RIUTILIZZO E RILAVORAZIONE DEI MARMI ROMANI NELL

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RIUTILIZZO E RILAVORAZIONE DEI MARMI ROMANI NELL
RIUTILIZZO E RILAVORAZIONE
DEI MARMI ROMANI
NELL’ABBAZIA ALTOMEDIEVALE
DI SAN VINCENZO AL VOLTURNO
di
ANTONIA CASTELLANI
La città monastica di San Vincenzo al Volturno è ricchissima di marmi romani, provenienti da varie aree dell’Italia centro-meridionale, riutilizzati per l’abbellimento
della basilica di San Vincenzo Maggiore e degli altri edifici
di rappresentanza.
Il tratto più rilevante in questo sito è che il rinvenimento delle officine permette di stabilire con sicurezza che i
marmi venivano rilavorati in situ e che venivano riutilizzati
più volte.
GLI SPOLIA MARMOREI DI SAN VINCENZO AL
VOLTURNO
I capitelli
Solo pochi capitelli sono stati ritrovati in situ, nel presunto punto di crollo, mentre la maggior parte, rinvenuta in
frammenti più o meno cospicui, proviene da una pietraia
costruita da contadini nel corso del XIX secolo, con il pietrame rinvenuto durante l’aratura dei campi circostanti.
Molti frammenti sono databili alla prima metà del I secolo d.C. Di questi, alcuni possono essere considerati ancora di età augustea, mentre altri vanno considerati probabilmente di età giulio-claudia.
È interessante notare come questi capitelli siano simili
a quelli rinvenuti durante gli scavi nel teatro di Venafro, ora
conservati nel Museo Archeologico di Venafro: tali capitelli, perfettamente conservati, presentano il fiore d’abaco a
margherita con pistillo a serpentina, estremamente simile
ai due grandi fiori d’abaco rinvenuti a San Vincenzo (Fig.
1): questi erano stati accuratamente tagliati dal capitello, in
modo che mantenessero la loro integrità.
Un capitello, riutilizzato come base di colonna nel giardino a peristilio della foresteria, e pochi altri frammenti sono
invece probabilmente riferibili all’età adrianea.
Un solo capitello è sicuramente riconducibile alla tradizione flavia: si tratta di un capitello di mediocre fattura e
di diametro molto ampio, la cui lavorazione è stata probabilmente effettuata nel corso della prima metà del III secolo, su modelli di età flavia. Per un confronto, si possono
osservare i capitelli dell’ordine esterno del tempio di Vesta
al Foro Romano, di età severiana.
Molto ben attestata la presenza di capitelli corinzi asiatici, realizzati in marmo proconnesio: oltre al capitello intero trovato nell’area dell’absidiola nord della basilica (Fig.
2), sono stati rinvenuti moltissimi frammenti relativi a questa categoria; quelli di grandezza apprezzabile per un’analisi tipologica sono databili tra la fine del III e l’inizio del
IV secolo.
Un unico frammento di fiore a quattro petali è riferibile
ad un motivo liriforme, proveniente probabilmente da un
capitello di lesena corintizzante, tagliato e levigato sulla
parte non lavorata per essere riutilizzato come lastrina pavimentale; il frammento è troppo piccolo per escludere che
facesse parte di un fregio architettonico.
Le colonne
Le colonne finora sottoposte a studio sistematico sono
quelle presumibilmente utilizzate nella basilica di San Vincenzo Maggiore (101 pezzi).
Queste sono frammentarie e di dimensioni differenti;
la quasi totalità si trova nel territorio a Est del fiume Volturno, dove sorge l’abbazia odierna.
Tutte le colonne sono formate da fusti monolitici lisci,
la maggior parte dei quali ci è giunta a tronconi che non
superano il metro di lunghezza. L’imoscapo e il sommoscapo
sono sempre dotati di un astragalo di uno o due centimetri
di spessore, frequentemente scalpellato via grossolanamente.
La maggior parte dei fusti è realizzata in granito violetto (marmor Troadense); numerosi anche i fusti in marmo
cipollino e in sienite, ovvero granito rosa di Assuan. Le
colonne rimanenti sono in granito grigio di vari tipi, in marmo bigio di Carrara o in marmo biancastro (tra i marmi bianchi includo anche una breccia a sottile matrice rosata, dagli
inclusi bianchi di media grandezza).
È notevole la presenza di una grande colonna in alabastro cotognino.
Soltanto una delle colonne si è conservata sicuramente
in tutta la sua altezza: si tratta di un fusto in granito grigio
alto cm 356 (12 piedi romani), dal diametro di cm 50
all’imoscapo, di cm 40 al sommoscapo.
Sulla base di calcoli fondati sul rapporto tra l’imoscapo
o sommoscapo e l’altezza totale della colonna secondo le
regole vitruviane, si può ragionevolmente ipotizzare la presenza di cinque diversi tipi di colonne:
1) Colonne piccole, con sommoscapo inferiore ai 35-37
centimetri (altezza calcolabile tra cm 280 e 300, ovvero circa 10 piedi romani), di cui esistono 21 esemplari sicuri e 10
che potrebbero appartenere a questo gruppo o al secondo.
2) Colonne medio-piccole, con sommoscapo di cm 40,
imoscapo di cm 49-50, altezza media di cm 356 (circa 12
piedi romani), di cui esistono 17 esemplari sicuri e 4 probabili, ma forse appartenenti al terzo gruppo; è l’unico tipo
che comprende una colonna interamente conservata.
3) Colonne medio-grandi, con sommoscapo di cm 43-46,
imoscapo di cm 53-54, altezza calcolabile in circa cm 370385 (12,5-13 piedi romani), di cui esistono 10 esemplari
sicuri e 5 possibili, che potrebbero però essere più grandi.
4) Colonne grandi, con imoscapo di circa cm 56-60,
sommoscapo calcolato tra i 48 e i 52 centimetri, altezza
calcolata di almeno cm 400 (approssimativamente 13,5 piedi
romani), di cui sono presenti 7 esemplari sicuri e 15 possibili.
5) Colonne molto grandi, con imoscapo superiore a cm 65,
altezza calcolabile in almeno cm 450 (15-15,5 piedi romani), di cui esistono tre esemplari sicuri.
Le basi di colonna
Molte basi di colonna sono state rinvenute a San Vincenzo al Volturno, ma soltanto due nella basilica di San
Vincenzo Maggiore, vista la spoliazione metodica effettuata dai monaci per riutilizzare il materiale edilizio della basilica altomedievale nel nuovo edificio a est del Volturno.
Le trincee scavate nell’area dei colonnati della basilica
mostrano che la rimozione delle basi era effettuata con precisione sistematica. La presenza ancora in situ di due basi
con plinto di appoggio, nel colonnato nord, aiuta a capire il
metodo usato per la spoliazione, ovvero lo scavo a trincea
stretta, nonché il modo in cui le basi venivano poggiate: in
una trincea quadrata veniva posto un massiccio plinto di
pietra calcarea molto fine, che costituiva il punto d’appoggio per la base.
Tenendo conto del fatto che su tali plinti si reggeva l’intero sostegno del tetto, ovvero il colonnato, si comprende
perché i monaci abbiano posto tanta cura nel recuperarli
per riutilizzarli nella basilica di XII secolo: era senz’altro
più facile procurarsi elementi architettonici decorativi, che
potavano essere sottratti da un edificio senza distruggerlo
fino alle fondamenta, che non questi indispensabili blocchi
di sostegno.
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I vasi
I vasi marmorei trovati a San Vincenzo al Volturno sono
soltanto tre, un grande cratere decorato a soggetti bacchici
e due urne strigilate, di forma e dimensioni molto simili.
Il cratere rientra nella categoria dei vasi marmorei a
decorazione bacchica di derivazione neoattica, che sono stati
trovati finora soprattutto nell’area di Roma, in ville di primo o secondo secolo d.C., dove erano probabilmente posti
come elementi decorativi in triclini o in giardini a peristilio
o potevano adattati a fontane: il confronto più puntuale per
questo cratere è il cosiddetto Vaso Warwick (MARKS-BLENCH
1979), proveniente da Villa Adriana a Tivoli e attualmente
conservato a Glasgow, come parte della collezione Burrell.
L’area in cui gran parte dei frammenti di questo cratere
è stata trovata, il giardino a peristilio in stile romano della
foresteria del monastero, lascia pensare ad un uso analogo.
Non si può escludere che la sua funzione fosse non puramente decorativa, ma funzionale ad una delle chiese vicine,
ma la scarsa quantità di vasi di questo tipo arrivati fino a
noi, oltre alla pressoché totale mancanza di esempi di riutilizzo in età medievale, impedisce di essere più precisi: tutti
i grandi vasi marmorei con decorazione a soggetto bacchico
presenti adesso o in passato nelle chiese sono infatti di acquisizione post-medievale.
Gli altri due vasi, molto simili tra di loro per forma e
dimensioni, sono due urne strigilate romane. Erano probabilmente usate per ospitare delle reliquie, in considerazione del fatto che erano poste nel punto focale della cripta
della basilica di San Vincenzo Maggiore, in due nicchie visibili dalla fenestella confessionis.
Una delle urne aveva un coperchio liscio e anse a protome di felino, che non trovano facilmente riscontri: il confronto più vicino è un’urna liscia a cratere, con anse a protome di felino, trovata in una chiesa bizantina a Petra, in
Giordania (FIEMA 1993); l’altra, di cui non sono stati trovati resti delle anse né del coperchio, reca invece una tabula
ansata senza traccia di iscrizione.
L’urna con anse a protome felina doveva rappresentare
un oggetto piuttosto ricercato, per la particolarità della decorazione.
I fregi architettonici
La quantità di frammenti di fregi architettonici rinvenuti durante gli scavi non è molto cospicua. Tranne due parti
di un fregio a girali d’acanto, di grandezza apprezzabile per
uno studio stilistico e tipologico, gli altri frammenti rinvenuti, riferibili a kyma e ad astragali, sono così piccoli che la
datazione risulta alquanto ardua.
Il fregio a girali d’acanto apparteneva a uno stipite di
età claudia. Dei due grandi frammenti rinvenuti, uno era
stato reimpiegato nell’absidiola settentrionale della basilica maggiore (Fig. 2), in una sorta di piccola vasca per abluzioni o di acquasantiera, in posizione di assoluto risalto.
L’altro frammento è spezzato nella parte inferiore: considerando la cura che i monaci avevano impiegato nel riutilizzare il pezzo salvandone l’integrità, si può pensare sia che
il fregio fosse arrivato al monastero già spezzato, e che i
monaci avessero cercato di salvare la parte ancora intera
tagliando via quella meno bella, sia che la frattura sia relativa alla fase di distruzione della basilica.
In questo caso i monaci potrebbero aver deciso di tagliare in due o più lacerti un fregio troppo lungo per le loro
necessità, riutilizzandone una parte nell’abside laterale settentrionale, l’altra parte nell’area di facciata. Se così fosse,
gli scavi potrebbero ancora portare alla luce altri frammenti di questo fregio.
Per quanto riguarda gli altri frammenti di decorazione
architettonica, è molto difficile inquadrarli cronologicamente
con precisione, per via dell’esiguità delle loro dimensioni,
dovuta al fatto che alcuni di essi erano stati appositamente
tagliati o spezzati per essere riutilizzati in un pavimento; il
fatto che venisse spesso lasciata a vista la parte liscia, indica chiaramente che questo tipo di ornamento non era considerato rilevante, se non era di dimensioni notevoli.
In base a confronti stilistici e tipologici si può comunque ritenere che la quasi totalità dei frammenti sia da far
risalire all’età augustea e giulio-claudia, la cui datazione si
accorderebbe perfettamente con quella di molti dei capitelli in catalogo, avvalorando l’ipotesi di un’origine comune.
Le lastre pavimentali
Gli scavi hanno portato alla luce migliaia di lastrine
marmoree, destinate alla pavimentazione della basilica
maggiore. Le lastrine potevano avere forma regolare o irregolare, a seconda del tipo di pavimento da ricoprire, e dimensioni anche molto diverse. Tutti i marmi antichi più noti
sono rappresentati.
I tratti di pavimento a decorazione marmorea rinvenuti
nel San Vincenzo Maggiore mostrano notevoli differenze
tra loro, probabilmente a causa dei continui restauri: la stratigrafia non mostra distacco tra la pavimentazione di IX e
di XI secolo, accreditando l’ipotesi di un’unica fase di pavimentazione sottoposta a restauri più o meno estesi. Solo
lo scavo completo delle navate della basilica potrà chiarire
meglio la situazione.
La maggior parte delle lastrine pavimentali proviene dalle
officine, dove le tessere di opus sectile venivano tagliate e
sottoposte a rilavorazione in caso di frattura o per restauri.
PROVENIENZA DEGLI SPOLIA MARMOREI
La provenienza dei marmi romani riutilizzati a San Vincenzo al Volturno è un problema ancora parzialmente irrisolto. Gli elementi architettonici, rinvenuti in enormi quantità, presentano tipologie troppo diverse per poter pensare
ad una provenienza univoca o comunque circoscrivibile a
una sola area di spoglio.
L’analisi complessiva dei capitelli e delle ornamentazioni architettoniche, mostra che la maggior parte dei frammenti è riconducibile all’età tardo-augustea o giulio-claudia. Vi sono poi molti frammenti di capitelli corinzi asiatici,
dei quali quelli di dimensioni sufficienti per uno studio tipologico si datano tra la fine del III e l’inizio del IV secolo.
Si devono quindi prendere in considerazione diversi
edifici, che non potevano essere tutti a disposizione del
monastero: è probabile che solo uno o due fossero in realtà
i luoghi soggetti a spoliazione metodica, e che si ricorse ad
altri edifici solo per raggiungere il numero dei pezzi necessari al completamento della decorazione della basilica.
Per quanto riguarda i capitelli, quelli corinzio-asiatici
potevano addirittura provenire da magazzini, e quindi essere al loro primo utilizzo. Quelli di età tardo-augustea e giulio-claudia sono molto simili a quelli rinvenuti durante gli
scavi del teatro di Venafro, che sarebbe la località più facile
da supporre per la provenienza della maggior parte degli
spolia, dato che il forte costo del trasporto rendeva necessario scegliere per l’approvvigionamento luoghi poco distanti. Capitelli e fregi potevano quindi provenire dal teatro e
da uno o due templi di Venafro, come pure forse alcune
colonne, di dimensioni non troppo grandi.
Queste però sono troppo numerose per pensare a una
provenienza univoca da un centro piccolo. Il Chronicon
Vulturnense menziona Capua come luogo di provenienza
delle colonne, mentre non dice nulla sulla provenienza degli
altri spolia marmorei. Si potrebbe leggere in questa specificazione una implicita dichiarazione della provenienza locale, o almeno regionale, degli altri elementi architettonici,
oppure considerare la sola menzione delle colonne come indispensabile, data la grande quantità importata nel monastero.
In ogni caso si può credere che almeno una buona parte
delle colonne provenisse da Capua, che era la città più vici-
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Fig. 1 – Fiore d’abaco di capitello corinzio, dall’area della
basilica di San Vincenzo Maggiore.
Fig. 3 – Capitello adrianeo reimpiegato come base di colonna
nel giardino a peristilio del monastero.
Fig. 2 – Capitello corinzio e fregio a girali d’acanto,
dall’absidiola nord della basilica di San Vincenzo Maggiore.
na in cui fosse possibile trovare in quantità colonne di grandi dimensioni: il problema del trasporto poteva essere risolto sfruttando il fiume Volturno nel suo tratto navigabile
e poi usando bufali per il trasporto via terra.
Per quanto riguarda i vasi marmorei, invece, bisogna
dare per quasi certa la provenienza delle due urne strigilate
dall’area della Capitale, che ne era il principale centro di
produzione e utilizzo: a Roma la spoliazione di oggetti facilmente trasportabili raggiungeva proporzioni massicce,
data l’importanza simbolica attribuita al possesso di spolia
provenienti dalla capitale dei Cristiani.
Il cratere a motivi dionisiaci poteva invece avere una
provenienza più vicina, probabilmente da una villa della
costa campana.
Diversi edifici antichi hanno dunque dato il loro contributo all’ornamentazione architettonica della basilica di San
Vincenzo Maggiore, tanto che è difficile orientarsi nel tentativo di riconoscerli. È possibile soltanto fare delle ipotesi
sulla provenienza dei reperti, ma credo si possa pensare con
una certa sicurezza ai centri di Venafro e Capua come ai
due luoghi più facilmente coinvolti, il primo per l’estrema
vicinanza, il secondo per il suo ruolo di città importante più
prossima a San Vincenzo al Volturno e per le indicazioni
delle fonti. Particolare rilevanza riveste la grande quantità
di reperti che sembra provenire da Venafro o comunque da
aree limitrofe, in quanto un’importazione così massiccia può
aiutare a chiarire l’importanza di queste località in epoca
romana e medievale.
È da notare a questo proposito che anche gli studi epigrafici si orientano nella stessa direzione: John Patterson
(PATTERSON, The Romans Inscriptions, in MITCHELL-HANSEN
c.s.) ha definito che la quasi totalità delle iscrizioni romane
riutilizzate a San Vincenzo al Volturno provengono dalle
aree limitrofe, in base ai caratteri stilistici della scrittura e
agli antroponimi.
Fig. 4 – Iscrizione romana riutilizzata come tessera di opus sectile.
Diversi tipi di riutilizzo
I marmi antichi venivano riutilizzati seguendo diverse
modalità, a seconda dell’importanza attribuita ai singoli elementi architettonici. L’esempio di San Vincenzo al Volturno si inserisce perfettamente nel quadro generale del riuso
di marmi romani in età altomedievale, documentando una
vasta gamma di tipi di riutilizzo.
Reimpiego mantenente la funzione originaria dei pezzi
È questo il tipo di riutilizzo che riguarda la maggior
parte dei capitelli, delle colonne e delle basi di colonna, per
loro natura difficili da reimpiegare al di là della loro funzione originaria. Anche i vasi marmorei sono stati riutilizzati mantenendone la specificità d’uso.
Reimpiego delle decorazioni architettoniche a scopo
ornamentale, ma con cambiamento d’uso dei pezzi
Abbiamo diversi esempi di questo tipo di riutilizzo.
Alcune colonne erano state rilavorate per formare cornici
architettoniche; un capitello adrianeo è riusato come base
di colonna nel giardino a peristilio (Fig. 3); lo stipite marmoreo a girali d’acanto era reimpiegato come lastra ornamentale; alcuni fiori d’abaco (Fig. 1) erano stati tagliati dal
capitello per ricavarne modiglioni.
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Fig. 6 – Due lastrine pavimentali con tracce di rilavorazione in
corso, dalle officine (disegni di H. Heil).
Fig. 5 – Epigrafe di Aistolfus (IX secolo), reimpiegata in un
pavimento nella basilica di San Vincenzo Maggiore.
Reimpiego di frammenti architettonici come epigrafi
e come lastre pavimentali.
Vi sono molti esempi di frammenti di decorazioni architettoniche, quali capitelli di lesena, kyma ionici e lesbici
e fregi a fuseruole e perline, dei quali non si voleva sfruttare il lato decorato ma la superficie liscia sul retro, per ricavarne lastre pavimentali, come mostrano le tracce di malta
presenti sulla decorazione. Spesso il lato liscio di frammenti
di lastre ornamentali era riutilizzato per iscrivervi delle epigrafi; il fatto che alcuni di questi frammenti fossero stati
poi tagliati in piccole lastrine di forma regolare indica la
volontà di un ulteriore reimpiego in un pavimento.
Reimpiego di epigrafi come lastre pavimentali
Le epigrafi potevano essere reimpiegate come lastre
pavimentali, spesso lasciando a vista il lato inscritto, a volte rovesciandole. Si nota che le iscrizioni romane erano quasi
sempre riusate come tessere di opus sectile di forma geometrica regolare (Fig. 4), mentre le epigrafi medievali, tutte di IX secolo, potevano essere inserite nel pavimento anche se di forma irregolare (Fig. 5). È evidente che le epigrafi di IX secolo erano state utilizzate come lastre pavimentali in un periodo in cui era difficile per l’abbazia procurarsi
altro marmo, probabilmente nel corso del restauro di XI
secolo. L’epigrafe di Aistolfus, trovata in loco, indica inoltre che almeno alcuni tratti della pavimentazione di XI secolo del San Vincenzo Maggiore erano stati interamente
realizzati usando lastre marmoree spezzate, la cui forma non
era stata regolarizzata.
Reimpiego di elementi architettonici e di epigrafi come
materiale edilizio.
Questo tipo di riutilizzo è scarsamente documentato, in
quanto nel corso dell’XI secolo i monaci avevano spoliato
accuratamente tutti i muri della basilica maggiore, per reimpiegarne il materiale edilizio nel nuovo monastero sulla
riva est del Volturno. Nell’area archeologica del San Vincenzo Minore, le cui strutture murarie sono conservate in
misura più apprezzabile, è comunque possibile notare un’intera iscrizione romana riutilizzata come blocco murario nel
muro perimetrale nord della chiesa; un’altra iscrizione romana è posta come base d’appoggio di un pilastro ligneo,
nel refettorio. In entrambi i luoghi il lato inscritto è stato
lasciato a vista, anche nel caso di un’epigrafe parzialmente
scalpellata per la messa opera del pilastro ligneo.
Reimpiego di marmi lavorati per ottenere calce
Molti frammenti di capitello sono stati rinvenuti in pezzi
di dimensioni medio-piccole (circa cm 20×10×10). Potrebbe trattarsi di un taglio per riuso edilizio, ma la scarsa regolarità dei frammenti e le tracce di bruciato presenti su alcuni di essi lasciano piuttosto pensare a un taglio preliminare
per permettere una combustione uniforme nella calcara.
LA RILAVORAZIONE DEI MARMI
Il riutilizzo prevedeva quasi sempre una rilavorazione
o almeno un ritocco dei pezzi, per adattarli al nuovo uso.
La rilavorazione era senza dubbio eseguita nelle officine dell’abbazia stessa, come dimostrano le migliaia di frammenti rinvenuti ancora in stato di lavorazione, ed era effettuata per diversi motivi.
La decorazione architettonica poteva essere ritoccata per
inserirla più agevolmente nello spazio ad essa destinato.
Vi sono numerosi esempi di questo tipo di rilavorazione: il capitello corinzio asiatico rinvenuto nell’absidiola nord
della basilica maggiore (Fig. 2) era stato scalpellato su un
lato per ridurre l’aggetto della decorazione e permetterne
l’appoggio su una colonna angolare; a un gran numero di
colonne era stato scalpellato via l’astragalo all’altezza di
imoscapo e sommoscapo, per adattarle meglio a basi o capitelli di dimensioni troppo piccole; molte basi di colonna e
alcuni capitelli sono stati ridotti in altezza per adattarli alle
dimensioni delle colonne.
Questo tipo di rilavorazione era effettuato a scalpello; non
vi sono tracce di segni di preparazione sui pezzi architettonici.
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In seguito a frattura della decorazione, i diversi frammenti potevano essere rilavorati per ridare loro una forma
regolare per un reimpiego secondario.
Il fregio a girali d’acanto ancora in situ nell’absidiola
settentrionale della basilica maggiore (Fig. 2), ad esempio,
era sicuramente parte di uno stipite più lungo, rotto durante
il trasporto o nel corso della messa in opera, come mostra il
rinvenimento di un altro cospicuo frammento dello stesso
fregio. Il frammento in situ reca su un lato evidenti tracce
di frattura: la necessità di sfruttare tutta la lunghezza del
frammento ha spinto gli artigiani a non regolarizzare il lato
rotto e a mettere il fregio in opera coprendo con malta la
decorazione mancante.
Le lastre pavimentali erano ugualmente soggette a rilavorazione. I pavimenti della basilica dovevano essere soggetti a frequenti restauri, rendendo necessaria la continua
produzione di tessere di opus sectile. Oltre ai frammenti di
decorazioni architettoniche e di epigrafi, tagliate per un riuso
secondario come lastre pavimentali, anche le lastre marmoree già deputate all’utilizzo pavimentale venivano rilavorate in caso di frattura.
Moltissime lastrine di opus sectile sono state rinvenute
nelle officine, in corso di rilavorazione (Fig. 6a e 6b): questa circostanza permette di vedere con chiarezza la tecnica
di lavorazione. Le tessere da tagliare venivano preparate
sul lato da lasciare a vista con una sottile rigatura (vedere
Fig. 6, linea tratteggiata) che ne individuava la forma da
assumere, mentre sull’altro lato la rigatura era sostituita da
una leggera scalpellatura. Con uno scalpello più grosso le
tessere venivano sbozzate partendo dal lato inferiore, e poi
rifinite con una scalpellatura leggera sul lato superiore. Il
procedimento è sempre ripetuto con la stessa regolarità sulle tessere rinvenute in buone condizioni, ma non su quelle
spezzate trovate nelle officine, che a volte non recano le
tracce di tutte le fasi di lavorazione: poteva trattarsi di prove effettuate su frammenti spezzati ormai inutilizzabili,
oppure di lastrine spezzate accidentalmente durante il taglio e lasciate incomplete.
Demolizione in pezzi per riuso edilizio o per rendere più
agevole la combustione nella calcara
I molti frammenti di capitelli corinzi tagliati in pezzi
piccoli e regolari, che si suppone fossero destinati alla produzione di calce, erano stati tagliati grossolanamente con
uno scalpello tondo a punta piuttosto grande, con tracce
evidenti sui frammenti. La volontarietà del taglio è evidente dalle misure dei frammenti rinvenuti, piuttosto simili tra
loro, come è chiaro che la scelta di ottenere pezzi piccoli e
di uguale misura era dovuta alla necessità di garantire una
combustione più rapida e uniforme. La regolarità del taglio
dei pezzi angolari, sempre composti da caule e voluta esterna, suggerisce una sistematicità nella demolizione dei capitelli, che venivano ridotti in frammenti partendo dalle parti
più esterne.
Nelle aree del monastero già scavate non sono state rinvenute calcare, quindi non è ancora possibile sapere dove
veniva prodotta la calce, così come non si può escludere
con sicurezza che almeno parte dei frammenti ottenuti venisse reimpiegata come materiale edilizio.
Sono ancora molti i problemi interpretativi relativi alle
modalità e alle tecniche del riutilizzo e della rilavorazione
dei marmi antichi a San Vincenzo al Volturno. Le prossime
campagne di scavo, che interesseranno l’area antistante la
basilica maggiore, aiuteranno certamente a chiarire alcuni
dubbi, ma resta oggettiva la difficoltà di avere un quadro
completo di tutte le fasi di reimpiego dell’antico, in un’abbazia che è stata distrutta e ricostruita più volte nell’arco di
pochi secoli.
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