gli interventi non sarebbero di loro competenza. “La gente – ha spiegato il caposquadra – non ci percepisce come una forza repressiva alla pari degli altri corpi. Ha con noi maggior confidenza e per questo il 115 è il numero di telefono più gettonato”. C’è chi si rivolge ai pompieri per il classico gattino sull’albero, per spostare una mucca dal centro della strada o per acchiappare canarini fuggiti dalla gabbietta. Perfino Anna Magnani qualche anno fa perse il suo pappagal- Dopo l’11 settembre, quando in 343 sono morti nelle operazioni di soccorso A New York sono un simbolo Foto nella cappella di fronte a Ground Zero e t-shirt Francesco Alfani Le loro sirene sono una presenza familiare, quasi rassicurante, nel rumore delle auto incolonnate sulle avenue di Manhattan. Un suono acuto, squillante, che accompagna con grande effetto la corsa delle autoscale, i camion rossi dei vigili del fuoco di New York. Gli uomini del New York Fire Department sono anche questo: il simbolo di una città e della sua febbrile energia. Ma, soprattutto dopo l’11 settembre, sono diventati veri e propri eroi nazionali. E per buoni motivi. Primi ad accorrere sotto le Twin Towers, al numero uno di World Trade Plaza, e in prima linea nelle attività di soccorso, hanno pagato anche più di altri il prezzo dell’attentato. Di loro 343 sono morti, schiacciati dal crollo delle Torri o soffocati dal fumo che ha avvolto per ore Ground Zero. Tra loro, anche il capo del Dipartimento cittadino, Peter Ganci, e il suo secondo, William M. Feehan. Il primo ha i genitori italiani, Feehan invece viene dall’Irlanda; due figli di immigrati, già decorati per meriti sul campo, sono morti insieme tra EROI I pompieri di New York issano una bandiera a lutto sulle rovine di Ground Zero le macerie mentre cercavano di trarre in salvo i superstiti delle esplosioni. Nessun modo migliore per entrare nel cuore dei newyorchesi, che, con il sindaco Rudolph Giuliani in testa, li hanno onorati con funerali solenni e li hanno ricordati riuniti in preghiera nelle chiese e sinagoghe della città. Nella Cappella di Saint Paul, di fronte a Ground Zero, che già pochi giorni dopo gli attentati era stata trasformata dai cittadini di New York in uno spontaneo memoriale della tragedia, i vigili del fuoco sono i più celebrati. Qui, su una anonima uniforme di un agente di polizia, in moltissimi hanno appuntato i distintivi dei pompieri che, da tutte le caserme della città e del paese, hanno soccorso le vittime del crollo delle torri. Nelle foto alle pareti, loro ci sono quasi sempre: “the bravest”, i più coraggiosi, come i giornalisti americani li hanno soprannominati. In un paese che si innamora spesso di nuovi eroi, sono loro i veri salvatori, gli eredi ideali degli sceriffi e dei cowboys della frontiera. Nove anni dopo quei fatti tragici, la vita dei pompieri di New York è tornata alla routine quotidiana. Ma le loro divise, grigie e gialle con il cognome stampato sulla schiena, e i loro elmetti fanno sognare tante donne, rassicurano i newyorchesi ed entusiasmano quasi tutti i turisti, che fanno la fila per comprare le t-shirt del NYPD vendute sulle bancarelle di souvenir a Battery Park. lo… che ad oggi risulta ancora disperso. Ma scherzi a parte, nella Capitale ci sono anche tante altre operazioni, a partire dalla potatura degli alberi. “La manutenzione della vegetazione è molto scarsa e capita spesso che dobbiamo intervenire per rimuovere tronchi o rami caduti”. Non mancano purtroppo casi più gravi come incidenti stradali o esplosioni in edifici per fughe di gas. Ci sono, poi, situazioni di emergenza straordinarie. Per il terremoto in Abruzzo tutti i vigili in forza a Roma hanno raddoppiato i turni per riuscire a prestare soccorso nell’interland aquilano. E’ stata mandata anche una delegazione a Haiti. In quel caso i pompieri soni stati di supporto alla Croce Rossa, ma hanno anche aiutato la popolazione haitiana ridotta allo stremo. “Il nostro lavoro – conclude Ciotola - è molto duro e mal pagato. Ma io non lo cambierei con nessun altro. Basta prestare soccorso a una solo persona che la tua vita assume un altro significato”. TUTE ROSA Sono poche le donne con l’idrante Donne e idranti non vanno molto d’accordo. Anche se il corpo dei Vigili del fuoco ha aperto da dieci anni le porte anche al gentil sesso, sono ancora poche le ragazze ad abbracciare la professione. Colpa della pesantezza del lavoro e delle prove fisiche richieste all’esame di Stato. Sono di più le giovani discontinue, lavoratrici precarie che si occupano della logistica e del call center. Nonostante questo le poche “pompiere” festeggeranno con le colleghe delle altre forze dell’ordine la festa della donna, con un’iniziativa che si svolgerà il prossimo cinque marzo. Un modo per ricordare che la divisa si sta tingendo di rosa. E.C. Reporter nuovo Costume & Società Anomalie onomastiche e oltre. Nel dare il nome ai figli, qualche volta i genitori esagerano Indro Schizogeno non è il più strano Montanelli si chiamava così. Altri casi: da Tonsillite Jackson a Friceto Raffaele D’Ettorre Dalla quadrinomia degli antichi romani alla binomia contemporanea fino ad addentrarsi nell’azzardato territorio delle stravaganze linguistiche, il nome proprio si è evoluto, è mutato seguendo i costumi, si è rinnovato e spesso in modi tutt’altro che ordinari. Forse è la ricerca del singolare o un perverso gusto per la risata che spinge i genitori a sperimentare accoppiamenti linguistici strambi, a volte preoccupanti o volutamente ironici. Fatto sta che i casi di persone dal “nome buffo” sono sempre più frequenti e rischiano anzi di diventare fenomeno di costume. Semplicemente sfogliando l’elenco telefonico possiamo infatti incontrare la sfortunata Crocifissa In Croce, la conturbante Vera Porcella, il poco ortodosso Santo Maddio, l’appetitosa Margherita Pizza, il bucolico Guido Laratro, il simpatico Leon Cino, il festoso Felice Carnevale o gli italianissimi Kevin Costa e James Bondi. Qui la stranezza è tutta giocata sull’accostamento azzardato con il cognome, ma non mancano i casi di nomi insoliti e appariscenti di per sé. Un esempio illustre nella penisola nostrana è dato da Indro Alessan- RIVELAZIONE È il Giornale a scoprire un errore della Treccani nel citare Montanelli con nome improprio dro Raffaello Schizogeno Montanelli: un pentanomio bizzarro, profetico in modo quasi inquietante. Mentre Indro è infatti dato dalla mascolinizzazione della divinità induista Indra (dea della folgore e delle tempeste), l’inusuale Schizogeno è l’italianizzazione di un termine greco che letteralmente sta a significare “generatore di conflitti”. Due nomi alquanto azzeccati per una personalità che ha avuto l’innata capacità, ovunque andasse, di smuovere sem- pre le acque, di polarizzare e dividere i cuori e le anime di chi gli gravitava intorno. Meno fortunato invece il giovane Friceto, chiamato così dalla madre devota e convinta che il Padre Nostro, in latino, recitasse “Santo Friceto nomen tuum” (la formulazione corretta invece è “Sanctificetur”, ovvero “sia santificato”). Simile sorte ha sperimentato anche il bambino sardo Piovi, scelto dal calendario nel giorno di San Pio VI. Curioso inoltre il caso della recluta statunitense Tonsillite Jackson, figlio di emigranti italiani: i suoi tre fratelli sono infatti Otite, Appendicite e Laringite. Dalla tendenza dello sperimentalismo onomastico non sono immuni nemmeno le grandi star internazionali che, vuoi per un eccesso d’esibizionismo quasi barocco, vuoi per la ricerca sfarzosa dell’originalità, appioppano alla prole nomi sempre più ricercati e fuori del comune. E così non bisogna stupirsi più di tanto se la popstar britannica Geri Halliwell decide di chiamare la propria figlioletta “Bluebell Madonna”, né aggrottare le sopracciglia dinanzi agli inusuali London Emilio (figlio del chitarrista Slash dei Guns’n’Roses), Gulliver (Gary Oldman e Donya Fiorentino), Fuchsia (Sting e Frances Tomelty) o Kal-El (nome di battesimo “kriptoniano” di Superman, affibbiato al proprio rampollo dall’attore californiano Nicholas Cage). Neanche il più atipico degli appellativi è però immune da eventuali “incidenti di percorso”: è il caso bizzarro di Suri Cruise, figlia di Tom e Katie. Un nome accattivante per noi occidentali, che tuttavia perde gran parte del suo fascino esotico una volta tradotto in giapponese, assumendo il preoccupante significato di “borseggiatore”. Per cautelarsi dalle sorprese sgradite, i vip si affidano allora all’offerta di Today Translation, un servizio che, con poco più di 1.500 dollari, garantisce la traduzione del nome scelto in più di cento lingue diverse. Imprescindibile per tutelare i pargoli dagli eccentrici vezzi semantici dei genitori, particolarmente nel mondo sempre più stravagante e anticonformista dello spettacolo. AFFASCINANTI Personaggi della Traviata in fastosi abiti durante il “Libiamo”. A sinistra un prezioso abito di scena in esposizione Chiara Aranci É una collezione di abiti di un valore inestimabile quella del teatro dell’Opera di Roma: circa 80mila capi che dal 1879, anno della fondazione del Teatro Costanzi, ad oggi hanno vestito tutti gli spettacoli del teatro. Il patrimonio necessita di cure e attenzioni particolari: i vestiti non vanno esposti alla luce del sole, devono essere conservati ad una specifica temperatura, insomma sotto condizioni climatiche particolari. Il tutto poi ha dei costi che vanno a scontrarsi con la crisi che il mondo dello spettacolo sta vivendo. Cosa fare allora di questo tesoro nascosto nel deposito del teatro dell’Opera, a Roma in via della Greca? Ne abbiamo parlato con Alfredo Gasponi, critico musicale del Messaggero, il quale ha spiegato che il primo problema è individuare se una parte dei capi può essere riutilizzata negli spettacoli a teatro. Ritiene Reporter nuovo A colloquio con Alfredo Gasponi sul patrimonio nascosto dell’Opera di Roma ‘Mettiamo in scena quei costumi’ poi che sia utile pensare alla possibilità di cederli, o venderli per organizzare esposizioni “si valorizzerebbe il prodotto di eccellenza della sartoria specializzata dell’opera italiana, marchio pregiatissimo della nostra cultura. Sarebbe un buon modo per finanziare l’Opera”. E spiega che lo stesso nuovo sovrintendente Catello De Martino, nominato nel giugno 2009, aveva in progetto di vendere parte delle scenografie teatrali e anche dei costumi. Ma il problema fondamentale è riorganizzare il patrimonio dell’Opera, vendendo – dice - a privati, a fondazioni anche estere. Cita l’esempio di Vienna “ il suo Staatsopernmuseum apre ogni sera il sipario con uno spettacolo, a Roma questo succede solo in media settanta sera all’anno. L’opera è simbolo della cultura italiana, bisogna custodirla e promuoverla”. Alla domanda se manca un tipo di organizzazione strutturale, politica o di fondi, risponde “è un problema sicuramente di mentalità: in Italia la lirica si preferisce fare meno repliche e meno titoli, puntando però su una qualità particolare. All’estero è la quantità a vincere, senza nes- sun danno per la qualità”. Occorre quindi aumentare la produzione delle rappresentazioni utilizzando diversi meccanismi: dagli allestimenti più leggeri e maneggevoli, che incidono molto nei costi della rappresentazione, al dare spazio ai giovani cantanti, il tutto per ridare familiarità al pubblico italiano con l’opera. La stessa programmazione ha dei ritmi lenti e ci sono capolavori meno noti che non vengono rappresentati anche per trent’anni. Alla domanda sul trend attivato da alcuni giovani registi che rappresentano le opere liriche in abiti contemporanei risponde “All’inizio mi lasciavano un po’ perplesso, anzi provavo quasi un fastidio. Per un critico vedere spostata una rappresentazione da un’epoca a un’altra non è la cosa più accettabile. Poi ho incominciato ad esserne interessato, ci vedevo elementi che potevano dare contatto con la realtà moderna. Non amo le esagerazioni, né i compiacimenti. Non amo quelle trasposizioni che vedono il Rigoletto ambientato in fast food della Florida o il Barbiere di Siviglia tra le gang mafiose di New York.” 12 Febbraio 2010 7 Costume & Società Per Roma a caccia di caffè: lungo, ristretto, macchiato, al vetro; la croce del banchista Una, cento, mille tazzine al bar Esperienza e velocità. Il trucco è nel piattino. Come lo ordinano i vip Andrea Andrei “Tre caffè, uno macchiato e un cappuccino”. Il signor Mimmo dispone sul bancone cinque piattini, con altrettanti cucchiaini. La prima tappa del nostro “tour del caffé” inizia così al bar “Romoli” di viale Eritrea, che dagli anni ’50 è uno dei bar più frequentati del quartiere Trieste. Qui la domenica mattina c’è talmente tanta folla che quasi si fatica a entrare. E chi sta al bancone è costretto a prendere decine di ordinazioni diverse tutte insieme. Naturalmente, la clientela vuole essere servita nel più breve tempo possibile. “È allora che si vede la professionalità di un barista” spiega Roberta Romoli, proprietaria del locale, che insieme alla sorella Cinzia ha ereditato l’attività dal nonno e poi dal padre. “Nostro nonno aveva una latteria su via Nomentana, vicino a villa Torlonia. Portava il latte a Mussolini e serviva tutte le ville del quartiere” racconta Roberta. Fu così che “Romoli” divenne il caffé prediletto dalla borghesia romana. “Saper gestire le ordinazioni” aggiunge “è questione di esperienza. Il cliente ordina al “banchista” e quest’ultimo passa tutto a chi lavora alla macchina. Da parte di entrambi è necessaria grande concentrazione. Poi, qualche trucco per aiutarsi esiste. Ad esempio, a seconda della grandezza del piattino e della lunghezza del cucchiaino ci si riesce a ricordare se si deve servire un caffé piuttosto che un cappuccino. Certo, poi ci sono mille variazioni possibili”. Eh sì, perché un caffé si può preparare in decine di modi differenti: alla nocciola o al cioccolato fondente, corretto, macchiato o macchiato freddo, lungo o ristretto, in tazza grande o di vetro. “A quel punto”, continua la signora Roberta, “si può solo contare sulla propria abilità, o si può disporre il cucchiaino in un certo modo, secondo un proprio “codice” personale. Per fortuna ci sono anche gli abitudinari, per cui quando riconosciamo una persona spesso sappiamo già cosa prenderà”. Dal quartiere africano, alla stazione Termini. Il bar è il “Mokà”, dal quale passano migliaia di viaggiatori ogni giorno. Al bancone c’è Tony, un ragazzo sui venticinque anni. “Qui ci viene ogni tipo di per- 8 12 Febbraioo 2010 EUROPA E CAFFÈ l’ironia del vignettista sui differenti gusti dei ventisette commissari sona, dal professionista all’alcolista. Quando è molto affollato, diventa solo una questione psicologica: sei sotto pressione, e nel minor tempo devi prendere il maggior numero possibile di ordinazioni. Aumenta la concentrazione, e riesci a farcela”. Il giro dei caffé continua. Mezz’ora dopo siamo da “Giolitti”, lo storico bar a due passi da Montecitorio. In piedi dietro al bancone, due addetti in divisa bianca. Orfeo fa il barista da quando ha 11 anni, e adesso è quasi alla pensione. Mario lavora in questo bar da 35 anni. Anche loro dispongono i piattini, li usano come promemoria. Questo caffé è molto frequentato dai politici, che hanno gusti particolari: “L’onorevole La Russa prende sempre un caffé metà d’orzo e metà normale”, racconta Mario, che ricorda bene anche le consuetudini dei politici del passato. Primo fra tutti, Forlani: “Voleva sempre che, insieme al caffé, gli portassi due sigarette”, sorride. Il tour si conclude lì dov’era iniziato. Stavolta alla cassa del bar Romoli c’è la signora Cinzia. Dice di aver notato che le abitudini sono cambiate, che adesso il lavoro si concentra soprattutto nel weekend, e che sì, gli italiani hanno una speciale attitudine alla confusione: “Negli altri paesi la gente rispetta la fila e fa molto meno chiasso, rendendo più semplice il lavoro del barista”. Svela le usanze più strane dei suoi clienti: “C’è chi chiede il dolcificante e poi mette la panna nel caffé”. Ripete che la professionalità è alla base di tutto. E confessa: “È sempre più difficile trovare qualcuno che sappia fare bene questo lavoro. È davvero faticoso”. Nell’esempio dei grandi club europei per scoprire campioni A scuola di pallone Per Marco, il sogno di essere Totti Lorenzo d’Albergo Tutte le mattine Marco, prima di uscire di casa, lancia un’ultima occhiata al poster del campione preferito, immortalato in un’esultanza senza fine, e sospira speranzoso di poterne ripetere le gesta. Sulle spalle carica zaino e borsone. Quel borsone con stemmi e colori importanti che gli fa guadagnare gli sguardi di ammirazione delle compagne e le occhiatacce di invidia dei compagni di scuola. Infine, ecco la campanella: la giornata del giovane calciatore inizia soltanto in questo momento. Prima di tornare a casa, per Marco ci sono ancora scarpini da indossare, palloni da calciare e giri di campo da percorrere a testa bassa. Gli osservatori lo hanno scovato su un campo di pozzolana di periferia, intravedendo in lui qualcosa di speciale. Proprio come sono stati selezionati i ragazzi che ogni giorno si allenano nelle cantera spagnole e nelle academy inglesi. Ma Marco ha le stesse possibilità di “farcela” dei suoi colleghi stranieri? Negli ultimi anni il Barcellona ha dimostrato che si può vincere in casa e in Europa puntando sui prodotti del vivaio. Nell’ultima finale di Champions League i blaugrana portavano a Roma ben nove giocatori usciti dal settore giovanile: Victor Valdes, il capitano Puyol, Pi- In Inghilterra e Spagna giovani calciatori come “capitali” qué, Sergio Busquets, Xavi, Iniesta, Bojan Krkic, il pallone d’oro Lionel Messi e l’ultimo fenomeno del calcio spagnolo, Pedro “Pedrito” Rodriguez, primo giocatore capace di segnare in sei competizioni diverse nella stessa stagione. Per rimpinguare i settori giovanili, quando le promesse locali falliscono, i grandi club d’oltremanica vanno a caccia di talenti negli altri paesi. Dalle sterline e dalle organizzatissime academy britanniche sono stati recente- mente attratti gli italiani Sala, Prestia, Trotta, Petrucci e Mannone. C’è poi Federico Macheda, giovane goleador del Manchester United prelevato direttamente dal centro sportivo di Formello tra le proteste di Claudio Lotito, patron della Lazio. Sono tutti giovanissimi e, per ora, sconosciuti al grande pubblico. Ma presto potrebbero trasformarsi in capitali, come già successo con Gattuso, con il nazionale spagnolo Cesc Fabregas e Giuseppe Rossi. Il tutto a fronte di un investimento iniziale che raramente supera i 100mila euro. Spiccioli nel dorato mondo del calcio. In Italia i giovani hanno meno spazio. Le grandi puntano sui giocatori d’esperienza, quelli “già fatti”. Basti guardare all’Inter, in testa alla classifica della serie A con una squadra zeppa di stranieri. “Supermario” Balotelli e Santon, unici prodotti del vivaio della rosa nerazzurra, sono spesso costretti a guardare la partita dalla panchina. Forse a Marco converrà convincere qualche osservatore straniero. PREDESTINATO Cristian Totti sulle orme del padre Reporter nuovo Settimanale della Scuola Superiore di giornalismo “Massimo Baldini” della LUISS Guido Carli Direttore responsabile Roberto Cotroneo Comitato di direzione Sandro Acciari, Alberto Giuliani, Sandro Marucci Direzione e redazione Viale Pola, 12 - 00198 Roma tel. 0685225558 - 0685225544 fax 0685225515 Stampa Centro riproduzione dell’Università Amministrazione Università LUISS Guido Carli viale Pola, 12 - 00198 Roma Reg. Tribunale di Roma n. 15/08 del 21 gennaio 2008 [email protected] ! www.luiss.it/giornalismo Reporter nuovo