Numero 5 - Reporter nuovo

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Numero 5 - Reporter nuovo
Anno III - Numero 5
Settimanale della Scuola Superiore di Giornalismo della Luiss Guido Carli
Reporter
12 Febbraio 2010
nuovo
Outsourcing
Sventolano stelle
e strisce ‘cinesi’
Icaro
Stragi stradali
come bloccarle
Nomi strani
Indro Schizogeno
Montanelli
Toto caffè
I mille modi
della tazzina
SONDAGGI
PORTA-VOTO
POSSONO ORIENTARE GLI ELETTORI? PARLANO PAGNONCELLI E PIEPOLI
Politica
Verso le regionali. Non solo comizi, interviste e dibattiti per vincere la competizione
L’irresistibile fascino del sondaggio
Come le rilevazioni d’opinione condizionano il consenso e le scelte
Da comprimari ad attori protagonisti. I sondaggi
d’opinione hanno ormai un ruolo preminente all’interno delle campagne elettorali. Strumento politico più che d’informazione, vengono utilizzati dai contendenti accanto alle tradizionali
“armi di persuasione” come comizi, interviste e
dibattiti. La rivoluzione mediatica che ha caratterizzato l’ultimo ventennio ha infatti accen-
tuato la ricerca del consenso, consacrando il sondaggio come mezzo principe per individuare gusti e preferenze del pubblico e, dunque, dei preziosi elettori. Un boccone troppo appetitoso per
la politica: vincere la guerra dei sondaggi nell’era
della sondaggiocrazia è diventato un obiettivo
fondamentale. Perchè la popolarità genera popolarità e, di conseguenza, voti. Per questo mo-
tivo negli ultimi anni si sono moltiplicati gli istituti di ricerca. Anche se, secondo Renato Mannheimer, dell’istituto di ricerca Ispo, i sondaggi orientano i leader politici ma non l’elettorato. Abbiamo approfondito questo discorso con
Nando Pagnoncelli, amministratore delegato
di Ipsos e con Nicola Piepoli, fondatore e presidente dell’Istituto Piepoli.
Pagnoncelli: una vera bussola Piepoli: è sbagliato confidare
che orienta l’azione politica nel cinque per cento in più
Professor Pagnoncelli, secondo lei i sondaggi orientano la politica?
“I sondaggi orientano sicuramente la politica e questo
è, a mio parere, un elemento
di distorsione del sistema politico. E’ come se vivessimo in
un’epoca di democrazia del
consenso dove, ai momenti
istituzionali di verifica rappresentati dalle elezioni si
somma una esigenza di disporre di un sistema di controllo “day by day”. In questa
situazione è evidente che,
non avendo più un arco temporale lungo tra la misurazione del consenso istituzionale e quella successiva, la politica tende a privilegiare nella propria azione iniziative,
proposte e misure volte a
massimizzare il consenso.
Questo determina come conseguenza il fatto che in Italia
serie politiche di profonde
riforme non vengono attuate
perchè evidentemente riformare il paese significa adottare
anche misure impopolari”.
Dunque un partito o un
politico può modificare la
sua linea politica in base ai
sondaggi?
“In realtà il sondaggio viene utilizzato quasi come una
vera e propria bussola dell’azione politica, proprio per
andare ad individuare temi o
azioni che consentono di
massimizzare il consenso.
Non sempre è così, evidentemente, ma quando non è
così, la politica usa il sondaggio non come azione ma
come strumento per individuare leve efficaci di comunicazione”.
Pensa che sia la politica allora a strumentalizzare i sondaggi?
“Sicuramente sì. A mio
avviso c’è stato un cambiamento della destinazione
d’uso del sondaggio negli ultimi anni. Il sondaggio da
strumento di conoscenza di-
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12 Febbraio 2010
Nando Pagnoncelli
venta sempre di più strumento di comunicazione e
bussola dell’attività politica e
quindi, in quanto strumento
di comunicazione, viene utilizzato per orientare l’opinione pubblica, dunque non per
misurarla ma per costruirla. E’
chiaro che diventa qualcosa di
diverso, e quindi da strumento di democrazia può diventare un rischio per la democrazia stessa”.
Come si spiegano le elevate
divergenze di percentuali tra
sondaggi effettuati su argo-
menti simili? A volte sembra
che i sondaggi tendano ad avere una casacca politica.
“Sì, a volte può sembrare
così. Ma non bisogna mettere sullo stesso piano tutti i
sondaggi e soprattutto le differenti società che li producono. Si deve poi considerare che i media non sono mai
neutrali. Bisognerebbe per
questo separare nettamente
l’attività di ricerca e analisi demoscopica, rispetto all’attività di consulenza politica.
Perchè nel secondo caso si entra inevitabilmente in un terreno che non prevede una
neutralità forte”.
Come si colloca il panorama italiano rispetto al resto del mondo? Ci sono differenze?
“Le società che producono
sondaggi in Italia non hanno
nulla da invidiare a nessuno.
La differenza che percepisco
con il resto del mondo è legata
all’utilizzo del sondaggio. In
Italia è molto più frequente
l’uso del sondaggio in termini strumentali”.
Professor Piepoli, secondo
lei i sondaggi orientano la politica?
“A mio avviso i sondaggi
non orientano la politica, la disorientano. Solitamente quando faccio campagna elettorale consiglio ai miei clienti di
non fare sondaggi perchè i
sondaggi sono controproducenti. Se per esempio io sono
in campagna e il sondaggio mi
dice che sono sotto di 5 punti rispetto al mio concorrente
perdo la voglia di battermi. Viceversa se sono 5 punti sopra
posso pensare di aver vinto.
Quindi, sia da una parte che
dall’altra, i sondaggi non servono”.
Dunque un partito o un
politico può modificare la
sua linea politica in base ai
sondaggi?
“In una società depressa e
terzomondista sì, in una società evoluta e affluente no.
Per esempio in Francia i sondaggi non influenzeranno mai
la politica, In Italia forse è diverso, ma è un discorso di humus e non di sondaggi. Cre-
Nicola Piepoli
do che i sondaggi servano a
dare gli orientamenti dell’opinione pubblica. Poi il Governo decide in base ai bisogni del paese, così diceva De
Gaulle e così dicono i ricercatori seri, al servizio di politici seri”.
Come si spiegano le elevate divergenze di percentuali
tra sondaggi effettuati su argomenti simili? A volte sembra che i sondaggi tendano ad
avere una casacca politica.
“Sembra. Ma i sondaggi
sono fatti con domande stan-
dard. Noi istituti siamo un
clan, un gruppo di professionisti mondiali. E quando
rivolgiamo delle domande, rivolgiamo sempre le stesse.
Sono le stesse qui, a Toronto,
a New York, in Cina, in Africa e in Europa. Così possiamo confrontare i risultati a livello mondiale, non a livello
locale”.
Dunque non c’è il rischio
di una strumentalizzazione
dei sondaggi?
“Le persone serie e gli istituti seri utilizzano metodologie standard. Le cito 4 istituti seri in Italia: noi, Mannheimer, Ipsos, Gipieffe. Noi rivolgiamo agli intervistati,
quando facciamo sondaggi
politici, le stesse domande
multinazionali che si rivolgono in tutto il mondo. Quindi
chi si serve di uno di questi
istituti entra in contatto con il
pianeta. Sono 40 i paesi in cui
si fanno sondaggi seri attraverso istituti seri. Poi dopo c’è
sempre, diciamo, il bucaniere... Ma alla lunga il bucaniere ha scarsa vita”.
Ma la fabbrica del consenso non sempre ci azzecca
Se l’erba del vicino è sempre più verde, il sondaggio del
concorrente è sempre sbagliato: i propri numeri sempre
veri, trasparenti e stabili; quelli degli avversari sistematicamente giudicati falsi, irreali e
taroccati. Ufficialmente il sistema politico non li ama. Lo
documenta, ad esempio, Filippo Ceccarelli di Repubblica che ricorda come Gianfranco Fini sostenesse che
con i sondaggi “ci si incartano le patate”, mentre una
frase di Romano Prodi non ha
bisogno di grande interpretazione: “I sondaggi? Suvvia!”.
Bettino Craxi, invece, nei
giorni precedenti il referendum sulla preferenza unica
del 1991 disse che avrebbe vo-
Dal severo giudizio di Craxi
alla celebre “toppata” di Fede
lentieri tolto la licenza agli istituti demoscopici in caso di errore. Una dichiarazione mai
passata alla storia, a differenza dell’invito, sempre di quegli stessi giorni, ad andare al
mare. Insomma tutti contro i
sondaggi. Salvo poi commissionarli perchè la fabbrica del
consenso è un’arma troppo
importante nella bagarre elettorale.
Tuttavia, se i politici avessero un po’ di memoria, non
si fiderebbero così ciecamente. Certo “the show must go
on” e le elezioni politiche si
susseguono ciclicamente
come le stagioni. Così nel
frullatore mediatico gli strafalcioni e gli errori clamorosi finiscono frettolosamente
nel dimenticatoio. Come nel
1993 quando gli istituti di ricerca furono costretti a spiegare il risultato sbagliato degli exit poll zeppi di differenze con l’esito delle elezioni dei
Pagina a cura di Marco Cicala
sindaci. In quella occasione
Ennio Salamon, amministratore delegato della Doxa, fu
costretto a fare “mea culpa”
per il divario (fino al 5 per
cento) con i risultati definitivi. Memorabili poi le bandierine azzurre piazzate festosamente, ma altrettanto inutilmente, da Emilio Fede su
tutta Italia durante le amministrative del 1995. L’istituto
demoscopico Datamedia di
Luigi Crespi aveva sbagliato
clamorosamente gli exit poll
assegnando al Polo 11 regio-
ni su 15. Il giorno seguente le
regioni effettivamente conquistate dal centrodestra furono invece soltanto 6 e Crespi chiese scusa pubblicamente “a Fede e agli italiani”.
Più recentemente si è assistito al flop dei sondaggi durante
le elezioni politiche del 2006.
Rassegnato, il direttore di Nexus Fabrizio Masia, pronunciò la sua resa a “Porta a Porta”: “Non so se sia una considerazione ironica o drammatica, ma siamo nella totale impossibilità di dire chi ha
vinto. Queste sono le peggiori
elezioni della storia”. Era da
poco passata l’una di notte e
i risultati del Senato in alcune regioni erano ancora una
chimera.
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Economia
Tigri orientali e outsourcing. L’invasione dei mercati si estende dall’Est asiatico a quello europeo
Sventolano stelle e strisce “cinesi”
Apple, Disney, Ralph Lauren e perfino bandierine. Anche Fiat delocalizza
Lorenzo d’Albergo
Prima era solo il “made in
China”, oggi seguono il trend
anche Indonesia, Sri Lanka,
Hong Kong e Vietnam. È il
frutto di uno sbalorditivo sviluppo economico, che ha portato i paesi asiatici a ridosso
delle grandi potenze mondiali. Secondo gli analisti della PricewaterhouseCooper, società
che offre servizi di consulenza in materia fiscale alle imprese, l’apripista d’Oriente si sta
preparando al grande salto: la
Cina potrebbe sorpassare, salvo imprevisti, gli Stati Uniti già
nel 2020.
Ed è proprio nelle metropoli americane che il ruggito
della tigre asiatica riecheggia
più forte. A New York basta
mischiarsi tra i tanti turisti alla
ricerca di un capo Ralph Lauren a buon mercato o dell’ultima tecnologia con la “meletta”, per scoprire che le loro
borse conterranno ben poche
stelle e strisce alla fine della
giornata. Il “made in China”
che campeggia sulle etichette
delle coloratissime polo col cavallino trova infatti il suo ge-
IL SIMBOLO
Sventoliamo
con orgoglio le
nostre bandiere “made in
China”, dice la
didascalia di
una cartolina
postale
americana
mello sul retro di ogni iPhone
nel più elegante “Designed
by Apple in California. Assembled in China”. E non si
salvano nemmeno giocattoli
Disney e repliche della bandiera americana, simboli di democrazia provenienti da fabbriche di regime.
Per toccare con mano gli effetti del boom cinese si può
guardare anche in casa. Prato,
la “capitale degli stracci”, è stata colonizzata già a partire dagli anni ’90. Le oltre 4.000
aziende che compongono il distretto asiatico continuano a
correre nonostante la crisi e
dalla Toscana parte quotidianamente un milione di capi destinati ai mercati europei. Una
produzione imponente, spesso collegata alle strategie della malavita italiana, che punta forte sulla contraffazione dei
capi delle grandi firme.
Oggi la Cina non si limita
a esportare prodotti e manodopera. Da tempo ospita multinazionali dei paesi ricchi, la
cui produzione contribuisce
per il 60 per cento al volume
delle esportazioni della potenza asiatica. Ora compra e
riadatta per il mercato locale i
grandi marchi globali. È il
caso dell’italiana Basic Net,
che ha venduto per 35 milioni di dollari definitivamente i
diritti di sfruttamento della
griffe “Kappa” per la Cina al gigante dell’abbigliamento China Dongxiang.
Rimanendo tra tessuti e
pellami, il passo dall’Est asiatico a quello europeo è brevissimo. Qui, negli utlimi
dieci anni, hanno spostato la
propria produzione oltre
35.000 aziende italiane. Si
tratta di paesi come la Roma-
nia o la Repubblica Moldava,
dove prima esportiamo stoffe e macchinari e da cui poi
importiamo prodotti “quasi”
finiti. Agli stock che arrivano
nello stivale manca solo il
marchio di qualità. Quel
“made in Italy” per il quale,
come stabilito dalla Cassazione, basta che il prodotto
abbia subito “un’ultima trasformazione o lavorazione
sostanziale” in Italia.
Anche la Fiat ha scoperto i
miracolosi benefici della manodopera a basso costo: Sergio
Marchionne, amministratore
delegato del gruppo, ha annunciato un imminente spostamento della produzione
della Panda dalla Polonia a Pomigliano d’Arco, dove vengono attualmente assemblate le
Alfa Romeo. Così saranno
sdoganate le automobili del
“biscione”: potrebbero presto
essere fabbricate in Cina dalla Chery, azienda che già oggi
fornisce motori al colosso torinese. Per non farsi mancare
proprio nulla in tema di outsourcing, la Fiat ha recentemente ampliato la fabbrica di
Bielsko-Biala, con un investi-
mento che si avvicina ai 400
milioni di euro. Lo stabilimento polacco produrrà mezzo milione di motori a benzina l’anno.
Nel settore automobolistico siamo in buona compagnia: anche Francia e Germania hanno fatto della delocalizzazione produttiva un
credo. La Mercedes, una volta affidata la Classe C agli impianti americani, è stato costretta a venire incontro alle richieste degli operai tedeschi
a cui aveva tolto il lavoro. Negli stabilimenti di Sindelfingen
l’occupazione è garantita almeno per i prossimi vent’anni. Per la Renault si è scomodato Sarkozy. Quando il presidente è venuto a conoscenza del possibile trasferimento
di parte della produzione in
Turchia, ha convocato all’Eliseo i dirigenti dell’azienda
francese. Mentre i governi
europei intervengono per tutelare i diritti dei propri lavoratori, minacciati da una globalizzazione selvaggia, in Italia il destino degli operai di
Termini Imerese sembra sempre più incerto.
Con la globalizzazione cambiano le modalità di trasferimento dei contanti
Ora il filippino si fa casa da qui
Roberta Casa
Basta con lo stereotipo dell’immigrato che custodisce i
soldi nel materasso. È finito il
tempo della colf che nasconde i risparmi rigorosamente in
contanti nel reggiseno, portandoli con sé durante il viaggio di ritorno verso la famiglia.
La globalizzazione e i suoi effetti si vedono anche nel cambiamento di usi e costumi delle comunità straniere che si
sono stabilite in altri paesi. La
facilità con cui ingenti capitali
possono spostarsi da una parte all’altra del globo grazie ad
un click, hanno aperto di fatto nuove frontiere economiche per i più audaci che hanno avuto il coraggio di sviluppare settori prima inesistenti.
Fino a poco tempo fa l’ingegnosa mente economica
aveva pensato ad agenzie che
permettevano agli immigrati di
trasferire elettronicamente i
propri risparmi alle famiglie nel
paese d’origine, con tutti i relativi vantaggi prodotti da uno
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spostamento virtuale anziché
fisico del denaro. I successivi
investimenti toccavano poi a
chi era restato in patria, provvedendo a soddisfare le necessità dell’intera famiglia.
Oggi invece è possibile impiegare i propri risparmi in
beni immobiliari, direttamente dall’Italia.
A prezzi abbordabili e con
della realizzazione personale e
dello status sociale del proprietario: la casa. Anche l’aspetto esteriore degli immobili filippini sembra voler accentuare tale visione: nei prospetti compaiono verande colonnate, siepi e prati all’inglese.
Ma le offerte sono onnicomprensive, e per filippini e
Agenzie italiane permettono di acquistare
immobili direttamente a Manila. Ma l’extra
lusso promesso nei prospetti non è per tutti
modalità di pagamento pensate
proprio per andare incontro
alle esigenze di lavoratori immigrati, case, villette che in Italia sarebbero considerate di lusso, a Manila possono essere acquistate con investimenti minimi, a partire da 30mila euro.
Le agenzie propongono pagamenti elastici, che promettono
rate a cui con piccoli sforzi si
riesce a far fronte, in nome di
un bene da sempre simbolo
italiani più esigenti, esistono
investimenti “luxory budget”,
che consentono l’acquisto di
appartamenti ed attici in grandi complessi residenziali che
non si fanno mancare proprio
nulla: negozi d’alta moda italiana, viali alberati in perfetto
stile parigino e parchi americaneggianti che ricordano
quelli di Manhattan. Tutto ciò
al centro di Manila. Tutto ciò
restando seduti in un’agenzia
immobiliare italiana.
I prospetti però non lasciano trasparire una triste verità,
che si ripropone con le medesime modalità in ogni parte del
mondo dove nuovi edifici e
sviluppi urbani prendono il
posto degli insediamenti preesistenti: la popolazione della
periferia di Manila, la più povera, ha dovuto lasciare quelle che erano le loro case, per
trasferirsi in altre zone, sicuramente non più ricche. Dunque l’investimento edilizio
non aiuta la popolazione locale, che non riceve ritorni economici, anzi è costretta a vivere
in situazioni sempre più precarie. Kasiglahan Village ne è
un esempio: area di riallocazione di tali comunità, la zona,
che precedentemente era adibita a discarica, sorge su una
collinetta di rifiuti.
Grandi investimenti, grandi guadagni, futuro prospero
per una città che cerca, come
succede sempre più spesso, di
trasformarsi in una grande
metropoli extra lusso. Ma non
per tutti.
LA PROPOSTA Così l’agenzia immobiliare di via Padova
pubblicizza case a Manila
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Mondo
Con Giulia Zoli e Camilla Desideri di l’Internazionale una riflessione sulle donne al potere
Va la politica dei tacchi a spillo
Anche in Brasile si prepara una sfida presidenziale tutta al femminile
L’
attualità impone una
riflessione: dalle quote rosa fino alla vittoria femminile nelle più alte
cariche di governo, in America come in Europa, sembra
arrivato il momento delle
donne al potere. Ne parliamo con due giornaliste dell’
Internazionale, Giulia Zoli e
Camilla Desideri, esperte, rispettivamente, di America
del Nord ed America Latina.
Come giudicare questo
fenomeno?Come spiegare
questa rivoluzione?
“Non si deve definire
questo fenomeno una rivoluzione. Forse sarebbe più
giusto parlare di evoluzione
del ruolo della donna in
politica. In tal senso, per gli
Usa, si può pensare, più
che a Sarah Palin, a Hillary
Clinton come personaggio
chiave, in cui si può maggiormente riconoscere tutta
la tradizione del femminismo americano”
Giulia Zoli, si parla di
una probabile candidatura
proprio di Sarah Palin alle
prossime elezioni presidenziali americane del
2012. Davvero può essere
considerata come la “Marianna” della destra americana che condurrà il Popolo a riprendersi la Casa
Bianca?
“Non c’è dubbio. E’ vero
anche che quando fu annunciata la sua candidatura
alla vicepresidenza ci fu un
grande entusiasmo, che però
non durò molto. Ha dato
prova di essere abilissima
nel promuovere se stessa e
gestire la sua immagine nei
rapporti con i media, facendo perno sul suo essere
donna. Da questo punto di
vista Sarah è una contraddizione vivente, perché da
un lato è una donna giovane, bella che è arrivata in
alto, dall’altro fa un uso
della propria femminilità in
maniera spregiudicata e irrispettosa verso le altre donne e nega la libertà ad alcune di esse (penso in questo
caso alla sua politica antiabortista). Anche le femministe storiche sono rimaste
spiazzate da questo atteggiamento. Si è fatta praticamente usare da McCain: è
questo il suo paradosso.
Non bisogna solo vedere le
donne che ce l’hanno fatta,
ma anche e soprattutto
come hanno raggiunto il
successo politico”
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12 Febbraio 2010
PALIN E TYMOSHENKO: IL DOLCE E L’AMARO DELLE DONNE IN POLITICA
Barracuda
Sarah si
prepara a
guidare gli Usa
La Pasionaria
di Kiev
non rinuncia
al potere
Madrina del neonato
movimento dei “Tea
party”, infiamma la
destra e annuncia:
“L’anti-Obama sono
io”. E la folla:
“Corri, Sarah, corri”
Yulia, amica
dell’Occidente, non
riconosce la vittoria
dell’avversario
e pensa ad ottenere un
terzo turno. Avanzate
ipotesi di brogli
RIVINCITA Sarah Pallin
ci riprova
Sarah Palin, ex governatore dell’Alaska ed ex candidata alle
elezioni presidenziali Usa del 2009 come vice del repubblicano McCain, è pronta ad una nuova esperienza da protagonista nella vita politica americana. Con indosso un tailleur scuro, gonna sopra il ginocchio e tacchi alti, Sarah “Barracuda”,
come è chiamata dai tempi della scuola, ha fatto da madrina al neonato movimento conservatore dei “Tea party”, concepito in opposizione alla politica fiscale di Barack Obama. Ed
è qui che ha annunciato che la sua America “è pronta per un’altra rivoluzione”. Proprio il Presidente è stato al centro dei suoi
attacchi, per assistere ai quali fan scatenati hanno pagato in
tutto centomila dollari ed hanno alzato cartelli con la scritta
“Sarah Power”. Si tratta di attacchi sull’economia perché “aumenta il deficit indebitando le future generazioni”, sul terrorismo “per essere un debole”, e sul troppo facile “cambiamento
promesso” perché non è avvenuto nulla di tutto questo. Vedendo nel nuovo movimento il futuro della politica americana,
come testimoniato dalla vittoria nella roccaforte democratica in Massachusetts, ha affermato che sarebbe assurdo non
considerare una sua candidatura nel 2012, anche perché in questo momento i sondaggi la indicano come il volto repubblicano più popolare. Si presenta come il personaggio che può
catalizzare tutte le spinte movimentiste e populiste della destra americana. In molti la sostengono perché è “prima di tutto americana e conservatrice e ci tiene alla famiglia”.
SCONFITTA Ma Yulia
non si arrende
“Ci sono donne che considerano il centro della vita avere una famiglia ed accudire i propri figli. Io le rispetto molto. Ma per me la cosa più importante è la politica, la costruzione del mio paese”. Queste le parole di Yulia Timoshenko, alla vigilia del terremoto politico che ha travolto la
sua Ucraina. Ex imprenditrice nel periodo post-comunista,
scelse di fare politica per gli uomini che videro in lei le potenzialità di giovane donna e ben educata, che avrebbe potuto rappresentare la rinascita del Paese e assicurare l’indipendenza dell’economia dal potere delle strutture politiche.
Dopo essere stata la protagonista di quella “rivoluzione arancione”, che portò Kiev lontano dall’orbita russa e vicino all’
Occidente, insieme a Victor Iushenko, è stata per quattro anni
a capo del governo, e continua a dimostrare la sua forza e
determinazione anche dopo gli ultimi ballottaggi presidenziali, che hanno decretato la sua sconfitta.
Non avendola riconosciuta, sta suggerendo l’ipotesi di un
terzo turno. Molto ambiziosa, ha un passato di forte oppositrice alla politica moscovita di Kiev, e il suo obiettivo è quello di portare definitivamente l’ Ucraina nell’orbita dell’ Occidente, chiedendo persino l’ingresso nell’ Alleanza Atlantica. Anche se “la Pasionaria di Kiev” tenta nello stesso tempo di aumentare la collaborazione con la Russia in un’ottica di interesse personale, come per esempio gli accordi nel
settore energetico.
Dopo Cile e Argentina, tocca al Costarica: Laura Chinchilla eletta presidente
Laura Chinchilla è soltanto
l’ultima delle donne sud americane che hanno raggiunto
prestigiosi incarichi di responsabilità nei governi dei
loro paesi, ed il primo presidente in 189 anni di storia del
Costarica. Politologa cinquantenne, è riuscita a sbaragliare la concorrenza, conquistando il quarantasette per
cento dei voti, più del doppio
dei suoi diretti avversari. Di formazione socialdemocratica, la
Chinchilla ha ottenuto la vittoria grazie all’alta percentuale di donne al voto. Ha rivolto
un appello al dialogo ai diversi settori sociali, e ha promesso di continuare le politiche del
suo predecessore Arias: migliorare la qualità della salute,
Rivoluzione rosa
in Sud America
l’educazione, la sicurezza e soprattutto l’uguaglianza di genere. La neo presedente costaricana si va così ad aggiungere ad altre donne, che si sono
imposte in un’America Latina
solitamente dominata dagli
uomini. Come la cilena Michelle Bachelet, eletta presidente del suo paese nel 2006.
Madre single di tre bambini,
non ha mai rinnegato il suo
passato socialista e la sua laicità.
Ha distribuito equamente i
suoi ministeri tra uomini e
donne, ha aperto centinaia di
asili nido, ha creato una legge
contro la violenza e la discriminazione ai danni delle donne e vorrebbe annullare il decreto che ha imposto l’amnistia
ai responsabili delle atrocità dell’epoca di Pinochet. Ha portato a termine con l’ottantatre per
cento dei consensi il suo mandato nel gennaio 2010. L ’ar-
Pagina a cura di Ida Artiaco
gentina Cristina Fernandez ha
invece ottenuto il successo nel
2007, succedendo al marito
Nestor Kirchner, e contro un’altra donna Elisa Carrìo. Bella
raffinata e curata, presa di mira
dai suoi oppositori per il frequente ricorso a collagene e botulino, spicca per la sua capacità di comunicare e non a caso
ha concentrato la sua campagna elettorale sulle relazioni
con gli altri leader sud americani e con potenziali investitori
statunitensi.
La sua popolarita’ è in parte il riflesso della leadership
del marito che ha risollevato
le sorti del Paese dopo il collasso economico del 2001,
anche se ha ereditato dal suo
governo il compito di frenarne l’inflazione.
Il fenomeno della “politica con i tacchi a spillo” sta
avendo grande successo
anche in Sud America. Laura Chinchilla in Costarica,
Michelle Bachelet in Cile e
l’argentina Cristina Fernandez si sono riuscite ad
imporre in Paesi solitamente dominati da uomini.
Camilla Desideri, come giudicarlo?
“Soprattutto la vittoria
delle prime due è stata una
grande rivoluzione. Per Cristina Fernandez il discorso
è diverso, perché arrivata al
potere grazie al marito, che
continua a gestire soprattutto la sua politica economica. Se pensiamo che Michelle Bachelet è una donna
divorziata, che ha figli da
due matrimoni diversi e che
in Cile il divorzio è stato legalizzato solo nel 2004, la
sua elezione è stata davvero
un fatto eccezionale. Anche per le politiche che ha
messo in atto.
Pur avendo ricevuto molte critiche sul sistema della
scuola e della pubblica sicurezza, è stata molto apprezzata sulle politiche sociali. Ha introdotto la legge
sull’allattamento, ha dato
la possibilità alle ragazze
over quattordici di acquistare gratuitamente la pillola
del giorno dopo. Dunque,
oltre al fatto che c’è una
donna al potere, ci sono
anche politiche che tutelano le donne madri e lavoratrici.
La storia di Laura Chinchilla è diversa: è stata a
capo della polizia, per cui
l’ obiettivo sarà soprattutto la lotta alla criminalità,
al fine di evitare che il suo
Costarica diventi una seconda Colombia.
Un altro dato interessante è che probabilmente a ottobre anche in Brasile trionferà una donna: il candidato di Lula è Dilma Rousseff,
ex guerrigliera, personaggio
forte.
C’è anche un’altra donna
candidata, Marina Silva, ministro dell’ambiente nel governo Lula, allontanatasi
dal partito dei lavoratori
per dissidi interni e appoggiata da Al Gore.Che in
un’elezione in un paese
emergente come il Brasile ci
siano due donne a contendersi il potere con un uomo,
Josè Serra, è un fatto abbastanza eccezionale”.
Reporter
nuovo
Cronaca
In una tavola rotonda alla Luiss superesperti a confronto su un’emergenza sociale: le cifre, i rimedi
Stragi stradali, come bloccarle
Occorre dialogare di più con i giovani e instillare una cultura delle regole
LA PSICOLOGA
IL DIRIGENTE
Dialogo e prevenzione
Il tutor salva la vita
“La prospettiva psicologica è fondamentale per attuare una prevenzione efficace”.
Paola Carbone, docente alla Facoltà di Psicologia 2 presso l’università di Roma La Sapienza, ha appena pubblicato il libro “Le ali
di Icaro: capire e prevenire gli incidenti stradali”, in cui sono riportati i risultati di una ricerca-intervento condotta su un campione di
400 ragazzi in quattro ospedali romani.
“La valutazione del rischio è una percezione soggettiva: i giovani calcolano il pericolo in maniera differente dagli adulti. ” La
voglia di sfida, un diverso rapporto con la
morte, il bisogno di aderire a comportamenti
gruppali: sono questi i fattori che determinano
il comportamento dei ragazzi. “Affinché la
prevenzione sia efficace, bisogna seguire dei
criteri. Intanto bisogna costruire delle relazioni dirette, dialogando con loro e facendoli
sentire protagonisti.
Poi bisogna passare per la cultura del
gruppo: agire solo sul singolo individuo
non serve. L’adulto, infine, non deve imporsi
come un insegnante ma come un catalizzatore”.
In due parole: prevenzione attiva. “Un
ascolto attento è necessario per una prevenzione efficace. Bisogna aiutare i ragazzi
a riconoscere meglio i pericoli e a renderli responsabili della loro incolumità”.
“L’infrastruttura, da sola, non può eliminare
il problema ma può ridurre le conseguenze
ed eliminare la probabilità di incidente”. Gian
Maria Gros-Pietro, direttore del Dipartimento di Scienze economiche e aziendali della
Luiss nonché presidente di Autostrade per
l’Italia Spa, sottolinea l’importanza della sicurezza basata sulle infrastrutture. In Italia,
tra il 2001 e il 2008 il tasso di mortalità dovuto
agli incidenti stradali è diminuito del 33 per
cento, sulle autostrade invece ben del 73 per
cento. Questo risultato è stato ottenuto grazie al tutor, un sistema che “infallibilmente” registra la velocità istantanea con la quale un
veicolo passa davanti a un sensore e calcola il tempo medio di percorrenza di una tratta. “Non è possibile ingannare il tutor, bisogna rispettare il limite di velocità. Le macchine
vanno necessariamente più piano, quindi sicuramente diminuiscono gli incidenti ma soprattutto diminuiscono i decessi ”. Grazie a
questa nuova tecnologia, sperimentata e brevettata da Autostrade, il tasso di mortalità è
diminuito del 51 per cento e il numero di incidenti del 19 per cento.
Per aumentare la sicurezza, inoltre, negli
Autogrill presenti sulla rete autostradale la notte non vengono venduti superalcolici e vengono distribuiti, per chi lo richiede, caffè gratuito.
IL MEDICO
Evitare alcol e droga
“Quella delle stragi di giovani sulle strade è una vera e propria emergenza sociale”. Gian Paolo Cioccia, docente della
Scuola di Specializzazione in Medicina Legale dell’Università La Sapienza, traccia una
classifica delle principali cause degli incidenti
stradali: l’eccesso di velocità, il mancato utilizzo dei dispositivi di sicurezza e, al terzo
posto, l’assunzione di sostanze. “Guidare
dopo aver assunto sostanze è estremamente pericoloso perché modificano la valutazione del rischio del mondo che ci circonda ed aumentano enormemente la probabilità di incidenti”.
L’Italia su questo fronte vanta un triste primato: i ragazzi iniziano a consumare bevande alcoliche a soli 11 anni. Tra i giovani sotto i 30 anni, il 25-30 per cento consuma cannabinoidi, il 9-10 per cento cocaina
e il 5 per cento usa ecstasy. Tra le sostanze “sballanti” c’è anche una new-entry: i farmaci. Antidepressivi o stimolanti, le medicine
- se possibile - sono ancora più pericolose
perché si possono reperire in farmacia anche senza ricetta.
Ma tra i giovani - e meno giovani - è ancora l’alcol la sostanza più diffusa: “Non esistono quantità stabilite né rimedi immediati per sentirsi sicuri alla guida.
L’unico metodo efficace è aspettare
dopo aver bevuto”.
Reporter
nuovo
GIUNGLA La presenza di cartelli stradali può distogliere l’attenzione dalla strada
M
illeduecentotrentacinque. Un numero
troppo lungo da
scrivere, una cifra troppo alta
da sopportare. Sono i giovani tra i 15 e i 29 anni morti in
Italia a causa di incidenti
stradali nel 2008. E’ questo il
dato che ha rimbombato
come una triste eco nella sala
Colonne della Luiss, dove
mercoledì scorso si è tenuto il
convegno “E Icaro volò sull’asfalto. I giovani e gli incidenti stradali: quale prevenzione?”, organizzato dall’Università con la Fondazione Ania. All’iniziativa hanno
partecipato Rita Santarelli,
Vice Presidente Esecutivo della Luiss, membri autorevoli
del mondo accademico come
il direttore del Dipartimento
di Scienze economiche e
aziendali della Luiss Gian
Maria Gros-Pietro, Paola Carbone e Gian Paolo Cioccia
della Facoltà di Psicologia 2
dell’Università La Sapienza
di Roma, e dell’associazionismo sociale come Sandro Salvati presidente dell’Ania. (interventi riassunti nei box)
Primo dato: l’incidentalità
stradale è la prima causa di
morte tra i ragazzi. Ogni giorno in Italia tre giovani tra i 15
e i 29 anni perdono la vita e altri 283 vengono feriti. Un risultato drammatico che mette l’accento su una piaga sociale paradossalmente ritenuta “normale”. Fino a quando
una nazione che sta invecchiando come la nostra potrà
continuare a tollerare la perdita di così tante giovani vite?
E quali le cause? Sono le domande che tutti si pongono.
Secondo quanto emerso
da un’indagine condotta dalla professoressa Carbone in
quattro ospedali romani e raccolta nel libro “Le ali di Icaro:
capire e prevenire gli incidenti stradali”, le cause degli
incidenti in età giovanile sono
riconducibili a una scorretta
valutazione del rischio. “Il
pericolo viene visto come una
sfida eccitante, perché hanno
l’illusione di essere invulnerabili e si assumono rischi fatali”. Ben il 68 per cento dei ragazzi che accede al Pronto Soccorso a causa di uno scontro
ha già subito almeno un incidente, “alcuni sono addirittura
Ogni giorno in Italia
tre ragazzi muoiono e
283 vengono feriti
al quarto o al quinto”.
“In Italia è diffusa la cultura dell’illegalità. La sicurezza stradale è solo una sfumatura di un problema più
profondo”. La dura accusa arriva da Gianluca Melillo, consigliere vicario del Forum
Nazionale dei Giovani. “Il
problema è che nella politica
di sicurezza i giovani non
vengono coinvolti, mentre
potrebbero dare un valore
aggiunto nella progettazione” di una nuova e più efficace opera di prevenzione.
A focalizzare il problema
del rispetto delle regole è PiePagina a cura di Giulia Cerasi
ro Caramelli, Direttore della I
Divisione Servizio Polizia
Stradale. L’Italia è il primo paese al mondo per numero autovetture, con ben 36 milioni di guidatori. Il costo degli
incidenti stradali non si calcola solo in termini di vite
spezzate, ma anche in termini economici: nel 2008 la
collettività ha speso ben 30
miliardi di euro, pari al 2,4 per
cento del Pil. Risolvere il problema della sicurezza sulle
strade è quindi prioritario.
“Occorre dialogare con le
persone, perché le norme non
devono solo essere imposte
ma spiegate e interiorizzate”
ha osservato Caramelli.
Daniele Rossi, presidente
della Federalimentare, concorda con quest’analisi: “C’è
una forte propensione a risolvere il problema dei giovani
in maniera protettiva, eliminando le sostanze per eliminare i comportamenti a rischio, oppure inasprendo le
norme. Ma sono misure inefficaci”. Bisogna agire sui fattori informali che contribuiscono a determinare i valori
degli adolescenti, come lo
sport o un partner.
Nonostante l’Italia vesta
la maglia nera in Europa per
il numero di incidenti, negli
ultimi anni il trend è in diminuzione. Dal 2001 a oggi la
mortalità sulle nostre strade è
diminuita del 33 per cento, un
buon risultato anche se ancora lontano da quel 50 per
cento che l’Unione Europea
aveva posto come obiettivo da
raggiungere entro il 2010.
L’ANIA
No alle auto-salotto
“In Italia non c’è la cultura della sicurezza stradale”. L’amara constatazione è di Sandro Salvati, Presidente della Fondazione
Ania per la Sicurezza Stradale.
“Viviamo in una società anestetizzata,
bisogna rivalorizzare la vita. La società
deve capire che c’è bisogno di consapevolezza”.
Salvati parla di diritti. “Come fa uno Stato a garantire il diritto alla mobilità con un tasso di probabilità di incidenti così alto?”. C’è
poi un altro diritto, fondamentale, quello di
non essere ammazzato da un altro.
Il problema, secondo il presidente dell’Ania, riguarda le sanzioni: “Ciò che succede
con una macchina in Italia viene ritenuto
meno grave di ciò che succede con la pistola.
Il messaggio che deve passare, invece, è
che anche la macchina può essere un’arma
letale”.
Tra le cause degli incidenti, soprattutto tra
i giovani, Salvati cita l’alcol ma si concentra
sulla guida distratta. “Le macchine stanno diventando ogni giorno di più dei salottini. L’industria preme in questa direzione: schermi,
hi-fi, telefonini, computer. Poi ci sono le sigarette. Gli automobilisti hanno sempre più
distrazioni”.
Quel che serve, invece, è la tolleranza
zero. “Abbiamo bisogno di poche norme, severe, e vanno fatte applicare”.
12 Febbraio 2010
5
Cronaca
Vigili del fuoco, vita e problemi. Sono in 1.700 ad assistere Roma e provincia. 20.000 a Londra
“Santo pompiere aiutami tu...”
Pagati poco più di una badante. Parla un caposquadra di via Genova
Emiliana Costa
Il caposquadra Raffaele Ciotola è quasi alla fine della sua
carriera di pompiere. Venticinque anni trascorsi su quei
mastodonti che a sirene spiegate corrono da un capo all’altro della capitale in soccorso dei cittadini. E’ una passione ereditata la sua, figlio e nipote di ex vigili del fuoco.
“Questo lavoro – racconta il caposquadra – è come una seconda pelle. Non lo si sceglie
come quello di impiegato o di
postino, ma rappresenta una
missione. Almeno era così
fino a qualche anno fa, prima
che la crisi spingesse alla divisa
anche chi non è pervaso dal sacro fuoco del mestiere”. In
tempi di cattiva congiuntura
economica mille e trecento
euro al mese fanno gola ai giovani che ambiscono a imbracciare l’idrante. “In realtà
siamo il corpo di sicurezza
meno pagato. Il mio stipendio
non supera i 1.450 euro, poco
più di quello di una badante.
Eppure anche noi come poliziotti e carabinieri abbiamo
una famiglia da mantenere”,
puntualizza il vigile.
Raffaele presta servizio a via
Genova, il comando centrale
che gestisce gli interventi su
Roma e provincia. La caserma,
collocata in pieno centro tra
piazza della Repubblica e l’altare della Patria, organizza il lavoro di 1.200 uomini. Un piccolo contingente davvero, se si
pensa che nella sola Londra i
vigili del fuoco in servizio
sono oltre ventimila. Le risorse a disposizione del corpo di
sicurezza sono legate alla Finanziaria di ogni anno, “ma il
ministero degli Interni, dal
quale dipendiamo, ci ha sempre considerato figli di serie B,
rispetto all’Arma e alla Polizia.
Eppure lavoriamo ogni giorno
a contatto con la morte”, spiega il pompiere. Gli occhi del
caposquadra diventano lucidi
passando di fronte al muro di
via Genova con le foto dei colleghi che non ci sono più. Ogni
comando ha il suo altarino dei
ricordi, ma il caposquadra
preferisce parlare degli interventi più stravaganti e curiosi, quasi come se il dolore insito nel mestiere fosse qualcosa
di troppo privato per poter essere condiviso.
I duecento interventi giornalieri non hanno tutti la stessa gravità e a volte ci sono perfino risvolti bizzarri. “Mi è
capitato di dover trasportare
6
12 Febbraio 2010
IN PRIMA LINEA
Squadre di vigili
del fuoco romane
sono intervenute
all’Aquila nei
giorni del
terremoto,
raddoppiando
i turni di lavoro
fuori da un edificio in fiamme
un uomo così grasso che in
cinque persone non riuscivamo a sollevarlo. L’unica soluzione è stata la gru. Lo abbiamo appeso al braccio meccanico e lo abbiamo fatto uscire
dalla finestra”. Esilarante anche la storia del nonnetto.
“Una famiglia ha chiamato il
115, perché non riusciva più a
trovarlo. Dopo aver scassinato la porta di ingresso, lo abbiamo cercato in tutta casa.
Alla fine l’ho scovato in un armadio che fumava di nascosto
per non farsi rimproverare dai
figli”. In una carriera lunga
venticinque anni sono tanti gli
aneddoti che Ciotola ricorda
con un sorriso. “Quante risate quella volta che siamo intervenuti in un palazzo di
Campo de’ Fiori per un’infiltrazione d’acqua. Siamo saliti
all’ultimo piano dello stabile,
poiché la perdita proveniva
dall’attico. Non avendo rispo-
sto nessuno al campanello abbiamo fatto irruzione nell’appartamento. E che abbiamo
trovato? Due amanti focosi
che, travolti dalla passione,
avevano lasciato il rubinetto
della vasca aperto, allagando
tutto il palazzo”.
I vigili del fuoco, infatti,
vengono chiamati dai cittadini per le motivazioni più diverse, anche quando gli interventi non sarebbero di loro
competenza. “La gente – ha
spiegato il caposquadra – non
ci percepisce come una forza
repressiva alla pari degli altri
corpi. Ha con noi maggior
confidenza e per questo il 115
è il numero di telefono più gettonato”. C’è chi si rivolge ai
pompieri per il classico gattino sull’albero, per spostare
una mucca dal centro della
strada o per acchiappare canarini fuggiti dalla gabbietta.
Perfino Anna Magnani qualche
anno fa perse il suo pappagal-
Dopo l’11 settembre, quando in 343 sono morti nelle operazioni di soccorso
A New York sono un simbolo
Foto nella cappella di fronte a Ground Zero e t-shirt
Francesco Alfani
Le loro sirene sono una presenza familiare, quasi rassicurante, nel rumore
delle auto incolonnate sulle avenue di
Manhattan. Un suono acuto, squillante,
che accompagna con grande effetto la
corsa delle autoscale, i camion rossi dei
vigili del fuoco di New York.
Gli uomini del New York Fire Department sono anche questo: il simbolo di una città e della sua febbrile energia. Ma, soprattutto dopo l’11 settembre,
sono diventati veri e propri eroi nazionali. E per buoni motivi. Primi ad accorrere sotto le Twin Towers, al numero uno di World Trade Plaza, e in prima
linea nelle attività di soccorso, hanno pagato anche più di altri il prezzo dell’attentato.
Di loro 343 sono morti, schiacciati dal
crollo delle Torri o soffocati dal fumo che
ha avvolto per ore Ground Zero. Tra loro,
anche il capo del Dipartimento cittadino, Peter Ganci, e il suo secondo, William M. Feehan. Il primo ha i genitori italiani, Feehan invece viene dall’Irlanda;
due figli di immigrati, già decorati per
meriti sul campo, sono morti insieme tra
EROI I pompieri di New York issano una
bandiera a lutto sulle rovine di Ground Zero
le macerie mentre cercavano di trarre in
salvo i superstiti delle esplosioni. Nessun
modo migliore per entrare nel cuore dei
newyorchesi, che, con il sindaco Rudolph
Giuliani in testa, li hanno onorati con funerali solenni e li hanno ricordati riuniti
in preghiera nelle chiese e sinagoghe della città.
Nella Cappella di Saint Paul, di
fronte a Ground Zero, che già pochi
giorni dopo gli attentati era stata trasformata dai cittadini di New York in
uno spontaneo memoriale della tragedia, i vigili del fuoco sono i più celebrati.
Qui, su una anonima uniforme di un
agente di polizia, in moltissimi hanno
appuntato i distintivi dei pompieri che,
da tutte le caserme della città e del paese, hanno soccorso le vittime del crollo delle torri.
Nelle foto alle pareti, loro ci sono quasi sempre: “the bravest”, i più coraggiosi,
come i giornalisti americani li hanno soprannominati. In un paese che si innamora spesso di nuovi eroi, sono loro i
veri salvatori, gli eredi ideali degli sceriffi e dei cowboys della frontiera.
Nove anni dopo quei fatti tragici, la
vita dei pompieri di New York è tornata alla routine quotidiana. Ma le loro divise, grigie e gialle con il cognome
stampato sulla schiena, e i loro elmetti
fanno sognare tante donne, rassicurano
i newyorchesi ed entusiasmano quasi tutti i turisti, che fanno la fila per comprare le t-shirt del NYPD vendute sulle bancarelle di souvenir a Battery Park.
lo… che ad oggi risulta ancora disperso.
Ma scherzi a parte, nella Capitale ci sono anche tante altre operazioni, a partire dalla
potatura degli alberi. “La manutenzione della vegetazione
è molto scarsa e capita spesso
che dobbiamo intervenire per
rimuovere tronchi o rami caduti”. Non mancano purtroppo casi più gravi come incidenti stradali o esplosioni in
edifici per fughe di gas. Ci
sono, poi, situazioni di emergenza straordinarie. Per il terremoto in Abruzzo tutti i vigili
in forza a Roma hanno raddoppiato i turni per riuscire a
prestare soccorso nell’interland aquilano. E’ stata mandata
anche una delegazione a Haiti. In quel caso i pompieri
soni stati di supporto alla Croce Rossa, ma hanno anche
aiutato la popolazione haitiana ridotta allo stremo. “Il nostro lavoro – conclude Ciotola - è molto duro e mal pagato. Ma io non lo cambierei con
nessun altro. Basta prestare
soccorso a una solo persona
che la tua vita assume un altro
significato”.
TUTE ROSA
Sono poche
le donne
con l’idrante
Donne e idranti non
vanno molto d’accordo.
Anche se il corpo dei Vigili del fuoco ha aperto
da dieci anni le porte
anche al gentil sesso,
sono ancora poche le ragazze ad abbracciare la
professione. Colpa della
pesantezza del lavoro e
delle prove fisiche richieste all’esame di Stato.
Sono di più le giovani discontinue, lavoratrici
precarie che si occupano
della logistica e del call
center.
Nonostante questo le
poche “pompiere” festeggeranno con le colleghe
delle altre forze dell’ordine la festa della donna,
con un’iniziativa che si
svolgerà il prossimo cinque marzo. Un modo per
ricordare che la divisa si
sta tingendo di rosa.
E.C.
Reporter
nuovo
Costume & Società
Anomalie onomastiche e oltre. Nel dare il nome ai figli, qualche volta i genitori esagerano
Indro Schizogeno non è il più strano
Montanelli si chiamava così. Altri casi: da Tonsillite Jackson a Friceto
Raffaele D’Ettorre
Dalla quadrinomia degli antichi romani alla binomia contemporanea
fino ad addentrarsi nell’azzardato
territorio delle stravaganze linguistiche, il nome proprio si è evoluto, è
mutato seguendo i costumi, si è rinnovato e spesso in modi tutt’altro che
ordinari.
Forse è la ricerca del singolare o un
perverso gusto per la risata che spinge i genitori a sperimentare accoppiamenti linguistici strambi, a volte
preoccupanti o volutamente ironici.
Fatto sta che i casi di persone dal
“nome buffo” sono sempre più frequenti e rischiano anzi di diventare
fenomeno di costume. Semplicemente sfogliando l’elenco telefonico
possiamo infatti incontrare la sfortunata Crocifissa In Croce, la conturbante Vera Porcella, il poco ortodosso Santo Maddio, l’appetitosa
Margherita Pizza, il bucolico Guido
Laratro, il simpatico Leon Cino, il festoso Felice Carnevale o gli italianissimi Kevin Costa e James Bondi.
Qui la stranezza è tutta giocata sull’accostamento azzardato con il cognome, ma non mancano i casi di
nomi insoliti e appariscenti di per sé.
Un esempio illustre nella penisola nostrana è dato da Indro Alessan-
RIVELAZIONE
È il Giornale
a scoprire un errore
della Treccani nel
citare Montanelli
con nome improprio
dro Raffaello Schizogeno Montanelli: un pentanomio bizzarro, profetico in modo quasi inquietante. Mentre Indro è infatti dato dalla mascolinizzazione della divinità induista Indra (dea della folgore e delle tempeste), l’inusuale Schizogeno è l’italianizzazione di un termine greco che
letteralmente sta a significare “generatore di conflitti”. Due nomi alquanto azzeccati per una personalità che ha avuto l’innata capacità,
ovunque andasse, di smuovere sem-
pre le acque, di polarizzare e dividere i cuori e le anime di chi gli gravitava intorno.
Meno fortunato invece il giovane
Friceto, chiamato così dalla madre devota e convinta che il Padre Nostro,
in latino, recitasse “Santo Friceto nomen tuum” (la formulazione corretta invece è “Sanctificetur”, ovvero “sia
santificato”). Simile sorte ha sperimentato anche il bambino sardo
Piovi, scelto dal calendario nel giorno di San Pio VI. Curioso inoltre il
caso della recluta statunitense Tonsillite Jackson, figlio di emigranti italiani: i suoi tre fratelli sono infatti Otite, Appendicite e Laringite.
Dalla tendenza dello sperimentalismo onomastico non sono immuni nemmeno le grandi star internazionali che, vuoi per un eccesso
d’esibizionismo quasi barocco, vuoi
per la ricerca sfarzosa dell’originalità, appioppano alla prole nomi sempre più ricercati e fuori del comune.
E così non bisogna stupirsi più di
tanto se la popstar britannica Geri
Halliwell decide di chiamare la propria figlioletta “Bluebell Madonna”,
né aggrottare le sopracciglia dinanzi agli inusuali London Emilio (figlio
del chitarrista Slash dei Guns’n’Roses), Gulliver (Gary Oldman e Donya Fiorentino), Fuchsia (Sting e
Frances Tomelty) o Kal-El (nome di
battesimo “kriptoniano” di Superman, affibbiato al proprio rampollo
dall’attore californiano Nicholas
Cage).
Neanche il più atipico degli appellativi è però immune da eventuali “incidenti di percorso”: è il caso bizzarro di Suri Cruise, figlia di Tom e
Katie. Un nome accattivante per noi
occidentali, che tuttavia perde gran
parte del suo fascino esotico una volta tradotto in giapponese, assumendo il preoccupante significato di
“borseggiatore”.
Per cautelarsi dalle sorprese sgradite, i vip si affidano allora all’offerta di Today Translation, un servizio
che, con poco più di 1.500 dollari, garantisce la traduzione del nome scelto in più di cento lingue diverse. Imprescindibile per tutelare i pargoli dagli eccentrici vezzi semantici dei genitori, particolarmente nel mondo
sempre più stravagante e anticonformista dello spettacolo.
AFFASCINANTI Personaggi
della Traviata in fastosi abiti
durante il “Libiamo”.
A sinistra un prezioso abito di
scena in esposizione
Chiara Aranci
É una collezione di abiti di
un valore inestimabile quella
del teatro dell’Opera di Roma:
circa 80mila capi che dal
1879, anno della fondazione
del Teatro Costanzi, ad oggi
hanno vestito tutti gli spettacoli del teatro.
Il patrimonio necessita di
cure e attenzioni particolari:
i vestiti non vanno esposti alla
luce del sole, devono essere
conservati ad una specifica
temperatura, insomma sotto
condizioni climatiche particolari. Il tutto poi ha dei costi che vanno a scontrarsi
con la crisi che il mondo dello spettacolo sta vivendo.
Cosa fare allora di questo tesoro nascosto nel deposito
del teatro dell’Opera, a Roma
in via della Greca? Ne abbiamo parlato con Alfredo Gasponi, critico musicale del
Messaggero, il quale ha spiegato che il primo problema è
individuare se una parte dei
capi può essere riutilizzata negli spettacoli a teatro. Ritiene
Reporter
nuovo
A colloquio con Alfredo Gasponi sul patrimonio nascosto dell’Opera di Roma
‘Mettiamo in scena quei costumi’
poi che sia utile pensare alla
possibilità di cederli, o venderli per organizzare esposizioni “si valorizzerebbe il prodotto di eccellenza della sartoria specializzata dell’opera
italiana, marchio pregiatissimo della nostra cultura. Sarebbe un buon modo per finanziare l’Opera”.
E spiega che lo stesso nuovo sovrintendente Catello De
Martino, nominato nel giugno
2009, aveva in progetto di
vendere parte delle scenografie teatrali e anche dei costumi. Ma il problema fondamentale è riorganizzare il
patrimonio dell’Opera, vendendo – dice - a privati, a fondazioni anche estere. Cita
l’esempio di Vienna “ il suo
Staatsopernmuseum apre ogni
sera il sipario con uno spettacolo, a Roma questo succede solo in media settanta sera
all’anno. L’opera è simbolo
della cultura italiana, bisogna
custodirla e promuoverla”.
Alla domanda se manca un
tipo di organizzazione strutturale, politica o di fondi, risponde “è un problema sicuramente di mentalità: in Italia la lirica si preferisce fare
meno repliche e meno titoli,
puntando però su una qualità particolare. All’estero è la
quantità a vincere, senza nes-
sun danno per la qualità”.
Occorre quindi aumentare la produzione delle rappresentazioni utilizzando diversi meccanismi: dagli allestimenti più leggeri e maneggevoli, che incidono molto nei costi della rappresentazione, al dare spazio ai giovani cantanti, il tutto per ridare familiarità al pubblico italiano con l’opera. La stessa
programmazione ha dei ritmi
lenti e ci sono capolavori
meno noti che non vengono
rappresentati anche per trent’anni.
Alla domanda sul trend attivato da alcuni giovani registi che rappresentano le opere liriche in abiti contemporanei risponde “All’inizio mi
lasciavano un po’ perplesso,
anzi provavo quasi un fastidio.
Per un critico vedere spostata una rappresentazione da
un’epoca a un’altra non è la
cosa più accettabile. Poi ho incominciato ad esserne interessato, ci vedevo elementi
che potevano dare contatto
con la realtà moderna. Non
amo le esagerazioni, né i
compiacimenti. Non amo
quelle trasposizioni che vedono il Rigoletto ambientato
in fast food della Florida o il
Barbiere di Siviglia tra le gang
mafiose di New York.”
12 Febbraio 2010
7
Costume & Società
Per Roma a caccia di caffè: lungo, ristretto, macchiato, al vetro; la croce del banchista
Una, cento, mille tazzine al bar
Esperienza e velocità. Il trucco è nel piattino. Come lo ordinano i vip
Andrea Andrei
“Tre caffè, uno macchiato e
un cappuccino”. Il signor
Mimmo dispone sul bancone
cinque piattini, con altrettanti cucchiaini. La prima tappa
del nostro “tour del caffé” inizia così al bar “Romoli” di viale Eritrea, che dagli anni ’50 è
uno dei bar più frequentati del
quartiere Trieste. Qui la domenica mattina c’è talmente
tanta folla che quasi si fatica a
entrare. E chi sta al bancone è
costretto a prendere decine
di ordinazioni diverse tutte
insieme. Naturalmente, la
clientela vuole essere servita
nel più breve tempo possibile.
“È allora che si vede la professionalità di un barista” spiega Roberta Romoli, proprietaria del locale, che insieme alla
sorella Cinzia ha ereditato l’attività dal nonno e poi dal padre. “Nostro nonno aveva una
latteria su via Nomentana, vicino a villa Torlonia. Portava il
latte a Mussolini e serviva tutte le ville del quartiere” racconta Roberta. Fu così che
“Romoli” divenne il caffé prediletto dalla borghesia romana.
“Saper gestire le ordinazioni”
aggiunge “è questione di esperienza. Il cliente ordina al
“banchista” e quest’ultimo
passa tutto a chi lavora alla
macchina. Da parte di entrambi è necessaria grande
concentrazione. Poi, qualche
trucco per aiutarsi esiste. Ad
esempio, a seconda della grandezza del piattino e della lunghezza del cucchiaino ci si riesce a ricordare se si deve servire un caffé piuttosto che un
cappuccino. Certo, poi ci sono
mille variazioni possibili”. Eh
sì, perché un caffé si può preparare in decine di modi differenti: alla nocciola o al cioccolato fondente, corretto, macchiato o macchiato freddo,
lungo o ristretto, in tazza grande o di vetro. “A quel punto”,
continua la signora Roberta, “si
può solo contare sulla propria
abilità, o si può disporre il cucchiaino in un certo modo, secondo un proprio “codice”
personale. Per fortuna ci sono
anche gli abitudinari, per cui
quando riconosciamo una persona spesso sappiamo già cosa
prenderà”.
Dal quartiere africano, alla
stazione Termini. Il bar è il
“Mokà”, dal quale passano
migliaia di viaggiatori ogni
giorno. Al bancone c’è Tony, un
ragazzo sui venticinque anni.
“Qui ci viene ogni tipo di per-
8
12 Febbraioo 2010
EUROPA E CAFFÈ l’ironia del vignettista sui differenti gusti dei ventisette commissari
sona, dal professionista all’alcolista. Quando è molto affollato, diventa solo una questione psicologica: sei sotto
pressione, e nel minor tempo
devi prendere il maggior numero possibile di ordinazioni.
Aumenta la concentrazione, e
riesci a farcela”.
Il giro dei caffé continua.
Mezz’ora dopo siamo da “Giolitti”, lo storico bar a due passi da Montecitorio. In piedi
dietro al bancone, due addetti in divisa bianca. Orfeo fa il
barista da quando ha 11 anni,
e adesso è quasi alla pensione.
Mario lavora in questo bar da
35 anni. Anche loro dispongono i piattini, li usano come
promemoria. Questo caffé è
molto frequentato dai politici,
che hanno gusti particolari:
“L’onorevole La Russa prende
sempre un caffé metà d’orzo e
metà normale”, racconta Mario, che ricorda bene anche le
consuetudini dei politici del
passato. Primo fra tutti, Forlani: “Voleva sempre che, insieme al caffé, gli portassi due
sigarette”, sorride.
Il tour si conclude lì dov’era
iniziato. Stavolta alla cassa del
bar Romoli c’è la signora Cinzia. Dice di aver notato che le
abitudini sono cambiate, che
adesso il lavoro si concentra
soprattutto nel weekend, e
che sì, gli italiani hanno una
speciale attitudine alla confusione: “Negli altri paesi la gente rispetta la fila e fa molto
meno chiasso, rendendo più
semplice il lavoro del barista”.
Svela le usanze più strane dei
suoi clienti: “C’è chi chiede il
dolcificante e poi mette la
panna nel caffé”. Ripete che la
professionalità è alla base di
tutto. E confessa: “È sempre
più difficile trovare qualcuno
che sappia fare bene questo lavoro. È davvero faticoso”.
Nell’esempio dei grandi club europei per scoprire campioni
A scuola di pallone
Per Marco, il sogno di essere Totti
Lorenzo d’Albergo
Tutte le mattine Marco,
prima di uscire di casa, lancia
un’ultima occhiata al poster
del campione preferito, immortalato in un’esultanza senza fine, e sospira speranzoso di
poterne ripetere le gesta. Sulle spalle carica zaino e borsone. Quel borsone con stemmi
e colori importanti che gli fa
guadagnare gli sguardi di ammirazione delle compagne e le
occhiatacce di invidia dei
compagni di scuola. Infine,
ecco la campanella: la giornata
del giovane calciatore inizia
soltanto in questo momento.
Prima di tornare a casa, per
Marco ci sono ancora scarpini da indossare, palloni da calciare e giri di campo da percorrere a testa bassa. Gli osservatori lo hanno scovato su
un campo di pozzolana di
periferia, intravedendo in lui
qualcosa di speciale. Proprio
come sono stati selezionati i
ragazzi che ogni giorno si allenano nelle cantera spagnole e nelle academy inglesi.
Ma Marco ha le stesse possibilità di “farcela” dei suoi colleghi stranieri? Negli ultimi
anni il Barcellona ha dimostrato che si può vincere in
casa e in Europa puntando sui
prodotti del vivaio. Nell’ultima finale di Champions League i blaugrana portavano a
Roma ben nove giocatori usciti dal settore giovanile: Victor
Valdes, il capitano Puyol, Pi-
In Inghilterra
e Spagna giovani
calciatori
come “capitali”
qué, Sergio Busquets, Xavi,
Iniesta, Bojan Krkic, il pallone d’oro Lionel Messi e l’ultimo fenomeno del calcio spagnolo, Pedro “Pedrito” Rodriguez, primo giocatore capace di segnare in sei competizioni diverse nella stessa stagione.
Per rimpinguare i settori
giovanili, quando le promesse locali falliscono, i grandi
club d’oltremanica vanno a
caccia di talenti negli altri
paesi. Dalle sterline e dalle organizzatissime academy britanniche sono stati recente-
mente attratti gli italiani Sala,
Prestia, Trotta, Petrucci e Mannone. C’è poi Federico Macheda, giovane goleador del
Manchester United prelevato
direttamente dal centro sportivo di Formello tra le proteste di Claudio Lotito, patron
della Lazio. Sono tutti giovanissimi e, per ora, sconosciuti al grande pubblico. Ma presto potrebbero trasformarsi
in capitali, come già successo
con Gattuso, con il nazionale spagnolo Cesc Fabregas e
Giuseppe Rossi. Il tutto a
fronte di un investimento iniziale che raramente supera i
100mila euro. Spiccioli nel
dorato mondo del calcio.
In Italia i giovani hanno
meno spazio. Le grandi puntano sui giocatori d’esperienza, quelli “già fatti”. Basti
guardare all’Inter, in testa alla
classifica della serie A con
una squadra zeppa di stranieri. “Supermario” Balotelli e
Santon, unici prodotti del vivaio della rosa nerazzurra,
sono spesso costretti a guardare la partita dalla panchina.
Forse a Marco converrà convincere qualche osservatore
straniero.
PREDESTINATO Cristian Totti sulle orme del padre
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