Untitled - Barz and Hippo

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Untitled - Barz and Hippo
L'autobiografia come pretesto per raccontare il decennio delle trasformazioni più affascinanti e ambigue che
abbia caratterizzato la cultura europea nel XX secolo, il momento di un'effervescenza sociale, culturale e artistica
che sognava di rifare il mondo mettendo “l'immaginazione al potere”.
scheda tecnica
titolo originale:
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
soggetto:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
distribuzione:
APRÈS MAI
122 MINUTI
FRANCIA
2012
OLIVIER ASSAYAS
OLIVIER ASSAYAS
OLIVIER ASSAYAS
ERIC GAUTIER
LUC BARNIER
OFFICINE UBU
interpreti:
CLEMENT METAYER (Gilles), LOLA CRETON (Christine), FELIX ARMAND (Alaine),
CAROLE COMBES (Laure), INDIA MENUEZ (Leslie), HUGO CONZELMANN (Jean-Pierre), MARTIN LOIZILLON
(Rackam il Rosso), MATHIAS RENOU (Vincent).
premi e nomination:
2012 Venezia Mostra Int. d'Arte Cinematografica: Miglior sceneggiatura
Olivier Assayas
Nato a Parigi il 25 Gennaio 1955 da madre ungherese e padre francese (lo sceneggiatore Jacques Rémy), dopo il
Liceo si diploma all'Accademia di Belle Arti, oltre a prendersi una Laurea in Lettere. Disegnatore e grafico, scrive
di cinema per le riviste Métal Hurlant, Les Cahiers du cinéma e Rock & Folk. Ammiratore di Bergman e della
Nouvelle Vague, ama anche il cinema asiatico, inclusi i film sul Kung Fu: grazie alle sue collaborazioni editoriali ha
l'occasione di fare un viaggio in Asia dove incontra i giovani registi di Hong Kong e Taiwan. Di Hong Kong è anche
l'attrice cinese Maggie Cheung, con cui si sposerà nel 1998. La passione per il cinema gli proviene dal padre,
sceneggiatore e adattatore di romanzi per il cinema e la televisione: inizia ad avvicinarsi ad esso in modo più
concreto proprio affiancando il padre nel suo lavoro e facendo l'assistente sui set francesi di grosse produzioni
americane. La sua gavetta include l'assistenza sul set di Superman (1978).
Il suo primo lungometraggio, Disordre - Disordine (1986) lo vede portavoce delle emozioni esuberanti
dell'adolescenza. Un gruppo di giovani aspiranti musicisti parigini si scontra con la difficoltà di realizzare i propri
sogni. Il disagio giovanile torna nel successivo Il bambino d'inverno (1989) e in Contro il destino (1991).
Dopo Une nouvelle vie (1993), Assayas torna alle inquietudini generazionali con lo struggente L'eau froide (1994).
Con Irma Vep (1996) s'impone all'attenzione del pubblico mescolando le cinematografie a lui care in uno sguardo
metacinematografico.
Con Les Destinées Sentimentales (2001) si lancia nell'impresa di mettere in scena l'omonimo romanzo di J.
Chardonne, scrittore caro a Truffaut. Film storico e saga romantica e intensa, ma asciutta, racconta la vicenda di
una famiglia protestante ancora nel segno delle aspirazioni impossibili.
Nel 2001, dopo tre anni di matrimonio, si separa da Maggie Cheung. In seguito inizia una relazione con Mia
Hansen-Love, regista e attrice. Il film successivo, Demonlover (2002) torna a un tema di attualità, con un cinismo
e una capacità di sperimentare che ne fanno un'opera unica ma nello stesso tempo meno gradita al pubblico.
Clean - Quando il rock ti scorre nelle vene (2004), come il precedente in concorso per la Palma D'Oro a Cannes,
racconta la storia di una cantante tossicomane che tenta di 'ripulirsi' per riconquistare la dignità e riavere indietro
suo figlio. Il morboso e deludente Boarding Gate (2007) vede ancora protagonista una donna problematica (Asia
Argento). Nel 2010 firma la miniserie televisiva Carlos (2010), biopic sulla vita del terrorista marxista Ilich Ramirez
Sanchez, che si aggiudica il Golden Globe come miglior miniserie dell'anno. Il 2012 è l'anno di Qualcosa nell'aria Après Mai, un ritorno al punto di vista adolescenziale, nutrito di uno sguardo autobiografico caldo e nostalgico,
ma non celebrativo.
La parola ai protagonisti
Intervista a Olivier Assayas
Perché il titolo “Après Mai”?
Ho voluto questa frase all’inizio del film perché è una sintesi della definizione di gioventù che è sempre
concentrata sul presente, c’è qualcosa di candido in quell’entusiasmo pieno d’idealismo che contraddistingue i
giovani quando si affacciano al mondo.
Però lei parla di una gioventù che è stata il cuore del movimento studentesco dopo il ‘68, un movimento che
coinvolse tutta Europa in cui i giovani si sentivano impegnati profondamente nel cambiamento.
A quei tempi l’85% dei giovani era impegnato e coinvolto nel movimento studentesco. Si leggeva, si discuteva, si
affrontavano temi fondamentali, sul lavoro, sul sociale, sulla filosofia, sull’arte. La fede nella rivoluzione era
condivisa da tutti. Oggi una cosa del genere è del tutto impensabile. Oggi i giovani vivono la società in termini di
esclusione, non di partecipazione. Un’energia di rinnovamento culturale, politico, che non ha più avuto eguali e
che si è persa, forse per l’aspetto drammatico in cui si è evoluto, soprattutto in Italia con il terrorismo, ma,
diciamo la verità, anche perché si è voluto ingabbiarlo in dogmi, concetti e strutture che lo hanno poi
denaturalizzato. [...]
I miei protagonisti s’identificano con la tendenza libertaria e più inventiva del movimento. Per questo ho voluto
inserire giovani di oggi in una realtà passata. Il film racconta la giovinezza. Quella che si muove senza pensare alle
conseguenze, quella dell’idealismo e della curiosità, quella che si consuma, quella del presente, comune in ogni
epoca. Una gioventù che sta anche nella fragilità dei personaggi.
Tra l’altro il cast del film è per la maggior parte formato da attori giovanissimi e alla prima esperienza nel
cinema.
Ho scelto gli attori in modo del tutto intuitivo: Ho cercato in ognuno di loro una singolarità, soprattutto per la
comprensione dell’arte e di quella realtà. Sul set ho dato indicazioni molto leggere volevo soprattutto che venisse
fuori la loro gioventù, spontaneamente, che interpretassero il personaggio come lo sentivano. Lavorando in
stretto contatto con loro mi sono reso conto che il rapporto dei giovani con il mondo è sicuramente cambiato
rispetto alla mia adolescenza. Abbiamo dovuto fornirgli una specie di manuale soprattutto sul linguaggio politico
dell’epoca che per loro era assolutamente estraneo. Gli unici veri punti di contatto che i giovani hanno con
quell’epoca sono la musica e gli abiti e poi l’essenziale, un certo idealismo.
E questo idealismo, la curiosità, la voglia di conoscere, di sognare, l’amore per l’arte e la letteratura, c’è tutto nel
film, come del resto questo senso di modernità dei personaggi, che lo sono anche a prescindere dalla
ricostruzione perfetta dell’ambientazione del film. La musica è un’altra protagonista, invece.
Ho scelto la musica che ascoltavo all’epoca, quella di Robert Wyatt, David Allen e dei Soft machine che si
esibivano molto in Francia. In Qualcosa nell’aria la musica non è scelta per porre l’accento le varie scene, ma ha
una sorta di autonomia, quasi una narrazione parallela.
Nel film Gilles, alla fine non solo abbandona il movimento e l’impegno politico, ma dalla pittura passa al cinema,
è quello che è successo anche a lei?
Effettivamente sì. Gilles passa dal disegno, al figurativo poi alla grafica e al cinema. E’ lo stesso percorso che ho
fatto io. L’ho riprodotto alla lettera anche se sintetizzando dieci anni in due ore di film. E poi Gilles è molto più
bravo di me!
Lei parla un ottimo italiano come mai?
Mio padre era franco-italiano e tutta la parte paterna era milanese. Fin da ragazzo ho avuto la sensazione di
comprendere meglio la cultura e l’arte italiana di quella francese. In più la sinistra francese dell’epoca del film
aveva dei legami molto stretti con la sinistra italiana. Non è un caso che Gilles e Christine passino la loro estate
proprio in Italia.
Perché non sorridono mai i ragazzi di Après Mai?
Io della mia adolescenza ho in effetti un ricordo malinconico anche se innamorato della vita. Il film è impregnato
di questo ricordo. È stata un’epoca seria, è vero, forse triste.
Note di regia
Ho spesso l’impressione che i film nascano da soli, che quasi mi si impongano. E’ successo con Après mai. Da
molto tempo sentivo molto forte l’esigenza di dare non esattamente un seguito, ma un prolungamento, ad un
mio film del 1994, L’Eau froide. Lo considero come un secondo primo film, un modo di rimettere in gioco la mia
pratica del cinema. Un film che mi aveva un po’ preso alla sprovvista. Poi ho capito che mi aveva spalancato delle
porte, in particolare quelle dell’autobiografia. Ricordo lo stupore al montaggio nel vedere le scene della festa
notturna (che corrisponde solo ad alcune pagine della sceneggiatura, ma costituisce quasi un terzo del film
finito): il fuoco, gli adolescenti, il fumo... Avevo l’impressione di aver colto qualcosa della poesia di quell’epoca,
quella della mia adolescenza, all’inizio degli anni ’70. Restava la sensazione che un giorno questa materia poteva
originare un film più vasto su quell’epoca poco conosciuta, appassionante, ma di cui il cinema diffida molto, al
punto da saperla trattare solo attraverso l’ironia. Nel pensare che la storia collettiva è mostrata piuttosto male o
non lo è affatto, si è insinuata in me l’idea che forse la dovevamo raccontare proprio noi, che forse, a nostra
insaputa, siamo detentori di una parte dell’avventura della nostra generazione... Quello che mancava in L’Eau
froide, era la politica, l’attrazione per l’Oriente, la musica che ascoltavo allora (quella di L’Eau froide rimandava al
collettivo, quella di Après mai è più intima), e più ampiamente tutto l’underground degli anni ‘70, che ha nutrito
la mia formazione estetica ed intellettuale.
Ancora prima di cominciare Carlos (2010), avevo iniziato a prendere appunti su quello che poi sarebbe diventato
Après mai. Istintivamente avevo ripreso i nomi dei due personaggi principali di L’Eau froide, Gilles e Christine. Ne
è rimasta, tra l’altro, una continuità, anche fisica, tra gli uni e gli altri.
Una volta terminato Carlos, volevo fare un altro film, un inizio di sceneggiatura che sicuramente riprenderò un
giorno. Ma aprendo i miei appunti, ho ritrovato le note scritte su Après mai. Ho subito avuto voglia, senza
rifletterci troppo, di prolungarle. E poi era il momento giusto, probabilmente perché avevo appena fatto Carlos,
in cui gli anni ‘70 erano lo sfondo. Avevo trovato un modo di restituirli che mi sembrava autentico. Dovevo
approfittare di questo slancio.
Recensioni
Michele Anselmi. Cinemonitor
Dopo maggio viene giugno. Ma per Olivier Assayas, regista parigino, classe 1955, “Après mai” significa un’altra
cosa. Il mese in questione, sia pure scritto in minuscolo, è il Maggio francese, croce e delizia di tanti cineasti, da
Bernardo Bertolucci a Philippe Garrel. Tema immenso e scivoloso, incline alla nostalgia canaglia o all’infatuazione
ideologica, ne sa qualcosa il Michele Placido del “Grande Sogno”. Anche per questo Assayas proietta la storia tre
anni dopo, un po’ per cautelarsi rispetto al “monumento”, un po’ per riprendere il discorso cominciato nel 2005
con il libriccino autobiografico “Une adolescence dans l’après-mai”.
Il film, ieri in concorso, sembra aver messo d’accordo tutti. È potente e sottile, restituisce l’aria del tempo e le
illusioni di cambiamento, gioca sulla memoria ma non è intinto nel reducismo, parte da fatti vissuti dall’autore
ma diventa universale. [...]
«Credo poco all’autobiografia al cinema. Si scrive sempre con i ricordi, vicini o lontani, più o meno deformati,
idealizzati. A maggior ragione quando si parla di adolescenza» premette Assayas. Ma certo nel protagonista
Gilles, incarnato da Clément Métayer, c’è molto di sé: a partire dal ritratto della periferica Valle di Chevreuse. Un
pagliaio di capelli in testa sotto il casco, il viso gentile un po’ alla Donovan, il liceale di sinistra si ritrova all’inizio
del film nei brutali scontri parigini con la polizia del 9 febbraio 1971. Ne esce illeso, mentre un altro manifestante
perderà un occhio. Così, per farla pagare al Sistema, partono le operazioni di disturbo nella scuola, una delle
quali provocherà il grave ferimento di un guardiano. [...]
Il film, lungo due ore, si gusta senza mai guardare l’orologio. Una decina i personaggi che ruotano attorno a
Gilles, specialmente le due ragazze di cui si innamora: Laure, misteriosa, dedita alla droga, artistoide; Christine,
militante, amica e pragmatica. Stretto nelle fumisterie ideologiche dell’epoca, tra frazioni maoiste, trozkiste e
anarchiche, il giovanotto si muove timidamente nelle assemblee, distribuisce i volantini stampati dagli “angeli del
ciclostile”, partecipa ai blitz notturni in tenuta da battaglia; ma si vede che gli piace far altro: pittura, disegno,
grafica, forse il cinema. Da astratto diventa figurativo, intravvede una strada fuori dai furori ideologici che
inclinano verso la lotta clandestina. Nell’epilogo, sul set di uno scalcinato film di serie B tra nazisti e dinosauri
negli studi inglesi di Pinewood, lo vediamo finalmente in pace e sereno, mentre il fantasma di Laure gli sorride
come in una quieta resurrezione.
Sostiene Assayas: «Non penso che il cinema sia un mezzo di comunicazione, non mi interessa “informare” lo
spettatore. Il cinema è arte, deve riflettere sulle contraddizioni dell’individuo, anche della storia. Arte minoritaria
che talvolta diventa maggioritaria». Gli chiedono se non sia un po’ triste il ritratto di quegli anni tempestosi. Lui
nega: «Ma no. Ci sono la natura, la tenerezza, l’amore, la musica, il sole, specie nell’episodio italiano». Già
perché, dovendo cambiare aria dopo un lancio di bottiglie Molotov, la combriccola se ne va in vacanza in Italia,
prima attorno a Firenze tra i “compagni” di Lotta Continua, poi a scendere verso Reggio Calabria.
[…] Il punto di vista di Assayas non è mitizzante o epico, a tratti il film sfocia nella commedia affettuosa, e tuttavia
si esce da Après mai con la sensazione giusta: che la generazione del dopo Maggio ’68 è nata e si è evoluta nel
caos, vittima di un integralismo coerentemente distruttivo. Rifiutato dalla Lucky Red, arriverà in Italia a ottobre
distribuito da Officine Ubu.
Elisa Battistini. Il Fatto Quotidiano
[…] “La rivoluzione del ’68 ha avuto un risultato estetico, non politico”, così il regista Olivier Assayas commenta il
percorso del protagonista di Après Mai – Qualcosa nell’aria (nelle sale da giovedì). Film ampiamente
autobiografico come mostra anche la figura del padre di Gilles che, come quello di Assayas, fa lo sceneggiatore
per la televisione. Film asciutto e convinto nel definire i percorsi divergenti dei protagonisti – come a dirci che il
momento più “rivoluzionario” e collettivo del dopoguerra è stato in realtà la piena realizzazione
dell’individualismo di massa – Après Mai è totalmente scevro da nostalgie. Assayas parte da una scuola, da un
gruppo, per poi distanziare sempre di più i suoi giovani tra loro: la comunanza finisce in fretta e quando si tratta
di andare all’università e scegliere cosa si vuole diventare, le persone badano a realizzare se stesse. Così Gilles
finirà per dedicarsi ai film, il suo amico Alain alla pittura e al design, la politica verrà presto abbandonata (con i
suoi insopportabili dogmatismi, rappresentati efficacemente dagli stolidi documentaristi che propongono film sui
contadini del Laos) mentre alle ragazze non andrà ugualmente bene. Il ruolo della donna, alla faccia del
femminismo, è trattato con inusuale lucidità. I personaggi maschili sono scettici, altalenanti nel proprio blando
romanticismo e decidono delle loro vite in autonomia (“L’arte è solitudine”, dice Alain); le femmine sono più
dipendenti, più insicure e hanno bisogno di un mentore, o banalmente un fidanzato, per appropriarsi di una
posizione nel mondo. Le tre ragazze del film (...) hanno destini diversi, ma è attraverso il rapporto con un uomo
(che le fa soffrire) che naufragheranno o, forse, rinasceranno. Hanno comunque un ruolo più parassitario
all’interno di un mondo essenzialmente maschile. Assieme alla disillusione politica (l’afflato si trasforma ben
presto in disimpegno) Après Mai racconta anche la disillusione della parità. Se il sessantotto e gli anni Settanta
sono ancora, in parte, un argomento controverso (specie in Italia), il francese Assayas lo storicizza togliendogli
incanto e raccontandone le peculiarità, le luci e le ombre, come si potrebbe fare per qualsiasi epoca.
Girato con grazia, recitato con lievità da molti non-attori, scritto con cura, […] la colonna sonora con Soft
Machine, Syd Barrett, Captain Beefheart, Incredible String Band, Nick Drake e altro ancora è da cultori della
materia.
Sentieri Selvaggi
L’ultimo lavoro di Olivier Assayas si pone visceralmente con tutte le intenzioni di bruciare l’animo di chi osserva,
di ricacciarlo nell’inferno dorato della propria adolescenza, attraverso un percorso doloroso e sincero, maniacale
(nel perfezionismo della ricostruzione e della messa in scena) e consapevole. Soprattutto di volere ritornare sul
“luogo del delitto”, ovvero del film più incantevole e duro, emotivamente straziante eppure gelido, L’eau froide.
Ma che succede ai nostri ricordi quando, quasi in un’operazione terapeutica, li ricacciamo fuori dopo tanti anni?
“Spesso ci si definisce anche attraverso il nostro rapporto col passato e con la maniera che abbiamo di
catalogarlo”, spiega Assayas, a proposito della memoria. E gli anni passano, ci cambiano, modificano i nostri corpi
e i nostri pensieri, i nostri volti e il nostro immaginario: la nostra immaginazione, sì. Olivier, classe 1955, era
ancora un trentenne, quando lavorava con i ragazzi di L’eau Froide. Virgine Ledoyen e Cyprien Fouquet all’epoca
avevano 18 anni, una ventina di meno di Assayas, ragazzi nati negli anni settanta che hanno “vissuto” –
indirettamente - quel periodo attraverso un’adolescenza nel decennio successivo, i cui erano ancora vivi e
presenti alcuni dei sogni e delle problematiche di allora. Oggi la “distanza” con i ragazzi di Après Mai è abissale,
poco meno di quarant’anni (...). E basta leggere le dichiarazioni dei giovani protagonisti del film (tutti nati negli
anni novanta, in cui Olivier girava L’eau Froide) per farsene un’idea: “Per capire il linguaggio politico dell’epoca,
ho guardato un sacco di interviste e di vecchi reportage, e, soprattutto, ho consultato il dizionario…” (Felix
Armand); “E’ molto difficile imparare a memoria dei dialoghi pieni di riferimenti politici, non ci capivo niente…
Olivier però voleva che sapessimo di cosa parlavamo…”.(Clement Métayer); “Ci siamo immersi negli anni 70, le
scenografie, i vestiti, tutto l’insieme. Ma è stata soprattutto la musica, quella della scena della festa hippie, che ci
ha dato una sensazione di immersione totale” (Carole Combes).
Ma il cinema si nutre di memoria. Se non addirittura che il cinema è (diventato) la nostra memoria. Noi siamo
quello che ricordiamo che abbiamo vissuto, quanto i film che abbiamo visto e amato, le musiche che abbiamo
ascoltato, da soli chiusi in camera o con i nostri coetanei. Lo dice, chiaramente anche Assayas, spiegando perché
il giovane protagonista del film, Gilles, sfrontatamente e coraggiosamente alter-ego biografico del regista, ha
scelto il cinema: “Lo schermo è il luogo dove il ricordo può rivivere, dove ciò che è perso può essere ritrovato,
dove il mondo può essere salvato”. E questi ragazzi del 1971/72, anni post sessantotto pieni di musica
straordinaria, di rivoluzioni possibili e controrivoluzioni reali, dove i sogni del maggio si sono dispersi in mille
rivoli, appartengono a quella generazione – parole di Assayas – “del dopo maggio 68, nata nel caos e che sì è
evoluta nel caos”. Ragazzi che – come i loro fratelli minori italiani del 1977 – non sono diventati giornalisti, politici
o pubblicitari come quelli del ‘68, ma si son gettati dentro le pratiche attive della creatività, delle arti diffuse,
della mutazione dei linguaggi, degli stili, della comunicazione e della percezione di sé.
[...] E se 18 anni fa Assayas aveva da un lato la maggior vicinanza temporale, e dall’altro una maggiore astrazione
creativa sulla narrazione meno strettamente autobiografica, qui decide di immergersi fino in fondo nella
ricostruzione, a tratti maniacale, di tutti gli stilemi e le ossessioni, viene da dire quasi i “tic”, dell’epoca. Questo
denudarsi nell’autobiografismo storico, politico, esistenziale, si manifesta soprattutto nella colonna sonora molto
più privata e personale, che va da Syd Barret a Nick Drake, Soft Machine, Tangerine Dream, ecc….ma anche in
questi corpi che sembrano vagare in continuazione verso orizzonti che non si intravedono, un’oriente
immaginario, una città mitizzata, l’arte che appare come un luogo oscuro, ma inevitabile, di liberazione.
Il risultato è qualcosa di assolutamente impenetrabile, [...]. Ed ecco che il suo stile si trasforma radicalmente: dai
primi piani “affettuosi” teneramente avvolti sui personaggi e quei lunghi piani sequenza che li sembravano
abbracciare e accarezzare, qui passiamo a uno sguardo più complessivo, dove gli ambienti, la città, la natura,
insomma gli elementi dove vivono i personaggi, sono cuore integrante della visione. Non un visione fredda,
certo, ma più distante, come gli anni che ci separano, sempre di più, dall’adolescenza.
E mentre l’esperienza raccontata dei ragazzi di L’eau froide era tutta “privata”, dove il conflitto con il mondo e la
società di manifestava con evidenza nella vita familiare e nel rifiuto della famiglia stessa, in Après Mai Assayas
sceglie di andare fino in fondo con i ricordi e la riflessione sull’essere giovani negli anni settanta. […].
Assayas sembra raccontarci – come Bertolucci - il mondo prima della rivoluzione, non dopo. Quel trovare
inaccettabili i “contenuti rivoluzionari” espressi in “contenitori reazionari”, quel voler osservare la realtà non con
sguardo ideologico ma con la determinazione alla verità (la rivoluzione culturale cinese raccontata da Simon
Leys), quel voler rompere senza distruggere, quel porsi sempre e comunque “le domande più delicate” (come
dice Olivier), Ma soprattutto quella consapevolezza che “la cultura debba tenere nella seconda metà del XX
secolo il ruolo motore nello sviluppo dell’economia, ruolo che fu dell’automobile nella prima metà del secolo e
della ferrovie nella seconda metà del XIX secolo” (Guy Debord nel 1971, non Clay Shirky nel 2010…).
[…] Ma la grandezza e il limite di questo film stanno proprio nell’eccesso di sincerità, di ricostruzione fedele, forse
di verità. E il film ci appare come incapsulato in un ricordo vivido e profondo, meravigliosamente dentro “i nostri
anni”, senza quei colori sbiaditi di una foto Polaroid degli anni Settanta, oggi così magicamente riproducibili con
Instagram (che è la rappresentazione in termini di software di come oggi le giovani generazioni vivano quegli
anni: un colore riflesso, attenuato, come se la vita, allora, fosse davvero cosi!). Assayas non gioca con i colori e la
memoria simbolica di un possibile “Instagram movie”, ma restituisce cuore e colore vivo di una materia pulsante
che così ci appare viva, vitale, immediata, dannatamente sincera. Ma l’arte, spesso, ha anche bisogno di
piccole/grandi menzogne, e l’eccesso di verità, a volta, ricaccia l’immaginazione dietro la porta.
Valerio Sammarco. Cinematografo.it
[…] Questo è lo scenario in cui si apre Après Mai (Qualcosa nell'aria, da noi) di Olivier Assayas, film
dichiaratamente autobiografico in cui il regista francese torna agli anni della sua adolescenza, "malinconica ma
caratterizzata da un forte amore per la vita". Per raccontarcela, affida all'alter ego Clément Métayer la parte di un
liceale (Gilles) diviso tra l'impeto rivoluzionario e il percorso artistico/individuale: l'affresco di un tempo ormai
irreplicabile e perduto viene (ri)costruito dal regista di Carlos in maniera consapevole e nostalgica. Dopo quel
maggio del '68, ci ricorda Assayas, in Francia la generazione dei giovanissimi è alle prese con un presente che,
all'orizzonte, sembra offrire la rivoluzione mancata qualche anno prima: il contesto è quello, ma la spinta
all'emancipazione che porti alla crescita individuale, marcata dalla forte ispirazione che il fuoco dell'arte può
richiamare, è altrettanto presente. E condiziona il percorso di Gilles, delle persone a lui vicine - gli amori Carole
Combes e Lola Créton, gli amici Félix Armand e Hugo Conzelmann -: la politica, la musica (Assayas ascoltava gente
niente male e, vivaddio, ogni canzone nel film viene fatta "parlare" fino alla fine), il ragionamento sul dibattito tra
cinema "agitprop" e cinema come forma espressiva, sulla ricerca di una "sintassi" che si elevasse rispetto alle
forme "borghesi" predominanti, la controcultura e la controinformazione, Après Mai è lo sguardo di chi sa che il
cinema può "resuscitare tutto ciò che si è perso, amato". Assayas non si nasconde, "l'arte è solitudine" fa dire ad
un personaggio del film, ma lotta per un'arte che si faccia portatrice di ricordi e idee. Che contempli l'amore e la
natura, la morte e la tristezza, che parta da Terrapin di Syd Barrett (prima traccia del magnifico The Madcap
Laughs) e arrivi alla dolente, fantastica Decadence di Kevin Ayers. In mezzo, le poesie di Gregory Corso (I Am 25),
estratti di film (...) e poca innovazione in termini di "sintassi": ma la rivoluzione, si sa, il più delle volte è
un'utopia.
Antonio Cuomo. Movieplayer
[…] Come il titolo suggerisce, il periodo preso in esame è successivo a quel preciso momento storico, quando si è
già gli inizi degli anni '70: il film prende il via dalla manifestazione del 9 febbraio 1971, una protesta a sostengo di
due dirigenti della Sinistra Proletaria che, incarcerati, richiedevano lo statuto di prigionieri politici; una
manifestazione bloccata dalle forze di polizia, che assunse un atteggiamento drastico e violento nei confronti dei
diversi gruppi che cercavano inutilmente di riunirsi, sparando i lacrimogeni ad altezza uomo e ferendo in modo
grave un manifestante.
E' questo l'incipit del film di Assayas, duro, frenetico, ben girato e potente. Una sequenza drammatica che ci
introduce al contesto in cui la storia prende vita, nella quale giovani studenti protagonisti si muovono... E
protestano. Una protesta che va a ricamarsi proprio sul dibattito che segue la manifestazione dell'incipit.
Le figure che animano Après Mai sono infatti tra gli appartenenti al movimento studentesco, ragazzi che con uno
sguardo di simpatia all'oriente portano avanti la lotta della sinistra, contro la borghesia e le sue imposizioni
socioculturali.
Ma non è un film politico, non solo almeno, perché le vicende di quegli anni e le lotte dei protagonisti sono solo
uno sfondo su cui si mettono in evidenza i sogni, le passioni ed i timori dei ragazzi, facendo sì che il film di
Assayas tenda al romanzo di formazione. L'autore è infatti più interessato a focalizzare l'attenzione sugli effetti
che quel contesto, dalla cultura underground alle free press politiche, i dibattiti e le manifestazioni, hanno avuto
su chi l'ha vissuto che sul tratteggiarne le sfumature in ogni suo aspetto.
L'operazione riesce in particolare con un paio dei ragazzi che animano la storia, la cui caratterizzazione è
approfondita al punto da farci comprendere il loro percorso: è il caso di Gilles, il vero fulcro della narrazione,
ragazzo ombroso dai capelli neri con una passione per la pittura, e della sua compagna di classe Christine, dei
quali i giovani Clement Metayer e Lola Creton forniscono un buon ritratto. [...]
Velrio Caprara. Il Mattino
Al netto d’incompiutezze inevitabili, considerata l’impervia vastità dell’argomento, “Qualcosa nell’aria” (“Après
Mai”) di Assayas è un film prezioso. Innanzitutto perché era difficilissimo farlo e, infatti, è la prima volta che il
Sessantotto rivive sugli schermi senza sentore d’artificio psico-ideologico (come nei dreamers bertolucciani). In
secondo luogo perché è preciso nella ricostruzione, accurato nelle interpretazioni e credibile nel cambio dei toni
dei dialoghi. Infine perché non nasconde la componente nostalgica, ma riesce a restare equilibrato nel cogliere
anziché colpe e glorie, le sottili sfumature e le mille contraddizioni di epoca e personaggi. Il percorso intrapreso
dai liceali […] si sfrangia proprio come avvenne nella realtà tra ribellioni familiari, autocoscienze individuali e
guerriglie più da “Ragazzi della via Pal” che da Rivoluzione d’ottobre, istanze riformiste, impetuose crescite
culturali e cupi ripiegamenti dogmatici. Il portato incendiario proprio d’ogni gioventù s’identifica –grazie allo stile
affabile, ma non impressionistico di regia- in quelle nottate d’amore e discussioni, quei viaggi sospesi tra
scoutismo e cospirazione, quelle lotte estenuanti contro i simboli del “potere borghese” ma anche contro i propri
condottieri-guru, che separano il generico rimpianto da un’autentica strategia creativa. Invece di sbrodolarsi nel
memorialismo all’italiana (modello sceneggiati di Giordana), “Qualcosa nell’aria” esalta l’irrefrenabile voglia
d’infrangere i tabù pubblici e privati e tuttavia spiega come il retaggio di una generazione in fondo fortunata non
sia oggi accettabile in toto da Gilles/Assayas. […]
Alberto Crespi. L'Unità
[…] il nuovo film di Olivier Assayas è la conferma di uno dei più limpidi talenti del cinema europeo. Classe 1955,
figlio d'arte (suo padre Jacques Remy - uno pseudonimo - era un grande sceneggiatore, anche di una celebre
serie di Maigret televisivi girati in Francia negli anni 50), Assayas ha una filmografia ormai lunga e importante
nella quale è possibile individuare un titolo, L'eau froide del 1994, che è in qualche modo il «padre» di questo
nuovo progetto. Che in originale si intitola Après Mai, «dopo il maggio», ma che in italiano è stato tradotto
Qualcosa nell'aria, titolo che comunque al regista piace: «È l'esatta traduzione del titolo internazionale,
Something in the Air, che ho scelto io». Perfetto. Siamo, dunque, subito dopo il Maggio del '68, che cambiò la
storia e il modo di vivere della Francia e di mezzo mondo e che è già stato raccontato da registi come Louis Malle
e Philippe Garrel. I protagonisti, come quelli di L'eau froide, si chiamano Gilles e Christine. Sono due adolescenti,
che per motivi anagrafici hanno sfiorato il Maggio (il film è rigorosamente autobiografico, e nel '68 Assayas aveva
13 anni) e ne vivono i turbolenti ricaschi. L'attivismo politico va di pari passo con l'educazione sentimentale, la
scoperta del sesso, l'amore per la musica e la cultura pop che stanno scoperchiando le menti di tutti i giovani
europei. È curioso, in un film francese, vedere i personaggi impazzire per la nuova musica proveniente da Londra
e coltivare un «sogno britannico» che mal si concilierebbe con lo sciovinismo d'Oltralpe. La magnifica colonna
sonora è intessuta da brani di artisti rock oggi per lo più dimenticati, da Nick Drake agli Amazing Blondel, dai
Tangerine Dream a Kevin Ayers per arrivare fino a Syd Barrett, il leader pazzo e geniale dei primi Pink Floyd. Ma
non di sola musica vive Qualcosa nell'aria. C'è, anche qui, la giusta dose di cinefilia: ed è toccante sentir citati in
un film di oggi cineasti che a quei tempi erano materia obbligatoria nei cineclub, come Bo Widerberg (l'autore
del film militante Joe Hill) e Jorge Sanjines (il boliviano di Sangue di condor). Oltre che una rievocazione politica e
sentimentale, Qualcosa nell'aria è un tuffo nell'atmosfera emozionale di quel tempo, una sorta di ripasso di
macrostoria e microstoria: un affresco antropologico che piacerebbe a Le Goff, e che ritrova nel passaggio dagli
anni 60 agli anni 70 una serie di reperti «archeologici» che permettono di ricostruire il senso di un'epoca. Ci
siamo capiti: per chi era giovane e di sinistra allora, un film imperdibile. Per chi non c'era, un «come erano»
dedicato a zii, genitori, forse - ahinoi - nonni. Andateci.