Il Diario Del Vampiro - STRANE CREATURE 11

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Il Diario Del Vampiro - STRANE CREATURE 11
Il Diario Del Vampiro - STRANE CREATURE 11
Il diario del vampiro [11]
Lisa Jane Smith
Newton Compton editori (2011)
Tag: httpebooklonyas.blogspot.com
Prequel della fortunata saga de "il diario del vampiro" Un quaderno dalle pagine ingiallite giace
in un cassetto. Elena lo trova e comincia a leggerlo. È il diario di Stefan, il suo amore… Tutto ebbe
inizio alla fine del diciannovesimo secolo a Mystic Falls, Virginia. La vita dei fratelli Stefan e Damon
Salvatore scorreva tranquilla tra splendide proprietà terriere e incredibili ricchezze. Un grande
affetto li univa e i due fratelli erano inseparabili. Fino al giorno in cui nella loro vita comparve
Katherine, una donna incredibilmente bella e dal fascino magnetico. Da quel momento tutto cambiò
tra loro. Stefan e Damon iniziarono a lottare per conquistarla e inevitabilmente divennero rivali. Ma
presto scoprirono l’atroce verità: gli splendidi vestiti e i luccicanti diamanti di questa misteriosa
donna nascondevano un terribile segreto…
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BY SHAYRA
Titolo originale: The Vampire Diaries. Stefan’s Diaries: The Craving
Copyright © 2011 by Alloy Entertainment and L.J. Smith
Traduzione dall’inglese di Marialuisa Amodio
Prima edizione ebook: maggio 2011
© 2011 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-3231-3
www.newtoncompton.com
Edizione elettronica realizzata da Gag srl
Lisa Jane Smith
Il diario del vampiro
Strane creature
Newton Compton editori
Come si può rimediare al sangue versato sulla terra?
ESCHILO
Prologo
Tutto è cambiato. Il mio corpo, i miei desideri, il mio appetito.
La mia anima.
In soli diciassette anni sono stato testimone di più tragedie di chiunque altro… e di fin troppe
sono stato la causa. Porto con me il ricordo della mia morte e di quella di mio fratello. Sono
ossessionato dal suono dei nostri ultimi respiri nei boschi muscosi di Mystic Falls, in Virginia, e
dalla visione del corpo senza vita di mio padre sul pavimento del suo studio, nella nostra
splendida villa Veritas. Sento ancora l’odore della chiesa carbonizzata in cui furono bruciati i
vampiri del paese. E posso quasi sentire il sapore del sangue che ho bevuto dopo la
trasformazione, e delle vite che ho rubato solo per fame e indifferenza. Ancora più chiaramente
vedo il ragazzo curioso e sognatore che ero una volta, e se il mio cuore potesse battere, si
spezzerebbe per il dolore di fronte alla spregevole creatura che sono diventato.
Ma anche se ogni molecola del mio essere si è trasformata fino a rendermi irriconoscibile, il
mondo continua a girare. I bambini crescono, e il passare del tempo smagrisce i loro volti paffuti.
I ragazzi innamorati si scambiano sorrisi di nascosto, parlando del più e del meno. I genitori
dormono, mentre veglia la luna, e si svegliano quando i raggi del sole li scuotono dolcemente
dal sonno. Mangiano, lavorano e amano. I loro cuori non smettono mai di pompare, con colpi
ritmici, regolari, assordanti, ipnotici. E il loro sangue mi ammalia e mi seduce, come la melodia
di un incantatore di serpenti seduce un cobra.
Una volta disprezzavo le vite tediose degli umani, credendo che il mio Potere mi avesse reso
migliore di loro. Con il suo esempio, Katherine mi aveva insegnato che il tempo non ha
importanza per i vampiri, e che potevo non curarmene, vivere momento per momento e passare
da un piacere carnale all’altro senza timore delle conseguenze. Nei primi tempi a New Orleans,
ero esaltato dal mio nuovo Potere, dalla forza e dalla velocità che avevo acquisito e che
sembravano non aver limiti. Gli umani erano le mie prede. Consideravo le loro vite insignificanti
e le strappavo via senza rimorso. Ogni calda goccia di sangue mi faceva sentire vivo, forte,
impavido e potente.
Ero stordito dalla sete di sangue. Ho ucciso così tanta gente, con indifferenza. Non riesco
nemmeno a ricordare i volti delle mie vittime. Eccetto uno.
Quello di Callie.
I suoi capelli rosso fiamma, i suoi limpidi occhi verdi, la morbidezza delle sue guance, la sua
tipica posa con le mani sui fianchi… Ogni dettaglio di lei riemerge con dolorosa chiarezza.
È stato Damon, mio fratello, lui che una volta era il mio migliore amico, a ucciderla.
Quando l’ho costretto a trasformarsi in vampiro, gli ho sottratto la sua vita, così lui mi ha tolto
l’unica cosa che poteva prendersi: il mio nuovo amore. Callie mi ha fatto ricordare cosa si provi a
essere umani e cosa significhi dare valore alla vita. La sua morte è un peso tremendo che
opprime la mia coscienza.
Ora la mia forza è un fardello, la costante sete di sangue una maledizione, la promessa
dell’immortalità una terribile croce da portare sulle mie spalle. I vampiri sono mostri, assassini.
Non devo dimenticarlo, mai più. Non devo mai permettere al mostro di prendere il sopravvento.
Anche se su di me graverà sempre il peso della colpa di ciò che ho fatto a mio fratello, della
decisione che ho preso per lui, devo comunque evitare il cammino oscuro che lui è così
determinato a percorrere. Lui prova piacere nella violenza e nella libertà della sua nuova vita,
invece io sento solo rimorso.
Prima di lasciare New Orleans, ho combattuto il demone che mio fratello Damon era
diventato. Ora che mi sono rifatto una vita al Nord, lontano da chiunque mi abbia conosciuto, sia
come umano sia come vampiro, l’unico demone che devo combattere è la mia fame.
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Sentii nelle vicinanze il battito di un cuore, di una vita.
Appena quel suono richiamò la mia attenzione, gli altri rumori della città passarono in secondo
piano. Si era allontanata dai suoi amici e aveva abbandonato il sentiero battuto.
Il sole era appena tramontato su Central Park, dove mi ero esiliato quando, quattordici lunghi
giorni prima, ero arrivato a New York City. I colori, in quella distesa selvaggia, erano meno vividi, si
sovrapponevano, le ombre si confondevano con gli oggetti che le proiettavano. Il cielo arancione e
blu cobalto si fece scuro come l’inchiostro, mentre il colore del terreno fangoso si smorzava in un
vellutato terra di Siena.
Intorno a me era tutto tranquillo. Ogni cosa sembrava sospesa in quell’istante, al termine del
giorno, in cui avviene il cambio della guardia: quando gli umani e i loro compagni diurni sbarrano le
porte e le creature notturne come me escono a caccia.
Grazie all’anello che mi aveva dato Katherine, potevo camminare alla luce del giorno come un
qualsiasi normale essere umano. Ma fin dall’inizio dei tempi, era più facile per i vampiri cacciare
nell’ora incerta in cui il giorno lentamente diventa notte. Il crepuscolo disorienta le creature che non
sono dotate della vista e dell’udito di un predatore notturno.
Il suono dei battiti che stavo seguendo divenne più sommesso… La mia preda stava
scappando. Disperato, mi detti lo slancio e costrinsi il mio corpo a muoversi più in fretta, tanto che i
piedi sfioravano appena il terreno. La mancanza di cibo mi aveva indebolito e metteva a dura prova
le mie abilità di cacciatore. Inoltre, quei boschi non mi erano familiari. Alberi e piante rampicanti mi
erano estranei come la gente che passeggiava sulle strade acciottolate a mezzo chilometro di
distanza.
Ma un cacciatore anche lontano da casa rimane pur sempre un cacciatore. Scavalcai con un
salto un cespuglio ridotto a un groviglio di rami secchi, schivai un ruscello ghiacciato, privo degli
indolenti pesci gatto che ero solito osservare da bambino, e corsi finché scivolai su un masso
coperto di muschio e mi schiantai su un cespuglio di rovi, rendendo la mia battuta di caccia ben più
chiassosa di quanto fosse nelle mie intenzioni.
La mia preda sentì e comprese che la morte era vicina. Era sola ormai e, consapevole della
situazione, cominciò a correre per davvero.
Che spettacolo dovevo essere: i capelli scuri spettinati, la pelle pallida come quella di un
cadavere, gli occhi che cominciavano ad arrossarsi mentre emergeva il vampiro che era in me.
Saltavo e correvo nella foresta come un selvaggio, vestito con il completo elegante che mi aveva
procurato Lexi, la mia amica di New Orleans, con le maniche della camicia di seta bianca ridotte a
brandelli.
Prese velocità. Ma ero deciso a non lasciarla scappare.
Il mio bisogno di sangue era diventato una sofferenza così intensa che non riuscii a trattenermi
un secondo di più. Nella mia bocca sbocciò un dolore quasi piacevole e spuntarono le zanne.
Mentre subivo la mutazione, il sangue mi affluì al volto, diventando sempre più caldo. Il Potere prese
il sopravvento e i miei sensi si affinarono, traendo linfa dall’ultimo briciolo di forza vampiresca.
Spiccai un balzo, muovendomi a una velocità superiore a quella di qualsiasi essere umano o
animale. Per l’istinto che hanno tutte le creature viventi, la poverina sentì avvicinarsi la morte e si
fece prendere dal panico, affannandosi a cercare riparo fra gli alberi. Il suo cuore batteva
all’impazzata: tump, tump, tump.
La piccola parte di me ancora umana si sarebbe pentita di quello che stavo per fare, ma il
vampiro aveva bisogno di sangue.
Con un ultimo balzo catturai la preda: uno scoiattolo grasso e avido, che si era allontanato dal
gruppo per cercare altro cibo. Il tempo rallentò mentre calavo sulla bestiola, le squarciavo la gola e
affondavo i denti nella carne, risucchiando la sua vita, una goccia alla volta.
Il fatto che avessi mangiato scoiattoli anche quando ero umano lenì in parte il mio senso di
colpa. In quel periodo dell’anno, a Mystic Falls, sarei andato a caccia con mio fratello nei fitti boschi
che circondavano la nostra tenuta. Per gran parte dell’anno gli scoiattoli erano un pasto poco
sostanzioso, ma in autunno ingrassavano e prendevano un buon sapore di noci. Il sangue di
scoiattolo, comunque, non era una prelibatezza: era rancido e sgradevole. Lo consideravo solo una
fonte di nutrimento… piuttosto esigua, in realtà. Mi sforzai di continuare a bere. Mi stuzzicava
l’appetito senza saziarmi e mi faceva ricordare del liquido inebriante che scorre nelle vene di un
essere umano.
Ma da quando Damon aveva posto fine alla vita di Callie, mi ero impegnato a rinunciare agli
umani, per sempre. Non avrei più ucciso né amato altri esseri umani e mai avrei bevuto di nuovo il
loro sangue. Potevo portare loro solo dolore e morte, anche senza volerlo. Ecco cosa significava
essere un vampiro. Ecco la vita cui ero costretto a causa di ciò che era diventato mio fratello: un
assassino spietato e vendicativo.
Dai rami dell’olmo che torreggiava su di me udii il verso di un gufo. Un tamia sgattaiolò via,
sfiorandomi i piedi. Mi curvai e adagiai per terra il povero scoiattolo. Gli era rimasto in corpo così
poco sangue che la ferita era asciutta e le sue zampette si erano già irrigidite nel rigor mortis. Mi
pulii la faccia dalle tracce di sangue e peli e m’inoltrai nel parco, solo con i miei pensieri, mentre
intorno a me brulicava una città di circa un milione di persone.
Da quando ero saltato giù dal treno, due settimane prima, dormivo al centro del parco in quella
che, in pratica, era una caverna. Avevo preso l’abitudine di segnare ogni giorno una tacca su una
lastra di cemento. Se non l’avessi fatto, i momenti si sarebbero confusi fra loro e il tempo sarebbe
diventato vuoto e privo di significato. Accanto alla caverna c’era una zona recintata in cui gli operai
edili avevano ammassato i ruderi riutilizzabili del villaggio che avevano raso al suolo per creare
Central Park, nonché pezzi sparsi che intendevano sistemare altrove: fontane scolpite, statue senza
base, architravi, porte e persino lastre tombali.
Scostai un ramo scheletrico – il freddo di novembre aveva spogliato quasi tutti gli alberi delle
loro foglie – e annusai l’aria. Presto avrebbe piovuto. Lo sapevo per esperienza, essendo cresciuto
nella regione delle piantagioni, ma potevo capirlo anche dai mille dettagli del mondo circostante,
che i miei sensi da mostro riuscivano a captare.
All’improvviso il vento cambiò, e portò con sé un odore di ruggine, stuzzicante e dolciastro.
Eccolo di nuovo. Pungente, esasperante, metallico.
Il profumo del sangue. Del sangue umano.
Entrai nella radura, respirando in fretta. Il pesante tanfo di ferro era ovunque: era una nebbia
quasi palpabile che inondava la vallata. Esaminai la zona.
C’era la caverna in cui avevo passato le mie notti tormentate, agitandomi e rigirandomi nel mio
giaciglio in attesa dell’alba. Appena fuori dalla grotta, ammucchiate su un lato, c’erano le travi e le
porte che avevo rubato da case diroccate e tombe profanate. Ancora oltre, si vedevano le fulgide
statue bianche e le fontane sparse qua e là all’interno del parco.
E poi la vidi. Ai piedi della statua di un principe c’era il corpo di una giovane donna, con un
vestito da ballo bianco che lentamente si tingeva di rosso.
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Sentii fremere le vene del viso, gonfiate dal flusso di Potere. I canini spuntarono con uno scatto
violento e doloroso, squarciandomi le gengive. In un batter d’occhio tornai a essere un cacciatore:
in equilibrio sulle punte dei piedi, con le dita contratte, pronte a ghermire la preda. Mentre mi
avvicinavo a lei, i miei sensi diventarono ancora più acuti: le pupille si dilatarono per catturare ogni
ombra, le narici si allargarono per cogliere tutti gli odori. Anche la pelle pizzicava, tesa per rilevare il
minimo cambiamento nel movimento dell’aria, nel calore, nelle piccole pulsazioni che indicavano la
presenza di un essere vivente. Nonostante il voto che avevo fatto, il mio corpo era più che pronto a
devastare le sue morbide carni morenti e a succhiarne l’essenza vitale.
Era una ragazza esile, ma non sembrava fragile o malaticcia. Non dimostrava più di sedici anni.
Il suo petto si contraeva con forti spasmi mentre cercava di respirare. I suoi riccioli scuri avevano
assunto un bagliore dorato alla luce della luna nascente. Fra i capelli erano stati sistemati con cura
fiori e nastri di seta, che ormai si erano sciolti, insieme alle trecce, e le pendevano flosci dietro la
testa, simili alla spuma del mare.
Indossava una sottoveste porpora su cui galleggiava un vaporoso tulle di cotone bianco. Nei
punti in cui la gonna era strappata, s’intravedevano bagliori di seta scarlatta, lo stesso rosso del
sangue che le colava dal petto lungo il corsetto. Uno dei suoi guanti di pelle di daino era bianco,
mentre l’altro era quasi nero, zuppo di sangue, come se avesse tentato di fermare l’emorragia
prima di svenire.
Rovesciò gli occhi, sbattendo le ciglia lunghe e folte. Quella ragazza si aggrappava alla vita,
lottava con tutte le sue forze per rimanere cosciente e sopravvivere alla violenza subìta.
Distinsi chiaramente i battiti del suo cuore. Nonostante la sua energia e la forza di volontà,
stavano rallentando e potevo contare i secondi fra un battito e l’altro.
Tu-tum…
Tu-tum…
Tu-tum…
Tu-tum…
Intorno a noi c’era un gran silenzio. Eravamo solo io, la luna e una ragazza moribonda. Anche il
suo respiro rallentava. Sarebbe potuta morire da un momento all’altro ma non per mano mia.
Mi passai la lingua sui denti. Avevo fatto del mio meglio. Avevo dato la caccia a uno scoiattolo –
uno scoiattolo – per saziare il mio appetito. Stavo facendo tutto il possibile per resistere al richiamo
del mio lato oscuro, della fame che mi stava lacerando. Mi ero astenuto dall’uso del Potere.
Ma quell’odore…
Speziato, ferroso, dolce. Mi faceva girare la testa. Non era colpa mia se era stata aggredita.
Non ero stato io a causare la pozza di sangue che si era formata attorno al suo corpo riverso. Solo
un piccolo sorso non poteva far male… Non potevo ferirla più di quanto avesse già fatto il suo
aggressore…
Fui scosso da deliziosi brividi di dolore che si irradiavano dalla spina dorsale al resto del corpo.
I miei muscoli si contrassero e si rilassarono spontaneamente. Mi avvicinai di un passo: ero così
vicino che avrei potuto allungare una mano e toccare il succo rosso.
Il sangue umano mi avrebbe dato molto più che semplice nutrimento. Mi avrebbe inondato di
calore e Potere. Aveva un sapore unico e al mondo non esisteva niente di simile. Solo qualche
sorso e sarei stato di nuovo il vampiro che ero a New Orleans: invincibile, veloce come un fulmine,
forte. Sarei riuscito a soggiogare gli umani al mio volere, avrei potuto dissolvere il senso di colpa e
abbracciare la mia parte oscura. Sarei stato di nuovo un vero vampiro.
In quell’istante dimenticai ogni cosa: perché mi trovavo a New York, cosa era accaduto a New
Orleans e i motivi che mi avevano spinto a lasciare Mystic Falls. Callie, Katherine, Damon… Tutto
era perduto, rimosso, mentre mi avvicinavo alla fonte della mia agonia e della mia estasi.
Mi inginocchiai sull’erba. Le mie labbra riarse si ritrassero, scoprendo i lunghi canini.
Una leccata. Un sorso. Un piccolo assaggio. Ne sentivo terribilmente il bisogno. E, in pratica,
non l’avrei uccisa io. Tecnicamente, sarebbe morta per mano di qualcun altro.
A ogni battito del cuore, rivoli di sangue le sgorgavano dalla ferita al petto e fluivano lungo il
torace. Mi chinai su di lei, allungando la lingua… Uno degli occhi si aprì debolmente; le sue folte
ciglia si separarono, rivelando limpide iridi verdi. Iridi del colore dei trifogli e dell’erba.
Era lo stesso colore degli occhi di Callie.
Nell’ultimo ricordo che avevo di lei, Callie era moribonda, distesa per terra, inerme, in una
posizione simile. Era morta con un coltello conficcato nella schiena. Damon non aveva nemmeno
avuto la decenza di permetterle di difendersi. L’aveva pugnalata mentre era distratta, perché mi
stava confidando quanto mi amasse. E poi, prima che potessi darle il mio sangue e salvarla,
Damon mi aveva spinto via e l’aveva prosciugata fino all’ultima goccia. L’aveva ridotta a un guscio
vuoto e secco, e poi aveva cercato di uccidere anche me. Non fosse stato per Lexi, ci sarebbe
riuscito.
Con un grido tormentato ritrassi le mani dal corpo della ragazza e battei i pugni per terra.
Costrinsi la sete di sangue che mi bruciava gli occhi e le guance a tornare nel luogo oscuro da cui
proveniva.
Mi concessi qualche altro secondo per calmarmi, poi slacciai il corsetto della ragazza per
esaminare la ferita. Era stata trafitta con un coltello o con qualche altra lama piccola e affilata.
L’arma era stata spinta con precisione quasi chirurgica in mezzo al torace, fra i suoi seni, ma aveva
mancato il cuore. Sembrava che l’aggressore le avesse negato una morte rapida e avesse voluto
che soffrisse, mentre si dissanguava lentamente.
Inoltre, non aveva abbandonato l’arma del delitto, così accostai il polso alla bocca e me lo tagliai
con i denti. Il dolore mi aiutò a concentrarmi. Una fitta breve, quasi piacevole rispetto a quella che
provavo quando mi spuntavano i canini.
Con uno sforzo enorme le premetti il polso sulla bocca e strinsi il pugno. Avevo così poco
sangue da darle… Quel gesto rischiava di uccidermi. Non sapevo nemmeno se avrebbe funzionato
ora che mi nutrivo solo di animali.
Tu-tum.
Pausa.
Tu-tum.
Pausa.
I suoi battiti continuavano a rallentare.
«Dài», implorai, digrignando i denti per il dolore. «Su, coraggio».
Sulle sue labbra caddero le prime gocce di sangue. Sussultò, rianimandosi un poco. Dischiuse
la bocca, con uno sforzo estremo.
Premetti la vena del polso con tutte le mie forze, per far uscire il sangue e spingerlo nella sua
bocca. Quando finalmente il liquido le colpì la lingua, quasi si strozzò.
«Bevi», ordinai. «Ti farà bene. Bevi».
Girò la testa. «No», mormorò.
Ignorando le sue flebili proteste, le premetti il polso sulla bocca e spinsi dentro il sangue.
Gemeva e cercava di non deglutire. Si alzò un vento improvviso, che fece frusciare il suo vestito.
Un lombrico si immerse nella terra soffice e bagnata, per ripararsi dalla fredda brezza notturna.
Infine smise di lottare.
Chiuse le labbra sul mio polso ferito, e cercò la fonte del sangue con la lingua morbida.
Cominciò a succhiare.
Tu-tum.
Tu-tum.
Tump, tump, tump.
Con un movimento fiacco e tremolante, alzò la mano coperta dal guanto zuppo di sangue e mi
afferrò il braccio, cercando di portarlo più vicino al viso. Ne voleva di più. Comprendevo fin troppo
bene il suo desiderio, ma non avevo più nulla da offrire.
«Basta così», dissi, poiché mi sentivo io stesso sul punto di svenire. Liberai il braccio con
delicatezza, ignorando i suoi miagolii lamentosi. Ormai il battito del suo cuore era più regolare.
«Chi sei? Dove abiti?», chiesi.
Piagnucolò e restò aggrappata a me.
«Apri gli occhi», ordinai.
Obbedì, mostrando di nuovo i suoi occhi verdi, così simili a quelli di Callie.
«Dimmi dove abiti», dissi. Il mondo mi vorticava attorno mentre usavo l’ultima goccia di Potere
che mi era rimasta per soggiogarla.
«Quinta Avenue», rispose con voce sognante.
Cercai di non perdere la pazienza. «Dove sulla Quinta Avenue?»
«Settantatreesima Strada… Al numero uno della Settantatreesima Est…», sussurrò.
La presi in braccio, come se fosse un fragrante fagotto di seta, veli, pizzi e calda carne umana. I
suoi riccioli mi sfiorarono il viso, solleticandomi il collo e le guance. Aveva ancora gli occhi chiusi e
si era abbandonata mollemente fra le mie braccia. Il sangue di entrambi cadeva goccia a goccia
nella polvere.
Digrignai i denti e cominciai a correre.
3
Ero appena uscito dal parco, quando un calesse girò l’angolo di corsa, seguito da un poliziotto
a cavallo. Mi ritrassi nell’ombra e per un momento restai senza fiato, travolto dal fracasso.
Avevo pensato che New Orleans fosse grande, e paragonata a Mystic Falls effettivamente lo
era. Edifici, traffici e imbarcazioni erano stipati nella zona piccola e frenetica vicino al fiume
Mississippi. Ma non era niente rispetto a Manhattan, dove palazzi di alabastro si levavano alti nel
cielo, e italiani, irlandesi, russi, tedeschi – persino cinesi e giapponesi – passeggiavano per le
strade e vendevano i loro prodotti.
Anche di notte, New York pulsava di vita. La Quinta Avenue era illuminata da una fila di allegri,
ronzanti lampioni a gas che davano un bagliore caldo e intenso alla strada di ciottoli. Due
innamorati si avvicinarono l’uno all’altro, ridendo, e si strinsero nei cappotti mentre, fischiando,
passava il vento. Uno strillone gridava titoli di giornali sugli incendi nelle fabbriche e la corruzione
politica. Le pulsazioni dei cuori, frenetiche e martellanti, creavano una cacofonia caotica. Il fetore
della spazzatura, i profumi e anche il semplice odore della pelle lavata con acqua e sapone
restavano sospesi nell’aria come i vischiosi viticci di kudzu nelle strade di Mystic Falls.
Riacquistata la calma, mi rifugiai nella zona d’ombra più vicina, alle spalle del cono di luce che
proveniva da un lampione a gas. Il corpo della ragazza cominciava a pesarmi. Alla fine del
caseggiato c’era un portiere d’albergo. Appena aprì il giornale, gli passai davanti barcollando, con
la massima velocità consentita dal mio fardello. Certo, se fossi stato all’apice del mio Potere, se
nelle settimane precedenti mi fossi nutrito di umani, non ci sarebbe voluto niente a soggiogare il
portiere, facendogli dimenticare ciò che aveva visto. Ancora meglio, sarei potuto arrivare in un
lampo alla Settantatreesima e agli occhi dei passanti sarei sembrato solo una macchia indistinta.
Sulla Sessantottesima, mi nascosi dietro un cespuglio umido di rugiada, mentre un ubriaco ci
veniva incontro con passo malfermo. Fra gli angusti confini dei rami, non c’era nulla che potesse
distrarmi dalla dolce fragranza del sangue della ragazza. Cercai di non respirarlo, maledicendo
l’istinto che mi spingeva a desiderare di squarciarle la gola. Appena l’ubriaco passò oltre, mi
precipitai sulla Sessantanovesima, verso nord, pregando che nessuno mi vedesse o si fermasse a
farmi domande sulla ragazza svenuta che avevo in braccio. Ma, nella fretta, diedi un calcio a un
sasso, mandandolo a sbattere sulla strada di ciottoli con un rumore più forte di uno sparo.
L’ubriaco si girò di scatto. «Chi è là?», farfugliò.
Mi appiattii contro il muro di marmo di una villa, pregando in silenzio che continuasse per la sua
strada. L’uomo esitò, si guardò attorno con gli occhi annebbiati, poi crollò sul marciapiede e
cominciò subito a russare.
La ragazza emise un altro lamento e si agitò fra le mie braccia. Non ci sarebbe voluto molto
prima che si svegliasse e si rendesse conto – urlando a squarciagola, senza dubbio – di trovarsi fra
le braccia di uno sconosciuto. Mi feci forza e contai fino a dieci. Poi, come se fossi inseguito da tutti
i demoni dell’inferno, mi lanciai in una corsa sbilenca, senza più preoccuparmi di proteggere il mio
carico dagli scossoni. Sessantanovesima, Settantesima… Una goccia del suo sangue mi schizzò
sulla guancia. Alle mie spalle echeggiò un rumore di passi. In lontananza un cavallo nitrì.
Presto fummo sulla Settantaduesima. Ancora un isolato e saremmo arrivati. L’avrei lasciata
sulla soglia di casa e sarei tornato di corsa al…
Ma al numero uno della Settantatreesima Est fui costretto a fermarmi.
La casa in cui ero cresciuto era enorme, costruita da mio padre con la fortuna accumulata
quando era emigrato dall’Italia. Villa Veritas aveva tre piani, un portico ampio e assolato che
circondava l’intero edificio e una fila di snelle colonne che si innalzavano fino al secondo piano. Era
dotata di ogni lusso che si potesse ottenere durante l’embargo da parte degli Stati dell’Unione.
Ma quella casa – o meglio, quel palazzo – era enorme. Un castello, fatto di blocchi di pietra
calcarea bianchi come ossa, che si estendeva quasi per l’intero isolato. Lungo le facciate
correvano diverse file di finestre ravvicinate, simili a occhi vigili. A ogni piano si affacciavano
balconi di ferro battuto, non diversi da quelli che adornavano la villa di Callie a New Orleans, con
rampicanti bruni e rinsecchiti aggrappati ai ghirigori della ringhiera. C’erano anche delle guglie
aguzze, in stile europeo, che ostentavano doccioni scolpiti.
Insomma, per ironia del destino la casa a cui dovevo avvicinarmi era protetta da mostri.
Salii i gradini che portavano alla gigantesca porta d’ingresso, intagliata nel legno scuro. Adagiai
con delicatezza la ragazza in cima alla gradinata, sollevai il chiavistello di ottone e bussai tre volte.
Ero sul punto di girarmi e tornare al parco, quando l’imponente portone si spalancò, come se non
fosse più pesante del cancello di un giardino. Un domestico si fermò sull’attenti davanti alla porta.
Era alto e secco come un chiodo, e indossava un sobrio abito nero. Ci guardammo l’un l’altro per
un lungo momento, poi ci girammo verso la ragazza distesa sulla soglia.
«Signore…», disse il maggiordomo con tono sorprendentemente calmo, rivolto a una figura alle
sue spalle che non riuscii a vedere. «È la signorina Sutherland…».
Seguì un trambusto confuso di passi e grida. Quasi subito nell’atrio si accalcarono parecchie
persone dall’aria preoccupata. Troppe per i miei gusti.
«L’ho trovata nel parco», cominciai.
Non aggiunsi altro.
Con un fruscìo di sottane e pesanti vesti di seta, una mezza dozzina di donne urlanti, uomini e
domestici si precipitarono fuori e si agitarono intorno alla ragazza come uno stuolo di oche. L’odore
di sangue umano era pesante e mi dava alla testa. Un’anziana signora riccamente vestita – la
madre, dedussi – mise subito una mano sul collo della figlia per controllare i battiti.
«Henry! Porta dentro Bridget!», ordinò.
Il maggiordomo la prese in braccio con delicatezza e non batté ciglio nemmeno quando il
sangue cominciò a impregnare il suo panciotto color crema. Lo seguì una governante, dopo aver
ricevuto gli ordini della madre che continuava a urlare e a dare disposizioni alla servitù.
«Winfield, manda il ragazzo a chiamare un dottore! Fai preparare a Gerta un bagno caldo. Di’ al
cuoco di preparare un decotto e alcuni liquori alle erbe! Toglile subito il busto e slacciale il
corsetto… Sarah, vai a prendere dei vecchi lenzuoli dal baule in soffitta e strappali per farne delle
bende. Lydia, manda a chiamare Margaret».
Il piccolo assembramento si sciolse e, uno per volta, rientrarono in casa, tranne un ragazzino in
pantaloni corti e berretto che corse via a perdifiato, finché il ticchettio dei suoi passi sul selciato si
perse nella notte. Era come se la casa, dopo aver lasciato trapelare qualche breve istante di vita
familiare e vivacità, avesse risucchiato i suoi abitanti fra le mura piene di calore e protezione.
Anche se avessi voluto, non avrei potuto seguirli. Sono gli umani a permettere alla rovina di
penetrare nelle loro vite, che ne siano consapevoli o no. Senza un invito, i vampiri non possono
entrare: esiliati dai cuori calorosi e dall’amichevole compagnia che le case promettono, sono
obbligati a restare fuori, nella notte, a guardare.
Feci per andarmene: avevo già indugiato più di quanto fosse nelle mie intenzioni.
«Giovanotto, aspetta».
La voce era così sicura, profonda e stentorea che mi costrinse a tornare indietro, come se fossi
soggiogato da qualche Potere.
Fermo sulla soglia c’era un uomo che doveva essere il padrone di casa e il padre della ragazza
che avevo salvato. Era felicemente grasso e aveva quella pancia che costringe a stare inclinati
all’indietro sui talloni. Indossava un vestito costoso di lana e tweed, fatto su misura ma sobrio nel
taglio e nella forma. Sprigionava benessere da tutta la sua persona, dalle basette rossicce ai vivaci
occhi neri e al mezzo sorriso che gli sollevava l’angolo sinistro della bocca. Sembrava che avesse
lavorato duramente per gran parte della sua vita: le mani callose e un certo rossore intorno al collo
testimoniavano che non aveva ereditato la sua ricchezza.
Per un istante mi balenò nella mente un pensiero: come sarebbe stato facile attirarlo là fuori.
Soltanto un altro passo… Il suo corpo pingue mi avrebbe dato abbastanza sangue da saziare la
mia fame per giorni. Sentii dolermi la bocca per il desiderio che avrebbe persuaso le mie zanne a
uscire e che avrebbe portato alla morte quell’uomo.
Ma anche se quella notte avevo avuto molte tentazioni, ormai mi ero lasciato quella vita alle
spalle.
«Stavo per andar via, signore. Sono felice che vostra figlia sia salva», dissi, facendo un altro
passo indietro, verso le ombre.
L’uomo mi fermò, posandomi una mano carnosa sul braccio.
Strinse gli occhi e, anche se avrei potuto ucciderlo in un batter d’occhio, mi accorsi con stupore
di un’improvvisa irrequietezza: avevo le farfalle nello stomaco. «Come ti chiami, figliolo?»
«Stefan», risposi. «Stefan Salvatore».
Mi resi subito conto che dirgli il mio vero nome era stata una mossa stupida, dato lo scompiglio
che avevo provocato a New Orleans e a Mystic Falls.
«Stefan», ripeté, guardandomi dall’alto in basso. «Non hai intenzione di chiedere una
ricompensa?».
Mi tirai quel che restava dei polsini, imbarazzato dal mio aspetto trasandato. I miei pantaloni,
con il diario infilato nella tasca posteriore, erano logori. La camicia pendeva a brandelli sotto le
bretelle. Non avevo il cappello né la cravatta né il panciotto e, soprattutto, ero sporco e puzzavo di
strada e di notti passate all’aperto.
«No, signore. Sono solo felice di essere stato d’aiuto», mormorai.
L’uomo rimase in silenzio, come se trovasse difficoltà a elaborare le mie parole. Mi chiesi se lo
shock di vedere sua figlia così debole e coperta di sangue non gli avesse provocato una sorta di
confusione mentale. Poi scosse la testa.
«Sciocchezze!». Mi strinse la spalla destra. «Darei qualsiasi cosa per proteggere la piccola di
casa. Entra. Insisto! Ti offro un sigaro, permettimi di festeggiare il salvataggio della mia bambina».
Mi tirò dentro casa, come se fossi un cane testardo al guinzaglio. Feci per protestare, ma
ammutolii nell’istante in cui misi piede nel maestoso atrio. I rivestimenti erano in legno di ciliegio
scuro. Le vetrate colorate, fatte per illuminare l’ingresso durante il giorno, brillavano anche di notte,
rifrangendo in un prisma variopinto la luce dei lampioni a gas. Una solenne, enorme scalinata saliva
fino al primo piano; la balaustra sembrava intagliata da tronchi interi. Mi sarebbe piaciuto aver
studiato architettura quando ero umano, così avrei potuto esaminare quella casa per ore, estasiato.
Ma prima che potessi apprezzare tutti i dettagli dell’atrio, l’uomo mi condusse, attraverso un
corridoio, in un accogliente salottino. Sulla parete di fondo torreggiava un fuoco scoppiettante. Nella
stanza erano sparse sedie dallo schienale alto con cuscini di seta e i muri erano tappezzati di carta
verde pino. Un tavolo da biliardo era posto con discrezione dietro un divano, e vetrinette colme di
libri, mappamondi e curiosità di vario genere incorniciavano le alte finestre a battenti. Mio padre,
che era un collezionista di libri e oggetti raffinati, avrebbe adorato quella stanza, e mi si strinse il
cuore al pensiero che stavo vedendo cose che lui non avrebbe mai visto.
«Sigaro?», mi chiese, tirando fuori una scatola.
«No, grazie, signore», dissi. Erano sigari della migliore qualità, fatti con il tabacco della mia
terra natia. Una volta, sarei stato più che felice di accettare. Ma se solo il suono del becco di un
uccello che raschiava la corteccia di un albero opprimeva i miei sensi acuiti, il pensiero di aspirare
nuvole di fumo nero era intollerabile.
«Uhm. Non partecipi». Alzò una delle sue sopracciglia folte con aria dubbiosa. «Non vorrai
rifiutare un po’ di liquore, spero».
«No, signore. Grazie, signore».
Anche se camminavo avanti e indietro in preda al nervosismo, riuscivo a esprimermi in maniera
appropriata.
«Bravo ragazzo». Mi versò da bere. Era un liquido color albicocca che scendeva da un
decantatore di cristallo intagliato.
«Così hai trovato mia figlia nel parco», disse, offrendomi il brandy. Non potei fare a meno di
alzare il calice scintillante verso la luce. Sarebbe stato bellissimo anche senza i miei sensi da
vampiro: sprigionava raggi luminosi come una libellula iridescente.
Feci un cenno al mio generoso ospite e bevvi un piccolo sorso, sedendomi quando lui indicò
una poltrona di pelle. Il liquore caldo e dolce mi bagnò la lingua, dandomi conforto e, allo stesso
tempo, facendomi sentire stranamente a disagio. Nel corso di una sola notte, ero passato dalla vita
selvaggia in un parco al sorseggiare squisiti liquori in una villa, in compagnia di un gentiluomo molto
facoltoso. Non vedevo l’ora di tornare a nascondermi nell’oscurità, ma, allo stesso tempo, il senso
di profonda solitudine che mi pervadeva mi implorava di restare ancora un poco. Non parlavo con
anima viva da due settimane, ed eccomi lì, ospite in una vera reggia brulicante di umanità. Riuscivo
ad avvertire la presenza di almeno una dozzina di persone, fra servitù e membri della famiglia, nelle
stanze circostanti, e ognuno di loro aveva un profumo inebriante che solo io potevo percepire.
Sapevo che in cucina c’erano anche due cani.
Il mio benefattore mi guardò in modo strano e m’imposi di fare attenzione.
«Sì, signore. L’ho trovata nella radura vicino alle rovine del vecchio villaggio dei Seneca».
«Cosa ci facevi nel parco a tarda notte?», chiese, fissandomi negli occhi.
«Facevo una passeggiata», risposi con calma.
Mi preparai ad affrontare il resto dell’interrogatorio, perché di certo stava per arrivare una serie
di domande sgradevoli volte ad accertare la mia condizione sociale, sebbene gli stracci che
indossavo fossero già abbastanza eloquenti. Fossi stato al suo posto, a un ragazzo come me avrei
ficcato in mano un paio di dollari e l’avrei cacciato subito fuori di casa. Dopotutto, New York non era
a corto di predatori e, anche se lui non poteva saperlo, probabilmente nemmeno immaginarlo, io
ero uno di quelli della peggior specie.
Ma le parole successive mi sorpresero. «Sei caduto in disgrazia, figliolo?», chiese, addolcendo
la sua espressione. «Cosa è successo…? Tuo padre ti ha cacciato di casa? Uno scandalo? Un
duello? Ti sei trovato dalla parte sbagliata della guerra?».
Restai a bocca aperta. Come faceva a sapere che non ero solo un comune vagabondo?
Sembrò indovinare il mio pensiero.
«Le tue scarpe, figliolo, dimostrano che sei senza dubbio un gentiluomo, malgrado le tue attuali,
ehm, condizioni finanziarie», disse, osservandole. Le guardai anch’io: erano sporche, consumate e
non le lucidavo da quando avevo lasciato la Louisiana. «Modello italiano, pelle di ottima qualità. So
riconoscere i miei prodotti». Batté i tacchi delle sue scarpe, che sembravano fatte di coccodrillo.
«È così che ho cominciato. Sono Winfield T. Sutherland, proprietario dei mercantili Sutherland.
Certi miei vicini si sono arricchiti con il petrolio o con la ferrovia, ma io ho fatto la mia fortuna
onestamente, vendendo alla gente quello di cui aveva bisogno».
Si aprì la porta dello studio ed entrò una giovane donna che non avevo visto prima nell’atrio. Era
composta e aggraziata e aveva un’andatura regale ed energica. La sua cuffietta era sobria, quasi
come quella delle cameriere, ma metteva in risalto i raffinati lineamenti del volto. Era una versione
più fine della ragazza che avevo trovato nel parco. I suoi capelli avevano sfumature dorate e le
ricadevano sulle spalle in morbidi boccoli naturali. Le ciglia erano altrettanto folte ma più lunghe, e
incorniciavano occhi blu con sottilissime venature grigie. Aveva gli zigomi un po’ più alti e un’aria
più pacata.
L’ammirazione dell’uomo per la sua bellezza faceva a pugni con la fredda valutazione del suo
corpo da parte del vampiro: carne fresca e giovane.
«È appena arrivato il dottore, ma la mamma pensa che se la caverà», disse la ragazza con
calma. «La ferita non è profonda come sembrava a un primo sguardo e pare che si stia già
rimarginando da sola. Siamo tutti d’accordo: è un miracolo».
Mi agitai sulla sedia, sapendo di essere stato, mio malgrado, la fonte di quel “miracolo”.
«Mia figlia Lydia», la presentò Winfield. «La più regale delle mie tre grazie. Quella che hai
trovato è Bridget. Lei è un po’… ehm… impetuosa».
«È scappata di punto in bianco da una festa di ballo», disse Lydia, sorridendo a denti stretti.
«Penso che dovresti trovare una parola un po’ più forte di “impetuosa”, papà».
Lydia mi piacque fin dal primo momento. Non aveva nulla della gioia di vivere di Callie, ma era
dotata di un’intelligenza e di un senso dell’umorismo che le donavano molto. Anche suo padre mi
piaceva, nonostante il suo fare burbero e spavaldo. In un certo senso, mi riportavano alla mente la
mia casa, la mia famiglia e i giorni in cui ne avevo ancora una.
«Ci hai reso un grande servigio, Stefan», disse Winfield. «E perdonami se parlo a sproposito,
ma sospetto che tu non abbia una vera e propria casa dove tornare. Perché non resti qui stanotte?
È troppo tardi per andare da qualche parte e devi essere esausto».
Alzai le mani. «No, non posso».
«Di certo non puoi fare altrimenti», disse Lydia.
«Io…». Devi dire di no. Mi apparve l’immagine degli occhi verdi di Callie e pensai al mio voto di
vivere lontano dagli umani. Ma le comodità di quella bellissima casa mi ricordavano così tanto la
vita che mi ero lasciato dietro a Mystic Falls, che trovavo difficile fare quella che sapevo essere la
scelta più saggia.
«Insisto, ragazzo». Winfield mi posò una mano carnosa sulla spalla, spingendomi fuori dalla
stanza. «È il minimo che possiamo fare per ringraziarti. Offrirti una buona notte di sonno e
un’abbondante colazione».
«È molto gentile da parte vostra, ma…».
«Per favore», disse Lydia, accennando un sorriso. «Le siamo davvero grati».
«Dovrei proprio…».
«Eccellente!». Winfield batté le mani. «È deciso. Ti faremo anche trovare i tuoi vestiti lavati e
stirati».
Come un cavallo condotto attraverso una serie di box per essere lavato e strigliato prima di una
corsa, fui scortato dalla governante dei Sutherland per diverse rampe di scale fino all’ala posteriore
della casa che dava sulla strada orientale. Invece che nel solito buco fra le rocce accanto alle lapidi
rubate, avrei dormito su un gigantesco letto di piume a baldacchino, davanti a un bel fuoco
scoppiettante, nella casa di esseri umani che mi avevano subito accolto con gioia, come se fossi
un loro parente.
Il vampiro dentro di me era ancora affamato e nervoso. Ma non impedì alla mia parte umana di
assaporare un frammento della vita che avevo perduto.
4
5 novembre 1864
Sembra un evento così lontano, ma, in realtà, non è trascorso tanto tempo dalla mia trasformazione e dal giorno in cui mio
padre mi ha ucciso. È stato meno di un mese fa che Damon e io abbiamo cercato di salvare la vita di Katherine, e che il suo
sangue ha salvato noi. Soltanto il mese scorso ero un essere umano, dal sangue caldo. Mi nutrivo di carne e verdure,
formaggio e vino… E dormivo in un letto di piume, con lenzuola di lino pulite.
Eppure sembra passata una vita, e in un certo senso, credo che sia proprio così.
Ma la mia sorte è cambiata di nuovo, con la stessa rapidità con cui, dopo New Orleans, mi ha condannato a una vita da
vagabondo in un buco fra le rocce del parco: sono qui, seduto a una vera scrivania sotto una finestra piombata, con un
morbido tappetino sotto i piedi. Come mi riadatto in fretta alle abitudini umane!
I Sutherland sembrano una bella famiglia. Vedo l’impulsiva Bridget e la sua paziente sorella maggiore come una versione
speculare di Damon e me. Non ho mai capito quanto fossero innocui i litigi fra Damon e mio padre, quando si scontravano
solo per cavalli o ragazze. Vivevo con il continuo terrore che uno dei due dicesse o facesse qualcosa che avrebbe posto fine
per sempre alla sembianza di famiglia che ci era rimasta.
Ora che mio padre è morto e che io e mio fratello siamo… quel che siamo, mi rendo conto di quanto possano peggiorare
le cose, e di quanto fosse semplice e tranquilla la vita che avevamo prima.
Non dovrei restare qui, nemmeno stanotte. Dovrei sgattaiolare fuori dalla finestra e tornare di corsa nel luogo del mio
esilio. Lasciarmi avvolgere dal caldo, vivo abbraccio della famiglia Sutherland, anche per breve tempo, è illusorio e
pericoloso. Mi dà la sensazione di poter tornare a far parte del mondo degli umani. Non si rendono conto di aver accolto fra
loro un predatore. Basterebbe che io perdessi il controllo una sola volta, che uscissi di soppiatto, in questo istante, dalla mia
stanza per nutrirmi a sazietà di uno di loro, e le loro vite sarebbero travolte dalla tragedia, proprio come lo è stata la mia
quando Katherine si è presentata alla nostra porta.
La famiglia è sempre stata la cosa più importante per me, e mentirei se non ammettessi che mi fa sentire davvero bene
stare fra persone che si amano fra loro, anche se è solo per una breve notte…
Per la prima volta da quando avevo lasciato New Orleans, mi svegliai col sole, deciso a uscire
di nascosto dalla villa e scomparire nella nebbia mattutina prima che qualcuno venisse a svegliarmi.
Ma era difficile resistere alla tentazione delle fresche lenzuola di lino, del materasso soffice, degli
scaffali pieni di libri e del soffitto affrescato della mia stanza.
Dopo aver ammirato l’immagine dei cherubini alati sopra di me, spinsi via le morbide coperte e
mi costrinsi ad alzarmi dal letto. Ogni muscolo del mio corpo si tendeva sotto la pelle pallida, pieno
di energia e Potere, ma le costole mi sporgevano dal torace. I Sutherland avevano preso i miei
vestiti per farli lavare, ma non mi avevano dato una vestaglia da notte. Assaporai la sensazione del
sole mattutino sulla pelle, dell’avvolgente tepore che lottava con l’aria fredda della stanza. Anche se
non avrei mai perdonato Katherine per avermi trasformato in un mostro, le ero grato almeno per
avermi dato l’anello di lapislazzuli che mi proteggeva dai raggi solari che, altrimenti, mi sarebbero
stati fatali.
Dalla finestra appena socchiusa entrava nella stanza una fresca brezza che faceva svolazzare le
tende diafane. Anche se non sentivo più né il caldo né il freddo, chiusi la finestra e tirai il
chiavistello. Ero un po’ perplesso. Avrei potuto giurare che, la sera prima, tutte le finestre fossero
state chiuse per bene. Prima che avessi il tempo di approfondire la questione, nelle vicinanze
risuonò l’eloquente battito di un cuore e, dopo un bussare leggero, la porta si aprì di uno spiraglio.
Lydia fece capolino, poi arrossì di colpo e distolse lo sguardo dal mio corpo seminudo.
«Mio padre temeva che provassi ad andar via senza salutare. Mi ha mandato per assicurarmi
che non seducessi una cameriera per convincerla ad aiutarti».
«Non posso certo sgattaiolare via in queste condizioni», dissi, coprendomi il petto con le
braccia. «Mi servirebbero almeno i miei pantaloni».
«Henry te li porterà a momenti, appena stirati», disse, tenendo gli occhi fissi a terra. «Nel
frattempo, c’è una stanza da bagno giù all’ingresso, sulla destra. Puoi rinfrescarti, se vuoi, e poi
venir giù a far colazione».
Annuii, sentendo di non avere altra scelta.
«Ah, Stefan». Lydia alzò brevemente lo sguardo e incrociò i miei occhi. «Spero che tu riesca a
trovare anche una camicia». Poi sorrise e si dileguò.
Quando finalmente scesi al pian terreno per la colazione, trovai ad aspettarmi l’intero clan dei
Sutherland, persino Bridget, che era viva e vegeta e si rimpinzava di pane tostato come se non
mangiasse da due settimane. Non fosse stato per il suo colorito leggermente pallido, sarebbe stato
impossibile capire che la notte prima aveva sfiorato la morte.
Quando mi avvicinai, tutti si girarono e restarono a bocca aperta. A quanto pareva, facevo una
figura ben diversa da quella dell’eroe in maniche di camicia della notte precedente. Con le eleganti
scarpe italiane appena lucidate, i pantaloni lavati e stirati, una camicia nuova pulita e una giacca
prestatami da Winfield, ero in tutto e per tutto un gentiluomo. Mi ero anche lavato la faccia e
pettinato i capelli all’indietro.
«Il cuoco ti ha preparato dei fiocchi d’avena, se ne hai voglia», disse la signora Sutherland,
indicando una ciotola ricolma di una brodaglia bianca. «Noi di solito non ci viziamo così, ma
pensavamo che avrebbero fatto piacere al nostro ospite del Sud».
«Grazie, signora», dissi, occupando la sedia libera accanto a Bridget e mirando il bendidio
sulla grande tavola di legno. Dopo la morte di mia madre, Damon, mio padre e io avevamo preso
l’abitudine di pranzare in modo informale con gli uomini che lavoravano per noi nelle piantagioni. A
colazione mangiavamo cose semplici: zuppa di mais e biscotti, pane e sciroppo, fette di pancetta.
Le pietanze disposte sulla tavola del soggiorno di Winfield facevano sfigurare il ristorante più
raffinato della Virginia. Pane tostato alla maniera inglese in eleganti cestini di fil di ferro, cinque tipi
diversi di prosciutto, due qualità di pancetta, frittelle di granturco, sciroppo e per finire succo di
arance appena spremute. I raffinati piatti di ceramica erano decorati con motivi olandesi di colore
blu, e c’era più argenteria di quanta mi fosse mai capitato di vederne a una cena elegante.
Desiderando di avere ancora un appetito da umano – e ignorando il fuoco nelle vene che
bramava il sangue – finsi di mangiare con gusto.
«Molto obbligato», dissi.
«Così è lui il ragazzo che ha salvato mia sorella», disse l’unica donna della stanza che ancora
non conoscevo.
«Permettimi di presentarti la mia figlia maggiore», disse Winfield. «Lei è Margaret. La prima a
essersi sposata. E la prima a darci dei nipotini, speriamo».
«Papà», disse Margaret in tono di rimprovero, prima di riportare l’attenzione su di me. «Piacere
di conoscerla». Se Bridget era piena di vita e aveva il vigore della giovinezza e Lydia era quella
elegante e colta, Margaret aveva un certo buon senso, pratico e indagatore, un materialismo che
trapelava dagli inquisitori occhi blu. I suoi capelli erano neri e pettinati lisci.
«Stavamo appunto discutendo su cosa abbia provocato le sconsiderate azioni della mia
bambina», disse Winfield, riportando la conversazione agli eventi della notte precedente.
«Non so perché sono scappata via», disse Bridget imbronciata, poi tirò una lunga sorsata di
succo d’arancia. Le sorelle maggiori si lanciarono occhiate eloquenti; invece il padre si chinò verso
di lei, con la fronte segnata da rughe di preoccupazione. «Ho solo sentito che dovevo andarmene
assolutamente. E così ho fatto».
«È stato stupido e pericoloso», la rimproverò sua madre, agitando il suo tovagliolo. «Avresti
potuto morire!».
«Sono felice che vi siate ripresa così bene stamattina», dissi educatamente. Bridget fece un
largo sorriso, mettendo in mostra i denti macchiati di succo d’arancia.
«Sì. A proposito», intervenne Margaret, facendo tintinnare il suo cucchiaino da uovo sul bordo
del piatto. «Ha detto di averla trovata nel parco, ricoperta di sangue?»
«Sì, signora», risposi, sulle spine, tagliando un pezzettino di pancetta. Sembrava più astuta
delle sue sorelle e non aveva paura di fare domande imbarazzanti.
«C’era tantissimo sangue e il vestito di Bridget era strappato», insisté Margaret. «Non le
sembra strano che non ci fosse nessuna vera ferita?»
«Uh», farfugliai. La mia mente correva. Cosa potevo dire? Che il sangue era di qualcun altro?
«Ieri sera pensavo che ci fosse una ferita da taglio», disse la signora Sutherland, arricciando le
labbra con aria meditabonda. «Ma era solo sangue raggrumato e strofinandolo è andato via del
tutto».
Margaret mi trafisse con gli occhi.
«Forse le è venuta un’emorragia al naso…?», mormorai in modo poco convincente.
«Dunque afferma di non aver visto nessun aggressore quando ha trovato mia sorella?», chiese
Margaret.
«Oh, Meggie, tu e i tuoi interrogatori», disse Winfield. «È un miracolo che Bridget stia bene.
Grazie al cielo Stefan l’ha trovata prima che fosse troppo tardi».
«Già. Come no. Grazie al cielo», disse Margaret. «E cosa ci faceva ieri notte da solo nel
parco?», continuò con calma.
«Facevo una passeggiata», dissi, dandole la stessa risposta che avevo dato a suo padre la
notte prima.
Alla luce chiara del mattino, mi parve strano che Winfield non mi avesse chiesto nient’altro che il
mio nome e il motivo per cui mi trovassi nel parco. In tempi come quelli, e dopo che sua figlia aveva
subìto una violenta aggressione, non era affatto normale accogliere uno straniero in casa propria.
D’altro canto, mio padre aveva offerto asilo a Katherine quando era arrivata a Mystic Falls,
recitando la parte dell’orfana.
Una parte di me – una parte che non smetteva mai d’assillarmi – si chiese se la nostra storia
avrebbe potuto finire diversamente, se l’intera famiglia Salvatore sarebbe stata ancora in vita, se
solo avessimo insistito perché Katherine ci desse risposte sul suo passato, anziché aggirare con
tanta discrezione e delicatezza la tragedia che lei affermava avesse preso le vite dei suoi genitori.
A ogni modo, Katherine aveva assoggettato me e Damon così profondamente, che forse non
avrebbe fatto alcuna differenza.
Margaret si chinò in avanti: non sembrava disposta ad arrendersi come suo padre la notte
prima. «Non è di queste parti, o sbaglio?»
«Sono della Virginia», risposi, mentre lei apriva la bocca per farmi la seconda, ovvia domanda.
Era strano, ma mi faceva sentire meglio offrire qualcosa di reale a quella famiglia. Inoltre, ben
presto sarei uscito da quella casa, dalle loro vite, e non avrebbero avuto molta importanza le
informazioni avute su di me.
«Di dove esattamente?», incalzò.
«Mystic Falls».
«Non ne ho mai sentito parlare»
«È piuttosto piccola. Solo una strada principale e alcune piantagioni».
Sentii un piccolo tramestio sotto il tavolo e intuii che sia Bridget che Lydia stavano cercando di
dare un bel calcio alla sorella. Se l’attacco era andato a buon fine, Margaret non lo diede a vedere.
«Ha ricevuto un’istruzione?», continuò.
«No, signora. Avevo intenzione di studiare all’Università della Virginia. La guerra ha posto fine al
mio progetto».
«La guerra non è un bene per nessuno», disse Winfield, infilzando un pezzo di bacon con la
forchetta.
«La guerra ha posto fine a gran parte dei viaggi di piacere su e giù fra gli Stati», aggiunse
Margaret.
«E questo che c’entra?», chiese Bridget.
«Vostra sorella vuol suggerire che ho scelto un momento strano per venire a nord», spiegai.
«Ma mio padre è morto di recente…».
«A causa della guerra?», chiese Bridget tutto d’un fiato. Lydia e la signora Sutherland le
rivolsero un’occhiata di rimprovero.
«Indirettamente», risposi. Una guerra aveva davvero reclamato la vita di mio padre, una guerra
contro i vampiri… contro di me. «Il mio paese… è stato raso al suolo, lì non mi è rimasto più
niente».
«Così sei venuto al nord», disse Lydia.
«Per provare a metterti in affari, forse?», suggerì speranzoso Winfield.
Era un uomo con tre figlie, tutte meravigliose, ma nessun figlio maschio. Nessuno con cui
fumarsi un sigaro o bersi un bicchiere di brandy, nessuno da spronare, incoraggiare o sfidare nel
mondo degli affari. Trovai preoccupante e buffo al tempo stesso il lampo che scorsi nei suoi occhi
quando mi guardò. Di sicuro a Manhattan c’erano famiglie con figli maschi che avrebbero portato
ad alleanze matrimoniali ben più favorevoli.
«Comunque vada, intendo farmi strada nel mondo da solo», risposi, prendendo un sorso di
caffè. Non avevo altra scelta, senza Lexi o Katherine a guidarmi. E semmai avessi incontrato di
nuovo Damon, l’unico traguardo verso il quale avrebbe cercato di condurmi sarebbe stato un altro
paletto appuntito.
«Dove abita?», continuò Margaret. «Ha dei parenti qui?».
Mi schiarii la gola, ma prima che potessi dire la mia prima vera bugia, Bridget si lamentò.
«Meggie, sono stufa di questo interrogatorio!».
Sulle labbra di Lydia spuntò l’accenno di un sorriso, e lei si affrettò a nasconderlo dietro il suo
tovagliolo. «Di cosa preferiresti parlare?»
«Di te?», chiese Margaret inarcando un sopracciglio.
«Sì, proprio così!», disse Bridget e si guardò intorno. I suoi occhi verdi risplendevano come
quelli di Callie, ma ora che il suo carattere irascibile era venuto alla luce, non mi ricordava più il mio
amore perduto. «Io ancora non ho capito perché sono corsa via dalla festa».
Margaret alzò gli occhi al cielo. Lydia scosse la testa.
«Voglio dire, avreste dovuto vedere tutti gli sguardi che avevo addosso!», cominciò, agitando il
coltello in aria per dare risalto alle proprie parole. «Il vestito di Flora era il peggiore, soprattutto se si
tiene conto che è una donna appena sposata. E la mia fusciacca nuova… Oh no, si è rovinata la
notte scorsa? Non sopporterei di averla rovinata! Mamma! Ce l’avevo indosso quando Stefan mi ha
portata a casa? Dobbiamo tornare al parco a cercarla!».
«Che ne dici se torniamo al parco e cerchiamo la persona che ha tentato di ucciderti?», suggerì
Margaret.
«Ne abbiamo già discusso con l’ispettore Warren. Ci ha promesso un’indagine accurata»,
disse la signora Sutherland. «Ma, Bridget, devi promettere di non scappare dal ballo dei Chester
stasera o sarò costretta a rimanere in camera tua a sorvegliarti».
Bridget incrociò le braccia al petto e sbuffò.
«E nemmeno tu dovresti scappare», disse la signora Sutherland a Lydia, in tono più allusivo. La
ragazza arrossì.
«Lydia si è innamorata di un conte italiano», confidò Bridget, col broncio che svaniva mentre si
abbandonava al pettegolezzo. «Speriamo tutti che lui chieda la sua mano. Non sarebbe splendido?
Diventeremmo una specie di famiglia reale, e non saremmo più solo ricchi mercanti. Ve
l’immaginate? Lydia contessa!».
Winfield rise nervosamente. «Bridget…».
Bridget sbatté le folte ciglia. «È davvero meraviglioso che Lydia abbia un pretendente,
addirittura un conte. Dopo il matrimonio di Meggie, temevo che mamma e papà diventassero
tradizionalisti e non mi lasciassero sposare se non dopo le nozze di Lydia, e chissà quanto tempo
ci sarebbe voluto».
«Lydia è… particolare», disse la signora Sutherland.
«Oh, ma dài, mamma». Bridget alzò gli occhi al cielo. «Come se fino a ora si fosse fatto avanti
qualcuno. E adesso ha un conte. È proprio… Non è proprio giusto, sapete, se ci pensate… Se io
avessi fatto un vero debutto in società…».
Mi mossi a disagio sulla sedia, sentendomi d’un tratto in imbarazzo per loro e, allo stesso
tempo, felice di essere coinvolto in una cosa così ordinaria come un bisticcio fra sorelle. Era la
prima volta che mi trovavo in compagnia da quando avevo lasciato Lexi a New Orleans.
«Così tanti affascinanti stranieri nelle nostre vite in questi giorni», disse Margaret, in un tono fra il
civettuolo e il diffidente. «Che strana coincidenza, signor Salvatore. Forse non ho bisogno di fare il
grand tour, dopotutto».
«Taci, adesso, Margaret», disse Winfield.
«E a pensarci bene, comunque, non ho nessuno con cui andare al ballo dei Chester, mamma»,
riprese Bridget, facendosi piuttosto rossa in viso, come se si stesse sforzando di scoppiare a
piangere. E, nel frattempo, mi lanciava occhiate furtive. «Sono sicura che Milash non vorrà
accompagnarmi dopo ciò che è successo ieri sera… Ho urgente bisogno di soccorso…».
Bridget sgranò i grandi occhi verdi e li rivolse verso il padre. Winfield aggrottò la fronte e si
lisciò le basette con aria meditabonda. In quel momento, Bridget sembrava potente quanto un
vampiro, capace di soggiogare il padre a ogni suo desiderio. Margaret si posò una mano sulla
fronte come se avesse mal di testa.
«Ti porterà al ballo il signor Salvatore», disse Winfield, indicandomi con la forchetta piena di
focaccine. «Ti ha già salvata; sono sicuro che è un gentiluomo e che non ti lascerà in difficoltà
neppure stavolta».
Avevo tutti gli occhi addosso. Bridget si rianimò, sorridendomi come una gattina alla quale sia
stata appena offerta una ciotola di panna.
Tentai di tirarmi indietro.
«Temo di non avere l’abito adatto…», esordii.
«Oh, è un problema abbastanza facile da risolvere», disse la signora Sutherland con un sorriso
smaliziato.
«Eccoci di nuovo», mormorò Lydia con voce troppo bassa perché qualcun altro potesse
sentirla, «stiamo tenendo il povero signor Salvatore alla nostra mercé. Ancora una volta, con la
scusa dei pantaloni».
5
Alla fine della colazione, le cameriere sparecchiarono in fretta le ceramiche olandesi e gli
affettati e Winfield si ritirò nel suo studio, lasciandomi con le donne della famiglia nel salotto
soleggiato. Bridget, Lydia e la signora Sutherland si erano sistemate su una poltrona di broccato,
mentre io mi ero seduto sul bordo di una poltroncina di velluto verde e fingevo di osservare con
attenzione un ritratto a olio della famiglia quando, in realtà, stavo valutando il modo migliore per
mettere in atto la mia fuga. Il mio ultimo, misero pasto sembrava un ricordo lontano, e stava
diventando difficile resistere alla dolce sinfonia dei cuori che pulsavano in quel sontuoso palazzo.
Durante il pasto, avevo cercato più volte di liberarmi dalla presenza dei Sutherland, con l’intento
di sgattaiolare fuori da una finestra o di fuggire attraverso gli alloggi della servitù. Ma come se tali
intenzioni fossero scritte a chiare lettere sulla mia fronte, non ero riuscito a liberarmi dei miei ospiti
nemmeno per due minuti. Quando avevo chiesto il permesso di andare in bagno, il maggiordomo
aveva insistito per accompagnarmi. Quando avevo accennato al desiderio di ritirarmi nella mia
stanza per stendermi un po’, la signora Sutherland aveva fatto presente che il divano in salotto era
perfetto per riposare. Sapevo che mi erano grati per aver riportato loro Bridget, ma non riuscivo a
spiegarmi quella calorosa accoglienza nella loro casa. Soprattutto se si considerava lo stato in cui
ero quando ero arrivato: sporco, trasandato, con i vestiti stracciati e ricoperti di sangue.
«Signor Stefan», disse Margaret, appoggiandosi alla colonna che separava il salotto dall’atrio.
«È sicuro di stare bene?»
«Sì, certo», risposi. «Perché me lo chiedete?»
«Le tremano le gambe così forte che sta facendo sbattere la sedia».
Premetti le mani sulle ginocchia per fermare il tremito. «Di solito inizio la giornata con una
passeggiata», mentii, scattando in piedi. «Infatti, se volete scusarmi, penso che andrò a fare un giro
al parco».
Margaret alzò un sopracciglio perfettamente disegnato. «Lo immaginavo: pare che lei passi
moltissimo tempo al parco».
«La considero la mia seconda casa», dissi con un sorriso beffardo, pensando alla mia grotta
con la sua schiera di statue. «Ho sempre trovato la natura consolante».
«Che bella idea!», disse la signora Sutherland, giungendo le mani. «Non vi dispiace se vi
facciamo compagnia? È una splendida giornata e ci farà bene un po’ di aria fresca».
«Mamma, penso sia meglio che io rimanga qui a riposare, invece», disse Bridget, posandosi la
mano sul viso dall’aspetto piuttosto florido.
«Forse intendi dire che vuoi rimanere a ricevere visite tutto il giorno, così puoi raccontare le tue
avventure», disse Margaret, scuotendo la testa. «Temo che dovrò disdire anch’io, madre. Ho delle
faccende di cui occuparmi a casa, ora che pare mia sorella stia bene… E sento la mancanza di
mio marito».
«Non riesco a immaginarne il motivo», borbottò Bridget con crudeltà.
Lydia lanciò un’occhiataccia alla sorellina e le diede un colpetto sul braccio. La signora
Sutherland ignorò la schermaglia fra le figlie, prese una mantella leggera, scuotendola dalla polvere,
e se la sistemò sulle spalle. «Venite con noi, signor Salvatore. Faremo una bella festicciola a tre».
Resistendo all’impulso di urlare per la frustrazione – che cosa dovevo fare per sfuggire alle
grinfie di quella famiglia? – mi sforzai di sorridere e porsi il braccio alla signora Sutherland.
Nell’istante in cui mettemmo piede fuori dalla massiccia porta d’ingresso, il sole mi assalì gli
occhi. Era brillante e giallo come un limone e il cielo era di un azzurro purissimo. Era una giornata
eccezionalmente mite, considerando che eravamo a nord e ai primi di novembre. Non fosse stato
per la bassa inclinazione del sole rispetto alla terra, sarebbe stato facile confonderla per una
frizzante mattinata primaverile.
Ci dirigemmo a sud, poi attraversammo la Sessantaseiesima e oltrepassammo i cancelli di
ferro battuto del parco. Nonostante gli eventi della notte prima, né Lydia né la signora Sutherland
mostrarono la minima esitazione o paura. Supposi che si sentissero abbastanza al sicuro in mia
compagnia. Inspirai a lungo l’aria mattutina: sembrava così limpida e pura dopo gli eventi della
notte precedente. Era come se, col sorgere del sole, tutto il mondo fosse stato purificato. I soffioni
ondeggiavano sui lunghi steli e i fiori si aprivano al cielo, assorbendo l’ultimo sole intenso dell’anno.
Le gocce di rugiada notturna erano già svanite.
Non eravamo gli unici a essere usciti per godersi la giornata. Il parco era gremito di famiglie e
coppiette a passeggio. Ancora una volta fui colpito dalle differenze che notavo lì al Nord. Le yankee
si vestivano con colori accesi, di quelli che al Sud non vedevamo da anni: capi di seta e velluto
scarlatto, giallo brillante o dalle sfrontate tonalità azzurro cielo, e accessori costosi come merletti
europei, calze raffinate, stivaletti di pelle.
Anche la natura era diversa. Gli alberi del Nord erano aceri dalle bizzarre chiome ovoidali e
rigonfie, invece le nostre querce si espandevano rigogliose, assorbendo il sole con le punte
estreme dei rami. I pini erano aguzzi e bluastri, ben diversi da quelli alti, morbidi e maestosi che
stormivano alla lieve brezza del Sud.
La signora Sutherland e Lydia chiacchieravano del più e del meno, ma non le seguivo più,
perché mi era appena passato davanti uno scoiattolo. Mi sovrastò un’oscurità improvvisa, come se
una delle nuvolette sparse nel cielo avesse coperto il sole per un istante. I miei istinti di predatore si
svegliarono. Non c’era niente di allettante in quegli occhietti lucidi e nella folta coda, ma per un
attimo sentii il sapore del sangue… Lo stesso della preda del giorno prima. Mi invase le narici e mi
solleticò la gola.
«Vi prego di scusarmi… Io… credo di aver visto qualcuno che conosco». Balbettai la mia scusa
banale mentre stavo già correndo via, e promisi che sarei tornato in un batter d’occhio, anche se
non ne avevo nessuna intenzione. Mi dileguai dietro una radura alberata, seguito dagli sguardi
incuriositi di Lydia e della signora Sutherland. Eccola lì acquattata, la mia preda, innocente come
doveva essere parsa Bridget al suo aggressore la notte precedente. Quando mi avvicinai, mi
guardò fisso, ma non si mosse. Le fui addosso in un lampo e, in un tempo ancor più breve, fu tutto
finito. Mentre sentivo il sangue diffondersi dentro di me – un pasto misero, ma meglio di niente – mi
appoggiai al tronco di un albero, ebbro di uno spossato sollievo. Non mi ero reso conto, fino a quel
momento, di quanto fossi teso, per il continuo timore della mia fame. Per la paura delle mie
emozioni, dei miei impulsi, del fatto che avrebbero potuto prendere il controllo su di me da un
momento all’altro.
Ero talmente preso da quel senso di sollievo che non sentii Lydia che si avvicinava, mandando
in fumo ogni possibilità di fuga.
«Stefan?», disse, guardandosi attorno, senza dubbio curiosa di incontrare la persona che ero
stato così ansioso di salutare.
«Alla fine mi sono accorto di essermi sbagliato», borbottai, tornando riluttante sul sentiero con
Lydia e sua madre. Ripresero subito a intrecciare conversazioni di rito, mentre io mi trascinavo
imbronciato accanto a loro, rimproverandomi per la mia lentezza di riflessi. Cosa c’era che non
andava in me? Ero un vampiro. Allontanarmi dai Sutherland non doveva essere un’impresa così
difficile, persino nel mio stato di debolezza. Ero turbato da un pensiero sgradevole, che non riuscivo
a mettere bene a fuoco, una spiegazione alternativa: rimanevo con quella famiglia perché lo volevo.
«Signor Salvatore, siete terribilmente silenzioso», osservò la signora Sutherland. Guardai di
sottecchi Lydia, che mi rispose con un sorriso, mostrandosi ben consapevole della mancanza di
tatto di sua madre.
«Perdonatemi. È passato molto tempo dall’ultima volta che mi sono trovato in compagnia di
altre persone», ammisi, mentre imboccavamo un sentiero.
La signora Sutherland mi strinse forte la mano. Se notò il gelido pallore, dovette pensare che
avessi solo preso freddo. «Da quando avete perso vostro padre?», chiese con gentilezza.
Annuii. Quella spiegazione era più semplice della verità.
«Ho perso un fratello nella guerra con il Messico», mi confidò la signora Sutherland, mentre
passavamo accanto a una ragazzina che, insieme al padre, portava a passeggio un bassotto a
pelo lungo. «Eravamo i più intimi di nove fratelli e sorelle. Siamo tanti è vero, ma nessuno di loro
potrà mai rimpiazzarlo nel mio cuore».
«Lo zio Isaiah», mormorò Lydia. «Me lo ricordo appena. Ma era sempre gentile».
«Mi dispiace. Non volevo trasformare questa passeggiata in un evento triste», mi scusai.
«Ricordare i propri cari scomparsi non è sempre una cosa triste», puntualizzò la signora
Sutherland. «È solo… quel che è. Permette loro di continuare a vivere nel presente, attraverso le
nostre vite».
Le sue parole gettarono una luce di verità su tutti i pensieri confusi che mi avevano annebbiato
la mente negli ultimi tempi: ecco come restare in contatto con la mia parte umana pur accettando la
mia nuova natura di vampiro, come salvare la mia anima. Mantenere vivo il passato nel presente
era della massima importanza. Così come il ricordo di Callie mi aveva fatto desistere dall’aggredire
Bridget, il legame con la mia famiglia e con la mia vita di un tempo mi avrebbe aiutato a conservare
la mia umanità.
Anche se quella donna non somigliava per niente a mia madre, per un istante, osservando il
sole che filtrava tra i ricami della sua cuffietta e le illuminava i capelli grigi, e i suoi intelligenti occhi
azzurri che si addolcivano per la commozione, sentii che sarebbe potuta essere mia madre. E che,
in altre circostanze, avrei trovato la felicità nella sua casa.
Oh, quanto mi mancava mia madre. Anche se il profondo cordoglio per la sua morte si era
mitigato con il passare degli anni, c’era un dolore sordo che non abbandonava mai il mio cuore.
Quante delle tragedie che avevano sommerso le nostre vite si sarebbero potute evitare se lei fosse
rimasta in vita?
Mi mancava anche mio padre. L’avevo sempre amato e rispettato, fino al giorno in cui l’avevo
ucciso. Volevo seguire i suoi passi, assumere la gestione della tenuta, volevo renderlo il più
possibile felice e fiero di me. Il mio più grande desiderio era che lui ricambiasse il mio amore e il
mio rispetto.
Mi mancava anche mio fratello, o meglio la persona che era stata un tempo. Anche se aveva
giurato di vendicarsi perché lo avevo trasformato in vampiro, quando eravamo vivi era il migliore
amico che avessi al mondo: fra noi c’era una competizione scherzosa ed era il mio più stretto
confidente. Mi chiesi dove fosse Damon in quel momento, e quali danni stesse combinando. Non
potevo giudicare i suoi crimini, perché avevo avuto la mia parte di sete di sangue dopo la
trasformazione. Speravo solo che riacquistasse la sua umanità, come avevo fatto io.
«Siete una donna saggia, signora Sutherland», dissi, ricambiando la sua stretta di mano. Lei mi
sorrise.
«E voi siete un ragazzo eccezionale», osservò lei. «Se fossi vostra madre, sarei molto fiera di
voi. Certo, io non ho figli maschi, ho soltanto un genero…». Tirò su col naso.
«Ma, madre, Margaret e io siamo donne realizzate, a modo nostro», disse Lydia, ignorando il
caustico commento sui generi. «Lei si occupa dei libri per suo marito, Wally. E io sto contribuendo
a creare un istituto di carità per le madri che non hanno un reddito fisso».
La signora Sutherland mi rivolse un sorriso complice, e in quel momento mi concessi di sperare.
Forse era possibile restare con loro, diventare parte di quella famiglia. Sarebbe stato un gioco
pericoloso, ma forse sarei riuscito a gestirlo. Avrei potuto tenere la mia fame sotto controllo e fare
passeggiate mattutine con Lydia e sua madre, accompagnarle a casa per una tazza di tè o per un
vivace dibattito con Winfield sulla guerra.
Lydia continuò a addurre argomenti a favore della propria indipendenza, mentre sua madre
sospirava, nonostante fosse palesemente orgogliosa della figlia. Il sole diventava sempre più caldo
mentre ci dirigevamo a ovest, prendendo sentieri a caso finché non ci imbattemmo nel familiare
viale pedonale al centro del parco che conduceva dritto al villaggio dei Seneca. La mia casa.
Fu forse perché mi vide di colpo distratto che la signora Sutherland si soffermò a guardarmi con
tanta attenzione. «Signor Salvatore», disse con un tono a metà fra lo spaventato e il premuroso.
«Avete una… macchia… sul colletto».
Trascurando le regole del decoro, Lydia si chinò per pulirla, sfiorandomi dolcemente il collo con
un dito. Mi colse un brivido di eccitazione e paura per la sua vicinanza. Quando ritrasse l’indice,
notai che era macchiato da un piccolo grumo di sangue.
Divenni livido. Quella era la mia vita autentica. Malgrado tutte le sofferenze che sopportavo per
controllare i miei impulsi e gli sforzi spossanti per mantenere la segretezza, era sufficiente un grumo
di sangue a far inclinare la bilancia. Mi avrebbero visto per quel che ero: un bugiardo, un assassino,
un mostro.
Il suono argentino della risata di Lydia ruppe il silenzio. «È solo un pezzettino di prosciutto»,
disse con dolcezza, pulendosi il dito sul ramo basso di uno degli alberi sul sentiero. «Signor
Salvatore», scherzò, «so che vi abbiamo concesso di sentirvi come se foste a casa vostra, ma nei
prossimi giorni, come nostro ospite, forse dovreste curare un po’ di più le vostre maniere a tavola».
La signora Sutherland fece per sgridare sua figlia, ma notando la serena espressione di sollievo
sul mio volto, si rilassò e sorrise anche lei. Ben presto stavamo tutti ridendo allegramente di Stefan
Salvatore, l’eroe notturno che si era dimostrato un ospite negligente, mentre tornavamo a casa per
le strade assolate.
6
Di ritorno dalla passeggiata, mi ritrovai fasciato da un abito nuovo di zecca, mentre la signora
Sutherland istruiva il sarto su dove puntare gli spilli ed effettuare le cuciture. Sapevo di dovermene
andare, ma non avevo ancora trovato il momento giusto per strapparmi dall’abbraccio della signora
Sutherland. Passammo tutto il pomeriggio a chiacchierare di mia madre e dei suoi parenti francesi,
oltre che del mio desiderio di visitare l’Italia, un giorno o l’altro, e di vedere la Cappella Sistina.
Prima che me ne rendessi conto, il sarto aveva sistemato le ultime cuciture, e si era fatta notte.
Fui costretto ad ammettere che quell’abito era fantastico. Con la camicia bianca pieghettata sul
davanti, il cappello a cilindro di seta e la cravatta, sembravo un raffinato capitano d’industria.
Winfield mi prestò uno dei suoi orologi da tasca con una catenella ornata di gemme e raffinati
ciondoli d’oro, abbinata ai bottoni dorati. Sembravo un vero essere umano e mi vergognavo del
piacere immenso che provavo a impersonare quella parte.
Bridget mi sorrise in modo affettato, quando le offrii la mano per salire sulla carrozza. La sua
gonna era gonfia e ingombrante, una versione color albicocca del vestito che aveva indossato la
notte prima. Veli di tulle color crema svolazzavano dappertutto, dandole un aspetto a metà strada
tra una ballerina di un dipinto europeo e un enorme bignè. Ridacchiando, incespicò e finse di
cadere, gettandomi un braccio al collo.
«Salvatemi ancora, gentile signore», rise, e io rammentai a me stesso che mi toccava
intrattenerla solo per un altro paio d’ore. Giurai che in seguito, nonostante l’affetto che provavo per
la signora Sutherland, avrei mantenuto la promessa di lasciare i membri di quella famiglia alle loro
vite, scomparendo tra la folla del ballo e tornando alla mia casa nel parco.
Dopo un breve tragitto, ci avvicinammo a un altro palazzo di notevole mole. Era di pietra
massiccia, come un castello, ma pieno di finestre. Aiutai Bridget a scendere dalla carrozza e ci
mettemmo in fila per il saluto formale ai padroni di casa.
Avevo partecipato a molte feste da ballo durante la mia vita umana, eppure non ero affatto
pronto per un ricevimento a New York City.
Qualcuno mi prese cappello e cappotto e, giacché non ero a Mystic Falls, dove i membri
dell’alta società si conoscevano tutti, mi diedero un biglietto con il numero per recuperare le mie
cose a fine serata. Ci avvicinammo alla sala da ballo, attraverso un corridoio che sembrava
prolungarsi all’infinito, fra specchi d’argento illuminati da candele e candelabri, in un tripudio di luce
che somigliava a come mi ero sempre immaginato Versailles. Mille riflessi argentati di me e
Bridget riempivano lo spazio al di là del vetro.
In un angolo suonava un’orchestra di violini, violoncelli, corni e flauti, e i musicisti indossavano
eleganti abiti neri. La sala era piena zeppa di ballerini che sfoggiavano la più straordinaria gamma
di vestiti che avessi mai visto. Le ragazze sollevavano delicate mani guantate, con luccicanti
bracciali di diamanti ai polsi, poi volteggiavano nei loro splendidi abiti, che andavano dal rosso
sangue all’oro antico. Gonne impalpabili frusciavano al ritmo della frenetica mazurka eseguita
dall’orchestra; sottovesti di velo, tulle, pizzo e della seta più fine, fluttuavano come petali sparsi su un
lago.
Se i miei occhi erano abbagliati dalla vista dei ballerini, gli odori della stanza quasi
sopraffacevano il resto dei miei sensi: profumi costosi, enormi vasi di fiori esotici, dolciumi, punch
e, nei paraggi, qualcuno che sanguinava a causa di uno spillo dimenticato nel vestito da una
cameriera sbadata.
«Dovreste portare alla vostra dama un carnet di ballo», mi sussurrò nell’orecchio Lydia mentre
stavo lì fermo, frastornato dal travolgente e opulento spettacolo che avevo davanti agli occhi.
«Quella è… quella è Adelina Patti?», balbettai, indicando una donna che se ne stava con aria
schiva in un angolo, circondata dagli ammiratori. «La cantante d’opera?».
Avevo visto delle fotografie di lei. Mio padre aveva voluto che i suoi figli avessero un’infarinatura
della loro eredità culturale italiana.
«Sì», disse Bridget, alzando gli occhi al cielo e pestando per terra il grazioso piedino coperto di
satin. «E laggiù c’è il sindaco Gunther, di là c’è John D. Rockefeller, e… potresti accompagnarmi al
mio posto adesso? Voglio vedere chi m’invita a ballare».
Lydia emise un colpo di tosse che sembrava un modo garbato per nascondere una risata.
«Al Sud», sussurrai, sollevando solo un angolo della bocca, «è considerato maleducato fare
troppi balli con la propria dama».
Lydia si portò la mano guantata alla bocca per coprire un sorriso. «Ho sentito dire che al Sud si
balla ancora la quadriglia e che ai ricevimenti non si fanno giochi di società. Buona fortuna, signor
Salvatore».
E scivolò via tra la folla. Margaret mi rivolse un sorrisetto compiaciuto. Era al braccio del marito,
Wally, un ometto con il pince-nez e un atteggiamento compassato. Ma quando lei gli sussurrò
qualcosa, il suo volto si aprì in un sorriso e si fece raggiante. Sentii una strana fitta di invidia. Non
avrei mai saputo come ci si sentiva né avrei mai conosciuto i semplici rituali di una coppia affiatata.
L’orchestra attaccò un valzer.
Bridget sporse il labbro inferiore. «E io non ho ancora un carnet di ballo».
«Mia signora», dissi, sospirando dentro di me. Le feci un piccolo inchino e le offrii la mano.
Bridget era una brava ballerina ed era quasi un piacere farla volteggiare per la sala. Durante i
pochi minuti del valzer, riuscii quasi a dimenticare dove e chi fossi: ero solo un uomo in frac, dai
piedi agili, in una stanza piena di belle persone. Lei volse su di me i suoi occhi verde foglia e per un
bellissimo momento riuscii a fingere che fosse Callie, viva, felice e immersa nel lieto fine che
avrebbe meritato.
L’illusione svanì quando si fermò la musica.
«Portami al centro della sala», implorò Bridget. «Voglio che ci vedano tutti!».
Mi trascinò attraverso le ultime file di ballerini, passando dalla saletta del rinfresco, dove era
disposta ogni sorta di pietanza esotica. Deliziosi gelati a base di frutta d’importazione, vero caffè
viennese, coppette di biancomangiare, tortini al cioccolato e piramidi di calici di cristallo colmi di
champagne per mandare giù il tutto. Per i più affamati sembrava esserci ogni varietà di carne, dalla
quaglia all’oca, tagliata con cura in piccoli pezzi di modo che gli invitati potessero mangiare
velocemente e tornare in sala a ballare.
Ancora una volta desiderai avere appetito per il normale cibo umano. Tuttavia mi concessi un
bicchiere di champagne.
«Hilda, Hilda», chiamò Bridget con una voce che si fece sentire piuttosto bene, considerato
quanto fosse affollata la sala. Un’avvenente ragazza con un vestito rosa, intenta a conversare con un
suo amico, si girò e s’illuminò in viso quando vide Bridget. I suoi occhi mi percorsero da capo a
piedi con rapidi battiti di ciglia.
«Lui è Stefan Salvatore», disse Bridget. «È il ragazzo che mi ha salvata!».
«Signorina», dissi con un piccolo inchino, prendendole la mano e portandola alle labbra. Bridget
mi rivolse uno sguardo a metà fra la gelosia e il compiacimento per la mia buona educazione.
«Bridge di Brooklyn! Chi è il tuo amico?». Un uomo elegante si avvicinò a noi di sorpresa, con
un guizzo negli occhi e un sorriso esagerato. Aveva il naso pronunciato e i capelli ricci e neri; le
guance erano punteggiate da macchie rosate che lo facevano sembrare un po’ tisico.
«È Stefan Salvatore», gli rispose Bridget, con lo stesso tono orgoglioso e sollecito avuto con
Hilda. «Mi ha salvata quando sono stata aggredita nel parco!».
«Piacere! Abraham Smith. Puoi chiamarmi Bram». Mi afferrò la mano e la scosse con vigore.
«Sei stata tremendamente insolente ad andartene dalla festa in quel modo, e senza farti
accompagnare, Bridge». Bram le agitò l’indice sotto il naso e lei mise il broncio.
«State parlando del Brooklyn Bridge? Il Ponte di Brooklyn?», chiesi. Mi girava un po’ la testa.
«Oh be’, quello di Brooklyn di sicuro diventerà il ponte sospeso più grande e spettacolare mai
costruito!», spiegò Bram con gli occhi scintillanti. «Niente più traghetti, nossignore. Guideremo
avanti e indietro lungo il vastissimo East River!».
«Oh, guardate!», strillò Bridget, puntando il dito in modo poco decoroso per una signora. «Quelli
sono Lydia e il suo spasimante! Andiamo da loro!».
Rivolsi a Hilda e Bram un rassegnato saluto di addio, mentre Bridget mi trascinava con una
stretta d’acciaio verso sua sorella.
Il conte italiano era circondato da uno stuolo di ammiratori, fra i quali c’era anche Lydia. Mentre
ci avvicinavamo, riuscii a intravederlo di sfuggita. Aveva lucidi capelli corvini e un abito di squisita
fattura che gli calzava alla perfezione. Si muoveva con grazia noncurante, gesticolando mentre
raccontava la sua storia. Sulla sua mano notai lo scintillio di un anello.
La verità mi colpì appena un istante prima che lui si voltasse, come se mi stesse aspettando.
Feci del mio meglio per nascondere lo smarrimento quando incontrai i gelidi occhi azzurri di mio
fratello.
7
Ogni muscolo del mio corpo si tese. Il tempo sembrò fermarsi mentre ci guardavamo negli
occhi, lanciandoci una sfida silenziosa perché l’altro si tradisse. Sentii una stretta al petto mentre la
rabbia mi montava dentro.
L’ultima volta che l’avevo visto, Damon mi sovrastava con un paletto in pugno e aveva appena
ucciso Callie. Allora le sue guance erano scavate, il corpo macilento per la lunga prigionia. Ora,
invece, aveva l’aspetto di quando era umano: era di nuovo il giovanotto che incantava tutte, dalle
cameriere alle nonne. Ben rasato, vestito con eleganza e perfettamente calato nella parte di un
conte italiano. Si fingeva umano. E aveva imbrogliato tutti in quella stanza.
Damon mi fissò, alzando un sopracciglio, e l’angolo della sua bocca si sollevò in un sorriso. Agli
altri presenti, doveva sembrare solo che lui fosse contento di fare una nuova conoscenza.
Io ne sapevo di più. Si stava godendo la sua farsa e aspettava di vedere come avrei reagito.
«Stefan Salvatore, vorrei presentarle il conte Damon DeSangue», disse Lydia.
Damon fece un inchino perfetto, piegando appena il busto.
«DeSangue…», ripetei.
«Conte DeSangue», mi corresse Damon in tono gioviale, fingendo un accento italiano. Sorrise,
scoprendo una fila uniforme di denti bianchi e smaglianti.
No, non qui, pensai infuriato. Non qui a New York, non con i Sutherland, che sono così
innocenti e benevoli. Damon mi aveva seguito fin lì, oppure era giunto per primo? Non doveva
essere appena arrivato, se aveva già conquistato l’affetto della povera Lydia. E imbrogliato tutta
l’alta società newyorkese. Era possibile che a entrambi fosse capitato di entrare nelle grazie della
famiglia Sutherland, in quella brulicante metropoli, per pura coincidenza?
Damon mi guardava come se avesse indovinato i miei pensieri, anche se nei suoi occhi
guizzava sempre la sua solita espressione sardonica.
«Stefan, Damon, sono proprio sicura che voi due diventerete come fratelli», esclamò Bridget
entusiasta.
«Bene, dunque», disse Damon, abbozzando un sorriso compiaciuto. «Salve, fratello! Lei di
dov’è, Stefan?»
«Della Virginia», risposi secco.
«Ma davvero? Perché di recente sono stato a New Orleans e potrei giurare di aver conosciuto
un gentiluomo che le somigliava come una goccia d’acqua. È stato da quelle parti?».
Lydia si avvicinò, con uno sguardo colmo di orgoglio. Bridget annuiva con zelo a ogni parola di
Damon. Persino Bram e Hilda sembravano ipnotizzati da lui. Strinsi così forte il bicchiere che mi
meravigliai che non si rompesse. «No. Non posso dire di esserci mai stato».
All’improvviso si levò l’allegro tintinnio dell’argenteria dal tavolo del rinfresco. Avevo davanti
centinaia di persone, centinaia di coltelli e un solo fratello, piuttosto iracondo e imprevedibile.
«Interessante», disse. «Be’, forse dovremmo tornarci insieme, un giorno o l’altro. So che lì
hanno dei circhi magnifici».
L’orchestra ricominciò a suonare, attaccando un altro ballo frenetico. Ma era solo un brusio di
sottofondo. La festa e gli altri ospiti apparivano sbiaditi, come ombre sullo sfondo. Rimanemmo
così, solo io e Damon, a guardarci negli occhi.
«Se solo ti azzardi a fare qualcosa», dissi così piano che solo lui poteva udirmi, raddrizzando le
spalle e tendendo istintivamente i muscoli per prepararmi a lottare.
«Non credere di potermi battere», rispose Damon, spostando il peso in avanti, con fare
aggressivo.
Il gruppo di gente intorno a noi ci guardava incuriosito, consapevole che stava succedendo
qualcosa, ma ignaro di cosa fosse esattamente.
«Ho un po’ di sete», dissi infine ad alta voce, senza distogliere lo sguardo da lui, cercando di
pensare a come far allontanare Damon dai miei nuovi amici. «Volete venire con me a prendere
qualcosa da bere?»
«Fantastico, gradirei davvero un drink», disse Bram con entusiasmo, tentando di allentare la
tensione.
«Lo gradirei anch’io», disse Damon, facendo il verso a Bram. «Ma il dovere – e la mazurka –
chiamano». Si girò verso Hilda e si inchinò. «Permette?»
«Oh, mi piacerebbe davvero, ma Bram…». Cominciò a esaminare il carnet di ballo che le
pendeva dal polso, legato con un nastro rosa. Poi sgranò gli occhi, le sue pupille si dilatarono, e
rimase con lo sguardo fisso… non più sul carnet. Guardava Damon. Anche lui la fissava: la stava
soggiogando. Si esibiva, davanti a tutti – davanti a me – per mostrare quanto fosse potente.
Voleva mandarmi un messaggio.
«Oh, non se la prenderà», decise Hilda e prese il braccio di Damon. Lui mi sorrise e la portò
via. Gli brillarono le punte dei canini.
«Vorrei avere il suo fascino», disse Bram con una punta di rammarico. «Vi tiene tutte al
guinzaglio, mie care signore».
Lydia arrossì, diventando ancora più graziosa. Non guardava Hilda con aria preoccupata. Aveva
la serenità di chi confida nella correttezza del suo amante e nella solidità della propria relazione. Di
certo era stato Damon a costringerla a comportarsi in quel modo. Aveva accumulato una notevole
quantità di Potere, e molto in fretta.
«Dove vi siete incontrati esattamente?», chiesi, cercando di assumere un tono disinvolto.
«Oh, è stato un incontro così romantico», rispose subito Bridget. «Quasi come quando tu mi hai
trovata, indifesa, nel parco…».
«Lascia parlare tua sorella, Bridge», la interruppe Bram.
Lydia sorrise: tutta la sua studiata cortesia e le sue maniere ricercate si dissolsero. «Davvero è
stato un po’ come in una fiaba. Pioveva, un acquazzone improvviso. Ricordo molto bene che fino a
un momento prima c’era stato un sole splendido. Prese alla sprovvista, io e mia madre ci stavamo
inzuppando. Il mio cappello nuovo si era rovinato e tutti i pacchetti dei miei acquisti erano fradici
d’acqua. Giuro: ci erano passate davanti almeno dodici carrozze e nessuna si era fermata. E poi…
se ne fermò una. La porta si aprì e lui era lì, che mi tendeva la mano».
Il suo sguardo si addolcì. «Si offrì di cederci il posto, ma noi siamo salite con lui…».
Bram fece un verso di disapprovazione; Lydia sorrise, scrollando le spalle con grazia.
«Lo so, lo so… “mai accettare un passaggio da uno sconosciuto”. Molto stupido da parte
nostra. Ma lui era così educato e affascinante… Ed è stata una passeggiata così piacevole… E poi
è uscito il sole e noi non ce ne siamo nemmeno accorte…».
La mia mente correva, i pensieri si accavallavano. Damon aveva costretto tutti i cocchieri di
Manhattan a evitare Lydia e sua madre? Era possibile soggiogare tutte quelle persone in una
volta? E la pioggia? Si era trattato di un colpo di fortuna… o di qualcos’altro? Damon non era in
grado di controllare le manifestazioni atmosferiche. Se quello fosse stato un potere alla portata dei
vampiri, ne avrei sentito parlare da Lexi oppure da Katherine. No?
Scrutai Lydia con attenzione. Intorno al collo portava un semplice nastro rosa, stretto, ornato da
un pendente di perla sul davanti. La pelle era liscia, pura e priva di segni di morsi. Se Damon non si
stava nutrendo di Lydia, che cosa voleva da lei?
«Qualcuno aveva parlato di sete…?», disse speranzoso Bram, fregandosi le mani. «Ho una
voglia tremenda di bere altro champagne».
«Sì, la sete è una cosa tremenda», dissi, «ma vi prego di scusarmi». Mi girai e mi feci largo tra
la folla di festosi ballerini, deciso a scovare mio fratello prima che avesse l’opportunità di
squarciare la gola a qualcuno.
8
Trovai Damon che ballava con Hilda, guidandola per la sala con mano leggerissima. Lei
obbediva al minimo tocco delle sue dita, premendosi contro il suo corpo un po’ più di quanto fosse
decoroso e abbandonandosi nelle sue braccia più del necessario. Le altre ragazze li guardavano
con invidia, senza dubbio sperando che lui le scegliesse per il ballo successivo. Damon fingeva di
dedicare tutta la sua attenzione alla povera ragazza, ma, d’un tratto, alzò lo sguardo quanto bastava
per scoccarmi un sorriso smagliante.
Aspettai con ansia che il ballo finisse, anche se avrei preferito poter soggiogare i musicisti
perché smettessero di suonare. Ma se i poteri di coercizione di Damon erano arrivati chissà dove, i
miei si erano gravemente indeboliti a causa della mia magra dieta.
Non appena l’orchestra suonò l’ultima nota, mi avvicinai risoluto a mio fratello.
«Oh, sono desolato, voleva forse…?», chiese con aria innocente, indicando Hilda. «Perché
sono sicuro che la signorina accetterà. Se lei vuole».
Hilda esaminò il suo carnet di ballo: era il ritratto della confusione.
«Andiamo a prendere qualcosa da bere», dissi, prendendolo per il gomito.
«È proprio quello che stavo pensando anch’io», convenne, con un tono a metà fra il serio e il
faceto. Schioccò le dita, come per richiamare un cane. «Hilda…?».
«Lasciala stare», ordinai.
Damon alzò gli occhi al cielo. «E va bene. Un cameriere andrà bene lo stesso». Comunque, mi
concesse di afferrargli il braccio con forza e di guidarlo tra la folla, oltre la saletta del rinfresco,
attraverso una biblioteca, fino a uno studio debolmente illuminato.
«Cosa diavolo ci fai qui?», gli domandai appena fummo soli.
«Cerco di divertirmi», disse Damon, alzando le mani di scatto e fingendosi esasperato. Perse
subito il suo nuovo accento. «Hai visto che banchetto? Salmone scozzese. E c’è anche Adelina
Patti. Papà ci sarebbe rimasto secco. Oh, aspetta». Schioccò le dita. «È già morto. L’hai
assassinato tu, in effetti».
«Soltanto dopo che ha cercato di ucciderci», puntualizzai, stringendo i pugni.
«Ti correggo: dopo che è riuscito a spararci. Siamo morti, fratello». Damon mi rivolse un largo
sorriso.
Mi girava attorno. Con disinvoltura, come se non nascondesse alcun secondo fine, come se
stesse camminando oziosamente per la stanza e scambiando due chiacchiere mentre contemplava
l’arredamento. Mi ricordava il modo in cui si aggirava sull’arena del circo a New Orleans, quando
Gallagher l’aveva costretto a combattere contro il puma. Damon prese una statuetta e se la rigirò
fra le mani, senza distogliere gli occhi da me. Drizzai le spalle, sentendomi come un predatore che
reagiva alla sua minaccia d’invasione del mio spazio vitale.
«Te lo chiedo di nuovo, Damon: cosa ci fai qui?»
«Quello che fai tu, fratello. Comincio una nuova vita, lontano da casa, dalla guerra, dalle tragedie
e da tutte quelle cose da cui gli immigrati come noi stanno scappando. A New York c’è vita, c’è
movimento. Ho pensato che se mio fratello ci si trovava bene, mi sarei trovato bene anch’io».
«Quindi mi hai seguito», dissi. «Come hai fatto?»
«Tu puzzi», disse Damon. «Non fingerti sorpreso! Non sei solo tu. Tutti puzzano. Siamo
cacciatori, Stefan. Circa a metà strada lungo la costa, non è stato difficile capire dove avessi
deciso di andare dopo New Orleans. Mi sono solo assicurato di arrivare per primo. Non esiste
ancora il treno che può battere me a cavallo. Be’, i cavalli erano più di uno. Un paio sono morti per
lo sfinimento. Come la tua povera, cara Mezzanotte».
«Perché, Damon?», chiesi, ignorando la sua crudeltà gratuita. «Perché mi hai seguito fin qui?».
I suoi occhi si strinsero e mandarono un lampo di rabbia, scaturito dal profondo dell’anima.
«Ti ho detto che ti avrei tormentato per l’eternità che mi hai donato, Stefan. Credevi che avrei
infranto così presto la mia promessa?».
Ero abituato agli scatti di rabbia di Damon. Le sue sfuriate erano sempre state simili a un
temporale estivo, improvvise e violente: danneggiavano chiunque e qualsiasi cosa fosse nei
paraggi, e poi finivano e lui se ne andava a fare un giro alla taverna.
Ma quella collera era diversa, e solo io ne ero responsabile.
Distolsi gli occhi, così che lui non potesse vedere l’afflizione e il senso di colpa che vi erano
impressi. «Che cosa vuoi da Lydia? Cosa c’entra lei con tutto ciò?»
«Ah, Lydia», sospirò Damon, simulando un ardente desiderio. «È affascinante, vero? Di sicuro
il partito migliore delle tre sorelle. Non che Margaret non abbia un suo fascino, naturalmente, ma è
un po’ troppo sarcastica per i miei gusti e, be’, è sposata». Scosse la testa. «E poi c’è Bridget.
Una ragazza così vivace! E che verve!».
« … Qualcuno ha visto Stefan?». Come a un segnale convenuto, entrambi udimmo il suo
soprano lamentoso e infantile da ben quattro stanze di distanza.
«… E ha una vocetta così irritante», concluse Damon, rabbrividendo. «La prima cosa che vorrei
fare, fratello, è costringerla al silenzio. Faremmo un favore al mondo».
Serrai le mascelle. «Mi pare ovvio che frequenti i Sutherland da molto prima che le nostre strade
si incrociassero qui».
«Oh, davvero?», chiese Damon. Posò la statuetta che aveva in mano, spostandola da una parte
all’altra della scrivania come per vedere dove stesse meglio. «Povera ragazza, si stava
inzuppando… Ti ha raccontato la storia? La adora. Per quanto si finga una dura, è una sognatrice
insicura come tutte le altre. Un temporale improvviso e imprevisto, una carrozza coperta per
Lydia… la ricca, ricchissima Lydia… cresciuta sotto una campana di vetro, con una famiglia aperta
e accogliente».
«Oh, sei un maestro di astuzia. Ora controlli pure il destino degli uomini», dissi, alzando gli occhi
al cielo per le vanterie di Damon.
«Io sono un maestro. Chi pensi che abbia lasciato lì Bridget perché tu la trovassi?», mi chiese.
Si avvicinò talmente che i nostri nasi quasi si toccarono. «Chi pensi che l’abbia ferita quanto
bastava perché il povero, vecchio, prevedibile Stefan la trovasse? Stefan, che ha giurato di
smettere di bere dagli umani, e che, ne ero certo, avrebbe salvato la damigella in pericolo piuttosto
che darle il colpo di grazia».
Un brivido freddo mi corse per la schiena.
«E poi, ovviamente, ho soggiogato tutta la famiglia perché ti accogliesse e ti ospitasse»,
concluse, facendo un cenno di noncuranza con la mano, come se si trattasse di un nonnulla.
M’invase un senso di rassegnazione e improvvisa lucidità. Certo che aveva soggiogato quella
famiglia. Avevo sentito puzza di bruciato per la facilità con cui i Sutherland mi avevano accolto in
casa loro, e avrei dovuto capire prima che c’era qualcosa di profondamente sbagliato. Come era
possibile che un uomo importante come Winfield lasciasse entrare a casa sua uno straniero, un
vagabondo, senza chiedergli nulla sulla sua famiglia o sui suoi conoscenti? Un uomo così ricco
doveva fare attenzione alle persone cui permetteva di avvicinarsi. E la signora Sutherland… era una
madre così prudente, eppure mi aveva concesso di accompagnare lei e sua figlia in una
passeggiata al parco. Anche se quello non era certo il momento, non potei fare a meno di
chiedermi se l’affetto che mi aveva mostrato fosse sincero oppure se fosse solo dovuto al Potere di
mio fratello.
«Cosa vuoi, Damon?», chiesi di nuovo. Eccoci di nuovo al dunque, ma stavolta ero consapevole
di quanto fosse pericoloso mio fratello e quanto lontano fosse disposto a spingersi pur di vendicarsi
di me.
«Niente di terribile, Stefan!», disse. Fece un passo indietro e mi rivolse un largo sorriso,
alzando le mani. «Ma pensaci! Io con Lydia che pende dalle mie labbra. Tu con Bridget, che ti
adora… Sposeremo le sorelle e, proprio come hai sempre voluto, saremo di nuovo fratelli per
l’eternità… o perlomeno finché sono in vita le nostre mogli».
«Non sposerò Bridget», dissi d’impulso.
«Invece sì», fece Damon.
«No, affatto», ripetei. «Lascio New York. Stanotte».
«Resterai qui e sposerai Bridget», disse Damon a un centimetro dalla mia faccia, «oppure
comincerò a uccidere tutte le persone in questo posto, una a una».
Era terribilmente serio, e ogni traccia del suo atteggiamento disinvolto, scherzoso e strafottente
era sparita. La rabbia divorante era tornata.
«Non puoi fare una cosa del genere», ringhiai. «Nemmeno se fossi abbastanza forte da
prevalere su un’intera sala da ballo».
«Ma davvero?». Alzò un braccio e schioccò le dita. Dalla stanza accanto arrivò una cameriera,
come se avesse aspettato il suo segnale. Un fazzoletto annodato intorno al collo indicava che si era
già nutrito di lei. Damon indicò la finestra con un cenno del mento e lei prontamente si avvicinò e
cominciò ad aprirla.
«Posso costringere Bridget e tutta la sua stupida cerchia di amici a buttarsi dal balcone»,
ringhiò Damon.
«Non ti credo», dissi, più calmo che potevo. Solo Lexi sembrava in grado di controllare più di
una persona alla volta. E Damon non era certo vecchio come lei.
«Oppure posso seguirli uno a uno e squarciare loro la gola», propose in alternativa. «Non fa
nessuna differenza per me».
La cameriera salì sul davanzale e cominciò ad arrampicarsi sulla ringhiera.
«Bastardo», mormorai, precipitandomi a mettere in salvo la povera ragazza prima che si
uccidesse. «Vieni via da lì», ringhiai, incerto se la stessi soggiogando o no. D’un tratto apparve
confusa e spaventata: l’incantesimo si era spezzato. Scappò dalla stanza, singhiozzando.
«Perché?», chiesi quando se ne fu andata. «Perché vuoi sposare Lydia? Perché è così
importante che io sposi sua sorella?»
«Se devo vivere per sempre, vorrei farlo con stile», rispose Damon con una scrollata di spalle.
«Sono stufo di nutrirmi passando da una persona all’altra, di dovermi ogni volta procurare di che
vivere, di non avere un posto che possa chiamare casa. Quando sposerò Lydia, sarò ricco. Avrò
una casa piena di servitori pronti a provvedere a ogni mio capriccio… a soddisfare tutti i miei
bisogni», disse con uno sguardo malizioso. Non ero sicuro che stesse parlando solo di sangue.
«Oppure, potrei limitarmi a prendere i soldi e scappare. In ogni caso, starò molto meglio di adesso.
Winfield nuota nell’oro».
«Perché coinvolgere me?», chiesi, con un senso di stanchezza. «Perché non ti limiti ad
andartene e a fare quel che ti pare, invece di rovinare la vita delle persone?»
«Ti basti sapere che ho le mie ragioni». Damon mi lanciò un ghigno da arlecchino.
Scossi la testa, esasperato. Appena oltre la porta dello studio, c’era una coppia che
passeggiava a braccetto per la biblioteca, in cerca di un posto tranquillo per parlare. Ancora più in
là, si udivano i lieti rumori della folla danzante, il brusio di allegre conversazioni e il battere rapido
dei tacchi sul pavimento. Restai in ascolto, turbato, riconoscendo la voce profonda di Winfield che
discuteva con qualcuno sui princìpi di base del capitalismo.
«Che cosa hai intenzione di fare con loro?», chiesi. Con Damon come genero, l’aspettativa di
vita di Winfield Sutherland si era drasticamente ridotta… e anche quella di Lydia.
«Appena avuti i soldi? Pfiu. Non lo so», disse Damon, alzando le mani. «Ho sentito dire che
San Francisco è piuttosto eccitante. Oppure, forse, andrò a fare quel grand tour dell’Europa che tu
hai sempre sognato».
«Damon…», cominciai.
«Oppure potrei semplicemente vivere qui, come il re che vorrei tanto essere», continuò,
interrompendomi. «Divertirmi…».
Ebbi un’orribile visione di Damon che soddisfaceva ogni suo desiderio carnale a casa
Sutherland.
«Non te lo permetterò», dissi con foga.
«Ma che t’importa?», chiese Damon. «Insomma, non sono stato io a uccidere a destra e a
manca a New Orleans… A quanto ammontava il numero di cadaveri alla fine, fratello?»
«Sono cambiato», rimarcai, guardandolo negli occhi.
«Sì, certo», disse. «Proprio così. Qualunque cosa possa… oh!». Ghignò. «Si tratta di Lydia, non
è vero? Ancora una volta segui i miei passi, fratello. Vuoi sempre tutto quel che ho io. Come è
successo per Katherine».
«Io non ho mai amato Katherine. Non come te».
Ero attratto da lei, certo. Chi non lo sarebbe stato? Era bellissima, affascinante ed era una
terribile civetta. Damon non si era preoccupato del suo lato oscuro, anzi, sembrava apprezzarlo.
Mentre io, quando ero con lei, sotto la sua inebriante malia, avevo sempre voluto ignorare la sua
natura di vampiro. E quando la verbena mi aveva schiarito i pensieri, avevo provato solo disgusto
per quel che era. Tutti i sentimenti, i profondi sentimenti, che provavo per lei, erano stati solo il frutto
di un incantesimo. Per Damon, invece, era stato tutto reale.
«E io non amo Lydia», dissi. «Ma questo non significa che io voglia che lei – o chiunque altro –
si faccia male».
«Allora fa’ esattamente quel che ti dico, fratello, e nessuno si farà male. Ma se agisci di testa
tua, anche una volta sola…». Damon si passò un dito sulla gola. «Avrai il loro sangue sulle mani».
Per un lungo momento, io e Damon ci guardammo negli occhi in un silenzio di tomba. Avevo
giurato che non avrei più fatto del male a un essere umano, né avrei permesso che soffrisse a
causa mia. Ero chiuso in una trappola micidiale, senza vie di fuga, come quando ero un’attrazione
in un circo, legato con corde intrise di verbena. E Damon lo sapeva.
Emisi un sospiro. «Cosa vuoi che faccia?».
9
Quindici minuti dopo ero accanto a mio fratello ai margini della sala da ballo, in attesa che
finisse la musica. Tutti danzavano, piroettando per la sala, le gonne che frusciavano in perfetta
sincronia con la musica, tutti ignari del fatto che fra loro si trovavano due pericolosi assassini.
«Reggimi il gioco», disse Damon muovendo solo un angolo della bocca.
«Va’ all’inferno», bisbigliai in risposta, sorridendo a Margaret mentre passava.
«Ci sono già stato. Non è di mio gradimento», rispose, prendendo due bicchieri di champagne
da un vassoio e porgendomene uno.
«Eccovi qui», strillò Bridget, correndomi incontro.
Saltellava su e giù tutta eccitata, facendo sollevare e ricadere le balze del vestito come una
gigantesca medusa. Mi afferrò un braccio. «Di cosa avete parlato tutto questo tempo? Di me?».
Mi girai a guardarla. Era bellissima ma aveva un carattere davvero sgradevole: egocentrica,
immatura, sempre alla ricerca di attenzioni.
Comunque, Bridget Sutherland non meritava di morire. Avevo provocato fin troppe morti durante
la mia breve vita da vampiro. Non avrei mai potuto rimediare agli errori commessi in quei primi
giorni, ma salvare quella famiglia dalla vendetta di Damon era una mia responsabilità. Non avrei
avuto il loro sangue sulla coscienza.
«Sì. Parlavo proprio di te», risposi. Poi vuotai il bicchiere e feci cenno al cameriere di
portarmene un altro.
«Attenzione prego», vociò Damon, battendo un cucchiaino d’argento sul bicchiere. Il patrono del
ballo, Reginald Chester, guardò Damon perplesso, strizzando gli occhi. I membri dell’orchestra,
lanciandosi occhiate confuse, posarono gli strumenti. La signora Chester in un primo momento
sembrò seccata che qualcun altro volesse dirigere il ballo, ma quando vide chi era, fece un sorriso
raggiante, come se Damon fosse suo figlio.
Tutti, mormorando, si girarono a guardarci: giovani e vecchi, adorni di piume e gioielli, con ampi
scialli di pizzo e voluminose vesti di seta, simili a uno stormo di uccelli tropicali allo zoo che aspetta
che il custode gli lanci qualche chicco di grano.
Sussurravano fra loro e annuivano, vantandosi di conoscerlo.
«Ho cenato con lui la settimana scorsa».
«Stava prendendo un drink dai Knoxes: è lì che l’ho conosciuto».
«Gli ho raccomandato il mio sarto migliore».
Era difficile capire se la folla fosse affascinata dal carisma naturale di Damon, o se ci fosse
all’opera un potente incantesimo di coercizione. Ancora una volta mi chiesi come fosse possibile
che un giovane vampiro come Damon dominasse tutto quel Potere.
«Io e il mio nuovo amico abbiamo un annuncio da fare», vociò Damon, riprendendo il suo finto
accento italiano. Lydia si portò davanti alla folla, col suo passo silenzioso e leggero, e si avvicinò a
Damon.
«Molti di voi sanno già della notte in cui io e la signorina Sutherland ci siamo incontrati per la
prima volta… Io, uno straniero approdato alla vostra costa, e lei, una bellissima damigella in
difficoltà…».
La folla sorrise adorante. Hilda e una delle sue amiche si scambiarono uno sguardo d’invidia.
«E per una sconvolgente coincidenza, il mio amico qui, Stefan Salvatore, proprio l’altra notte, ha
salvato la sorella, l’altrettanto bella e affascinante Bridget Sutherland. Non posso parlare per lui»,
disse, avvicinandosi a Lydia, con il bicchiere ancora levato e gli occhi puntati sulla folla, «ma per
me è stato amore a prima vista. Ho già parlato con suo padre, e così, prima che qualcun altro
possa portarmela via, io, conte Damon DeSangue, imploro Lydia di concedermi l’onore di
sposarla, anche se non ho altro da offrirle, se non il mio buon nome e la mia eterna devozione».
Si mise in ginocchio e sussurrò, «Lydia?».
Lydia arrossì un poco. Era stata presa alla sprovvista. Anche se non era il tipo di ragazza che
aspira a essere chiesta in sposa davanti a una gran folla, rispose con un sorriso raggiante.
«Sì, Damon, con tutto il cuore!», esclamò, gettandogli le braccia al collo.
La famiglia Sutherland si era radunata davanti alla folla. Il volto di Margaret esprimeva, più che
semplice disappunto, una violenta emozione di disgusto e pura confusione. Sapevo come si
sentiva, ma non avevo idea di come avrebbe reagito. Perché non subiva la costrizione di Damon e
ci accettava senza riserve?
La reazione di Bridget fu altrettanto umana e ben più terribile. I suoi occhi bruciavano di pura,
ardente gelosia. Forse provava un briciolo di sollievo che sua sorella maggiore si sposasse,
perché significava che avrebbe potuto prender marito a sua volta. Ma era evidente che la minore
delle sorelle Sutherland aveva sognato per tutta la vita come avrebbe dovuto proporsi il suo
pretendente ideale: una dichiarazione in pubblico, davanti a tutti i suoi amici e a uno stuolo di
ammiratori.
La folla applaudì estasiata e Damon mi scoccò un’occhiata significativa. Solo una. Come se
avesse il potere di soggiogarmi. E, in un certo senso, lo aveva. Sapevo fin troppo bene cosa voleva
che facessi.
Svuotai il mio secondo calice di champagne, prima di fare un passo avanti e girarmi verso
Bridget.
Ci ero cascato di nuovo. Sembrava passato soltanto un giorno da quella pigra, interminabile
estate a Mystic Falls, quando, in attesa che la guerra finisse e ansioso di andare a scuola a
Charlottesville, ero stato costretto a fare la corte a Rosalyn. Ogni volta che la invitavo, sentivo una
palla di piombo nello stomaco, e ogni visita era un esercizio di pazienza e poi un assaggio di
disperazione. Non avevo mai voluto sposarla. Erano i nostri genitori a volerlo. Mio padre esigeva
che ci sposassimo. E così mi aveva spinto a un fidanzamento che non volevo, che preannunciava
un matrimonio altrettanto indesiderato.
Ancora una volta ero costretto a sposarmi. Ma forse tutto ciò faceva parte della punizione che
meritavo. E se serviva a salvare delle vite…
«Bridget». Mi girai verso di lei, accennando un inchino e alzando il calice, come per dedicarle
un brindisi. Ero la quintessenza dell’etichetta romantica, emanavo quel fascino sudista che da
quelle parti gli yankee vedevano di rado. «Dal primo istante in cui…», ho visto il tuo corpo quasi
senza vita, coperto di sangue, a Central Park e ti ho quasi dato il colpo di grazia, «… ho avuto la
fortuna di imbattermi in voi, nel momento di assoluto bisogno, ho capito che un giorno sareste stata
mia. E grazie alla generosità dei vostri genitori, io già mi sento parte della famiglia. Bridget, volete
fare di questa notte la più felice della mia vita?».
Con un gridolino porcino Bridget mi gettò le braccia al collo… dopo aver affidato il suo bicchiere
di punch a Hilda.
«Bello spettacolo», applaudì Bram, mentre il rossore sulle sue guance diventava ancora più
intenso. «Sapevo che eri un ragazzo per bene! Lo avevo capito subito!».
La folla esplose in un coro di acclamazioni e applausi fragorosi; ai tavoli attorno ordinarono
secchielli di champagne. Winfield Sutherland sembrava talmente gonfio di orgoglio e felicità che
temevo sarebbe esploso. La sua signora aveva assunto un’aria quietamente soddisfatta ora che si
era sistemata l’ultima delle figlie. Soltanto Margaret scosse la testa con rabbia, prima di raggelare il
volto in una finta ma efficace espressione di orgoglio da sorella.
Il patrono del ballo aveva tirato fuori un nabuchodonosor di champagne, un’enorme bottiglia di
vetro che conteneva l’equivalente di venti bottiglie. Con un’elegante esibizione di sabrage, prese la
sciabola che gli porgeva il portavivande e la fece scivolare lungo la bottiglia, con un gesto teatrale,
staccando il tappo che volò via insieme a una spettacolare esplosione di spumeggiante liquido
dorato.
«Sposiamoci questo fine settimana!», gridò Damon, come trascinato dall’eccitazione generale.
«È tutta la vita che aspettiamo di trovare queste signore. Perché aspettare ancora?».
“Già, perché aspettare?”, pensai. Che il gioco di Damon abbia inizio.
10
6 novembre 1864
Damon è tornato, anche se sembra non se ne sia mai davvero andato. Mi ha spiato, adescato, controllato. È il burattinaio
e io sono la sua impotente marionetta, costretta a eseguire i suoi ordini.
Prima di rivedere Damon, non mi rendevo conto di quanto mi fossi affezionato ai Sutherland, di come mitigassero la mia
solitudine e mi infondessero la speranza che il mio destino non fosse l’esilio. Anche se sapevo di doverli lasciare, avevo
osato sperare che, dimostrando di potermi controllare davanti a loro, il mio cammino in questo mondo potesse essere, in
definitiva, meno solitario.
Ma Damon mi conosceva fin troppo bene. Poteva aver soggiogato i Sutherland perché mi accettassero, ma non aveva
costretto me a restare con loro. Stamattina sarei potuto uscire di nascosto, fuggire nel parco, e al ballo sarei potuto
scomparire fra la folla. Invece ero rimasto, perché, come Damon aveva senza dubbio previsto, volevo di nuovo far parte di una
famiglia, anche se per pochi fugaci giorni.
Il piano di Damon mi terrorizza, proprio perché non lo capisco. Perché New York? Perché i Sutherland? Perché coinvolgere
me? Se Damon è stato così bravo a orchestrare tutto, a insinuarsi con facilità nelle vite dei Sutherland e a preparare la strada
per il mio arrivo, perché mettere su un tale spettacolo? Perché preoccuparsi di un matrimonio? Perché non limitarsi a portare
Winfield in banca e costringere lui e il cassiere a svuotare il suo pingue conto? Vuole vivere come un essere umano? Ha
bisogno di sposarsi per essere legittimato dall’alta società newyorkese? Vuole solo torturarmi?
Oppure c’è qualcosa che mi sfugge? Qualche mira segreta che non potrei neppure provare a immaginare…
Ho solo domande. E temo che le risposte non arriveranno finché non verrà fuori il primo cadavere.
Più tardi, quel lunedì pomeriggio, mi trovavo sul terrazzo di una delle più spettacolari case in
stile federale mai costruite. Snelle colonne sostenevano un porticato che sormontava l’elegante
portone d’ingresso, dal quale uno splendido viale ricurvo si stendeva regale come un tappeto rosso.
Dal telaio delle finestre al cornicione, ogni dettaglio era attentamente studiato e mai eccessivo. La
sala da pranzo, spaziosa e ovale, era (per quel che ne so) identica a quella della Casa Bianca,
nella nostra nuova capitale. Ecco che tipo di posto era la villa del Comandante, e ben si confaceva
all’uomo che aveva diretto i lavori del cantiere navale di Brooklyn.
Ciò che mancava in termini di dimensioni e tocchi di modernità (evidenti nella residenza dei
Sutherland), era più che compensato da prati perfettamente tenuti, da un bel frutteto e da una vista
spettacolare su Manhattan. La villa era appollaiata quasi sulla punta di una rupe che sovrastava
l’East River e la città posta sotto la protezione della marina. Lo stesso commodoro Matthew Perry
aveva vissuto lì. Sospirai di fronte a quella magnificenza.
«No», disse Bridget. Scosse la testa con decisione e tornò al pian terreno, sollevando lo
strascico dell’abito con fare pratico e sbrigativo. «Non mi piace».
Il suo piccolo entourage la seguì, ridendo bonariamente.
«È troppo bianca», scherzò Bram.
«È troppo piccola», aggiunse Hilda.
«Ma è straordinaria! La vista! Le dimensioni…», dissi. «Cos’ha questa che non va?»
«Il posto. È a Brooklyn», rispose Bridget, degnandosi appena di considerare il suo fidanzato.
«Nessuno va a sposarsi a Brooklyn».
Winfield e sua moglie si scambiarono uno sguardo di nostalgica tenerezza, mentre di certo
rievocavano i ricordi del loro matrimonio. Doveva essere stato piuttosto modesto, perché allora non
avevano ancora fatto fortuna. Ma a nessuno dei due doveva essere importato. Eppure erano
disposti ad assecondare i più dispendiosi voli di fantasia della piccola di casa.
Lydia sorrise e mormorò qualcosa a Damon, che non stava prestando molta attenzione. Non le
interessava dove si sarebbero sposati. Anche se doveva essere un’esperienza condivisa dalle due
coppie “felici” che avrebbero scambiato gli anelli nello stesso momento, lei aveva gentilmente
concesso alla sorella di decidere tutti i dettagli.
I Sutherland appartenevano alla chiesa episcopale, almeno sulla carta, ma in pratica, la
religione mia o di Damon o l’eventualità che non fossimo credenti, non era un problema, e non era
necessaria neppure una vera e propria chiesa per la cerimonia: sarebbe stata sufficiente la
cappella di famiglia. Una cappella molto sontuosa, a dire il vero. Bridget era molto moderna in quel
senso.
«Allora perché perdiamo tempo a vedere quelle ville a Prospect Park?», bofonchiò Margaret.
«Visto che Brooklyn è esclusa, a quanto pare».
«Mi piaceva abbastanza quella con gli archi romanici», dissi, ansioso di farla finita con quella
fase del nostro matrimonio fasullo.
«Tranquillo, fratello», disse Damon, dandomi una pacca sulle spalle. «Ce ne sono ancora
quattro da vedere. Si torna a Manhattan».
Scendemmo rumorosamente la ripida scalinata di legno, piuttosto vecchio stile, che portava al
pian terreno, e ringraziammo il maggiordomo che ci aveva lasciato entrare. Poi ci incamminammo
verso il porticciolo di Fulton Ferry, dove un battello ci avrebbe condotto a una vera e propria
carovana di carrozze che facevano la spola tra l’imbarco e i quartieri alti della città.
«Questo sarebbe un posto perfetto per una gelateria», osservò Lydia, passeggiando pensosa
per la banchina.
«Vuoi un gelato?», chiese Damon, come se si rivolgesse a una bambina di quattro anni.
Se stare con Bridget era già abbastanza difficile, perché tutto quel che le usciva dalla bocca mi
faceva sprofondare dall’imbarazzo, la tensione nervosa nell’attesa che Damon dicesse o facesse
qualcosa di terribile era anche peggio. Stavo sulle spine tutto il giorno. Perché Damon, a un certo
punto, avrebbe detto qualcosa di terribile a Lydia, appena si fosse stancato di giocare al
fidanzatino premuroso. La sua capacità di concentrarsi nel gioco – salvo che non ci avesse puntato
qualcosa – era incredibilmente limitata.
«Sì», disse Lydia. «E qui non c’è una gelateria. Avrebbe dovuto esserci, invece».
«Non importa», disse Bridget, cercando di aggiungere qualcosa di utile alla conversazione.
«Presto ci sarà un ponte gigantesco e tutto questo sarà messo in ombra, e ci saranno soltanto
carrozze rumorose e puzza di cavalli».
Bram, la fonte originaria di quell’informazione, scosse la testa. «No, Bridge, la posizione è
ottima. Guarda dove il sole sta…».
Mi appoggiai alla ringhiera della banchina e osservai la nostra piccola comitiva. Le quattro
ragazze, in quel contesto, mi ricordavano la scena di un dipinto: le guance arrossate dal sole e dalla
fatica della giornata, i lunghi nastri dei cappelli di paglia che svolazzavano al vento, le vaporose
gonne da passeggio spinte tra le gambe dalla brezza marina. Erano tutte bellissime e, per un breve
istante, riuscii a dimenticare la mia situazione.
Margaret comprò un giornale da uno strillone per leggerlo alla fine della gita. Era una giornata
perfetta per un giro in barca e, stranamente, l’East River non mi dava il disgusto che provavo di
solito per l’acqua che scorre. Bridget andò a sedersi nella cabina del traghetto, perché non voleva
più prendere sole, il che era ironico e piuttosto buffo, data la mia situazione. Mi stavo rilassando per
la prima volta quel giorno, con la faccia rivolta al sole, e lasciavo che la mia pelle mediterranea
prendesse un colorito bronzeo e sano.
E poi Margaret si mise a sedere accanto a me.
«Almeno voi sembrate un po’ più ragionevole dell’altro fidanzato», disse secca. «Ditemi. Cosa
volete dalla mia famiglia. Soldi? La nostra azienda? Cosa?».
Dentro di me gemetti. «Dovete credermi», dissi, fissando le sue iridi azzurre con i miei occhi
nocciola. Senza soggiogarla, volevo che la mia voce suonasse più sincera possibile. Le presi le
braccia: era un gesto sfrontato, ma avevo bisogno che capisse. «Non miro alla dote di Bridget.
Voglio solo che la vostra famiglia sia felice e al sicuro. Lo giuro su tutto quel che volete».
«Proprio questo è il problema. Io non so quanto valga la vostra parola. Non vi conosco. Nessuno
vi conosce», disse Margaret. Sospirò e si tolse il cappello. «È solo… troppo… strano. Capisco
perché piacete a Bridget: di certo siete attraente e ben educato…».
Abbassai gli occhi, imbarazzato.
«Ma in realtà… nessun documento, nessuna storia, solo una fuga dal Sud? È di Bridget che
stiamo parlando. Voleva che papà ci portasse a fare un tour in Europa, così avrebbe potuto
conquistare il cuore di un re, di un principe o almeno di un duca. Solo un nobile era degno di lei. E,
senza offesa, voi siete quanto di più lontano dalla nobiltà ci possa essere».
«Be’, Lydia ha conquistato un conte, a quanto pare».
«Sì», disse Margaret sovrappensiero. Mi squadrò, scostando dietro un orecchio una ciocca di
capelli neri. «A proposito di Damon DeSangue…».
Feci spallucce, cercando di sembrare innocente.
«Cosa pensate di lui? Voi due siete diventati… stranamente intimi dopo la vostra doppia
dichiarazione d’amore».
Guardai lontano, verso sud, dove il possente fiume Hudson e l’East River si univano e
diventavano oceano. Mi schermai gli occhi con la mano, escludendo il profilo della città, e vidi
soltanto il sole rosato, di un biancore abbacinante sulle acque antiche ed esotiche.
Quanto potevo dirle senza metterla in pericolo? Sembrava l’unica della famiglia assennata e
con la testa sulle spalle. Ancora una volta pensai a Katherine e mi chiesi se la mia famiglia sarebbe
stata più preparata se avesse ricevuto un avvertimento.
«Non fidarti di lui», le confidai alla fine, sperando di non esporla a un rischio maggiore. «Io non
mi fido».
«Uhm». Scrutò Damon, che stava conversando animatamente con Bram e Winfield. «Nemmeno
io».
Gli altri luoghi da visitare scelti da Bridget non potevano essere più lontani da dove eravamo. La
villa dei Richard era nei pressi di Fort Tyron sulla punta settentrionale di Manhattan, mentre la
banchina di Fulton Ferry era sulla punta meridionale.
Il lento viaggio in carrozza dal centro della città, mi diede una vista quasi totale della vita
newyorkese. Mentre percorrevamo adagio la Quinta Avenue, fui colpito dalle enormi differenze di
fortuna tra le persone che si erano stabilite a New York: dagli strilloni spesso scalzi e dagli
straccivendoli alle persone come Winfield, che sedeva nella sua carrozza dorata, fumando un
sigaro.
Circa a metà strada, ci fermammo per pranzare al Mount Vernon Hotel, sulla Sessantunesima,
mentre Bridget continuava a parlare del suo abito nuziale.
«… E Darla aveva un vestito di mussola, per rispetto della guerra, ma è quasi finita, e penso
che mi serva un nuovo paio di orecchini, non credi, papà? Stefan, caro, ho visto un favoloso paio di
orecchini…».
Damon si schiarì la gola. «Bridget, dovresti assolutamente avere degli orecchini nuovi. Il tuo
vestito è uno schianto, ti mangeranno con gli occhi! Non sei d’accordo, Stefan?».
Mi alzai da tavola, poiché non riuscivo a gustare l’ottimo pranzo di pollo freddo, pane fresco,
pesce e tè che era stato allestito davanti a noi, e non potevo più ascoltare una sola parola del
chiacchiericcio insensato della mia fidanzata o le incessanti frecciatine di mio fratello.
«Devo prendere un po’ d’aria», mi scusai, e sarei inciampato sulla panchina per la mia
precipitosa uscita se non avessi avuto la grazia di un vampiro. Non avrei dovuto essere esausto;
avevo sopportato cose ben peggiori. Fare la fame nel cuore di Central Park e cacciare piccole
prede era molto più gravoso che sedere in una carrozza, vedere case e ascoltare il membro più
giovane della famiglia Sutherland che blaterava cose senza senso. Ma giacché non avevo
mangiato più niente dopo lo scoiattolo del giorno prima, ero debole e affamato, come un
sopravvissuto a una traversata atlantica.
Una veloce e silenziosa incursione nelle cucine rivelò proprio ciò che speravo: ratti,
naturalmente. Non troppi, e soprattutto nel passaggio coperto fra il magazzino frigorifero e la
dispensa. Ne afferrai uno con uno scatto fulmineo, gli spezzai il collo e succhiai lo scarso sangue
secco, tutto senza perdere il controllo. Era semplice, con un pasto così disgustoso.
Sentendo un piccolo rumore e un sospiro soffocato, mi girai con uno sguardo colpevole e il
sangue di ratto che mi colava dalla bocca.
Era Damon. Stingeva le mani intorno al collo di una cameriera e aveva i canini in fuori e pronti a
banchettare. Lei ansimava leggermente e aveva lo sguardo vacuo di chi è sotto incantesimo.
«Vedo che ci siamo allontanati entrambi per lo stesso motivo», disse Damon, compiaciuto.
Fece una smorfia di disgusto alla vista del ratto che avevo in mano. «Anche se, sul serio, potresti
fare di meglio».
Piegò la testa all’indietro, pronto a squarciarle la…
«Per favore, non…». Alzai le mani in un gesto di impotenza. «Ti prego, non ucciderla», implorai.
Damon esitò. «D’accordo», disse in tono giocoso. «Non la ucciderò. Come primo regalo di
nozze! Solo per te».
Chiusi gli occhi e vidi un futuro tremendo davanti a me. Dicendo che per farmi un regalo non
avrebbe ucciso quella ragazza, sottintendeva che, più tardi, ci sarebbero di certo stati altri omicidi.
11
Il mattino seguente, mi tirai sul mento il morbido lenzuolo di lino, come facevo quando ero
piccolo. Chiusi forte gli occhi e riuscii quasi a fingere di essere di nuovo a casa. Che io e Damon
fossimo ancora umani e avessimo avuto solo uno dei nostri soliti litigi tra fratelli. Che nostro padre
fosse da qualche parte nelle piantagioni, a lavorare. Che Katherine fosse viva.
Anzi, no. Che non avessimo mai incontrato Katherine.
Oppure… ero nel letto a casa di Lexi, pieno di dubbi sulla mia nuova vita, ma ben accetto in
quella nuova casa di vampiri.
Pian piano mi svegliai del tutto e le mie fantasie si scontrarono con la realtà. Ero nella villa dei
Sutherland, ancora prigioniero della loro generosità e delle minacce di mio fratello, uno sposo
riluttante trascinato in tutta fretta verso un matrimonio indesiderato.
I Sutherland non erano molto formali, ciò nonostante si aspettavano che tutti si presentassero a
colazione. Ci misi forse un po’ più del solito a vestirmi, sistemandomi le giarrettiere dei calzini
finché non furono perfette, aggiustandomi i polsini della camicia e passandomi più volte le mani fra i
capelli. Non mi piaceva molto guardarmi allo specchio in quei giorni. Odiavo quel che vedevo.
Quando finalmente scesi di sotto per la colazione, l’intera famiglia aveva quasi finito di
mangiare. La signora Sutherland mi accolse con un caldo sorriso materno che mi fece stringere il
cuore. Anche se io provavo un affetto genuino nei suoi confronti, lei era stata costretta ad
accettarmi.
«Buongiorno», mormorai, strisciando al mio posto. «C’è del caffè?»
«Sembri un po’ giù oggi, ragazzo mio», disse Winfield, infilandosi l’orologio nel taschino del
panciotto. «E piuttosto magro, aggiungerei. Devi assolutamente ingrassare un po’ prima del
matrimonio. Mi sa che oggi ti porto al circolo. Fanno un cosciotto di agnello e un pudding favolosi».
Lydia mi rivolse un sorriso di scusa. Mi accorsi che una graziosa sciarpa rosa le cingeva il collo,
per coprire con cura il punto tipico del morso di un vampiro. Ne fui sconvolto.
Damon si era nutrito di lei.
Distolsi lo sguardo dal caffè che mi era stato messo davanti, con lo stomaco sottosopra.
D’istinto mi toccai il collo, nel punto in cui mi mordeva sempre Katherine, ricordando quella
sensazione di piacere mista a dolore che si intensificava fino a lasciarmi debole e svuotato. Era un
messaggio per me? Per rammentarmi di quel che sarebbe successo se non avessi sposato
Bridget?
«Stefan! Non andare subito al circolo! Abbiamo un sacco di cose da fare oggi», mi avvertì
Bridget. «Dobbiamo assolutamente fare una visita alla famiglia di Bram. Adorano Damon… Sono
loro che lo hanno portato in tutti gli ultimi posti alla moda, come quel locale che serve veri boccali di
Pimm’s inglese! Devo mettere il mio vestito nuovo di mussola blu. A casa loro, non al locale,
ovviamente. Non è un posto adatto a una signora. Fanny voleva un corredo da sposa di mussola
blu, ma il suo fidanzamento non ha funzionato, poverina…».
La porta della cucina si aprì ed entrò Damon. «Buongiorno a tutti», esclamò in tono allegro, con
uno sguardo vivace. Sembrava sazio e rilassato mentre rivolgeva a Lydia un inchino galante e a me
una strizzatina d’occhio malevola.
Raddrizzai le spalle. «Cosa ci fai qui, Damon?», chiesi nel tono più innocente possibile.
«Non lo hai saputo?». Si sedette a tavola e dispiegò il suo tovagliolo con un coreografico
svolazzo. «Winfield ha insistito tanto perché mi trasferissi qui».
«Oh». Allontanai la mia sedia dal tavolo, stampandomi sulla faccia un sorriso di circostanza per
mascherare la rabbia. «Ehm, Damon, ti andrebbe di venire un attimo con me nell’atrio?».
Damon mi rivolse un largo sorriso. «Ma mi sono appena seduto e ho una gran fame».
«Ci vorrà solo un minuto», dissi a denti stretti.
Lydia mi guardò perplessa, ma dopo un po’ Damon spinse indietro la sedia facendola strisciare
sul pavimento e mi seguì nell’atrio. «Mia signora, torno subito».
Appena non fummo più a portata d’orecchio, mi girai verso mio fratello. «Sei incredibile. Ti
trasferisci qui adesso?»
«Oh, grazie», disse Damon con un inchino scherzoso. «Eh sì, vengo a vivere qui. Non ascoltavi
l’altra notte quando parlavo di tutte le straordinarie… attrattive che casa Sutherland ha da offrire?».
La stanza iniziò a girarmi attorno mentre mi assaliva la rabbia. La mia pazienza con i giochetti
di Damon era finita.
«Perché perdi tempo con tutto… questo?», chiesi. «Perché queste buffonate? Se sei così
potente, perché non ti limiti ad andare in banca e non li costringi a darti tutto l’oro che hanno in
cassaforte?»
«Suppongo che potrei farlo, ma dove sarebbe il divertimento?»
«Divertimento?», ripetei incredulo. «Lo fai per divertimento?».
Gli occhi di Damon si indurirono. «Per non lasciare tracce, fratello. Tu non sei lungimirante».
Aggrottò la fronte e rimosse qualche capello immaginario dalla mia giacca. «Sì, potrei
semplicemente rubare i soldi e lasciare la città. Ma ci tocca stare al mondo per sempre. O almeno
io ho queste intenzioni. E la coercizione non funziona con tutti. Nel caso tu non l’abbia notato,
Margaret è ancora piuttosto ostinata, e se penso a lei o a Winfield, nel caso si liberi del mio Potere,
che se ne vanno in giro a mostrare la mia foto e a darmi del ladro… be’, non mi sta bene. È molto
più facile – e più divertente – ereditare tutto».
Fissai la porta che ci separava dalla famiglia Sutherland, felicemente intenta a far colazione.
«Ereditare? Intendi alla morte di qualcuno?»
«Che dici, fratello? Cosa vuoi insinuare?», chiese, fingendosi offeso. «Tu rispetti gli accordi e io
non faccio nessuna strage. Ricordi? Ti ho dato la mia parola».
«No, Damon», dissi. «Hai detto che se non sposavo Bridget avresti ucciso tutte le persone
presenti in quella stanza. Ma, a essere precisi, non hai detto nulla su quello che sarebbe successo
dopo il matrimonio».
«Ottima osservazione», disse Damon, annuendo. «Mi piacerebbe uccidere alcune persone
della loro cerchia. A cominciare da quel ruffiano di Bram. Penso che abbia una cotta per la mia
Lydia, sai», aggiunse, fingendosi indignato.
«Damon», ringhiai.
Strinse gli occhi. «Preoccupati di tua moglie. Io mi prendo cura della mia».
Lo osservai attentamente. «Dunque hai in mente di uccidere Winfield appena ti avrà ceduto la
sua fortuna?»
«Quanto a ciò, resta nei paraggi e vedrai».
«Non ti permetterò di far loro del male», giurai, stringendo le mascelle.
«Non puoi fermarmi. Qualunque cosa io decida di fare», sibilò Damon in risposta.
Ci guardammo in cagnesco. Strinsi le mani a pugno. Lui cambiò posizione, pronto a fare a
botte.
Proprio allora la signora Sutherland fece capolino nella stanza. «Ragazzi? Va tutto bene?»
«Sì, signora», rispose con gentilezza Damon. «Stavamo solo socializzando». Indicò la porta
della cucina e fece un piccolo inchino. «Dopo di te, Stefan».
Tornai in cucina con riluttanza, con Damon alle calcagna.
«Dunque domani andiamo a scegliere gli abiti», disse Damon. Si comportava come se stesse
solo continuando una conversazione mondana iniziata nell’atrio, invece aveva appena avuto l’ultima
parola in una discussione sul destino di tutti i presenti in quella stanza. «Stefan, dovremmo metterci
qualcosa di coordinato! Bridget, non parlavi proprio ieri sera di una tua amica, non ricordo chi, che
aveva un abito coordinato a quello di sua sorella a un altro matrimonio? Cos’era, seta o qualcosa
del genere?».
Era mio fratello e sapeva perfettamente come tormentarmi. Per l’eternità.
«Sì, certo, Damon», disse Bridget con un sorriso compiaciuto, girandosi verso di me. «Stefan,
sta’ a sentire. Avevo pensato che anche io e Lydia potremmo vestirci nello stesso modo, ma non
sono sicura che l’effetto sarà così sensazionale, dato il fisico di Lydia…».
Sprofondai poco a poco sulla sedia, annegando nelle sue parole… e nella consapevolezza che
Damon aveva ragione. Non sarei mai riuscito a fermarlo, soprattutto non quando la posta in gioco
era così alta.
12
I pochi giorni prima delle nozze volarono, tra preparativi per il matrimonio e degustazioni del
menu. Di sera, la famiglia Sutherland seguiva una ferrea routine. La signora Sutherland si confinava
nella stanza da cucito e insegnava a Lydia a fare trapunte e cuffiette. Bridget si dedicava fino a
tarda notte al suo programma di bellezza che richiedeva di pettinarsi i capelli con cento colpi di
spazzola e ricoprirsi di creme profumate che potevo sentire fin dal salotto. Winfield si ritirava
sempre nel suo studio con un bicchierino di brandy, per sfogliare il giornale o aggiornare i libri
contabili.
Io camminavo avanti e indietro nel corridoio del primo piano, cercando di escogitare piani per
portare in salvo i Sutherland, ma ogni volta ero costretto a scartare gran parte delle mie idee. Avevo
anche bisogno di fare dei piani per provvedere al mio nutrimento. La dieta ferrea a base di animali
di città era dura da mantenere ora che mi trovavo sotto l’occhio vigile dei Sutherland e dei loro
domestici. Sembrava quasi che si aspettassero che provassi a defilarmi, ma era impossibile
capire se fosse per semplice premura o perché Damon li costringeva a seguirmi. Di tanto in tanto
riuscivo a svignarmela e andavo sul tetto o nel cortile sul retro per cercare di procurarmi un ratto, un
piccione o un topolino che soddisfacesse i miei bisogni. Hazel, la gatta di casa, ovviamente era
intoccabile, ma i suoi amici randagi, per fortuna, non lo erano.
Damon non aveva tali problemi nutrizionali. E neppure si preoccupava molto di agire di
nascosto. Andava e veniva quando voleva, facendo Dio sa cosa negli angoli bui della città. Spesso
vedevo una cameriera o un domestico convocati nella sua suite nelle ore più fredde della notte,
mentre strisciavo furtivo per badare alle mie necessità. Per mio fratello stare dai Sutherland era
come vivere in un albergo di lusso. Frequentava cene in suo onore ed era festeggiato in tutta la città
negli ambienti più esclusivi. Era un principe, e New York era il suo regno adorante.
Martedì, quando Damon rientrò in casa, Winfield fece capolino dal suo studio.
«Oh, bene. Sono felice che siate qui», disse, porgendoci due bicchieri di whisky. «Venite con
me, per favore».
All’angolo della bocca di Damon era rimasta per distrazione una macchia di sangue. Chiunque
altro avrebbe supposto che fosse un taglietto da rasatura. D’un tratto quello studiolo accogliente
diventò soffocante e gli angoli si rabbuiarono.
Mio fratello si pulì le labbra con disinvoltura, tenendo gli occhi su di me, poi si buttò sul divano
accanto al suo futuro suocero, somigliando meno a un conte italiano e più… be’, a Damon. «Buona
sera, signore». Il fatto che smettesse di usare il suo accento finto davanti a loro evidenziava quanto
quella famiglia fosse alla sua mercé.
«Vorrei fare una chiacchierata con voi riguardo al vostro futuro», esordì Winfield, masticando un
sigaro.
«Oh, io ho grandi progetti, perché penso a lungo termine», disse Damon. «Continuando a vivere
qui da voi, ovviamente. Amo le famiglie unite».
Mi si seccò la gola e mi passai una mano fra i capelli: cominciavo a farmi prendere dal panico
perché mi era tornato in mente che io non avevo idea di cosa Damon volesse veramente.
«Penso che mi piacerebbe mettermi in affari da solo», iniziò a dire Damon. Ma poi la porta
dello studio si aprì di scatto ed entrò Margaret con passo aggressivo.
«Papà!».
Senza degnarci di un saluto gettò fra le mani di suo padre una copia del «Post» e puntò il dito
su un articolo. «Leggi questo».
Winfield si frugò nelle tasche in cerca degli occhiali, se li infilò e fissò la pagina di giornale.
«Scandalo a casa Sutherland: due pretendenti squattrinati si portano via le ultime figlie in età
da marito. Affranti figli di banchieri, politici e alti papaveri della capitale si lamentano
amaramente per questa mossa improvvisa. Si tratta di un ricatto, si chiede qualcuno? Una fonte
anonima vicina alla famiglia sostiene che… Oh, spazzatura», disse, gettando via il giornale e
togliendosi gli occhiali. «La gente parla delle cose più stupide».
«Saremo rovinati», disse Margaret, in tono quasi supplichevole. Si comportava come se io e
Damon non fossimo presenti. «Perlomeno, riesci a vedere quanto sia dannoso per gli affari?»
«Non credi che dovresti lasciare agli uomini questo genere di discorsi?», chiese Damon in tono
indolente, tornando al suo accento italiano. Ma i suoi gelidi occhi azzurri le perforavano la testa,
come se volesse piantarci dentro un proiettile. Mi alzai, mettendomi tra lui e Margaret. Sembrava
che lei non si accorgesse del suo odio né del pericolo che correva.
«Comprendo i vostri timori», dissi in fretta. Dovevo convincerla a smetterla, per il suo bene. «Ma
credetemi, desidero soltanto il meglio per la vostra famiglia».
«E, infatti, noi uomini stavamo giusto parlando di affari», aggiunse Winfield. «Cosa stavi
dicendo, Damon?»
«Mi serve solo una piccola somma di denaro», disse mio fratello, girando la testa ed
escludendo in modo palese Margaret dalla nostra conversazione. «Mi consentirà di tornare nel mio
paese natale e selezionare i fornitori di merci da esportare…».
Margaret si lasciò sfuggire un gemito. «Non starai veramente pensando di dargli più della sua
dote?».
«Non essere avida, tesoro», disse Winfield, zittendola con un gesto di condiscendenza. «È solo
un capitale iniziale per permettergli di andare per la propria strada…».
«Sei diventato pazzo?», domandò lei. «Quest’uomo non lo conosci neppure. Fallo prima
lavorare per te. Oppure dagli in gestione una delle tue attività meno importanti».
Damon si alzò dalla sedia, con furia glaciale. Cercai di prendere il braccio di Margaret, ma lei si
scrollò la mia mano di dosso. Si erse in tutta la sua altezza, guardandolo dritto negli occhi. Anche
se non era bella come le sorelle, di certo era imponente.
«Vi comportate tutti come dei matti da quando è arrivato», disse a suo padre, senza distogliere
gli occhi da Damon. «Avete permesso a lui – e a lui» – indicò me – «di diventare membri della
famiglia, in pratica, di vivere sotto il nostro tetto, di condividere il nostro pasto, e poi avete loro
offerto del denaro, le vostre figlie e tutto il resto! Non c’è nessuno oltre a me che trovi strano tutto
questo?».
Winfield sembrava adirato, ma anche confuso.
Damon spalancò gli occhi.
«Basta», le ordinò, tentando di soggiogarla. «Accetta Stefan e me. Siamo qui per restare».
Lei lo guardò per un lungo momento. Aspettavo che il suo sguardo diventasse vacuo, che le
pupille si dilatassero, almeno un poco. Ma lei si limitò a scuotere la testa, disgustata. «La tua recita
da “conte” fasullo può funzionare con gli altri, ma non con me. Io non voglio farne parte».
La fissai sconvolto mentre usciva come una furia. Non avevo mai visto Damon fallire nel
soggiogare qualcuno, nemmeno quando era giovane e debole. Inalai a fondo, cercando tracce di
verbena o di qualunque cosa in grado di spiegare quel che era appena successo. Ma non trovai
nulla.
Potevo solo sperare che, qualunque cosa fosse, continuasse a tenere al sicuro Margaret.
13
Quella notte rimasi sdraiato nel letto a fissare il soffitto. La luce della luna filtrava attraverso le
diafane tende bianche e la casa ferveva di attività; era un continuo andirivieni di passi, pulsazioni e
di corse di topi nei muri. Sembrava che tutta la casa fosse viva, a eccezione, ovviamente, di me e
Damon. I Sutherland non lo sospettavano nemmeno, ma quando mi avevano aperto la porta,
avevano invitato in casa la Morte. Ero il cancro delle loro felici esistenze e presto le tenebre si
sarebbero diffuse, divorando il loro mondo finché non ne sarebbe rimasto nulla.
Anche se non partecipavo al contorto piano di Damon di mia volontà, non era molto diverso dal
modo in cui Katherine si era insinuata nella mia vita e aveva decimato l’intera famiglia Salvatore.
Che mi piacesse o no, il benessere di questa famiglia dipendeva solo da me. Se Damon li avesse
uccisi, avrei avuto anche il loro sangue sulle mie mani. Ma cosa potevo fare per fermarlo? Ero molto
più debole di mio fratello e non intendevo ricominciare a nutrirmi di umani, perché avevo paura di
non riuscire a fermarmi.
Mi alzai dal letto e tirai di lato la tenda con uno scatto rabbioso. Mentre guardavo la luna, quel
globo che era stato testimone di tante delle mie malefatte, ripetevo di continuo nella mia testa la
discussione avuta con Margaret. La linea ferma della sua bocca. La sicurezza dello sguardo. Il
modo in cui aveva squadrato me e Damon con i suoi luminosi occhi azzurri, come se potesse
vedere, attraverso la pelle, dritto nei nostri cuori immobili. Winfield era pronto a firmare i documenti
per cedere la sua fortuna a Damon, mentre sua figlia restava immune al Potere di mio fratello.
Ma come era possibile?
L’unica protezione contro i vampiri che conoscevo era la verbena, ma da quando ero arrivato a
New York non avevo ancora sentito il suo odore stordente. Quando mio padre aveva cercato di far
uscire allo scoperto Katherine, aveva corretto il mio whisky con della verbena e, bevendo il mio
sangue, lei aveva accusato i sintomi di un’intossicazione. Se solo mio padre ci avesse pensato
prima, saremmo stati ancora a Mystic Falls, lui a lavorare sui libri contabili e io a studiare per
assumere la gestione di villa Veritas.
Aprii la finestra e uscii sullo stretto balcone. Era una notte stranamente silenziosa. Fra gli alberi
non frusciava un alito di vento e persino i piccioni appollaiati sul tetto dei vicini erano tranquilli. Il mio
balcone si affacciava a est, verso le acque limacciose dell’East River e la stretta lingua di terra
detta isola di Blackwell, su cui era stato di recente ricostruito il manicomio. Un sorriso sarcastico mi
storse la bocca. Se solo avessi potuto rinchiuderci Damon.
Poi emisi un lamento e strinsi la ringhiera di ferro battuto. Dovevo smetterla di desiderare,
sperare e pensare ai milioni di “se solo…”. Non potevo buttare Damon nel dimenticatoio né
riscrivere il passato. Quel che era fatto era fatto. Anche al massimo del mio Potere, non avrei potuto
far girare il mondo al contrario, non avrei potuto far tornare indietro il tempo e cancellare quel che
Katherine aveva fatto a me e alla mia famiglia. Ma sul futuro non ero impotente. Avevo il libero
arbitrio, avevo l’esperienza e avevo la possibilità di combattere.
Mi issai sulla ringhiera e saltai sul tetto, atterrando sul catrame con un tonfo sordo. New York era
una grande città e qualcuno, da qualche parte, doveva pur coltivare della verbena o almeno averne
dei ramoscelli secchi. Avrei percorso le strade in lungo e in largo finché non avessi colto l’odore
rivelatore dell’erba. Non avrei potuto metterla nelle bevande di Lydia, perché Damon si nutriva di lei,
ma se ne avessi sbriciolata un po’ nel whisky di Winfield…
Attraversai il tetto, preparandomi a saltare su quello dei vicini, e poi a scendere in strada per la
scala antincendio.
«Dove vai, fratello?». Quelle parole allegre lacerarono l’aria come un colpo di pistola, e io mi
fermai raggelato sul cornicione.
Mi voltai lentamente per incontrare il sorriso sarcastico di mio fratello. Sembrava pronto per il
secondo tempo della sua passeggiata serale. Indossava un abito a tre pezzi e faceva roteare un
bastone dorato. Lo riconobbi subito: era appartenuto al padre di Callie, l’uomo che aveva
imprigionato mio fratello, torturandolo e facendogli patire la fame prima di costringerlo a battersi
contro un puma. Damon doveva averlo rubato dopo aver ucciso Callie.
Senza che l’avessi evocata, affiorò nella mia mente un’immagine di Callie. I suoi gentili occhi
verdi che mi sorridevano, le lentiggini che punteggiavano ogni centimetro del suo corpo, il coraggio
con cui si era data a me sulla riva del lago, offrendomi il suo sangue pur sapendo quel che ero e
quello che avrei potuto farle…
Il suo cadavere sfigurato che giaceva sull’erba accanto alla casa di Lexi.
«Bastardo», dissi con una voce bassa e carica di rabbia che a stento riconobbi come mia. La
furia che si era accumulata per settimane, senza possibilità di sfogo, mi lacerò le vene, ed ebbi la
sensazione che i miei muscoli stessero andando a fuoco. Mi gettai su di lui, ringhiando. «Perché
non vuoi lasciarmi in pace?».
I nostri corpi si scontrarono, come due pietre. Damon, colto alla sprovvista, cadde all’indietro,
ma mi spinse via subito e saltò in piedi. Mi strinse le braccia intorno al collo con una presa
micidiale. «Se volevi così tanto liberarti di me, non avresti dovuto costringermi a diventare un
vampiro insieme a te», sibilò. Ogni traccia di giovialità era sparita. Cercai di divincolarmi, ma lui mi
premette con forza le ginocchia sulla schiena, inchiodandomi al tetto. «Sei tu che mi hai spinto a
diventare quel che sono… A vedere quel che Katherine ci aveva dato come un dono piuttosto che
come una maledizione».
«Fidati», rantolai, cercando di liberarmi dalla sua stretta. «Tornerei indietro se potessi».
«No, no», mi rimproverò Damon. «Nostro padre non ti ha insegnato che fa parte dell’essere
uomini vivere con le conseguenze delle proprie scelte?». Mi schiacciò la guancia contro il catrame
del tetto che mi scorticò la pelle. «D’altronde, sei stato una terribile delusione per lui alla fine: non
volevi sposare Rosalyn, hai iniziato a frequentare una vampira, l’hai ucciso…».
«Tu sei stato sempre una delusione», sibilai con rabbia. «Avrei dovuto ucciderti quando ne
avevo la possibilità».
Damon sbottò in una risata sarcastica. «Be’, sarebbe stato un peccato, perché così non avrei
potuto fare questo».
La pressione sulla schiena diminuì quando Damon mi sollevò per il colletto della camicia.
«Cosa stai…», cominciai.
Prima che potessi finire la frase, Damon mi lanciò in avanti con la potenza di una cannonata. Il
mio corpo sbandò nell’aria notturna e per un breve momento mi sentii senza peso e mi chiesi se
non stessi volando. Subito dopo mi accolse il duro lastricato del vialetto fra la casa dei Sutherland e
quella dei vicini, e le mie ossa si spaccarono fragorosamente nell’impatto.
Gemetti e mi girai sulla schiena, sentendo un dolore atroce irradiarsi nelle membra, il volto
ridotto a una maschera di sangue. Giacqui così per ore, fissando le stelle in attesa che il Potere mi
guarisse, rimettendomi a posto le ossa e suturando le ferite sulle guance più in fretta di quanto
avrebbe potuto fare il medico più esperto.
Ma mentre stavo così disteso, un dolore nuovo mi esplose nel petto. Sul muro del palazzo dei
Sutherland, scritte con un inchiostro rosso che poteva solo essere sangue, c’erano sei parole
spaventose: Ai miei occhi non sfugge niente.
14
Venerdì Winfield accompagnò me e Damon a prendere le misure per l’abito nuziale. Una visita
alla sartoria Pinotto sarebbe stata divertente in un altro momento della mia vita, come lo era stata la
notte che avevo passato a far compere con Lexi a New Orleans. Pasquale Pinotto era un maestro
nel suo campo e discendeva da una lunga stirpe di sarti di re e regine d’Europa. Con gli occhiali a
pince-nez, il gesso e il metro intorno al collo, sembrava uscito da una fiaba. Fu divertente provare a
scambiare con lui le poche parole d’italiano che conoscevo; anche lui trovò piacevole la nostra
chiacchierata, anche se non perse l’occasione di correggere il mio accento. Damon, naturalmente,
fingeva di voler parlare soltanto inglese giacché si trovava in America, e fu così che riuscì ad
arginare la gioia del sarto nell’incontrare un suo connazionale.
«Guarda». Damon si accostò al viso un rotolo di seta scarlatta. «Potremmo farci foderare le
giacche con questo. Fa risaltare il colore delle mie labbra, vero? O… del collo di Lydia». Si fece
scivolare la stoffa sul collo, nel punto in cui si sarebbero trovate le ferite provocate dai suoi canini.
Winfield sembrava confuso. «Lydia ha cominciato a indossare delle sciarpe di recente. È
questo che intendi? È davvero strano: non le ha mai messe prima».
Damon gli scoccò una breve occhiata, un lampo di sorpresa e irritazione che solo io riuscii a
cogliere. Era interessante che il signor Sutherland notasse i piccoli cambiamenti che avvenivano
intorno a lui, anche se era del tutto impotente contro il potere coercitivo di Damon. Tuttavia,
quell’anziano gentiluomo avrebbe potuto salvarsi solo se fosse rimasto all’oscuro dei piani di mio
fratello.
Mi appoggiai al muro, stremato dalla tensione. Mi sentivo soffocare fra tutti quei rotoli di tessuti
costosi, stanze labirintiche piene di specchi e macchine per cucire, intrappolato in quella stanza
come lo ero nella mia vita.
Il signor Sutherland si diresse verso una sedia per dare riposo alla sua mole massiccia.
Sembrava un po’ irrequieto: continuava a giocherellare col sigaro, ma non gli era permesso fumare
nell’atelier, perché il fumo avrebbe rovinato i tessuti.
«Ecco qui delle stoffe che penso saranno di vostro gradimento», disse il signor Pinotto,
mostrandoci un crespo di lana nero così soffice che sembrava seta. «Viene da un piccolo villaggio
svizzero. Lo lavorano…».
«Lasci a me quella stoffa», disse Winfield, roteando un sigaro spento tra le dita. «Lo so io come
va il mondo. Dobbiamo permettere ai giovani di adottare lo stile che preferiscono».
Damon cominciò a spulciare tra le giacche, poi ne prese una e se la provò per vedere come gli
stava.
«Con questa marsina e quel crespo di lana nera, somiglieremo davvero a delle creature della
notte», osservò Damon. «Non credi, Stefan?»
«Sì, sono d’accordo», dissi con durezza.
«Tieni, prova questa». Mi lanciò la giacca, scegliendo una taglia più piccola. Mi tolsi il soprabito
e la indossai, obbediente. La giacca mi stava bene, era solo troppo larga di spalle e di torace.
Damon si distrasse a guardare Winfield e il sarto, che discutevano di modelli, fodere e bottoni. Mi
venne in mente che era il momento giusto per saltare dalla finestra e scappare via. Mio fratello
avrebbe davvero attuato tutte le sue minacce? Avrebbe ucciso sul serio i Sutherland… o peggio?
Poi pensai al messaggio scritto col sangue e capii che non avrei mai permesso che il mondo
scoprisse la tragica risposta a questa domanda. Non volevo altre morti sulla mia coscienza.
«È di questo genere di cose che si vantano i giovani in città, al giorno d’oggi?», chiese Winfield,
guardando accigliato la mia giacca. «Io non sono mai stato una – com’è che l’hai chiamata? –
“creatura della notte”».
Damon gli rivolse un sorriso freddo. «Mai dire mai».
E poi si mise accanto a me di fronte allo specchio, si abbottonò la giacca e ne raddrizzò le
code. Sistemò diligentemente anche la mia marsina.
«Ma guarda un po’», disse, indicando i nostri riflessi e mettendomi un braccio sulla spalla.
«Potremmo quasi essere fratelli».
«Noi eravamo fratelli una volta», sibilai così piano che solo Damon, grazie al suo udito
finissimo, poteva sentirmi. «Anche se ora mi sei estraneo quanto il diavolo in persona».
«Eh?». Winfield alzò lo sguardo. «Un po’ vi assomigliate. I capelli… e la… faccia». Ci rivolse un
cenno vago con la mano. Poi fece un sorriso caloroso. «Avrò un’intera squadra di nipotini
somiglianti fra loro! A dozzine, da coccolare sulle ginocchia».
Damon sogghignò. «Senz’altro. Ho intenzione di avere una famiglia numerosa, signor
Sutherland. È importante che la mia linea di sangue non si estingua».
«Stai davvero esagerando», bisbigliai.
«Non ho nemmeno cominciato», sussurrò lui, sorridendo.
«Ma davvero? Allora che significava quel messaggio scritto col sangue che mi hai lasciato?»,
dissi.
Damon aggrottò la fronte. «Quale messaggio?»
«A dire il vero, preferisco quella scarlatta». Winfield teneva tra le mani un rotolo di tessuto e non
parve accorgersi della tensione nell’aria. «È perfetta. Damon DeSangue… significa “di sangue” o
“rosso come il sangue” giusto?».
Damon sembrava sorpreso. Anch’io ero stato colto alla sprovvista.
«Parlo quattro lingue, ragazzi», disse Winfield, rivolgendoci un sorriso che sembrava quasi un
ringhio. «E sono in grado di leggerne altre quattro. L’italiano è solo una di queste».
Dunque Sutherland non era affatto quel buffone che sembrava. Era una persona di un certo
spessore, com’è naturale che sia un uomo d’affari di successo.
«E a proposito di lingue, ho bisogno di vino1 , qualcosa per bagnarmi la gola. Ho portato una
bottiglia della mia cantina personale, un Amontillado favoloso. Mi fate compagnia?»
«Non perderei mai l’occasione di prosciugare fino all’ultima goccia un Sutherland d’annata»,
disse Damon in tono scherzoso, dandomi una pacca sulle spalle, subito imitato dal nostro futuro
suocero.
Abbassai le spalle, disperato. Quando c’eravamo appena trasformati in vampiri, il mio unico
desiderio era di passare l’eternità con mio fratello. Adesso, invece, non vedevo l’ora di liberarmi di
lui.
1 In italiano nel testo (n.d.r.).
15
La notte prima del matrimonio, restai sveglio a guardare fuori dalla finestra della mia camera.
Un bellissimo quarto di luna si mostrava attraverso le vetrate a pannelli decorati.
Mi sentivo come se l’intero mondo notturno mi stesse provocando e invitando: Vieni a giocare.
Vieni a cacciare. Svanisci nelle tenebre. La pelle mi pizzicava ogni volta che un alito della brezza
notturna la sfiorava, e le mie narici fremevano per i mille e uno profumi che trasportava.
Non sono fatto per starmene rinchiuso di notte… Pensavo di essere infelice quando cacciavo
scoiattoli nel parco, ma lì, in quella casa, ero imprigionato dalla parola data, dal mio senso di colpa,
da quelle stupide pareti, da una famiglia umana sotto incantesimo, da mio fratello.
La signora Sutherland era venuta a trovarmi quella sera. Non aveva detto molto. Mi aveva solo
dato un buffetto sulla mano e un pizzicotto sulla guancia, dicendo di non preoccuparmi, che il
matrimonio sarebbe finito presto e che poi saremmo tornati tutti alle normali, liete faccende della
vita familiare.
Era ben lontana dall’immaginare che, non appena Damon avesse ottenuto da loro quel che si
era ripromesso, la vita della sua famiglia non sarebbe stata mai più normale o felice.
Dei colpi alla porta interruppero i miei pensieri. Mi girai e mi abbottonai la bella giacca dello
smoking di seta che mi aveva prestato Winfield, chiedendomi se la signora Sutherland avesse
dimenticato qualcosa in camera.
Ma quando la porta si aprì, fece capolino un visetto roseo e malizioso.
«Bridget», dissi in tono quasi lamentoso. Mi guardai attorno disperato, come se dovesse
apparire dal nulla un’uscita da cui poter scappare.
Lei ridacchiò e scivolò dentro all’improvviso, sbattendo la porta dietro di sé; poi vi si appoggiò
come se avesse appena chiuso fuori un esercito invasore.
«Stefan», disse, in quello che probabilmente pensava fosse un tono soave e provocante.
Indossava una vestaglia di chiffon con un enorme bouquet di rose di ciniglia. Sotto, anziché la
semplice camicia da notte, aveva una complicata sottoveste col busto, fatta di lucida seta rosa con
una fusciacca vermiglia che le lasciava la schiena e le spalle scoperte.
«Bridget», dissi in tono di ammonimento, indietreggiando. Sbattei la testa contro una delle
colonnine del letto a baldacchino.
«Pensavo che forse potremmo cominciare prima la luna di miele», sussurrò, gettandosi fra le
mie braccia.
«Uh…», borbottai.
Aveva le guance rosse e gli occhi socchiusi. Nonostante le costrizioni di Damon, seguiva anche
l’onda delle proprie emozioni, infiammata da sentimenti d’amore per l’uomo che stava per sposare.
Mi spinse sul letto, con braccia straordinariamente forti, e mi cadde addosso, schiacciandomi
sotto ondate di seta. I suoi seni si sollevavano sul corsetto, e sentivo il calore della sua pelle
attraverso la mia vestaglia.
Godevo di una vista perfetta del suo candido collo nudo. Il suo cuore pompava rapido, dando
alla pelle un’intensa sfumatura rosata e riempiendomi le narici dell’odore del sangue. Lo sentivo su
di lei, salato, caldo, umano. Un brivido mi percorse, quando premette il petto contro il mio, e sentii
che cominciavano a dolermi le mascelle. Era un dolore così dolce… ed era passato così tanto
tempo dall’ultima volta che mi ero nutrito di sangue umano…
Non può far male, disse una parte di me. A lei non sarebbe dispiaciuto che la mordessi, anche
senza costrizione. Non doveva essere doloroso, e forse le sarebbe piaciuto. Senza rendermi conto
di quello che stavo facendo, le premetti le labbra sulle spalle, solo per sentire la pelle, solo per
leccare un poco…
Bridget sentì che mi muovevo sotto di lei e fraintese la cosa, infondendo ardore ai suoi baci e
mettendosi in una posizione più comoda, con le gambe allacciate alle mie.
«No!».
Riuscii a riprendere il controllo di me stesso e la spinsi via. Non intendevo essere così brutale,
ma anche in quello stato di debolezza ero ancora molto più forte di un umano. Cadde sul bordo del
letto, contro una delle colonne del baldacchino, e mi guardò scioccata.
Poi cominciò a piangere.
«Tu… non mi vuoi…», gemette, mentre grosse lacrime le scivolavano lungo le guance.
«Bridget, no, io…». I canini si ritrassero e rimasi lì dolorante e con un bruciante bisogno di
sangue. «È solo che… ci sposeremo domani, Bridget. Soltanto un altro giorno. Se aspettiamo fino
al… ehm… momento giusto, sarà ancora più speciale. Pensa, avremo appena passato una…
bellissima giornata… con te nel tuo stupendo, ehm…».
«Abito di broccato color panna con merletti fiamminghi sulle maniche e sul corpetto e una
fusciacca di raso avorio con un velo ornato di fiori di seta dello stesso colore», disse, tirando su col
naso.
«Esatto». Le sfiorai il gomito e le sollevai il mento così da costringerla a guardarmi. Lei si
asciugò le lacrime dal viso con un lembo della vestaglia. «Concedimi di serbare quell’immagine di
te la nostra prima notte, mia pudica sposa».
Lei annuì, tirò di nuovo su col naso e mi rivolse un sorriso tiepido. «D’accordo».
Poi tornò in sé e sbottò nella sua sciocca risatina, schizzando giù dal letto e correndo alla porta.
«Buonanotte… amore», tubò prima di uscire.
Appena se ne fu andata ricaddi sul letto, soffocando un lamento fra i cuscini. Ma non servì a
placare la mia frustrazione. Mi alzai e presi a camminare avanti e indietro, dalla finestra alla porta,
fremendo dalla voglia di uscire, scappare, andare a caccia, fare qualcosa. Ma non avevo nessuna
scelta, nessuna alternativa. Ero intrappolato in quella stanza, in quella situazione, nel terribile limbo
in cui mi trovavo: né umano né mostro.
Strappai a metà il cuscino e le piume esplosero nella stanza come un barile di polvere da sparo
bianca.
Che tu sia maledetto, Damon, pensai infuriato, per avermi messo in questa posizione. E
maledizione anche a te, Katherine, per aver dato inizio a tutto ciò.
16
12 novembre 1864
Vivere con Damon è come giocare a scacchi con un pazzo. Posso pensare a un migliaio di possibili attacchi da cui
difendermi e alle mille mosse che potrebbe fare, ma lui cambia sempre le regole del gioco.
Non è solo la sua nuova tendenza alla violenza gratuita che lo rende così imprevedibile, ma proprio il piacere che ne trae.
Anche se il sangue è la base della nostra dieta, noi, come vampiri, abbiamo un minimo di autodeterminazione. Damon non è
costretto a lasciar vincere il suo lato oscuro, eppure lo accoglie senza riserve.
Assisto al suo cambiamento con orrore e senso di colpa, perché sono io che l’ho messo su questa strada. È stata
Katherine a trasformarlo, è vero, ma io l’ho costretto a nutrirsi del suo primo umano.
Dopo aver visto il messaggio che qualcuno mi ha lasciato, non posso permettermi di abbandonare i Sutherland finché
non avrò trovato un modo per tenerli al sicuro. Se penso a quello che mio fratello ha fatto a Callie… Di certo è perfettamente
capace di sbarazzarsi di tutta la famiglia appena non gli servirà più.
Ma quando agirà? Durante il matrimonio? Subito dopo? Di ritorno dalla luna di miele? L’anno prossimo? Posso far
sparire le ragazze da qualche parte? Posso convincerle a nascondersi? Oppure costringerle? Damon è riuscito a
rintracciarmi a New York, ma riuscirebbe a trovarci ovunque andiamo?
Devo escogitare un piano, nel caso Damon non si limiti a lasciare la città con il malloppo.
Certo, la soluzione più semplice sarebbe ucciderlo.
Voilà: con un vampiro maniaco, pazzo, imprevedibile e sanguinario in meno, il mondo e io saremmo mille volte più
tranquilli. Sempre che io ci riesca. Sono molto più debole di lui. L’unico modo sarebbe prenderlo di sorpresa o con l’inganno,
oppure fare qualcosa di altrettanto subdolo, come dargli una coltellata nella schiena. Lo stesso modo in cui lui ha ucciso
Callie.
Ma non serve pensarci. Io non mi abbasserò al suo livello. È mio fratello. E anche se è una persona orribile, è l’unico
parente che mi rimane.
Il giorno seguente, il tempo volò come se non avesse niente di meglio da fare che spingermi a
precipizio verso il matrimonio. Prima che me ne rendessi conto, mi avevano infilato nel mio abito
nuziale, rimpinzato di frittelle e portato di volata all’altare, un centinaio di caseggiati a nord, dove
rimasi in attesa del mio destino, così come i Sutherland, ignari, aspettavano il loro.
Io e Damon stavamo fianco a fianco nella grande sala di palazzo Woodcliff. La graziosa
cappella di famiglia nelle vicinanze era troppo piccola per i gusti di Bridget. I Richard erano stati
tanto gentili da lasciarle a disposizione la loro casa sulla punta dell’isola di Manhattan. In realtà, era
più un castello che una casa, con le torri grigie, i parapetti e le inferriate decorative, tutto fatto della
stessa pietra grigia del promontorio roccioso, per cui sembrava protendersi da esso senza
soluzione di continuità.
Dalle finestre gotiche si vedevano, non molto distanti da lì, le rovine di Fort Tyron, sito della triste
sconfitta dell’esercito americano guidato da George Washington per mano degli inglesi.
I miei pensieri correvano liberi: immaginai le giubbe rosse, il caos fra le truppe americane e gli
sbuffi di polvere da sparo… e poi mi venne in mente una cosa. Forse Katherine aveva visto quella
battaglia. Non le avevo mai chiesto quanti anni avesse – forse Damon sì – ma lei era molto più
vecchia di quanto suggerisse il suo aspetto. Probabilmente era stata testimone di eventi di cui io
avevo soltanto letto nei libri di storia.
Rabbrividii a quel pensiero, ma la sensazione di freddo fu subito dissipata dall’incredibile calore
della stanza. Io e Damon eravamo di fronte a una folla di più di duecento dei personaggi più
importanti dell’alta società newyorkese, scomodamente seduti su una serie di panche radunate in
tutta fretta. Non avevano idea di quanto fosse pericoloso per loro stare lì.
Scostai il colletto della camicia e allentai il nodo della cravatta, che tutt’a un tratto mi sembrava
troppo stretta, e mi si offuscò la vista. La stanza girava e si deformava e per un attimo gli eleganti
vestiti e i volti di tutti i partecipanti al matrimonio si fusero insieme come se fossero stati travolti da
una fiammata. La pelle si staccava come le foglie di una pannocchia, lasciando scoperte ossa
bianche e tendini contorti.
«Stefan!», sibilò Damon, dandomi una gomitata. Mi accorsi che gli stavo stringendo il braccio.
«Devo chiamarti un medico?», chiese sarcastico.
Scossi la testa, chiedendomi che sorta di malore mi avesse colto. La vista ritornò nitida: erano
tutti vivi, felici, sorridenti e intenti a rinfrescarsi con discreti colpi di ventaglio.
Dovetti ammettere che la signora Sutherland aveva fatto un ottimo lavoro con l’aiuto della
signora Richard e delle sue cameriere. Avevano steso un sontuoso tappeto rosso, su cui avevano
poi sparso così tanti petali di rosa che il tessuto si vedeva appena. Rosei, bianchi e di un rosso
turgido e profondo: sembrava un bellissimo sentiero in mezzo a un meraviglioso giardino di rose.
Ghirlande di costosi fiori esotici pendevano da una panca all’altra e nell’aria si sentiva un intenso
odore di arance e limoni. Appese al soffitto c’erano sfere di fiori simili a fuochi d’artificio che al
posto delle scintille spargevano petali. In ogni nicchia e a ogni angolo delle arcate gotiche c’erano
eleganti composizioni di lunghi steli d’erba e ramoscelli di melo in fiore, che evocavano l’immagine
di una foresta.
Indossavano tutti impeccabili abiti da cerimonia. Gli uomini in marsina, alcuni con la fusciacca di
raso nero. Abiti di seta moiré in tinta scura per le signore più anziane, in tinta chiara per le giovani
donne, e chilometri di stoffe turbinanti intorno alle loro caviglie come nuovi petali di rosa. I cappelli
erano elegantemente rivestiti di piume, gemme e talvolta di uccelli interi. Per l’occasione tutti
avevano tirato fuori il corredo completo dei gioielli di famiglia: ogni collo e polso era cinto da
diamanti, perle e rubini, alcuni grandi quanto il mio pollice.
Tutte le donne, ovviamente, avevano eleganti ventagli di seta, dipinti in Giappone o in Inghilterra,
e cercavano di farli vibrare con delicatezza, ma la maggior parte si faceva vento senza
preoccuparsi di agitarli freneticamente. I loro volti serbavano un ostinato rossore nonostante gli
sforzi per renderli pallidi.
Tutti bisbigliavano e parlavano concitati, e naturalmente io ero in grado di sintonizzarmi con
qualsiasi conversazione avessi voglia di ascoltare grazie al mio udito. Ma lo facevo quasi
controvoglia, perché era ovunque la stessa solfa:
«… così in fretta. Si sono conosciuti appena un mese fa. Hai sentito com’è successo? Lui è
stato così cavalleresco…».
«… ragazza fortunata. Spero di combinare un buon matrimonio anche per la mia Lucrezia…».
«Pare che la più piccola delle ragazze Beaumont si sia dichiarata al signor DeSangue, ma lui
aveva occhi solo per Lydia…».
«… che uomo affascinante! E un conte!…».
«… sì, ma chi è quell’altro? Il tipo che sposa Bridget?».
Chiusi gli occhi, desiderando di potermi tappare le orecchie. Quanto mi sarebbe piaciuto
tornare alla mia grotta nel parco.
«Come ai vecchi tempi, eh, fratello?», sospirò Damon, sistemandosi uno dei polsini della
camicia. «In un’altra vita, tu e Rosalyn ora sareste già sposati».
«Taci!», dissi. Aveva ragione, comunque. Se Katherine non avesse ucciso la mia compagna
d’infanzia, io l’avrei sposata. Allora credevo che un matrimonio forzato con una ragazza di cui non
ero innamorato fosse il peggior destino immaginabile. Com’ero ingenuo…
Continuai a sorridere, anche se ormai il mio sorriso doveva apparire finto. Scrutai la folla alla
ricerca di qualcuno con un fazzoletto improvvisato intorno al collo. Quella mattina ero riuscito a
catturare e a prosciugare un paio di colombe bianche, inizialmente destinate a essere liberate alla
fine della cerimonia come gesto romantico. Ma quand’era l’ultima volta che Damon si era nutrito?
Oppure aveva pianificato un banchetto nuziale a base di sangue?
«Ma guardaci», sussurrò Damon, sorridendo e salutando col capo qualcuno nella folla. «Siamo
proprio una bella coppia».
«Lo sto facendo per salvare delle vite», bisbigliai. «Ora stai tranquillo».
Damon alzò gli occhi al cielo. «Non sei per niente divertente, fratello. Spero che tu sviluppi
presto il senso dell’umorismo o sarà una luuunga eternità».
Iniziò la marcia nuziale, e fui dispensato dal dover rispondere.
Il marito di Margaret e Bram, in veste di accompagnatori, attraversarono la navata centrale. Gli
altri paggi erano giovinetti imberbi che flirtavano senza ritegno con le loro damigelle. Le ragazze
indossavano abiti color pesca intonati fra loro e cappelli davvero enormi… ma notai che una di loro
aveva un accessorio un po’ diverso dalle altre. Hilda si era frettolosamente annodata un fazzoletto
intorno al collo.
Lanciai a Damon un’occhiataccia.
Lui scrollò le spalle. «Mi è venuto un certo languorino mentre aspettavo».
In realtà, ero un po’ sollevato: significava che non stava digiunando per prepararsi al suo
“banchetto nuziale”.
Infine arrivò Winfield, percorrendo a grandi passi la navata con una figlia per braccio. L’andatura
di Lydia era regale e disinvolta. Indossava un sobrio abito bianco di un tessuto pesante che
frusciava a ogni movimento. Il colletto arrivava fino al mento e le maniche ai polsi, e l’unico
ornamento era una fila di bottoni di perle sul davanti. Un velo di pizzo le ricadeva fluttuante dietro le
spalle. Somigliava a una regina delle fate e sorrideva con un’aria schiva che dava risalto alla sua
bellezza.
Al braccio sinistro di Winfield c’era Bridget, col suo abito di satin e broccato. In effetti, era molto
bella, anche se un po’ appariscente. Aveva un lunghissimo velo di pizzo posato sulla testa come
una corona. Non riuscivo a capire come avessi fatto a vedere in lei qualcosa di Callie. Mentre
Bridget era frivola e immatura, Callie era indipendente e pragmatica.
Pensare a lei in quel momento era una pessima idea.
Il tempo sembrò rallentare. I piedi di Bridget si alzavano e ricadevano, portandola a pochi
centimetri da me. La sua gonna si spinse avanti, come dotata di volontà propria. La sua bocca si
aprì e si richiuse in una risatina che suonò lontana e distorta. E poi sentii il peculiare profumo di
limone e zenzero.
Tutto divenne sfocato…
Katherine?
All’improvviso a venirmi incontro vestita da sposa non era più Bridget, ma la donna che mi
aveva portato fin lì. I suoi folti capelli neri erano raccolti da un velo di pizzo e lasciavano scoperti il
collo e le spalle perfette. Il cammeo blu luccicava nell’incavo della sua gola. Chinò il capo con
atteggiamento pudico, ma sotto le lunghe ciglia, gli occhi guizzarono con malizia verso di me.
Arricciò le labbra, e io mi sentii piegare le ginocchia.
Anche Damon l’aveva vista? Lo guardai di sbieco, per capire se anche lui stesse pensando o
vedendo la stessa cosa. Che fosse vero amore o un Potere da vampiro a farmi provare quei
sentimenti nei confronti di Katherine, io ero ancora sotto il suo incantesimo. Ero ossessionato da
lei. Ma il volto di Damon era una maschera perfetta di amore e felicità.
Il tempo riprese a scorrere. Vedevo di nuovo Bridget che mi sorrideva eccitata.
E poi ogni cosa andò al proprio posto: le ragazze davanti a noi, il sacerdote dietro l’altare, gli
anelli nelle nostre mani.
Grazie al cielo fu una cerimonia abbastanza breve. Il sacerdote fece un’omelia sull’amore e
lesse diversi passaggi della Bibbia che in altre circostanze mi sarebbero piaciuti. Non ero sicuro se
pregare che continuasse a oltranza, dandomi più tempo possibile prima dell’inevitabile, o che si
sbrigasse e la facesse finita.
«Chi è a conoscenza di qualche impedimento per il quale queste due coppie non dovrebbero
unirsi in matrimonio, parli ora o taccia per sempre».
Mi guardai intorno, sperando che qualcuno si alzasse e si opponesse. Forse si sarebbe
pronunciata Margaret, portando qualche prova che Damon DeSangue non fosse chi diceva di
essere, o che io fossi una spia confederata oppure… La sorella maggiore scosse la testa e
digrignò i denti, ma rimase in silenzio. Forse me l’ero immaginato, ma mi era parso che sua madre
l’avesse trattenuta premendole con forza una mano sulle ginocchia.
Toccò prima a Damon, dacché sposava la sorella più grande. Non ascoltavo; mi sembrava di
avere un rombo sordo nelle orecchie talmente rumoroso che mi sorprendeva non riuscisse a
sentirlo nessun altro.
Cosa sarebbe successo alla fine? I Sutherland sarebbero sopravvissuti a quella notte? Sarei
stato costretto ad affrontare mio fratello in un combattimento all’ultimo sangue il giorno del mio
matrimonio?
«Ripetete dopo di me», disse infine il sacerdote. Feci come mi veniva detto.
«Io, Stefan Salvatore, prendo te, Bridget Lynn Cupbert Sutherland, come mia legittima sposa e
prometto di esserti fedele sempre, nella buona e nella cattiva sorte, in ricchezza e in povertà, in
salute e in malattia, per amarti e rispettarti finché… morte non ci separi».
Per poco non mi strozzai, e potei solo sperare che i presenti credessero che fossi sopraffatto
dall’emozione.
«Io, Bridget Lynn Cupbert Sutherland, prendo te, Stefan, come mio legittimo sposo e prometto
di esserti fedele sempre, nella buona e nella cattiva sorte, in ricchezza e in povertà, in salute e in
malattia, per amarti e rispettarti finché morte non ci separi». Aveva dimenticato di dire il mio
cognome, probabilmente perché, come intuii dal suo sguardo, stava pensando alla notte
precedente.
E poi mi ritrovai un anello in mano. Un semplice cerchietto d’oro con le nostre iniziali incise
all’interno. Un metallo prezioso che mi legava al mio destino.
Presi la mano di Bridget. La mia voce venne fuori sorprendentemente chiara e calma. «Con
questo anello io ti sposo, e di tutti i miei beni terreni ti doto, nel nome del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo». Le feci scivolare la fede al dito. Lei squittì di gioia.
La baciai. Fu un bacio impetuoso e durò quanto bastava, speravo, perché il pubblico lo
apprezzasse. Bridget si avvinghiò a me, cercando di far durare quel momento. Sapeva di menta. Mi
sentivo malissimo.
E tutt’a un tratto ero un vampiro sposato.
17
Il ricevimento si teneva in un altro gran salone. Mio fratello, Lydia, Bridget e io ci disponemmo
all’entrata per accogliere e ringraziare gli ospiti. Damon esagerò un poco, inchinandosi e fingendo
di conoscere dei perfetti estranei. Senza dubbio li soggiogava perché credessero che fosse un
vecchio amico. Mentre Bridget mostrava l’anello, Lydia dava a tutti baci calorosi, strette di mano e
sorrisi, qualunque fosse il tipo di relazione e il contegno dettato dalle regole sociali. Rise persino
quando Bram cercò di rubarle un bacio “d’addio”. Bridget stava accanto a lei, raggiante di quella
che sembrava sincera felicità.
«Grazie per essere venuti oggi», ripetevo e le parole mi lasciavano sulla lingua un sapore di
gesso. «Siamo lieti della vostra partecipazione alla festa. Vi ringrazio di essere qui oggi. Piacere di
vedervi, grazie infinite per essere venuti».
«Stefan Salvatore?», domandò una matrona con una collana di perle e un pesante abito di seta
grigia così rigido che sembrava ingessato, stringendomi la mano più a lungo del necessario.
Pronunciò la e finale del mio cognome e mi fissò con uno sguardo di pietra, simile alle pieghe del
suo vestito.
«Sì, signora», dissi e le sorrisi nel modo più caloroso che potevo.
«Della famiglia Salvatore di Firenze? Quella del principe Alessandro?»
«Non ne sono proprio sicuro, signora», risposi, cercando di mantenere il sorriso. «Quando mio
padre arrivò in questo paese si dichiarò americano. Tagliò i ponti con i nostri vecchi amici e
parenti».
Spalancò gli occhi e allentò la stretta sulla mia mano. «Un immigrato. Affascinante». Non
sorrise, ritirò la mano dalla mia e proseguì.
Diverse centinaia di saluti dopo, finalmente andammo a sederci. Il tavolo degli sposi era
decorato con festoni di palme e ghirlande di fiori enormi, ed era imbandito con ogni costosa
leccornia si potesse desiderare mangiare… o far mostra di potersi permettere. C’era un antipasto
di mare a base di ostriche e altre delicatezze, fra cui salmone scozzese affumicato e caviale russo.
Poi veniva la portata principale, che consisteva di un numero sbalorditivo di animali morti: manzo
arrosto, quaglie, carne di cervo, fagiano, beccacce, anatra, agnello, maiale arrosto, carni servite
fredde e calde, brasate e alla griglia, tritate e trifolate, a fette o in pasticcio.
Il tutto era coronato da una torta nuziale a cinque strati di delizioso panfrutto ricoperto di glassa
e decorato con volute, archi, colonne e uccelli di zucchero. Camerieri in giacca nera riempivano
bicchieri su bicchieri di champagne e tutti conversavano allegramente. I miei muscoli, invece, erano
tesi e annodati. Il “matrimonio” era ufficialmente finito. Io e Damon eravamo membri legittimi della
famiglia Sutherland. Era solo questione di tempo prima che mio fratello desse inizio alla fase
successiva del suo piano… qualunque esso fosse.
«Caro, mi prenderesti un bicchiere d’acqua, per favore?», chiese Lydia a mio fratello,
sfiorandogli una guancia con tenerezza.
«In certe cerimonie, spetta alla donna amare, onorare e obbedire. Ne prenderesti tu uno per me,
mogliettina?». Sorrise, ma in un modo che non mi piacque.
«Certo! Qualsiasi cosa per te, caro», disse Lydia. «Preferisci acqua, vino o…».
«Sangue?», suggerì Damon.
Lydia rise. «Ogni tuo desiderio è un ordine».
Bridget non toccò nulla del lussuoso pasto e passò tutto il tempo a schizzare da un tavolo
all’altro per parlare con gli amici, porgendo la mano e mostrando l’anello. Io passai la cena a
spingere del cibo molto costoso sui bordi di un piatto molto costoso con una forchetta d’argento
molto costosa – e piuttosto pesante in realtà – senza mai togliere gli occhi di dosso da mio fratello.
Quando arrivò il dessert, Bram ebbe pietà di me e si sedette per un po’ al posto di Bridget.
«Congratulazioni, vecchio mio», disse scuotendomi la mano. «Tu e Damon vi siete accaparrati
due delle migliori mogli che New York avesse da offrire».
Io annuii con aria infelice.
«I signori Sutherland sono persone favolose. E Margaret… be’, è una bisbetica, ma confido che
riuscirai a domarla prima o poi».
Alzai la testa di scatto. «Hai notato qualcosa di… ehm… strano in lei?». Bram doveva
conoscere i Sutherland da quando era nato. Forse aveva qualche idea su quel che rendeva
Margaret immune alle malie di Damon.
Bram si grattò i flosci riccioli neri. «Strano?»
«Sì, lei è diversa dalle altre. È più forte», dissi con un tono tendenzioso.
Bram emise una risata mesta. «Questo è sicuro. Una volta, quando eravamo piccoli, rubai la
sua bambola preferita per usarla come infermiera in un gioco di guerra con mio fratello. Giuro, mi
fulminò con lo sguardo! Non dovette nemmeno sfiorarmi per mandarmi una scossa che mi fece
dolere tutto il corpo. Non c’è bisogno di dirlo: non ho mai più usato i suoi giocattoli».
«È riuscita a farti male senza toccarti?», insistetti, cercando di mettere insieme i pezzi.
Ma proprio allora, Winfield mi diede una pacca sulle spalle e fece un cenno in direzione di una
stanza sul retro. Damon venne con noi, con un’espressione a metà fra il serio e il faceto. Mentre
sfilavamo a passo lento tra gli ospiti e lungo un corridoio laterale, mi sforzai di guardar fuori dalle
finestre. Fra gli alberi e le torri intravedevo il possente Hudson e le Palisades, il fulgido sole dorato
che tramontava sulle acque luccicanti, le verdi foreste, le barche e le chiatte che sfilavano
lentamente su e giù per il fiume. Mi sentii quasi come un re che contempla le sue terre, dacché quel
matrimonio mi poneva ai massimi vertici dell’alta società newyorkese.
Entrammo in una stanza per fumatori tappezzata di pannelli scuri, e Winfield cominciò subito a
riempire i bicchieri di uno sherry rosso rubino. Damon tirò fuori una fiaschetta d’argento e proprio lì,
davanti a Winfield, versò del sangue nel suo sherry. Sangue umano.
«Al matrimonio eterno», disse Damon, alzando il bicchiere.
Winfield annuì energicamente. «Al matrimonio».
Io mi limitai a fare un cenno del capo e buttai giù il mio drink, sperando che quel liquido freddo
placasse la mia sete.
«Devo parlarvi di una cosa seria, ragazzi miei». Winfield accomodò il suo corpo massiccio su
una larga sedia da scrivania. Damon si chinò in avanti con aria speranzosa. Io m’irrigidii sulla
sedia, preparandomi a ciò che mi riservava l’immediato futuro, qualunque cosa fosse.
«Si tratta della dote».
Mi strinsi le mani nervosamente. Damon ghignò, scoprendo gli scintillanti canini. Si buttò su un
divano di velluto. «Era proprio quel che stavo per chiedervi, padre. Non vi dispiace se vi chiamo
così, vero?»
«Niente affatto, ragazzo mio», disse Winfield, offrendogli un sigaro.
Mio fratello lo prese, lo tagliò con cura e lo accese con fare così professionale che mi chiesi
dove avesse preso quell’abitudine.
Per un po’ restarono entrambi seduti a fumare, riempiendo la stanza angusta di ampie nuvole di
fumo. Tossii. Damon, divertito dal mio disagio, si prese la briga di soffiarmi addosso gli anelli di
fumo.
«Ecco il punto: voglio che voi ragazzi siate in grado di stare in piedi da soli. Le mie figlie
meritano dei veri uomini, e se mai mi dovesse succedere qualcosa, io voglio assicurarmi che siate
in grado di prendervi cura di loro».
«Ma certo», disse Damon a denti stretti, masticando il sigaro.
«Ho molte miniere in Virginia; anche una d’oro. Ci sarebbe bisogno di qualcuno che le gestisca.
E poi ci sono le azioni ferroviarie che ho acquistato in…».
Mio fratello sgranò gli occhi. Io distolsi lo sguardo, perché non riuscivo a sopportare di guardarlo
mentre soggiogava quel pover’uomo. «Preferirei dei contanti», disse.
«D’accordo, sembra ragionevole», disse Winfield senza fermarsi e senza battere ciglio. «Una
pensione annuale va bene? Un salario a vita?»
«In anticipo. Tutto quanto», disse Damon in tono gioviale.
«Un ventesimo della mia proprietà, del capitale e dei titoli andrebbe bene?», chiese
educatamente Winfield.
«Fai pure un quarto».
Come un automa, Winfield acconsentiva con noncuranza a tutto quel che Damon suggeriva.
Ma non riuscivo a capire in che modo tutto ciò avrebbe tenuto Winfield al sicuro. Damon si
sarebbe limitato a tenerlo in vita per ottenere da lui tutto quel che voleva?
«Sono felice che vi preoccupiate tanto di assicurare alle mie figlie il tenore di vita cui sono
abituate», disse Winfield. Ma la sua voce era cupa, come se una piccola parte della sua mente
sapesse che c’era qualcosa di terribilmente sbagliato.
Il pover’uomo tirò fuori alcuni assegni e una penna. In pochi secondi fu tutto finito e Winfield mi
consegnò un assegno con così tanti zeri che era a malapena leggibile.
Damon scoprì i denti in qualcosa che più che un sorriso era un ghigno di vittoria. Si alzò,
avvicinandomi il suo bicchiere di sherry corretto col sangue. L’odore era irresistibile. Dovetti far
ricorso a tutte le mie forze per non saltar su e vuotare il calice.
E poi Winfield disse la cosa più straordinaria e banale del mondo.
«Questi assegni non possono essere liquidati subito», si scusò, ignaro di come quelle sette
parole gli avessero appena salvato la vita.
Damon lo fissò torvo e i suoi occhi si annuvolarono. Quello sguardo di rabbiosa frustrazione era
famoso a Mystic Falls e nessuno avrebbe mai voluto esserne la causa. Era pericoloso deludere
mio fratello. Accartocciò l’assegno.
«Non ne hai parlato prima», ringhiò, agitando il bicchiere di sherry al sangue proprio sotto il mio
naso. Mi feci forza, sentendo la sete che mi faceva bruciare i canini.
«Sono costretto a vendere gran parte della mia proprietà, del capitale e dei titoli per ottenere il
contante necessario a cambiare questi assegni», rispose Winfield con un tono così lamentoso che
mi diede la nausea.
«Allora fallo!», ordinò Damon. Ma io non lo ascoltavo più. Dovevo uscire da quella stanza. Il mio
Potere reagì alla fame, alla rabbia, e sentii le prime avvisaglie di un cambiamento.
«Devo…». Non mi preoccupai nemmeno di inventare una scusa.
Mi precipitai fuori dalla stanza, lasciando il mio malvagio fratello e il nostro miserabile suocero.
Uscii dal castello e sparii nella notte nera cui appartenevo.
18
C’erano duecento isolati tra la villa dei Richard e il centro di New York City. Circa quindici
chilometri. Ma, essendo un vampiro, non correvo a una velocità normale, soprattutto dopo aver
prosciugato una delle capre dei Richard. Per i passanti ero una macchia indistinta, così come loro
lo erano per me. Tenevo la testa bassa, cercando soltanto di evitare gli ostacoli e sforzandomi fino
allo sfinimento. Scesi dalle scogliere rocciose e dalle alture di Fort Tyron con i suoi alberi freddi, e
attraversai la valle che separava il forte dal resto della città. Tornai alla zona abitata, alle strade
fangose e sterrate che odoravano di polvere e vegetazione, in cui riconobbi il profumo del tabacco
della mia terra natia, la Virginia.
Dopo aver passato una settimana ad aspettare, osservare e cercare di prevedere le mosse di
mio fratello, volevo solo che finisse tutto.
Ma non era ancora finita.
Damon non poteva uccidere Winfield finché l’assegno non fosse stato coperto, e chissà quanto
tempo ci sarebbe voluto. Nel frattempo io dovevo stare con Bridget, tenere d’occhio i Sutherland,
fingere di essere felicemente sposato, e cercare di capire la fase finale del gioco di Damon.
Ero intrappolato in una rete di sensi di colpa; a ogni mossa che facevo, restavo sempre più
invischiato. Volevo solo liberarmi.
Mi sarebbe piaciuto poter vivere in solitudine. Se dovevo passare l’eternità come vampiro,
perlomeno non avrei lasciato tracce. Né morti, né feriti, né vite rovinate: nessuna prova della mia
esistenza contro natura. Fuggivo da me stesso, dalla persona che ero diventato e di cui non avrei
mai potuto liberarmi, così come scappavo da Damon, che era la mia ombra in quella vita senza
fine.
Gli odori della natura presto furono coperti dal fetore delle acque di scolo e del marciume che
appestava anche i quartieri dei ricchi. Nei vicoli alle spalle degli enormi palazzi, i servi gettavano
l’acqua sporca nei canali di scolo e il lattaio, passando col suo carretto, lasciava bottiglie e
formaggi freschi sui gradini dei portoni. Avrebbero notato solo uno strano colpo di vento, un vuoto
d’aria creato dal mio passaggio, una fugace ombra sul muro simile a una nuvola che copre il sole.
A Garment District il mio naso fu assalito dall’odore aspro e penetrante delle sostanze chimiche
e della strinatura delle fibre proveniente dalle fabbriche – che a New York avevano iniziato a
rimpiazzare le fattorie – dove giovani donne tagliavano, cucivano e tingevano i tessuti. Gruppetti di
operaie passavano i loro preziosi minuti di pausa a fumare sigarette, appoggiate alle scale
antincendio con le maniche tirate sui gomiti. Quando sfrecciai accanto a una di quelle ragazze,
quasi sfiorandola, la corrente d’aria provocata dal mio passaggio fece spegnere il suo fiammifero.
Mi voltai e la vidi che fissava, confusa, il sottile refolo di fumo.
D’un tratto fui sopraffatto dall’odore di carne umana e rifiuti. Di letame e tremule lampade a gas.
Di fabbriche, carta, inchiostro e fumo nero. Di fiume, brina, pesci e infine dell’aria pulita. Questi
furono gli unici dettagli della città che riuscii a cogliere, poiché tutti i suoni e le immagini si erano
tramutati in un bianco e nero assordante. Fiori e profumi costosi. Carni macellate e pancetta
affumicata. Limone e zenzero…
Mi fermai di colpo, al centro di Washington Square. Era il profumo di Katherine.
Una mano mi afferrò la spalla e mi girai speranzoso.
Ma anziché vedere i riccioli scuri della mia creatrice, mi trovai faccia a faccia con Damon, che
stava lì con un sopracciglio alzato in segno di divertita condiscendenza.
Il mio volto si rabbuiò e mi accasciai, sopraffatto dalla stanchezza e dalla disperazione. Non mi
curai nemmeno di scuotere via la sua mano. In effetti, dove avevo intenzione di andare? Mio fratello
mi aveva seguito per tutta la West Coast. Finché avessi rifiutato di bere sangue umano, lui sarebbe
stato sempre più forte e più veloce di me. Cercando di sottrarmi a quel che Damon aveva
pianificato, qualunque cosa fosse, avevo solo rimandato l’inevitabile.
«È la nostra prima notte di nozze, fratello. Dove stavi andando?». Il suo tono era aspro.
Sfinito da quella maratona di dolore e dal tentativo di fuga, restai immobile. «Avevo intenzione
di tornare».
Damon alzò gli occhi al cielo. «Chiamo una carrozza», disse, e schioccò le dita. Una si avvicinò
all’istante.
«Settantatreesima, sulla Quinta», ordinò sporgendosi dallo sportello.
«Andiamo dai Sutherland?», chiesi, confuso. «Non dai Richard?»
«Andiamo a casa», mi corresse Damon. «Eh sì, il ricevimento è finito. Sei scappato proprio alla
fine».
«Cosa hai detto a Bridget?», chiesi mio malgrado. Anche se non la amavo, mi sentivo in colpa
per averla abbandonata alla nostra festa nuziale. In un certo senso, quella era la cosa peggiore che
potessi fare a una ragazza come lei.
Damon alzò gli occhi al cielo. «Non ti preoccupare. Non si sono nemmeno accorti della tua
assenza».
«Quindi non li hai ancora uccisi?»
«Chi ha detto che avevo intenzione di ucciderli?», chiese con aria innocente. «Credi che io sia
una specie di mostro?»
«Sì», risposi.
«Be’, sono come tu mi hai fatto», disse, alzando il cappello.
«Non rendi le cose più facili», borbottai.
«Devi avermi scambiato per qualcuno che si preoccupa di renderti la vita più facile», disse
Damon, improvvisamente freddo, fulminandomi con lo sguardo.
«Sai, ce l’hai messa proprio tutta per essere sicuro di restare nella mia vita», gli feci notare.
«Sei sicuro che sia solo per rendermi infelice?».
Mi fissò. «Dove vuoi arrivare?»
«Io credo che tu abbia bisogno di me, Damon», ringhiai. «Penso che sotto la tua rabbia, tu sia
spaventato e inorridito da quel che sei diventato. Io sono l’ultimo legame con la tua umanità, l’unica
persona che sa chi sei. E sarò l’unico a conoscerti davvero per il resto dell’eternità».
Damon mi guardò con gli occhi socchiusi.
«Fratello, tu non sai niente di me», sibilò.
Spalancò la portiera della carrozza, si sporse e si diede lo slancio verso l’alto. Un rumore sordo
indicò che era atterrato sul tetto. Misi la testa fuori dal finestrino e guardai in alto.
Osservai orripilato Damon che afferrava il cocchiere e gli squarciava la gola, succhiando solo un
paio di sorsate prima di gettarlo in strada.
«Damon! Fermati!», urlai, ma era troppo tardi. Cercai di scendere dalla carrozza, per aiutare
l’uomo ferito, ma Damon sporse un braccio e mi spinse di nuovo dentro, mentre svoltava un angolo
a tutta velocità.
Appollaiato sul sedile del vetturino, con la bocca coperta di sangue, Damon frustava i cavalli
schiumanti, spingendoli in una corsa sfrenata. E così noi, due fratelli, ci dirigemmo a rotta di collo
verso nord, uno trascinato suo malgrado e l’altro alla guida, come Satana che rapisce un dannato.
19
Quando arrivammo dai Sutherland, il nostro cavallo aveva la bocca coperta di schiuma, gli occhi
rovesciati all’indietro e cerchiati di bianco.
«Non è un granché come cavallo da corsa», disse Damon con indifferenza, saltando giù e
dandogli una pacca sul collo. «Non mi sorprenderebbe se morisse per l’affanno».
Appena scesi dalla carrozza, un tanfo di putrefazione assalì le mie narici: sembrava di essere in
un mattatoio. «Penso che potrebbe essere già morto», dissi con circospezione. Feci un respiro
profondo e mi calmai. Dovevo essere pronto per quel che mi attendeva, che fosse un attacco di
Damon ai Sutherland o la prima notte con la mia sposa. Per quest’ultima evenienza, sarebbe stato
difficile tener fede alla mia promessa di non soggiogare più gli umani…
Mi feci forza e mi diressi alla porta.
«Non così in fretta, fratello», disse Damon, posandomi una mano sul petto.
Poi infilò le dita nel mio taschino con l’agilità di un borseggiatore e sfilò l’assegno che mi aveva
compilato Winfield. «Avrò bisogno di questo», spiegò allegramente.
«Oh, certo. Prendere i soldi senza lasciare tracce», dissi con amarezza. «Molto meno ovvio che
rapinare una banca. Allora che mi dici del cocchiere? Un cadavere in mezzo alla strada…».
«Il cocchiere? Non se ne accorgerà nessuno», rispose, palesemente sorpreso del mio
interesse. «Guardati attorno, Stefan. Per strada la gente muore in continuazione. Quell’uomo non è
nessuno».
Damon era diventato il tipo di vampiro che non si fa problemi a uccidere anche quando non ne
trae alcun beneficio, e non ci pensava due volte a commettere un omicidio. Nei primi giorni dopo la
trasformazione, quando uccidevo, lo facevo sempre per sete o per autodifesa. Non per
divertimento. E mai per il piacere dell’atto in sé.
«Inoltre, è una cosa che ti irrita davvero tanto», aggiunse con un ghigno. «Non è di questo che si
tratta, in fondo?».
Abbozzò un inchino e mi invitò a entrare per primo nella nostra nuova casa. Guardando la
splendida facciata bianca e i gargouille ghignanti, desiderai che non mi avessero mai invitato a
entrare, che mi avessero costretto a restare fuori per sempre, una miserabile creatura confinata nel
parco.
E poi qualcuno lanciò un urlo.
Io e Damon ci precipitammo dentro, scardinando la porta.
Margaret era in soggiorno, bianca come un lenzuolo, con le mani sulla bocca. E il motivo era
evidente.
C’erano dappertutto schizzi di quella che la mia mente sconvolta identificò come vernice nera,
finché l’odore non m’investì le narici con la forza di un treno: sangue. Sangue umano. Litri e litri che
colavano lungo le pareti e si coagulavano in pozze sul pavimento. Mi colse di sorpresa e i miei
sensi da vampiro impazzirono per quell’abbondanza.
Damon si teneva una mano sulla faccia, come se cercasse di soffocare le sensazioni, e con
l’altra mano indicava il pavimento.
All’inizio vidi solo un paio di gambe scomposte sul tappeto, inguainate nelle calze. Sembrava
che qualcuno avesse bevuto troppo e fosse crollato a terra. Poi mi accorsi che non erano attaccate
a un corpo.
«No…», mormorai, cadendo in ginocchio per l’orrore.
I corpi di Lydia, Bridget, Winfield e sua moglie erano a pezzi e sparsi per la stanza.
Quella che era diventata la mia famiglia e che avevo giurato di proteggere, gli umani innocenti
che stavo cercando di tenere al sicuro dalle tendenze psicopatiche di Damon, erano tutti morti. Ma
non erano solo stati assassinati. Erano stati fatti a pezzi e brutalizzati.
«Che cosa hai fatto?», ringhiai a Damon, con gli occhi rossi d’ira e il volto che mostrava i primi
segni dalla mutazione. «Che cosa hai fatto?».
Ero sul punto di spezzargli il collo. Più semplice di così. Mio fratello era un mostro e io avrei
dovuto ucciderlo da un pezzo, prima che avesse l’opportunità di distruggere le vite degli altri.
Ma Damon sembrava sconvolto quanto me. I suoi occhi azzurro-ghiaccio erano sgranati e
mostravano una genuina sorpresa.
«Non sono stato io», disse. Margaret scoccò un’occhiata assassina. Da come l’aveva detto
sembrava che avrebbe anche potuto massacrarli lui, solo non così in fretta. Non quella volta.
«Ti credo», disse Margaret con un filo di voce, scuotendo la testa con inconsolabile mestizia.
Ero sorpreso. Perché, dopo tutte quelle domande, tutte quelle occhiate in tralice e le
discussioni, ora gli credeva? Perché proprio lei che, a ragione, aveva supposto che mio fratello
fosse solo interessato ai soldi e che sarebbe scappato appena li avesse ottenuti, credeva che lui
non fosse un assassino? Era strano, ma anch’io gli credevo, se non altro per la durezza del suo
tono di voce.
Margaret si girò verso di me, come se mi avesse letto nel pensiero. «Riesco sempre a capire
quando qualcuno mente», disse con semplicità. «È un dono, credo».
Pensai a quel che aveva detto Bram, a come Margaret l’avesse ferito con una semplice
occhiata. Mi sfiorai l’anello pensando a Emily, la strega che lo aveva incantato per proteggermi dal
sole. Era possibile che anche Margaret avesse quei poteri?
Feci per chiederglielo, ma i suoi occhi erano pieni di lacrime. Non era il momento per un
interrogatorio. Feci un respiro profondo, mi alzai ed esaminai quel che restava dei corpi, cercando
di scoprire un indizio o un movente del massacro.
L’altra metà del corpo della signora Sutherland era distesa a pancia in giù accanto al divano.
Aveva il braccio teso, come se cercasse di alzarsi e strisciare verso la figlia più piccola.
Bridget aveva la gola squarciata, le braccia e le gambe spezzate. Solo il suo viso era intatto.
Nella morte sembrava una bambina,˗ com’era sempre stata, in fondo, con il delicato rossore delle
guance che lentamente sfumava in un bianco di ghiaccio, e le labbra leggermente dischiuse, come
se fosse solo addormentata. I suoi occhi, grandi, verdi e limpidi come quelli di una bambola di
porcellana, erano ancora spalancati dall’orrore. Le posai dolcemente una mano sul viso e le
abbassai le palpebre.
Lydia era rimasta impietrita con una mano sul volto, come la scultura funebre di un antico
romano, dignitosa anche nella morte. Distolsi lo sguardo dal torso devastato, con le ossa bianche
della schiena che le trapassavano il torace spaccato.
Winfield sembrava un grosso animale morto, un bufalo abbattuto nel fiore degli anni. Lungo il
fianco aveva dei tagli sorprendentemente precisi, come se qualcuno avesse cercato di macellarlo.
Infine mi avvicinai a Margaret e la abbracciai, facendole girare la testa per impedirle di
guardare ancora quella carneficina. Lei si strinse a me, ma s’irrigidì per la sorpresa quando le
sfiorai la nuca.
Un istante dopo si allontanò. I lineamenti contratti per lo shock si stavano lentamente rilassando.
Sprofondò su una sedia e guardò di nuovo la stanza, stavolta con il volto inespressivo.
«Li ho trovati così quando sono arrivata», cominciò a raccontare adagio. «Sono rimasta dai
Richard più a lungo degli altri, perché vi cercavo e volevo trovare qualcuno che vi avesse visti
allontanarvi. Bram, Hilda e la solita cricca se n’erano andati prima, per preparare qualche stupido
scherzo per la vostra prima notte di nozze. Una serenata oscena o qualcosa del genere. Ero sicura
che voi due foste già partiti per l’Europa con la dote».
«Europa», disse Damon sovrappensiero. Gli lanciai un’occhiataccia.
«La porta era aperta», continuò. «E il tanfo…».
Tra noi calò il silenzio. Non sapevo cosa dire o fare. In normali circostanze, e se fossi stato
umano, la mia prima mossa sarebbe stata di portarla fuori da lì e cercare aiuto.
«Hai chiamato la polizia?», chiesi all’improvviso.
Margaret incrociò il mio sguardo. «Sì. Saranno qui a momenti. E penseranno che siate stati voi,
sapete».
«Ma non è così», ripeté Damon.
Lei annuì, senza degnarlo di uno sguardo. La sua pelle aveva un pallore lattiginoso, come se un
po’ di vita l’avesse abbandonata quando la sua famiglia era morta. «Lo so, ma non siete nemmeno
innocenti».
«No, non lo siamo», disse Damon con un tono distaccato, guardando il corpo freddo di Lydia.
Per un momento, i suoi lineamenti si addolcirono e somigliò quasi a un umano in lutto. Poi scosse
la testa, come per destarsi da un sogno a occhi aperti. «Margaret, sono desolato per la tua
perdita», disse in modo frettoloso. «Ma Stefan e io dobbiamo scappare».
«Perché dovrei venire via con te?», lo sfidai. Il sangue mi faceva girare la testa e i pensieri
turbinavano febbrilmente nel mio cervello.
«Va bene, rimani pure qui. Fatti arrestare».
Mi girai verso Margaret. «Starai bene?».
Mi guardò come se fossi matto. «Tutta la mia famiglia è morta».
Parlò con una voce tremante, ai limiti della sanità mentale. Allungai la mano e le sfiorai una
spalla. Avrei voluto poter dire o fare qualcosa per lei. Nessuno meritava una cosa del genere. Ma le
parole non le avrebbero restituito la sua famiglia.
Mentre io e Damon ci apprestavamo ad andarcene, udimmo il carro della polizia che si fermava
davanti all’edificio e gli ordini secchi del capo ai suoi uomini.
«Usciamo dal retro», dissi. Damon annuì e attraversammo di corsa la sala da pranzo e la
cucina, diretti alla porta che dava sul cortile. Stavo quasi per toccare la maniglia, quando Damon mi
afferrò e si portò un dito davanti alla bocca. Si appiattì contro la parete, facendomi segno di
imitarlo. I miei sensi da predatore colsero quel che Damon aveva già capito: c’era un uomo, anzi,
una coppia di poliziotti, ad aspettarci fuori con le pistole spianate. Avevano previsto che saremmo
scappati da quella parte.
«Me ne libero subito», disse Damon.
«No! Di sopra», bisbigliai. «Dalle finestre».
«Va bene», sospirò Damon, e cominciammo a strisciare in silenzio su per le scale di servizio.
Un fragoroso colpo di pistola sparato nell’atrio ci fece raggelare.
«Tu, di sopra, voi due, in salotto!». Una voce aspra stava abbaiando ordini. Dal rumore dei
passi pareva che un intero plotone di poliziotti stesse perlustrando la casa.
Damon e io rinunciammo a ogni tentativo di non far rumore e salimmo le scale più in fretta
possibile. In cima c’era una finestra a battenti che Damon spalancò trionfante, pronto a fare il salto
verso la libertà.
Di sotto, nei cortili laterali, c’era una dozzina di poliziotti armati, con i fucili puntati verso
l’edificio. E con la sua uscita teatrale, Damon li aveva già avvisati della nostra presenza.
Cominciarono a volare i proiettili.
Anche se non potevano ucciderci, ci avrebbero rallentato. Mi gettai sul pavimento, sentendo una
punta di piombo graffiarmi il collo.
«Passiamo dallo scivolo del carbone», suggerii. Senza aspettare risposta, mi precipitai di sotto
a velocità sovrumana, con mio fratello che mi seguiva da presso. Tutte le stanze al piano nobile
pullulavano di poliziotti, ma anche quelli che ci scorsero di sfuggita mentre correvamo verso la
cantina, non capirono bene cosa avessero visto: ombre confuse, un’illusione ottica.
L’oscurità dello scantinato non ci fu d’ostacolo, e arrivammo in un batter d’occhio alla stanza del
carbone, dietro la fornace. Forzai la porticina inclinata che si apriva sul viale e saltai fuori; poi mi
girai per dare una mano a mio fratello.
E mi trovai con una pistola puntata alla nuca.
Mi voltai lentamente e alzai le mani. C’era un piccolo assembramento della miglior borghesia
newyorkese, insieme a quasi tutto il vicinato, che era venuto ad assistere alla caccia all’uomo.
Io e Damon avremmo potuto sopraffarli tutti con un piccolo sforzo. E sembrava proprio che mio
fratello non vedesse l’ora di menar le mani.
Scossi la testa, bisbigliando: «Resistendo all’arresto attireremmo troppo l’attenzione». La verità
era che sarebbe stato molto più semplice scappare in seguito, senza tutta quella folla che ci
guardava a bocca aperta. Damon lo sapeva bene quanto me.
Mio fratello fece un sospiro teatrale e strisciò fuori dallo scivolo, atterrando con un balzo
elegante.
Un agente si fece coraggiosamente avanti… ma solo dopo che i suoi uomini ci ebbero legati
con le mani dietro la schiena e strapazzati un pochino, tanto per farci vedere chi comandava.
«Siete in arresto per furto di beni d’ingente valore, omicidio e per qualsiasi altra cosa troverò a
vostro carico. Per la morte dei Sutherland sarete impiccati a un albero a Washington Square»,
sibilò il poliziotto fra i denti dritti e regolari.
Ci trascinarono fuori dal cortile, spingendo più del necessario. A furia di strattoni e con un calcio
finale ci sbatterono nel retro del carro, e poi chiusero violentemente la porta alle nostre spalle.
«Erano brave persone», sibilò il capo in faccia a mio fratello, attraverso le sbarre.
Damon scosse la testa. «Ne ho viste di migliori», mi sussurrò.
Attraverso la grata del carro fissavo la villa che nelle settimane precedenti avevo chiamato casa.
Incorniciata nel vano della porta, con i capelli neri che facevano da severo contrappunto alle luci
calde della casa, c’era Margaret. Le lacrime le scorrevano sulle guance, mentre diceva qualcosa a
voce così bassa che persino le mie orecchie sensibili colsero a malapena.
«Chiunque sia stato, la pagherà».
20
Il palazzo di Giustizia e Casa di Detenzione di New York era un edificio di pietra, tozzo e
sgraziato, che si ergeva sulla strada come una vecchia lapide. L’interno era il triste ritratto di una
scena carceraria, con poliziotti dal volto tetro e criminali dall’aria stanca.
E noi: vampiri intrappolati nel sistema giudiziario umano per un crimine di sangue che non
avevamo commesso. Era una situazione paradossale, ma esserne consapevoli non migliorava le
cose.
Un giovane poliziotto ci fece marciare, con le mani legate dietro la schiena, su per parecchie
rampe di scale di legno consunto, fino all’ufficio del capo. Il direttore occupava solo una piccola
porzione di una stanza piuttosto grande. Lungo le pareti erano allineati i ritratti dei ricercati, uno dei
quali aveva l’occhio trapassato da un grosso chiodo. Lo stesso direttore era un veterano brizzolato
con una barba nera che gli copriva tutto il volto, tranne nel punto in cui la pelle era tagliata in
diagonale da una cicatrice.
Esaminò il fascicolo del caso ed emise un fischio sommesso.
«L’intera famiglia Sutherland? Sarà su tutti i giornali stanotte».
Sussultai sentendo una tale mancanza di sensibilità da parte di un normale essere umano. Con
che genere di mostri aveva a che fare per essersi ridotto al punto di considerare il massacro di
un’intera famiglia una semplice notizia?
«Non siamo stati noi», dissi.
«No, certo che no», rispose in tono burbero, facendo scorrere un dito lungo la cicatrice. «Tutti
quelli che finiscono qui non hanno mai fatto niente. Ma lo stabilirà la corte, e ognuno avrà quel che
merita».
Fummo gettati senza tante cerimonie in una cella. Era più grande di quella di Mystic Falls, che
era fatta per ospitare una sola persona. Lì Jeremiah Black aveva passato molte notti a smaltire la
sbornia. Non mi ero mai aspettato di vedere una cella dall’interno.
«Non siamo stati noi», piagnucolò Damon non appena la guardia fu uscita, imitandomi e
scuotendo la testa. «Potevi renderci più ridicoli di così?»
«Cosa c’è, hai paura che ci prendano per delle checche?», chiesi. «Avresti preferito che
mostrassi i canini?».
Un risolino stridulo venne da un angolo della cella, dov’era seduto un altro prigioniero,
accasciato contro il muro. I suoi capelli si ritiravano sulla testa in una profonda stempiatura e aveva
le braccia di uno scaricatore di porto.
«Bei vestiti», disse con un ghigno malizioso, squadrando i nostri abiti da cerimonia e le guance
ben rasate. «Per cosa siete dentro, voi riccastri?»
«Abbiamo assassinato una famiglia», rispose di getto Damon. «E tu?»
«Ho spaccato la testa a quelli come voi», rispose altrettanto svelto, scrocchiandosi le nocche.
Sferrò un gancio a mio fratello, ma Damon alzò le braccia e, con un movimento delle mani più
veloce dell’occhio umano, deviò il colpo e mandò l’uomo a sbattere contro il muro con un forte tonfo.
Il gigante non barcollò neppure, ma crollò come un sacco di patate, in un ammasso senza vita.
Nessuno degli agenti accorse, e mi chiesi se le zuffe in cella fossero normale amministrazione.
Damon sospirò mentre aggirava l’uomo. Si sedette sul pavimento con un gesto di spossatezza
che era quasi umano, e per un istante mi ricordò il fratello che conoscevo una volta.
«Perché finisco sempre in gabbia con te?»
«Be’, almeno stavolta non ti faranno morire di fame», risposi con sarcasmo.
«No. Non c’è nessun rischio che accada», disse Damon. Osservò i poliziotti dietro le sbarre con
i freddi occhi azzurri, valutandoli uno a uno. Poi appoggiò la fronte alla parete e annusò controvoglia
la vernice scrostata. «E penso che qui ci sia più di una possibilità di trovare un paio di ratti per te».
Sospirai e, strisciando con la schiena sul muro, mi sedetti per terra accanto a lui. Non capivo
quel nuovo Damon. I suoi sbalzi d’umore erano inquietanti. Un momento era il vampiro senz’anima
che uccideva senza rimorso, il momento dopo somigliava di nuovo al mio vecchio amico d’infanzia.
«Qual è il piano?», chiesi.
«Lo stai osservando adesso», disse, alzandosi e indicando il cadavere ai suoi piedi. «Guardia!
Uomo a terra».
Quando la guardia si avvicinò e vide il corpo sul pavimento sembrò seccata, ma non sorpresa.
Non si appoggiò alle sbarre: aveva abbastanza esperienza da sapere di non doverlo fare. Ma era
vicino a sufficienza. Damon spalancò gli occhi e dilatò le pupille.
«Dimentica che siamo mai stati qui. Dimentica il nostro aspetto. Dimentica chi ci ha portati qui, i
nostri nomi e tutto quel che ci riguarda».
«Chi sarebbe l’altro?», chiese la guardia, ipnotizzata ma lenta di comprendonio.
«L’uomo con cui sono venuto», rispose Damon seccato, indicandomi. La guardia annuì
debolmente. «Cancellaci dalla tua mente. E poi… mandaci le altre guardie, capito?».
L’agente tornò al suo posto come un sonnambulo, con aria stordita, poi piegò la testa di lato
come se avesse ricordato qualcosa all’improvviso. Andò da una delle guardie di pattuglia e indicò
la nostra cella. Ma non indicò noi. Era come se io e Damon non esistessimo più nella sua realtà.
«Fuori uno», mormorò mio fratello. Sembrava teso. Mi chiesi di nuovo quante persone riuscisse
a controllare contemporaneamente.
Si avvicinò la seconda guardia. Una cicatrice gli attraversava la faccia, sigillandogli un occhio, e
mentre camminava si batteva il manganello sulla coscia. Ma prima che Damon potesse
soggiogarlo, disse l’ultima cosa che ci saremmo mai aspettati di sentire.
«Il vostro avvocato è qui».
Guardai mio fratello. Lui mi restituì lo stesso sguardo sorpreso. Alzò un sopracciglio come per
dire: sei tu che hai organizzato tutto questo?
Scossi appena la testa, perplesso. Damon drizzò le spalle mentre la porta del braccio si apriva
producendo un forte suono metallico. Un tanfo di morte e uova marce invase la cella quando entrò
l’avvocato.
Era un gigante. Più grosso del prigioniero che Damon aveva mandato al tappeto, con braccia
lunghe e un torace enorme. Aveva delle mani mostruose, con le dita tozze strette su una cartellina di
pelle.
Entrò a passi lenti e misurati, con l’andatura cauta di una persona o di una creatura troppo
grossa e pericolosa per ciò che la circondava, come una pantera nella sua piccola gabbia da circo.
Indossava un vestito pregiato di lino e seta, comodo e dal taglio esotico, che permetteva al suo
corpo massiccio di muoversi liberamente.
E i suoi occhi…
Erano piccoli e azzurri, ma non celesti come quelli di mio fratello. Erano screziati, quasi
lattiginosi, di una saggezza troppo antica che strideva con il suo aspetto, e si muovevano con scatti
rapidi ma irregolari, come quelli di un uccello o di una lucertola, lasciando intuire un’intelligenza
straordinaria.
Quell’uomo non era umano.
Non sembrava nemmeno un vampiro, non del tutto. Ma s’intravedeva qualcosa, appena sotto la
superficie, in attesa di esplodere. Il Potere che irradiava era più grande di qualsiasi cosa avessi
mai sperimentato. E l’istinto mi diceva che, anche se si era presentato come il nostro avvocato,
quell’uomo non era lì per aiutarci.
Ci osservò e abbozzò un sorriso.
«Potete andare», disse alla guardia alle sue spalle. Non dovette neppure alzare la voce per farla
riverberare fra le pareti spoglie della prigione fino alle celle più lontane. Se ne andarono tutti. In
fretta e alquanto sollevati.
Fummo lasciati soli con quella bestia.
«Buonasera, signori», disse, sorridendo in un modo che mi fece sentire male.
«Chi sei?», chiese Damon, nell’evidente tentativo di sembrare annoiato. Ma percepii la paura
nella sua voce.
«Chi sono?», echeggiò l’uomo con un accento marcato. «A che serve conoscere il nome
dell’uomo che vi ucciderà? Pare che non abbia dato alcun conforto alle vostre mogli».
Le parole piombarono come sassi sul pavimento, pesanti e definitive. L’uomo, con fare
disinvolto, posò una mano gigantesca su una sbarra, come per riposarsi.
«Hai ucciso i Sutherland», mormorai.
«Sì». Sorrise e arricciò le labbra. «È stato divertente».
«Li hai fatti a pezzi come bambole di carta», dissi, pur sapendo che avrebbe potuto fare a pezzi
anche me e spargere le mie membra come i petali che avevano adornato il mio altare nuziale.
«Tu… li hai distrutti».
«Giovane vampiro, devi conoscere la fame della bestia», disse con un sorriso per niente
divertito. «Ci sono altri tipi di fame, per altre cose, che una volta destate non possono placarsi
finché non sono state saziate».
Il bianco dei suoi occhi diventò rosso fuoco, e nella cella cadde uno strano silenzio, come se
qualcuno stesse evocando un grande Potere. Riuscivo letteralmente ad annusare la paura che si
avvolgeva in grosse spire attorno a mio fratello.
Io, invece, cominciavo ad arrabbiarmi.
L’ira mi ribolliva nello stomaco e si irradiava nel mio corpo. Quell’uomo aveva macellato una
famiglia innocente e ne aveva tratto piacere. Ecco cosa significava la mia nuova vita da vampiro:
infiniti strati di malvagità e, proprio quando credevo di aver raggiunto il fondo, un nuovo carico di
orrore e distruzione.
«Perché?», domandai, avanzando finché me lo permettevano le sbarre. «Cosa ti avevano
fatto?»
«Perché?», chiese la bestia. Si sporse in avanti, scimmiottando la mia audacia. Quando giunse
a pochi centimetri dalla mia faccia, fui inondato da un fetore nauseante di sangue vecchio e
decomposizione. Era come se migliaia di anni di uccisioni e smembramenti lo seguissero ovunque
andasse, un trofeo per ogni cadavere di cui era responsabile.
«Risarcimento», sillabò con cura.
«Risarcimento?», ripetei.
Scoprì i denti. «Sì, risarcimento. Per aver preso Katherine. E distrutto ogni possibilità di
infrangere la maledizione».
Katherine? Che cosa aveva a che fare lei con tutto ciò, con l’abominio che avevamo di fronte?
Con i Sutherland? E di che maledizione parlava?
Guardai Damon. Lei aveva sempre confidato più a lui che a me i dettagli sulla propria vita e
sulla condizione di vampiro. Ma mio fratello aveva gli occhi sgranati e boccheggiava come un
pesce, ancora più scioccato di me nell’udire il suo nome.
Pensai alle beate e ignare settimane che avevo trascorso come suo schiavo e amante, senza
mai immaginare che lei mi avrebbe condotto dritto all’inferno.
Il gigante indietreggiò di qualche passo, includendo Damon nel suo sguardo osceno.
«Sì, comprendete adesso?», disse, annuendo. Ma noi non avevamo capito nulla.
«Io…», cominciò Damon.
«Silenzio!», ruggì il mostro. Schiacciò di colpo il viso contro le sbarre e allungò una mano,
sfiorando la gola di Damon con l’unghia annerita. «Osi negarlo?».
Con raggelante lentezza, piegò da un lato una delle sbarre, come se fosse una tendina. Il
metallo lanciò un grido di agonia. In un lampo di tenebra, il mostro passò attraverso le sbarre e ci
strinse le mani enormi intorno alla gola.
«Voi prendete Katherine. Io prendo le vostre nuove vite. Occhio per occhio, come amate dire
voi. Giusto?»
«Io… non so di cosa tu stia parlando», dissi con voce strozzata.
Il mostro gettò indietro la testa e rise.
«Certo che no». Si raddrizzò di scatto, fissandomi con i suoi terribili occhi e con un ghigno sulle
labbra. Non mi credeva. «Katherine non ha mai menzionato Klaus?».
Anche dopo la sua morte, Katherine continuava a perseguitarci. Guardai Damon. Sul suo viso
c’era un’espressione affranta e addolorata. Si dissolse in un batter d’occhio, ma per un istante mi
era parso di vedere il mio vecchio fratello. Era sconvolto dalla scoperta che Katherine, l’amore della
sua vita, avesse avuto a che fare con una creatura così spietata come quella che avevamo di fronte.
Provai pena per lui.
Senza che le avessi evocate, mi tornarono in mente diverse immagini di Katherine. I suoi occhi
ambrati che esigevano attenzione. I lunghi capelli neri che le cadevano ondulati intorno al collo,
come se li avesse scompigliati ad arte. La sua vita sottile e il sorriso malizioso. Era davvero
irresistibile.
E io e Damon non eravamo stati gli unici ad aver subìto il suo fascino.
L’uomo aumentò la stretta sul mio collo, e sentii scricchiolare le vertebre. Ancora un attimo e
saremmo caduti sul pavimento, con il collo spezzato come quello del prigioniero che Damon aveva
ucciso con tanta facilità.
Poi, tutt’a un tratto fui libero. Damon cadde a terra accanto a me, sciolto dalla stretta di pietra
che l’aveva immobilizzato.
Da fuori la cella, il mostro ci rivolse un sorriso perverso.
«Ci vediamo più tardi», promise.
E poi, come per un ripensamento, rimise a posto la sbarra, con un dito solo.
«E ricordate: ai miei occhi non sfugge niente».
21
Io e Damon rimanemmo nella cella per parecchi minuti dopo che l’uomo se ne fu andato, troppo
storditi persino per contemplare l’idea della fuga. Le guardie non tornarono con le chiavi. Non
potevo biasimarle.
Imprecai, gettandomi contro le sbarre. Sembrava che qualunque cosa decidessi di fare,
qualunque strada prendessi, le cose non facessero che peggiorare. E i Sutherland… erano stati
solo spettatori innocenti, spazzati via in un cammino di distruzione solo perché si erano trovati nel
posto sbagliato al momento sbagliato. Anche se mio fratello non aveva effettivamente provocato la
loro morte, ne era responsabile. Mi girai verso di lui, pronto a farlo a pezzi.
E poi vidi l’espressione sul suo volto.
I suoi occhi erano vitrei e si era appoggiato al muro per sorreggersi. Aveva avuto la stessa
espressione stordita per settimane dopo il nostro risveglio come vampiri e la scoperta che
Katherine era morta.
«Cos’era quello?», sussurrò, voltandosi finalmente a guardarmi.
Ma io non ne avevo idea. Sapevo solo che era la creatura più potente, pericolosa e letale che
avessi mai incontrato. La collera abbandonò mio fratello, lasciandolo svuotato e stanco. «Non ne
sono sicuro, ma penso che mi abbia lasciato un messaggio», dissi, ricordando la scritta col sangue
sul muro del palazzo dei Sutherland. «Ma che cosa voleva dire su Katherine? In che rapporti era
con lei?».
Damon scrollò le spalle. «Non ne ho idea. Non mi ha mai parlato di quella… cosa».
«Ha detto che gliel’abbiamo portata via. Che diamine significa? Di che maledizione stava
parlando? Emily ha lanciato un incantesimo su qualcuno?», dissi. Cominciai a camminare avanti e
indietro, con la mente in subbuglio.
«Significa che crede che noi l’abbiamo uccisa, suppongo. In effetti, l’hai ammazzata tu, fratello»,
rispose.
Indispettito, Damon si sedette, stese le gambe e si appoggiò alla parete di pietra, mettendo le
mani dietro la testa, a mo’ di guanciale. Non avrei ottenuto altre risposte da lui.
Scivolai lungo le sbarre e affondai la testa tra le mani, rievocando i miei giorni con Katherine.
Aveva mai detto nulla sul suo passato? Si era fatta sfuggire qualcosa? Ma a quel tempo ero
completamente in balìa di lei, tanto che era impossibile capire cosa fosse avvenuto realmente e
cosa lei mi avesse costretto a credere. Rammentavo i morsi, ma non avevo alcun ricordo di lei che
mi faceva bere il suo sangue. Tuttavia, doveva averlo fatto spesso, dacché quando mio padre mi
aveva sparato, avevo in circolo una quantità del suo sangue sufficiente a trasformarmi in vampiro.
Era buffo se ci pensavo, ma Katherine mi aveva creato. Eravamo quasi figli suoi.
Il flusso dei miei pensieri si interruppe. «Katherine ti ha mai detto qualcosa sul proprio sire?»,
chiesi, dando voce a una spaventosa intuizione. «Sul vampiro che l’ha creata?».
Damon mi guardò, scuotendosi dal suo malumore. «Tu credi…?».
Annuii.
Si accasciò di nuovo e batté la testa contro il muro. Era stato davvero innamorato di Katherine.
Mi chiesi se incontrare il suo creatore avesse fatto apparire il nostro piccolo rendez-vous a Mystic
Falls come un granello di sabbia nella vastità del tempo.
«Suppongo che dovremmo chiamare una guardia e costringerla a liberarci», suggerii esausto.
Di colpo sentimmo un trambusto nel corridoio e ci fermammo. Giungevano dei tonfi attutiti,
come di corpi caduti a terra.
Poi qualcuno urlò. Un grido acuto che ci trafisse i timpani, tanto che fu difficile capire se venisse
da un uomo o da una donna. Poi giunse il rumore stridente di una scrivania spostata con violenza e
di quella che probabilmente era una sedia di legno fracassata contro il muro.
Mi alzai. Damon fece lo stesso.
Ci guardammo l’un l’altro. Nell’improvviso silenzio si udiva distintamente il ticchettio dell’orologio
da tasca che mi aveva dato Winfield.
La porta del braccio in cui eravamo rinchiusi si aprì di nuovo ed entrò una ragazza con pantaloni
da uomo, bretelle nere e una lunga treccia bionda sulle spalle.
«Lexi!», esclamai stupito.
«Sono stufa di tirarvi fuori di prigione», disse, agitandoci le chiavi davanti agli occhi. «Dopo i
guai che avete combinato, avrei dovuto farvi passare la notte qui, per darvi una lezione», scherzò.
Allungai il braccio tra le sbarre per stringerle la mano libera. «Non sono mai stato così felice di
vedere qualcuno».
«Non ne dubito», rispose secca Lexi, ma un piccolo sorriso le curvò le labbra.
Damon alzò gli occhi al cielo. «Stavamo proprio per liberarci da soli, grazie tante».
«Non ho dubbi neanche su questo. Pensavo solo di accelerare la fuga», disse. Storse il naso, e
il suo tono piatto suggeriva che non approvava del tutto la sua esistenza. L’ultima volta che l’aveva
visto, aveva appena ucciso Callie e stava per fare la pelle anche a me.
«Così hai messo k.o. l’intero distretto?», chiese Damon, raddrizzandosi le spalline della giacca.
Lexi aprì l’ultima serratura. La porta si spalancò di scatto e corsi ad abbracciarla. «No, solo
qualche agente. Gli altri li ho soggiogati. Ad alcuni di noi non piace la violenza inutile… o i disordini
da dover spiegare in seguito», disse, quasi soffocata dal mio abbraccio. La lasciai andare e lei
fece un cenno verso la porta. «Usciamo da qui prima che spunti qualcun altro».
«Io copro sempre le mie tracce», disse Damon, sulla difensiva, mentre ci precipitavamo fuori
dall’area di detenzione ed entravamo in quella amministrativa. Diversi poliziotti erano seduti alle
loro scrivanie, intenti a esaminare i fascicoli, indifferenti alla fuga di due prigionieri e allo stato di
confusione generale. Le scrivanie erano state spinte da parte, e sul pavimento, tra i frammenti e le
schegge di quella che una volta era stata una sedia, giaceva l’uomo che ne era stato il proprietario,
con un rivoletto di sangue che gli colava dalla testa. Ma aveva gli occhi aperti e bisbigliava senza
posa una specie di ritornello.
«Testa dura quello lì», disse Lexi.
«Come hai fatto a trovarci?», chiesi, seguendola giù per le scale.
«Un misterioso conte italiano con i capelli neri, gli occhi azzurro ghiaccio e un’attitudine al
melodramma irrompe sulla scena sociale newyorkese e sposa in tutta fretta la ragazza più
appetibile in circolazione?», disse, roteando gli occhi. «E poi c’erano le vostre foto sulle pagine
mondane di tutti i giornali».
Damon ebbe almeno la delicatezza di mostrarsi imbarazzato.
«Io copro sempre le mie tracce», lo scimmiottò Lexi. «Ci sono molti modi per diventare vampiri
ricchi e potenti… nessuno dei quali implica l’irruzione nella scena sociale newyorkese…».
«… e il matrimonio con la ragazza più appetibile in circolazione. D’accordo», ammise Damon.
«Almeno l’ho fatto con stile».
Appena usciti dalla prigione, mi travolse l’aria fredda della sera. Le stelle avevano appena
iniziato a scintillare nel cielo notturno e i lampioni a gas gettavano un caldo bagliore sulla strada.
Era una notte splendida, di quelle che Bridget, Lydia, Winfield e la signora Sutherland non
avrebbero gustato mai più. Tutto per colpa mia, di Damon e di Katherine.
Ero arrivato a New York solo per scappare. Scappare da Damon, dal ricordo di Callie, dai
vampiri, da Mystic Falls, da Katherine… Eppure mi avevano seguito tutti, come un’ombra pesante.
Allora capii che non potevo sfuggire al mio passato, non del tutto. Certe cose oscure non
sbiadiscono col tempo, ma continuano a riverberarsi attraverso i secoli.
Speravo soltanto che Margaret fosse al sicuro da qualche parte, lontano dalla bestia infernale
che aveva massacrato tutta la sua famiglia.
22
Dopo esserci allontanati di parecchi isolati dal distretto di polizia, ci fermammo all’ombra di un
acero spoglio. «Be’, grazie per il salvataggio. Non che non potessi farcela da solo, alla fine», disse
Damon. «E ora, penso di essere pronto per una bevuta. Adieu, mes amis». Ci salutò e girò sui
tacchi, scomparendo nella notte.
«Che liberazione», mormorò Lexi.
«Che vuoi dire?», chiesi.
«L’hai sentito, no? Andiamo a bere qualcosa», disse, facendo una smorfia, e mi prese
sottobraccio. M’incamminai con Lexi, ma mi sembrava sbagliato, in un certo senso, che riuscissi a
continuare la mia vita con tanta disinvoltura quando sapevo che i Sutherland erano stati assassinati,
e che era successo in parte per colpa mia. Cosa avrei raccontato a Margaret? Meritava di
conoscere in qualche modo la verità, nonostante non fosse possibile ottenere giustizia. Creature
come quella che aveva ucciso la sua famiglia non subivano le conseguenze delle proprie azioni. Le
vite degli esseri umani erano più brevi di quelle dei vampiri, ma questo non diminuiva il loro valore.
Anzi, le rendeva ancora più preziose.
«Allora, aggiornami un po’», disse Lexi, stringendomi il braccio e distogliendomi dai miei
pensieri tetri. «Che cosa è successo da quando hai lasciato la nostra solare cittadina?»
«Oggi mi sono sposato», risposi.
Sgranò gli occhi.
«Adesso ho proprio bisogno di bere», dichiarò. «Stefan Salvatore, tu mi farai morire. Ho sentito
parlare di un nuovo locale davvero carino che importa la vodka direttamente da San Pietroburgo e
la conserva in fantasiose bottigliette di ghiaccio…».
Continuò a chiacchierare, conducendomi per le strade di quella che credevo fosse la mia città.
Ma New York con Lexi appariva sotto una luce completamente diversa. Io ero sempre rimasto nelle
ombre e nei vicoli, mentre lei sapeva muoversi nei luoghi della sfavillante vita notturna. Arrivammo
presto in quello che sembrava un elegante club privato. Pesanti tappeti rossi coprivano ogni
centimetro del pavimento, e lacche dorate, nere e scarlatte rivestivano tutto il resto, inclusa l’enorme
scultura di un uccello di fuoco appesa al soffitto.
Si avvicinò un maître e, dopo un’occhiata a Lexi, ci scortò a un tavolo privato dietro uno
stravagante séparé. C’erano cuscini di velluto rivestiti d’oro con fin troppe nappe per essere
davvero comodi. Da una stanza vicina giungevano attutite le note di un pianoforte, e allora capii
perché Lexi avesse scelto quel locale: a New Orleans chiedeva sempre a Hugo, un membro della
sua famiglia di vampiri, di suonare per lei.
«Allora?», disse, dopo esserci sistemati e aver ordinato qualcosa.
Per un attimo l’immagine dei corpi insanguinati dei Sutherland mi ferì la vista.
«Sul serio, come facevi a sapere dove ci trovavamo?», chiesi, cambiando argomento. Le
notizie non giravano così in fretta, a meno che non riguardassero la guerra. In ogni caso, le ci
sarebbe voluta minimo una settimana di viaggio dalla Louisiana a New York, sia col treno sia
correndo a velocità da vampiro.
«Ho chiesto a un mio amico di tenere d’occhio Damon. Ero preoccupata per te», ammise, con
uno sguardo imbarazzato. «So che sei in grado di prenderti cura di te, ma Damon è pericoloso,
Stefan, e non voglio che ti succeda niente di male».
Arrivò il cameriere con i nostri drink. Come promesso, le bottiglie erano racchiuse in un blocco
di ghiaccio azzurrino, con erbe e fiori pressati all’interno, freschi come lo erano il giorno in cui erano
stati congelati. Non riuscii a resistere: sfiorai con la punta di un dito un fiore vicino alla superficie e
sentii lo strato di brina che lo separava dalla mia pelle. Il calore di un essere umano avrebbe sciolto
il ghiaccio. La carne di un vampiro era più fredda, mantenuta in un simile stato di raggelata
perfezione perenne.
Il cameriere versò la vodka nei calici intagliati nella malachite verde.
Misi le mie mani sulle sue. «Grazie, Lexi. Per tutto quel che hai fatto. Non potrò mai ripagarti».
«No, non puoi», disse con allegria. «Ma puoi cominciare con il raccontarmi tutto. Dicevamo: ti
sei sposato?».
Così le raccontai di come avevo trovato Bridget ed ero stato introdotto nella famiglia dei
Sutherland, e dei folli piani di Damon. Lei rise e commentò ogni dettaglio con esclamazioni di
stupore. Immagino che da un punto di vista esterno, soprattutto da quello di un vampiro più anziano,
le macchinazioni di Damon potessero sembrare piuttosto ingenue.
«Oh, mio Dio», disse, incapace di smettere di ridere. «Un doppio matrimonio? Tu e Damon
insieme? E nessuno ha mangiato le damigelle?». Fece cenno al cameriere di portarle un’altra
bottiglia di vodka. «Oh, come mi sarebbe piaciuto esserci. Stefan! Non ti ho nemmeno preso un
regalo…».
Sorrisi, desiderando di poter rimanere lì seduto e continuare a guardarla ridere. Ma dovetti finire
il racconto.
«E sei sicuro che non sia stato Damon?», chiese tranquillamente, quando le raccontai
dell’omicidio dei Sutherland.
«Ci sono molte cose che non sono in grado di prevedere sul suo conto», ammisi. «Non so se ha
davvero intenzione di seguirmi fino in capo al mondo solo per rendere la mia vita miserabile,
persino dopo aver ucciso Callie. Ma sono sicuro che non ha niente a che fare col massacro. Era
sorpreso quanto me. E non è mai stato il tipo che nasconde le sue malefatte. Inoltre, gli ha creduto
anche Margaret, e sembra che lei abbia un sesto senso su queste cose», dissi.
«New York non è proprio in capo al mondo», disse, ma stavolta non c’era ironia nella sua voce.
«Comunque, è una strana coincidenza che un altro mostro abbia messo gli occhi proprio sulla
stessa famiglia che avete scelto voi».
«Non è stata per niente una coincidenza».
La faccia di Lexi divenne cinerea quando le riferii le parole dell’avvocato. Il suo viso si contrasse
in un’espressione che non le avevo mai visto prima: puro terrore.
«Descrivimelo», ordinò.
«Era enorme. Capelli biondi, occhi azzurri. Sembrava più vecchio del tempo», dissi,
sforzandomi di esprimere l’ancestrale senso di minaccia che avevo percepito. «Malvagio.
Emanava solo oscurità pura».
«Aveva… aveva un accento particolare?», chiese, esitante, come se conoscesse già la
risposta.
«Sì. Pensavo che fosse solo una sua caratteristica, qualunque cosa lui fosse. Ma doveva essere
polacco o russo. Ha detto qualcosa su un tizio di nome Klaus. Ti dice niente?».
Lexi colpì con un pugno la parte inferiore del tavolo e distolse lo sguardo.
«Chi era, Lexi?», domandai. Dovevo sapere. Se lui sarebbe stato il mio carnefice, se era lui
che aveva assassinato i Sutherland. Almeno avrei saputo chi era il mio nemico.
«Ha nominato Klaus?», chiese, parlando rivolta più al bicchiere che a me. «Tutti sanno di lui.
Era uno dei primi vampiri».
Sul ristorante sembrò calare il silenzio e le lampade a gas tremolarono. Strinsi il mio bicchiere
di vodka.
«È venuto direttamente dall’inferno. Ogni traccia di bontà, ogni senso etico, tutto quel che
impedisce a te, a me e persino a Damon, di diventare dei perversi e furiosi mostri di pura
malvagità, in lui è assente. Non ha nulla di umano. Ha dei servi, altri antichi che eseguono i suoi
ordini. Nessuno ha mai visto Klaus. O, perlomeno, nessuno è vissuto abbastanza da raccontarlo!».
Assimilai quella terrificante informazione, stringendo le mani intorno al bicchiere. «Quella…
cosa ha detto che abbiamo preso Katherine».
Lexi impallidì. «Se lei era importante per Klaus e lui crede che tu e tuo fratello siate responsabili
di quel che le è accaduto, siete in guai seri».
«Ha accennato a una maledizione. Sai di cosa stesse parlando?».
Lexi tamburellò le dita sul tavolo, corrugando la fronte. «Maledizione? Molti vampiri ritengono
che essere condannati a vagare solo di notte sia una maledizione, ma non so che cosa c’entri
Katherine con tutto ciò».
«Pensi che lui… l’abbia trasformata in vampiro?», chiesi.
«È irrilevante», disse Lexi. «Non importa il motivo o la natura del suo interesse per lei. Conta
soltanto il fatto che ci sia un interesse. Dovete preoccuparvi del vostro destino adesso».
Mi passai le mani fra i capelli, frustrato. Per l’ennesima volta Katherine aveva trovato il modo di
entrare nella mia vita e portare il caos. Anche se mi sentivo in colpa per quel che le era accaduto,
continuavo a maledirla per aver distrutto la mia famiglia e per aver trasformato la mia vita nel
disastro che era.
Katherine era solo un’egoista. Si era trastullata con me e Damon, e quando mio fratello si era
innamorato di lei e io… be’, io mi ero lasciato andare alla lussuria con lei. Nemmeno una volta si
era preoccupata dei rischi che correvamo. Né aveva pensato che saremmo morti, che il nostro
legame fraterno si sarebbe spezzato in modo irreparabile, che il suo sire alla fine sarebbe risalito a
noi, deciso a vendicarsi.
«Devo liberarmi di lui», dissi.
Lexi scosse la testa. «Non puoi “liberarti” di un essere così antico e potente, mio caro
sbarbatello inesperto. Sei appena un bambino e, oltretutto, la tua dieta a base di uccelli e roditori
non ti ha proprio rinforzato. Tu e tuo fratello non potete sconfiggerlo neanche se lavorate insieme. Io
stessa non posso affrontarlo».
«Allora che devo fare?», chiesi. La mia voce aveva assunto un tono duro e determinato. Mi ero
lasciato controllare da qualsiasi cosa e da chiunque nella mia vita: Damon e i suoi stupidi piani, i
matrimoni combinati… Era il momento di agire.
Lexi si massaggiò le tempie. «Ciò che puoi sperare per il momento è di capire quali siano i
suoi piani, e sfuggirgli. Cerca di sopravvivere abbastanza a lungo da trovare un modo per far fuori
la creatura che è venuta a trovarvi in prigione, prima che abbia la possibilità di riferire la vostra
posizione a Klaus».
Annuii, pensieroso. «Dobbiamo tornare alla villa».
Lexi fece per dire qualcosa, ma io le tappai la bocca con la mano. «Lo so… ma forse ha
dimenticato qualcosa».
Lexi indurì la mascella. «Vengo con te. I miei sensi sono più affinati dei tuoi».
«Non servono dei sensi affinati per cogliere l’odore dell’inferno», le dissi. «Ma apprezzo l’aiuto».
23
Chiamammo una carrozza per andare nei quartieri alti – Lexi mi aveva detto che dovevo
risparmiare le forze per quel che mi attendeva – e ce ne andammo senza pagare. Così era la vita
per una come Lexi: otteneva sempre quel che voleva, ma aveva desideri semplici. Non aveva
bisogno di fare piani folli e complicati per accumulare ricchezza. Poteva costringere chiunque a fare
quel che chiedeva, e la vita era incredibilmente facile.
Era allettante, soprattutto la parte della non violenza. Con le sue azioni non faceva male a
nessuno, tranne che ai portafogli.
Lexi doveva avermi letto nel pensiero perché mi rivolse un largo sorriso e agitò le sopracciglia.
«Dovresti restare con me e prendere esempio, amico mio. Una vita così può essere una dolce
avventura, anziché una maledizione», suggerì.
Scossi la testa, sorridendo. «Grazie, ma come dici sempre, devo seguire la mia strada».
Quando finalmente arrivammo alla villa dei Sutherland, trovammo le finestre oscurate e già
coperte da festoni di carta nera. Nella strana penombra del primo mattino, la rugiada riluceva
spettrale sui nastri neri. La casa era recintata da un cordone.
Forzai la serratura con delicatezza. Non facemmo alcun rumore finché entrammo in soggiorno e
Lexi emise un grido strozzato.
I coroner avevano rimosso i corpi, ma non avevano fatto nessun lavoro di pulizia. L’enorme
quantità di sangue fuoriuscito dai cadaveri devastati era filtrata attraverso il tappeto e aveva
macchiato il pavimento di marmo. Spruzzi scuri di sangue secco coprivano le pareti, e si
confondevano con il colore della carta che copriva le finestre.
«Mio Dio», mormorò Lexi. «Li ha massacrati».
Mi accasciai su una sedia, sopraffatto dal senso di colpa. Non era passato molto tempo da
quando avevo trovato i membri di quella povera famiglia con i corpi ancora caldi di quella vita che
era scivolata via da loro poco prima. I miei pensieri correvano a ritroso, ripercorrendo tutti gli errori
commessi e i passi che avevano portato a quel triste epilogo.
Se non fossi scappato via dal ricevimento…
Se, tanto per cominciare, non avessi assecondato i piani di mio fratello…
Se non avessi salvato Bridget…
Se non fossi fuggito a New York…
Se non avessi costretto Damon a bere del sangue per completare la sua trasformazione…
«È colpa mia», gemetti.
Mi presi la testa fra le mani. Una scia di sangue e morte, alla quale non avevo dato inizio, mi
seguiva come una maledizione.
«No, è colpa di Damon», mi corresse subito Lexi. «E di Klaus».
«Non sarei mai dovuto venire qui… Sarei dovuto restare il più lontano possibile dagli umani».
«Ehi». Lexi mi venne vicino, inginocchiandosi e guardandomi in faccia. Mi prese il mento con
una mano, costringendomi a guardarla. «Non sei stato tu a far questo. È stato Klaus. L’ha ordinato
lui. E tu non avevi nessuna intenzione di imparentarti con questa famiglia. È stata un’idea di Damon.
Me lo hai detto tu stesso. Aveva minacciato di uccidere tutte le persone in quella stanza se tu non
l’avessi assecondato. A quel punto io l’avrei ucciso, ma lui non è mio fratello».
La fissai negli occhi scuri. «Ho fatto così tante cose sbagliate».
Lei si morse il labbro inferiore. «Hai fatto degli errori in passato. Terribili, è vero. Ma ne sei
consapevole, e stai facendo del tuo meglio per porvi rimedio, o almeno per evitare di ripeterli in
futuro. Per questo sono qui, Stefan. Tu meriti di essere salvato».
Qualcosa che non aveva niente a che fare con la sete mi seccò la gola. «Lexi, per favore…».
«Posso leggere il tuo cuore, Stefan», disse dolcemente. «Io non spunto fuori di punto in bianco
per salvare qualsiasi vampiro. Tu sei diverso. E un giorno, forse, lo capirai. E parte della tua
maledizione svanirà».
Si sporse in avanti e mi premette le labbra sulla guancia. Quando chiuse gli occhi, sentii sulla
pelle la morbida carezza delle sue ciglia.
«Dài», disse, rialzandosi e dandomi un buffetto sotto il mento. «Abbiamo del lavoro da fare. Io
do un’occhiata qui attorno. Tu vai a recuperare le tue cose, o almeno quelle che la polizia non ha
confiscato. Penso che dovrai lasciare la città per un po’».
Nell’intervallo fra un respiro e l’altro, fra un gioco di luce e l’ombra più profonda, era cambiata.
La ragazza solare e amichevole che conoscevo, ora aveva gli occhi rossi e il volto rigato da vene
scure. I canini scintillavano nella poca luce che c’era. In quel momento era una predatrice in tutto e
per tutto, a caccia delle piccole tracce lasciate dal vampiro. Anche se era solo un esemplare più
maturo di quel che ero io stesso, a vederla così un brivido di gelo mi percorse tutto il corpo.
Nascosto sotto la nostra pelle, il mostro era sempre pronto a uscire.
Con il cuore e i passi pesanti, salii i gradini dell’imponente scalinata di legno scuro. Non era
necessario essere particolarmente silenziosi; i pochi domestici rimasti erano nelle loro stanze in
un’ala distante della casa, lontano dalla morte e dal caos. Riuscivo a sentire le loro voci sconvolte,
le discussioni sulle proprie prospettive e sulle famiglie presso le quali cercare un nuovo impiego:
tutti tentativi disperati di respingere le tenebre in cui i loro datori di lavoro erano piombati così
all’improvviso.
Mi chiesi cosa stesse facendo Margaret, ripromettendomi di riferirle di Klaus e della sua
vendetta. Probabilmente era a casa con suo marito, a piangere le sue sorelle e i suoi genitori.
Cos’era più difficile: essere morti o vivere con il ricordo dei morti? Come vampiro, io non avrei mai
vissuto la prima esperienza, ma avrei sempre dovuto sopportare la seconda.
Arrivai presto alla mia stanza, dove la notte prima Bridget si era gettata fra le mie braccia.
Annusai le tracce del profumo alla violetta di cui si cospargeva. Aveva impregnato i cuscini e le
lenzuola. Era molto più infantile del profumo di Katherine, di quell’ineffabile, seducente e complicato
miscuglio di spezie e agrumi…
Presi una valigia – un altro regalo di Winfield, per la nostra luna di miele, suppongo – e vi buttai
dentro le poche cose che consideravo mie. I miei vecchi vestiti, qualche capo di ricambio, il mio
diario. Lo sfogliai, soffermandomi su una vecchia pagina in cui avevo scritto di Katherine.
8 settembre 1864
Lei non è quello che sembra. Dovrei essere sorpreso? Spaventato? Ferito? È come se tutto quello che so, tutto quello che
mi è stato insegnato, tutte le verità in cui ho creduto negli ultimi diciassette anni… tutto fosse sbagliato.
Riesco ancora a sentire il calore là dove mi ha baciato, dove le sue dita hanno stretto le mie mani. La desidero ancora,
eppure la voce della ragione urla nelle mie orecchie: non puoi amare un vampiro!
Se avessi una delle sue margherite, potrei staccare i petali e lasciare che sia il fiore a scegliere per me. L’amo… non la
amo… io…
Io l’amo.
Sì, l’amo. E non m’importa delle conseguenze.
Significa questo seguire il proprio cuore? Vorrei che ci fosse una mappa o una bussola ad aiutarmi a trovare la mia
strada. Ma lei possiede il mio cuore e questo, più di ogni altra cosa, è la mia stella polare… e dovrò farmi bastare questa
certezza.
Lo richiusi di scatto, storcendo la bocca per la mia stoltezza. Al piano di sotto c’era l’effettiva
realtà, e pensare al passato non portava nulla di buono. Gettai il diario in valigia e scesi di sotto.
Ma non trovai Lexi ad accogliermi, bensì il vuoto e un odore terribile e familiare.
Putrefazione e morte.
Una debole brezza sibilò tra le finestre rotte; la porta sul retro era stata lasciata aperta. Non
riuscii a reprimere un brivido. Quel silenzio e l’assenza di Lexi sembravano urlare come una
banshee.
Un foglio di carta, non più grande di un biglietto, volteggiò sul pavimento. Lo raccolsi, atterrito, e
mi venne la pelle d’oca.
C’era scritto solo: PAGAMENTO NUMERO DUE. LUCIUS.
24
13 novembre 1864
Sono maledetto. Ora è sicuro. Forse significa questo essere un vampiro. Forse la tragedia e il male vengono insieme alla
fame e ai canini; non si tratta solo di dover vivere di sangue umano. È l’infinita solitudine, l’essere tagliati fuori dalla vita reale
e dalle relazioni autentiche. La morte sarà sempre presente per separarmi da coloro che amo.
C’è un elenco di nomi nella mia testa, e la lista diventa ogni giorno più lunga. Rosalyn è stata la prima a morire a causa
mia. Katherine non sopportava che fossi fidanzato, così l’ha uccisa. Sulle mani ho anche il sangue di Katherine. Anche se è
entrata nella mia vita e in quella di mio fratello e le ha sconvolte. La sua morte è stata una conseguenza delle mie azioni. Non
avrei mai dovuto discutere con mio padre, provare a convincerlo. Non appena mi aveva confidato della caccia ai vampiri, avrei
dovuto fare tutto il possibile per portare Katherine fuori dal paese.
Pearl. Anche lei avrebbe potuto fuggire. Non conoscevo la sua storia nei dettagli, ma lei sembrava molto più tranquilla di
Katherine.
Alice la barista.
Tutti gli umani di cui mi ero nutrito a New Orleans. Troppi da menzionare, anche se mi fossi preoccupato di conoscere i
loro nomi. Erano solo dei poveri sfortunati che avevano incrociato per caso la mia strada quando ero affamato o avevo
bisogno di qualcosa.
Callie. Era morta perché io ero stato tanto stupido da credere che sarebbe stata ricompensata per aver aiutato due
vampiri.
I Sutherland.
Bridget, Lydia, la signora Sutherland e Winfield. Una famiglia normale cui era capitato di attirare l’attenzione di un vampiro
folle e vendicativo.
E ora Lexi. Lexi sarebbe dovuta restare a New Orleans nel suo ritrovo per morti viventi, al sicuro nel mondo che si era
costruita, dove avrebbe continuato a fare del bene a modo suo.
Lei sarà la prossima a morire, a meno che non trovi un modo per salvarla.
Ho passato troppo tempo a New York a lamentarmi del mio destino, a deprimermi e a sentirmi maledetto. Stando fermo a
guardare e a commiserarmi, ho permesso al male di manifestarsi intorno a me. Ora è il momento di agire e di ottenere
giustizia. Devo convogliare i sentimenti di solitudine e disperazione nella rabbia. Devo smettere di essere il codardo che sono
sempre stato, in entrambe le vite, come quando ho permesso a mio padre di costringermi a sposarmi, e da morto, quando
ho lasciato che Damon mi torturasse e uccidesse le persone che amavo.
Non mi piegherò mai più alla volontà altrui. D’ora in avanti combatterò.
E libererò Lexi, fosse l’ultima cosa che faccio.
Accartocciai il foglietto nel pugno, ringhiando di rabbia. Come l’aveva presa? Non avevo sentito
nulla, neanche con i miei sensi da vampiro. I domestici, un paio di topi e ratti nei muri, ma
nient’altro. Il vampiro Lucius era entrato senza fare un solo rumore ed era riuscito a catturare – o a
neutralizzare – Lexi prima che riuscisse a emettere un grido. Che velocità, che Potere doveva avere
quella bestia!
Ma nonostante la sua anzianità da vampiro, il suo essere un discendente diretto del Demonio e
nonostante tutta la sua mostruosità, con quel pezzettino di carta aveva dimostrato una debolezza
molto umana. Provava il bisogno meschino di gongolare. Se ci fosse stato Damon al suo posto,
sarei sceso di sotto e avrei trovato Lexi morta sul pavimento. Ma la bestia voleva che sapessi che
tutti intorno a me erano in pericolo, voleva spaventarmi prima di uccidermi.
Avevo in mente solo una cosa ormai. Se Lexi era ancora viva, era mio dovere correre a salvarla.
E se non lo era… sarebbe stato un mio diritto e piacere uccidere il burattino di Klaus. Lo giurai.
Cos’è che aveva detto in prigione? Occhio per occhio. Aveva preso a me e a Damon una cosa
preziosa, le nostre mogli e la loro famiglia, perché noi gli avevamo sottratto Katherine. Ma i
Sutherland erano umani, persone di nessuna importanza per lui e di cui era facile sbarazzarsi. La
sua amata Katherine era morta nell’incendio di una chiesa.
E se…
Le parole si facevano strada a fatica nella mia coscienza.
E se avesse avuto in mente di uccidere Lexi nello stesso modo?
All’improvviso mi sentii come se avessi di nuovo una possibilità. Ma quale chiesa? Ce ne
dovevano essere centinaia in città.
Corsi fuori. L’odore di putrefazione appestava l’aria, come se Lucius mi avesse lasciato, senza
volerlo, una scia da seguire. Andai verso sud, sentendo che stavo guadagnando le forze a ogni
passo che mi portava più vicino al posto in cui poteva trovarsi Lexi… e alla persona che dovevo
diventare. Avevo provato a stare lontano dagli umani e non aveva funzionato. Avevo cercato di
vivere insieme a loro, con risultati disastrosi. Ma non avevo ancora tentato di intraprendere un
cammino diverso, più moderato. Non sarei mai stato un umano, ma potevo aiutarli, come avevo
soccorso Bridget nel parco quella notte. Non avrei mai potuto vivere tra di loro, ma avrei potuto
trovare degli amici fra gli umani, come la signora Sutherland, e i vampiri, come Lexi. Questi vincoli
mi avrebbero legato al mondo e mi avrebbero mantenuto puro.
Correndo, passai davanti a una casetta a schiera in mattoni e afferrai un piccione al volo,
azzannandogli il collo per ricaricarmi. Il fetore era più forte e, un paio di strade più in là, vidi una
chiesa cattolica irlandese. Sapevo che la gente era effettivamente preoccupata che a quel tipo di
edificio fosse appiccato il fuoco, com’era successo durante le rivolte religiose in Pennsylvania. Ma
il posto era tranquillo, con diverse vecchiette sedute sulle panche davanti e, stranamente, il forte
odore di putrefazione che fuori appestava l’aria, era evaporato. Si sentivano soltanto gli odori delle
candele e dell’incenso che bruciava sull’altare.
Mi accasciai su una panca in fondo e osservai un rosone. La scena rappresentava una
Madonna Addolorata di lapislazzuli azzurri con un sole di granato rosso sangue che sorgeva alle
sue spalle. Chiusi gli occhi e cercai di concentrarmi. Perché Lucius mi aveva fatto perdere le sue
tracce? Era sbagliato supporre che volesse lanciarmi un’esca, così che potessi arrivare alla chiesa
giusta proprio nel momento in cui avrebbe posato il fiammifero sul barile di polvere da sparo?
Quale chiesa avrebbe scelto, e perché?
D’improvviso capii: che stupido ero stato. Il vampiro aveva fatto per bene le sue ricerche e
aveva scoperto subito dove abitava la famiglia della mia sposa; non si sarebbe limitato a bruciare
una chiesa presa a caso. Avrebbe scelto la cappella in cui mi ero sposato.
Sapevo di aver ragione, me lo sentivo nelle ossa. Allo stesso modo, ero sicuro di non poterlo
seguire da solo. E c’era solo una persona in grado di aiutarmi.
Damon.
Damon, che mi aveva intrappolato nello stupido matrimonio che aveva causato l’omicidio dei
Sutherland. Damon, che aveva ucciso Callie. Damon, che aveva giurato di rendere la mia vita un
inferno senza fine. Ma in quel momento avevo bisogno di lui. L’avevo visto controllare i suoi poteri in
un modo di cui io non ero capace. E mi sarebbe servito quanto più Potere possibile, se volevo
trovare un modo per sconfiggere un Antico. Lexi ci aveva fatto evadere di prigione, e di sicuro
persino un’anima perduta e corrotta come Damon avrebbe riconosciuto che eravamo in debito con
lei.
L’unico problema era trovarlo.
E ora, penso di essere pronto per una bevuta, aveva detto. Per la maggior parte dei vampiri
significava solo una cosa. Per mio fratello, be’, poteva voler dire sia attaccarsi alla bottiglia sia
prosciugare una persona o due. Ma dove?
Nelle settimane intercorse tra quando mi aveva seguito a New York e quando mi aveva
“incontrato” al ballo dei Chester, Damon, usando le parole di Lexi, aveva fatto irruzione nella scena
sociale newyorkese nelle vesti di un conte italiano. Era probabile che si fosse fatto strada
convincendo – o soggiogando – gli avventori di un gran numero di circoli privati o ristoranti. Mi
scervellai cercando di ricordare le chiacchiere con cui Bridget era solita tormentarmi, sui posti in
cui Tizio era stato visto in compagnia di Caio, sui locali all’ultima moda e su una famosa ostricheria
che serviva autentiche Pimm’s Cup, proprio come in Inghilterra. In mancanza di un’idea migliore,
avrei cominciato da lì.
Era un posto incantevole in una zona piuttosto malfamata nei pressi del porto marittimo
meridionale. Marinai dallo sguardo titubante vagavano fra le pozze di luce sotto i lampioni,
riunendosi in gruppetti di due o tre per discutere del cattivo stato dell’import-export, ridere
rumorosamente e intonare vecchie canzoni da osteria. Tuttavia, fra tutto questo marciume portato
dal mare, stazionavano carrozze decorate ed eleganti servi in livrea: membri dell’alta società attratti
dalle ostriche, dalle Pimm’s Cup e dall’aspetto pericoloso del posto.
Dentro il locale c’era una buona parte dei giovani che avevo visto al ballo dei Chester e al mio
stesso matrimonio. Anche Bram era lì, ma si teneva in disparte e sembrava sconvolto. Aveva il volto
cinereo e gli occhi infossati, e sulle maniche indossava dei nastri neri in segno di lutto. Il suo drink
era intatto, e si limitava a fissare il fiume dalla finestra con aria affranta.
Gli diedi le spalle perché non volevo che gridasse che in mezzo a loro c’era un assassino. E lui
non aveva dubbi sulla mia colpevolezza.
Feci cenno alla ragazza al bancone di avvicinarsi.
«Dam… ehm, il conte DeSangue è passato da queste parti stasera?», chiesi.
La ragazza mi squadrò dall’alto in basso, e arrossì per l’agitazione. «Considerando che è
accusato di omicidio, che questo è il suo posto preferito e io sono la sua ragazza preferita, per
quale motivo al mondo dovrei darti un’informazione del genere?».
Dedussi che la pesante sciarpa che portava intorno al collo non serviva solo a proteggerla dal
freddo notturno. Quello era di sicuro uno dei posti che Damon era solito bazzicare.
Infilai le mani in tasca per cercare degli spiccioli. Lei vide quello che stavo facendo e scosse la
testa. «Neanche per sogno, amore. Non tradirei mai Damon».
«Tu non hai idea di chi sia in realtà, né del pasticcio in cui ti stai cacciando», ringhiai,
afferrandole il polso. Il suo viso si adombrò, e cercò di liberarsi dalla stretta. «Stammi a sentire. Io
sono Stefan Salvatore, l’altro uomo accusato dell’omicidio dei Sutherland. Non è stato nessuno di
noi due, chiaro? Siamo entrambi in fuga dalla polizia. Ora dimmi dov’è».
Non la soggiogai. E non si può dire che l’avessi minacciata. Ma lei annuì in silenzio e io allentai
la presa.
«Non lo so», disse, massaggiandosi il polso. «So che gli piaceva andare a bere in alcuni di
quei locali di lusso dei quartieri alti, come il Gatto Nero Pelle e Ossa o il Rifugio di Serse. Aveva un
tavolo anche al Club Ventidue».
In quel momento arrivò una cameriera. «State parlando del conte?», chiese, mentre sul suo viso
si allargava un sorriso eccitato.
Sospirai. «Sì».
«Be’, una volta mi ha portato allo Strange Fruit, un paio di isolati più a sud».
«È uscito con te?», disse la ragazza del bancone, con un’invidia palese nella voce. La
cameriera annuì orgogliosa.
«Grazie», dissi con sincerità. A quel punto, Lexi o Damon avrebbero soggiogato le due donne
perché dimenticassero di avermi visto. Sospirai, pensando a quanto sarebbe stata più facile la mia
vita se avessi avuto Poteri più forti e una forza di volontà più debole.
Controllai l’orologio da tasca di Winfield. Erano le cinque del mattino; era passata un’ora da
quando ero entrato con Lexi nella villa. Il tempo correva fin troppo in fretta per i miei gusti, e ogni
minuto sembrava segnare il destino di Lexi in modo definitivo.
Qualche secondo dopo ero davanti alla porta dello Strange Fruit, un locale buio e spazioso, con
dei ventilatori di legno che giravano lentamente, appesi al soffitto basso. I marinai, non ammessi
nell’ostricheria, erano tutti lì, insieme a ogni genere di personaggi ombrosi, anime perse e geni del
crimine che riuscivano in qualche modo a mantenersi ai limiti della legalità.
Damon sedeva da solo a un tavolino malfermo, in maniche di camicia, davanti a una bottiglia di
bourbon semivuota.
«Ti lecchi le ferite?», chiesi, avvicinandomi. Non si premurò nemmeno di mostrarsi stupito.
«Un piccolo contrattempo, fratello. Non dimenticare che ho gli assegni della dote. Appena le
cose si calmeranno un po’, io e gli assegni ce ne andremo da questa città».
«Dubito che troverai una banca disposta a cambiare un assegno a un sospetto omicida».
«Sul serio, devi smetterla di pensare come un umano e cominciare a ragionare da vampiro.
Non c’è cassiere che io non possa soggiogare».
Si stirò come un gatto e versò un po’ di bourbon nel bicchiere. Poi me l’offrì e tracannò una
lunga sorsata direttamente dalla bottiglia.
«Ho bisogno del tuo aiuto», dissi, spingendo via il bicchiere. Gli diedi il foglietto e lo ragguagliai
su quello che era successo.
Lesse con gli occhi socchiusi. «E allora?».
Lo guardai a bocca aperta.
«Ha preso Lexi», ripetei. Poi, temendo che fosse troppo ubriaco per capire quello che volevo
dire, gli feci notare l’ovvio. «Dobbiamo salvarla!».
«Uhm». Ci pensò su un minuto. «No».
Tirò indietro le gambe e le mise sul tavolo, lentamente e con fare drammatico, come se l’avessi
interrotto nel pieno di un’occupazione importante.
«Cosa c’è che non va in te?», domandai. «L’hai visto, no? La farà a pezzi!».
«E con ciò?», chiese Damon. «È stata una sua scelta venire a New York. Nessuno le ha chiesto
di venire qui».
«Ci ha fatto uscire di prigione…».
«Noi… pardon, io… me la stavo cavando piuttosto bene in quel dipartimento. Te ne sei
dimenticato. Saremmo potuti uscire da soli. Non avevamo bisogno del suo aiuto. Si è intromessa.
Se è stata catturata per essersi intromessa ancora, be’, è solo colpa sua, che diamine!».
La rabbia che si era accesa in me quando avevo trovato il messaggio della bestia si ravvivò in
un’esplosione d’ira che mi fece quasi assumere le sembianze da vampiro. Per un attimo, non mi
preoccupai che mi stessero guardando.
«Tu», dissi, cercando di calmarmi e di mettere in parole i sentimenti distruttivi che provavo.
Damon si alzò e mi fissò negli occhi quasi con impazienza, pronto a battersi.
«Tu sei… sei…», dissi con disprezzo.
«Sono come tu mi hai fatto», concluse Damon in tono vacuo, alzando il bicchiere come per
brindare a me.
Lo afferrai per le spalle. «No. Tu non sei costretto a essere un assassino senza cuore. Neppure
Katherine era così».
Damon mi lanciò uno sguardo di fuoco. «Non parlarmi di com’era Katherine! Io la conoscevo
meglio di te».
Scossi la testa. «In fondo sai che non è vero. Tu l’amavi di più, ma io la conoscevo quanto te.
Katherine voleva soltanto che stessimo tutti e tre assieme, per sempre. Non avrebbe voluto che
finissimo così, uno contro l’altro. Non avrebbe voluto questo».
L’espressione di sorpresa e rabbia che era apparsa sul suo volto per quel che avevo detto mi
fece pensare che ne era quasi valsa la pena. Quasi.
«Vado a salvare Lexi. Ci riuscirò o morirò nel tentativo. E se per qualche miracolo non dovessi
morire, non voglio vederti mai più».
E prima che potesse preparare qualche risposta acida o qualche minaccia, uscii nella notte
sbattendo la porta e lasciandomi alle spalle mio fratello per sempre.
25
La rabbia era tutto quel che mi restava, e lasciai che la collera mi sostenesse come aveva fatto
il sangue umano nelle mie prime settimane da vampiro. Non riuscivo a credere all’indifferenza di
Damon, né capivo la persona che era diventato. Ma il suo rifiuto di aiutarmi non cambiava quello
che dovevo fare: salvare Lexi.
Dall’altro lato della strada, un gentiluomo su una giumenta nero carbone parlava amabilmente
con una bottegaia. Appena la donna entrò in negozio a prendere qualcosa, afferrai le redini del
cavallo e, infrangendo il mio voto per la seconda volta in ventiquattr’ore, soggiogai l’uomo affinché
scendesse da cavallo e si facesse una bella passeggiata fino a casa.
In condizioni normali sarei stato più veloce di un cavallo, ma ero esausto e affamato, così tra un
colpo di redini e qualche gentile sussurro, uscii dai quartieri alti, galoppando rumorosamente sulle
strade di New York City. Era un ottimo animale e rispondeva a ogni tocco, anche al più delicato, e
alla più lieve stretta delle mie ginocchia. Con il vento fra i capelli e le redini in pugno, mi sentivo
quasi come il vecchio me stesso.
Ma il cielo cominciava a schiarire in quel blu cristallino e quieto del primo mattino, e io dovevo
spremere il cavallo fino all’ultima goccia perché corresse più veloce. La vita di Lexi poteva
dipendere da quello.
Quando, percorrendo il lungo viale in salita che portava dai Richard, imboccammo il piccolo
sentiero sulla destra per la cappella di famiglia, seppi di aver preso la decisione giusta. Potevo
fiutare la presenza dell’Antico, il miasma di sangue vecchio, morte e putrefazione che lo seguiva
come un’ombra. Il mio cavallo nitrì di terrore.
Saltai giù prima che la giumenta si fermasse e le diedi una lieve pacca sul dorso. «Va’ a casa»,
ordinai. S’impennò, come se non volesse rinunciare alla sua ritrovata libertà, poi si girò e sfrecciò
via al galoppo.
Corsi nella grande sala in cui mi ero sposato, spingendo da parte un servitore solitario che
m’intralciava il cammino.
Lexi era lì, legata all’altare come la vittima di un antico sacrificio. L’odore di verbena mi bruciò le
narici: le corde ne erano certamente impregnate. Il sole era sorto e si era manifestato entrando
sotto forma di una pozza di luce rosso sangue dalla vetrata colorata di una finestra rivolta a est.
Mentre i raggi avanzavano lentamente verso i suoi piedi, Lexi si dimenava e ansimava, cercando di
allontanare le gambe dalla luce. Un filo di fumo si levò dalle dita dei piedi, appena colpite dal tocco
mortale del sole, e uno strano odore di carne bruciata riempì la stanza.
«Lexi!», urlai.
«Stefan!», singhiozzò lei per il dolore e il sollievo.
Pensai in fretta. Ci avrei messo troppo tempo a capire come rimuovere le corde imbevute di
verbena, e non c’era nulla con cui potessi coprire le finestre, né arazzi né tappeti o stuoie da tirar su
con facilità. Senza pensare alla mia sicurezza, corsi verso di lei e afferrai la sua mano minuta e
bianca, infilandole il mio anello al dito.
«Ma, Stefan», protestò Lexi.
«Ne avrai bisogno se hai intenzione di continuare la caccia e salvarmi», dissi, tirando via tutte le
corde. La verbena mi bruciava le dita scoperte, ma continuai finché non fu libera. Ce l’avevo fatta.
Avevo salvato Lexi. «Ora cerchiamo di…».
Ma in quel momento, ci piombò addosso una rete imbevuta di verbena, che mi ustionò ogni
centimetro del corpo.
«Corri!», gridai, spingendola fuori dalla rete.
Lexi rotolò sul pavimento, poi allungò la mano verso il bordo di una panca per riuscire ad alzarsi.
Tuttavia, in quel movimento, il suo braccio incrociò un raggio di sole. Spalancò gli occhi per la
meraviglia, chiaramente sorpresa che non fosse apparso del fumo e che la sua pelle non fosse
bruciata. E poi scomparve, uscendo di scena a velocità sovrumana, come un turbine di vento.
Alzai le mani, cercando di tenere la rete lontana dal viso, ma mi contorcevo e gridavo ovunque
mi toccassero le corde avvelenate.
L’antico apparve, con degli enormi guanti di pelle sulle mani e un ghigno soddisfatto sul volto
pallido.
«Salve». Gli angoli della bocca, fin troppo tesi, svelavano una fila di robusti denti bianchi
incuneati nelle gengive marce. «Sei così prevedibile: sapevo che saresti venuto a salvare una
damigella in pericolo».
Quell’odore ripugnante da mattatoio mi avvolse come il vento bollente d’agosto: inevitabile,
assoluto, orrendo. Nonostante le ustioni che la rete continuava a provocarmi, cercai di allontanarmi
da lui.
Il mio tentativo lo fece solo sogghignare.
«Dov’è quello che è sempre vicino a te e sempre un soffio fuori dalla tua portata, come
un’ombra? Dov’è tuo fratello?».
Serrai le mascelle. Conoscendo Damon, stava di certo tracannando il suo terzo whisky, per
prepararsi a banchettare con un paio di ragazze da pub.
Lucius studiò il mio volto inespressivo, scambiando il mio silenzio per spacconeria. «Be’, non
ha importanza. Prenderò anche lui alla fine. Tuo fratello somiglia molto più di te a un vero vampiro:
nessun interesse al di fuori del proprio piccolo mondo, nessun desiderio di fare del bene. Può
sopravvivere un po’ più a lungo».
«Cosa hai intenzione di farmi?», domandai. In realtà, comunque, sapendo che Lexi era fuori
pericolo, non mi preoccupavo più per la mia sicurezza. Desideravo solo di avere la possibilità di
uccidere quel mostro, per impedirgli di esigere nuove vendette e fare a pezzi altri umani.
Ma la verbena stava risucchiando il mio Potere come un sifone, e sapevo che solo fargli un
graffio avrebbe rappresentato una piccola vittoria.
La bestia afferrò la rete e mi buttò sulle sue spalle come se non fossi altro che un sacco pieno di
topi o piume.
«I miei piani non sono particolarmente spettacolari», disse mentre percorreva a passi pesanti la
navata della chiesa. Notai che sul pavimento c’erano ancora dei petali di rosa, ormai secchi, che
pian piano si dissolvevano in polvere di nulla. I fiori nei vasi erano avvizziti, e tutto era stato lasciato
ad appassire dopo l’assassinio delle spose.
«Ma avranno effetti duraturi. I vampiri possono sopravvivere molto, molto a lungo. Senza cibo.
Possono soffrire la fame per secoli, eppure non muoiono». Scrollò le spalle, facendo spostare la
rete. «Be’, forse alla fine. Non l’ho mai potuto constatare di persona, ma credo che lo scopriremo».
All’improvviso svoltò a sinistra, entrando nella cappella, e si fermò davanti a una doppia porta: la
cripta, capii d’un tratto con un crescente senso di terrore. Anche se le porte erano solide, scolpite
nel marmo, Lucius le aprì senza problemi, mi scaricò a terra scrollando la rete e mi gettò in una
stanzetta di pietra, poco più grande della dozzina di bare che vi erano custodite.
Per un breve momento, assaporai la sensazione dell’aria fredda che carezzava la mia pelle
ustionata.
Poi il vampiro emise un ringhio sommesso. «Quando il tuo bisogno di sangue ti divorerà
dall’interno e ti farà impazzire, non temere: io sarò lì, in ascolto. A osservare. E a ridere».
L’ultima cosa che vidi fu l’Antico, avvolto dall’alone luminoso del mondo dei vivi, che mi salutava
con la mano. E poi sbatté la porta con un boato che echeggiò fino al cielo, e mi ritrovai nella
completa oscurità.
Mi scagliai di corsa contro le porte. Non si mossero nemmeno di un millimetro. Nel tentativo di
placare il mio crescente isterismo, esaminai le pareti umide e coperte di muffa, cercando un varco,
una porta segreta, un’uscita, anche se una voce in fondo alla mia coscienza gridava: «È una cripta,
Stefan! La morte è l’unico modo di uscire!».
Strisciai nel labirinto di bare e sarcofagi. Anche se ero in preda al panico, notai gli elaborati
intagli e le cerniere di ottone. Su uno dei sepolcri di marmo, inciso ad altorilievo, c’era il ritratto di
una giovane donna. Aveva gli occhi grandi e le labbra arcuate. Mi accasciai sulla scultura, come per
abbracciare la ragazza che riposava là sotto.
Almeno Lexi era al sicuro, mi dissi. Se non altro, avrei potuto passare i secoli con la
consapevolezza che lei era là fuori, da qualche parte, a vivere la sua vita, protetta dal mio anello. E
forse, ma era solo una vaga possibilità, a tentare di trovarmi.
«Addio», sussurrai a Lexi nel silenzio del sepolcro.
D’improvviso, come a un segnale convenuto, le porte della cripta si aprirono un’ultima volta, e
una ragazza bionda vi sfrecciò attraverso, atterrando con un tonfo ai miei piedi.
«Lexi!», gridai appena le porte si chiusero violentemente alle sue spalle, immergendoci di
nuovo nell’oscurità.
«Ehilà», disse lei con voce fioca. «Che piacere incontrarti qui».
26
«Che ci fai qui?», domandai.
Lexi mi guardò alzando un sopracciglio. «Quello che ci fai tu. Mi preparo a trascorrere con te
una lunga e dolorosa eternità».
«No, volevo dire perché non sei scappata?», chiesi, resistendo all’impulso di prenderla per le
spalle e scuoterla.
«Certo che sono scappata, idiota!», disse seccata. «Ma credo che lui si aspettasse che avrei…
Non mi sono nemmeno accorta che mi seguiva». La sentii rabbrividire nel buio. «È spuntato fuori
dal nulla». La sua voce divenne cupa. «Mi chiedo se è così che si sentono gli umani quando ci
incontrano. Se mai usciremo vivi da tutto questo, giuro che sarò più gentile con loro in futuro. Con gli
umani, intendo. Quel vampiro… ora voglio davvero ucciderlo».
Le misi una mano sull’avambraccio, per calmarla. «Spero solo che ne avremo la possibilità».
«Su, usciamo da qui». Si girò e sollevò una gamba, mettendo il tacco dello stivale proprio in
mezzo alle porte.
Nella cripta echeggiò un rumore sordo, ma non si mosse nulla.
Diede un altro calcio rotante alla porta. E un altro. E un altro ancora. Ma non successe niente.
«Insieme!», insisté. Contammo fino a tre, e sferrammo un calcio.
«Forse c’è della verbena sulla pietra…?», suggerii.
Lexi aveva un’aria torva. «La verbena non rende le cose indistruttibili. Ma si possono fare altre
cose per rinchiudere qualcuno. In modo permanente. Che ne dici dei muri?».
Passammo l’ora successiva a esplorare con le dita le pareti bianche, il soffitto e il pavimento,
riuscendo a individuare, grazie alla sensibilità della nostra pelle, anche le crepe più sottili.
Scoperchiammo i sarcofagi e frugammo i cadaveri in cerca di strumenti.
«Nessun pugnale, nessuna croce di diamanti, nessuna Bibbia placcata di argento, nessuno
scellino per Caronte, nessuna pietra della fortuna, niente di niente», borbottai, alzando le mani per
la frustrazione.
«Questo non va bene», si limitò a dire Lexi.
Ventiquattr’ore dopo si celebrò una funzione nella cappella. Riuscivamo a sentirla grazie ai
nostri Poteri. Era una messa commemorativa per i Sutherland, per le due spose assassinate e per i
loro genitori orgogliosi… condita da caustiche invettive contro i due giovani che li avevano uccisi,
scappando via con i soldi della dote. Assassini, criminali, truffatori, ladri…
L’unica accusa che non compariva nella lista era “demoni”.
Ma nessuno di quegli insulti ci impedì di urlare.
«Aiuto!», gridai. «Qui! Siamo qui!».
Lexi aggiunse la sua voce alla mia, strillando in una serie di toni acuti che quasi mi perforarono i
timpani. A un certo punto sentii Hilda che sussurrava con voce cupa: «Hai sentito qualcosa?». Le
nostre speranze si rianimarono.
E poi nulla. La funzione finì, la gente sfilò fuori dalla cappella, e ci ritrovammo completamente
soli.
Lexi sospirò e mi restituì l’anello.
«Grazie mille per il prestito», disse con calma, infilandomelo al dito. «Ma non penso che sarà
molto utile ormai, né a me né a te».
L’abbracciai stretta. «Non arrenderti», le sussurrai nell’orecchio.
Ma le parole echeggiarono in modo sinistro nella cripta, poiché non avevano nessun altro posto
dove andare.
27
Non c’era nulla che indicasse il trascorrere delle ore in quella cripta senza finestre. Dalle porte
non penetrava neppure la più pallida traccia di sole. I giorni sfumavano in settimane, forse in mesi.
Mi sembrava che fosse passata un’eternità, e ancora un’altra si estendeva davanti a noi, senza fine.
Lexi e io smettemmo di parlare. Non per rabbia o disperazione, ma solo perché non ne
eravamo più in grado. Le energie non ci bastavano per sforzarci di gridare quando si avvicinava
qualcuno, e ancora meno erano sufficienti per alzarci e per gettarci contro la pietra che ci teneva
sepolti. Non avevamo più le forze per combattere l’oscurità né per stare in piedi. Chiedevo ancora
al mio cuore di resistere, ma non credevo che avrebbe avuto ancora a lungo la forza di andare
avanti.
Stavamo distesi in silenzio l’uno accanto all’altra. Se qualcuno ci avesse scoperto, cento anni
dopo, ci avrebbe trovato commoventi, come un fratello e una sorella intrappolati nella cantina della
strega, in qualche fiaba dell’orrore.
Ogni istante che passava mi prosciugava del mio Potere. I miei occhi non distinguevano più
nulla nell’oscurità. C’era un assoluto silenzio mentre i suoni del mondo esterno si spegnevano
nell’oblio. Mi era rimasto solo il senso del tatto: la sensazione della cerea mano di Lexi, il legno
ruvido della bara danneggiata al mio fianco, la fredda striscia di metallo del mio inutile anello.
Quasi mi sentivo di nuovo umano, ma nel peggior modo possibile. Il mio Potere si ritirava
dolorosamente e con lui se ne andava la mia immortalità. Non mi ero mai accorto della sua
presenza costante fino al momento in cui aveva cominciato a dissolversi, lasciando carne e ossa,
cervello e fluidi, e portando via con sé tutto quel che avevo di soprannaturale.
Eccetto la mia fame.
Il vampiro che era in me reagiva all’inedia. I denti mi dolevano e bruciavano così tanto per il
bisogno di sangue che avrei versato lacrime se ne avessi avute. Il sangue si insinuava
subdolamente in tutti i miei pensieri. Sognavo di quella volta in cui era apparso, simile a una perla
preziosa, sul dito di Callie, quando si era tagliata. Del sapore affumicato che aveva Clementine
Haverford, la mia prima cotta, mentre si spegneva. Di come il sangue di mio padre, che giaceva
moribondo sul pavimento del suo studio, si fosse sparso intorno a lui simile a delle dita che
perlustrassero con avidità ogni anfratto, tingendo tutto di un delizioso rosso scuro.
Alla fine, tutto riconduce al sangue. Noi vampiri non siamo altro che fame incarnata, progettati
espressamente allo scopo di rubare il sangue delle nostre vittime. I nostri occhi li costringono a
fidarsi di noi, i nostri canini squarciano le loro vene, e la nostra bocca li prosciuga della loro
principale fonte di vita.
Sangue…
Sangue…
Sangue…
Sangue…
Quella parola era un sussurro senza fine, simile a un ritornello che continua a girare nella testa,
colmando ogni anfratto del cervello e ricoprendo ogni ricordo col suo seducente profumo.
E poi una voce molto familiare cominciò a parlarmi.
«Salve, Stefan».
«Katherine?», gracchiai, faticando a far uscire le parole.
Riuscii a girare la testa quanto bastava per vederla voluttuosamente distesa su un mucchio di
cuscini di seta. Aveva lo stesso aspetto che aveva la notte del massacro, prima che la portassero
via e la uccidessero. Bellissima e seminuda, con le labbra imbronciate che mi rivolgevano un
sorriso malizioso.
«Sei… viva?»
«Shh», disse, chinandosi verso di me per carezzarmi la guancia. «Non hai un bell’aspetto».
Chiusi gli occhi, travolto dal suo stordente profumo di zenzero e limone, talmente reale e
familiare che mi sentii venir meno. Doveva essersi nutrita di recente, perché la sua pelle ardeva
nella tomba fredda.
«Vorrei poterti aiutare», sussurrò, con le labbra vicine alle mie.
«È colpa… tua», riuscii a mormorare.
«Oh, Stefan», disse in tono di rimprovero. «Forse non sei stato così consenziente come tuo
fratello, ma non ti sei nemmeno opposto alle mie… cure».
Come per dare enfasi alle sue parole, si chinò su di me e premette le morbide labbra sulla mia
guancia. Senza… fermarsi… le trascinò sul mio mento riarso. Con estrema delicatezza mi stuzzicò,
lasciando che le punte dei canini mi pungessero leggermente la pelle.
Gemetti. Mi girava la testa.
«Ma. Tu. Sei bruciata», dissi con voce roca. «Ho visto la chiesa».
«Mi vuoi morta?», chiese, col fuoco negli occhi. «Vuoi che bruci, che crolli a terra in un
mucchietto di cenere solo perché non puoi avermi tutta per te?»
«No!», protestai, cercando di staccarmela dalla gola. «Perché mi hai trasformato in un
mostro…».
La sua risata era leggera e melodiosa, come le campanelle a vento che mia madre aveva
appeso sul portico d’ingresso di villa Veritas. «Un mostro? Sul serio, Stefan, un giorno ti ricordai
della verità di cui eri consapevole a New Orleans: quel che ti ho dato è un dono, non una
maledizione».
«Sei pazza… quanto… Klaus».
Tornò a sedersi: intorno agli occhi ambrati si disegnarono rughe di preoccupazione. Le tremava
il labbro inferiore. «Come fai a sapere di K…?».
Le porte della cripta esplosero in mille schegge di roccia e legno, come colpite da una
cannonata.
Mi coprii la faccia, la luce mi bruciava gli occhi come acido. Quando li riaprii, Katherine era
scomparsa, e nel vano della porta distrutta, fluttuava una figura sfocata, vestita di nero, aureolata
dalla luce rovente.
«Klaus?», sussurrò Lexi con voce atterrita, stringendomi la mano.
«Mi spiace deludervi», rispose una voce sarcastica.
«Damon!». Mi sforzai di alzarmi a sedere.
«Stefan, non pensi che sia ora di smetterla di stare sempre ad aspettare che il tuo fratellone
venga a salvarti?».
Allungò un braccio, mi afferrò per il polso e mi tirò fuori dalla cripta, senza tante cerimonie. Volai
verso la parete di fronte e ricaddi come un sacco di patate sul pavimento di marmo. Damon fu più
gentile con Lexi, anche se non di molto. Mi cadde addosso come un corpo inerte, con le gambe
incrociate.
Polvere e schegge fluttuarono intorno a noi come nebbia. Guardai con gli occhi socchiusi le
pareti sfocate, cercando di orientarmi.
«Qui», disse Damon, porgendomi una fiaschetta d’argento. «Ne avrai bisogno per scappare».
Appoggiai le labbra alla bocca del recipiente. Sangue. Dolce, dolce sangue…
Una voce in fondo alla mia coscienza gridava che era sangue umano, ma io la zittii con una
spruzzata di quel liquido inebriante. Bevvi con ingordigia e disperazione, lamentandomi quando
Damon mi strappò la fiaschetta dalle mani.
«Lasciane un po’ per la signora», disse.
Lexi bevve altrettanto avidamente. Il sangue le colava dalla bocca e dal mento mentre succhiava
con forza, in silenzio. La sua pelle, che era diventata tesa, pallida e rugosa come quella di una
vecchia, si rimpolpò e tornò florida e rosea.
«Grazie, marinaio», mormorò, prendendo fiato. «Ne avevo bisogno».
Così come una lampada riempie un sotterraneo di calore e luce, sentii il mio Potere irradiarsi
nelle mie membra, restituire acutezza ai miei sensi, infondere al mio corpo un vigore che non avevo
più sentito da quando avevo cominciato a nutrirmi solo di animali.
Quando mi si schiarì la vista, restai senza fiato. Alle spalle di Damon, c’era una donna con una
mano sulla tempia, e l’altra serrata in un pugno sul fianco. I suoi occhi erano chiusi e il suo corpo era
scosso da un leggerissimo tremore. Sembrava in preda a una profonda sofferenza, incapace di
muoversi mentre la sua mente e il suo corpo subivano supplizi sconosciuti.
Margaret.
E non era sola. C’era una figura prona davanti a lei, che si contorceva dal dolore, e compresi,
con un sussulto, che non era Margaret a essere torturata. Lei era quella che infliggeva dolore a un
altro. A Lucius.
Al super vampiro; quello che con tutto il suo Potere, non era altri che il burattino di Klaus, il
demone che discendeva direttamente dall’inferno. Lucius aveva assassinato un’intera famiglia, mi
aveva catturato senza alcuno sforzo, e aveva acchiappato Lexi come un topo molesto. Il mostro si
teneva la testa fra le mani e urlava, lanciava grida terribili che echeggiavano per tutta la cappella.
«Quella è Margaret?», chiesi, stordito.
Damon mi fece alzare e mi spinse verso la porta.
«Non possiamo lasciarla qui!».
«Se la caverà!».
«Ma…».
«Le domande dopo. Ora corriamo».
E così, con un ultimo sguardo alla donna che aveva messo in ginocchio lo stesso Demonio,
fuggii dal luogo della mia prigionia ed emersi al chiaro di luna.
28
Ci precipitammo fuori dalla cappella. Appena lasciata la proprietà dei Richard, ci lanciammo in
una folle corsa nei boschi. I rami dei cespugli ci graffiavano le gambe mentre discendevamo il
pendio nella notte umida, e gli alti pini bloccavano i raggi di luna che riuscivano a sfuggire alla coltre
di nubi. Se fossimo stati umani, saremmo di sicuro scivolati sul terreno ricoperto di foglie marce.
Incapaci di vedere a più di un metro di distanza, ci saremmo schiantati contro il grosso tronco di un
albero.
Invece, ci muovevamo come predatori, traversando la notte come i vampiri avevano fatto per
centinaia di anni: sfrecciando nella natura selvaggia fino al più vicino villaggio in cerca di potenziali
vittime, dando la caccia a qualcuno che si era stupidamente separato dal gruppo e aveva deciso di
viaggiare da solo di notte.
Mi sentivo bene a correre in quel modo, con un po’ di sangue umano che mi scorreva nelle vene.
Ero quasi riuscito a perdermi in quella fuga, dimentico del motivo per cui stavamo scappando.
D’un tratto sentimmo un rumore.
Cominciò come l’inizio di un lungo rombo di tuono, salì in un crescendo di lamenti inumani e finì
in un grido di disperazione. Era dappertutto, riempiva le nostre orecchie, la valle in cui stavamo
scendendo, il cielo sopra di noi.
Ci fermammo, spaventati da quei suoni.
«Be’, immagino che il vampiro sia libero», sbuffò Damon.
«Margaret…», cominciai.
«Fidati, sta bene. Hai visto che cosa gli ha fatto?», fece notare Damon.
«Cos’è di preciso?», chiesi.
«Una strega».
«Come Emily?», chiesi meravigliato. Le mie teorie erano confermate. Possibile che il mondo
fosse pieno di streghe, vampiri, demoni e chissà quali altre creature che passavano inosservate
davanti all’occhio umano?
«Avevo avuto la sensazione che ci fosse qualcosa di diverso in lei quando non ero riuscito a
soggiogarla…», spiegò Damon. «Così ho chiesto. E lei ha risposto. Piuttosto schietta, quella
ragazza».
«Quindi lei…».
«Ha lanciato un incantesimo di protezione su di sé e sulla propria famiglia, e prima stava
cercando di adoperare i suoi poteri mentali per farci guadagnare un po’ di tempo. Sottolineo il
“poco”», aggiunse. «Spero che quell’incantesimo di protezione sia ancora attivo».
Si sentì un altro ruggito.
«Continuiamo a muoverci», ordinò Lexi, e ricominciammo a correre.
I boschi diventavano sempre più neri, come se la natura stessa temesse il suo approssimarsi, e
potevamo sentire la terra tremare sotto i suoi passi.
Io e Damon saltammo su un tronco gigantesco e per un attimo i nostri movimenti furono in
perfetta sincronia. Ma poi, frenando con una scivolata, fummo costretti a fermarci a ridosso di un
dirupo che si affacciava su Manhattan.
«Uhm», fece mio fratello dubbioso, sbirciando oltre il bordo del precipizio.
«Dobbiamo trovare qualche altro modo per scendere», dissi, cominciando a osservare la
strada da cui eravamo venuti. «Un sentiero oppure…».
Con un grido, Lexi si gettò dal dirupo.
La guardai, con gli occhi sgranati per l’orrore.
«Trovare un altro modo per scendere?», disse Damon, scuotendo la testa in segno di
disapprovazione. «Pensi ancora come un umano, fratello». E si tuffò dopo di lei.
Imprecai sottovoce, guardandolo scomparire fra i rami sottostanti. Poi lo seguii.
Per quanto la caduta fosse spaventosa, c’era qualcosa di liberatorio in essa. Ero senza peso e
nuotavo nell’aria. Il mondo mi fischiava tra i capelli e le dita tese. Mi sembrava quasi di volare.
Mi schiantai sfondando una spessa volta di foglie e rotolai per terra con le ginocchia al petto,
raddrizzandomi alla fine con una caviglia storta che si rimise a posto da sola prima che me ne
accorgessi.
Damon e Lexi erano già in piedi. Lei teneva la testa piegata, per ascoltare la strana quiete in cui
all’improvviso ci eravamo trovati immersi.
«Ha perso le nostre tracce», disse Damon trionfante. «Non ha capito che ci siamo buttati dal
dirupo! Lui…».
«Lui è davanti a noi», mormorò Lexi, sgranando gli occhi. Verso sud, infatti, c’era un silenzio di
tomba, come se ogni essere vivente si fosse zittito o fosse morto. Non sapendo cosa fare,
restammo in attesa, anche se non sapevamo di cosa.
Poi giunse il suono di un singolo filo d’erba piegato e spezzato.
«Correte!», gridò Lexi.
Non ce lo facemmo ripetere due volte. Feci l’errore di guardarmi alle spalle. Quello che vidi non
si accordava con quello che percepivo; da una parte, ebbi la fugace visione di un uomo più vecchio
che mi seguiva con sorprendente rapidità. Ma l’ombra proiettata dal chiaro di luna era di una
creatura molto più grande e dalla forma bestiale. Gli alberi e i cespugli sul suo cammino cadevano
e si schiantavano al suolo prima ancora che li toccasse.
Raddoppiai la velocità del mio passo.
Non avevamo altra scelta che dirigerci a sud. La boscaglia si sfoltiva e la civiltà cominciava ad
alzare la sua brutta testa: un’ultima fattoria solitaria, una serie di terreni abbandonati, una grossa
tenuta, un albergo, strade sterrate che conducevano ai grandi viali asfaltati, affollati di cavalli,
carrozze, taxi e pedoni ancora in giro nel cuore della notte.
E dietro di noi, reso più potente da ogni ombra attraversata, c’era l’Antico.
Girammo un angolo, investendo un carretto della frutta e facendo cadere i cestini, e mi sentii sul
collo il fiato bollente e fetido di putrefazione che usciva dalla sua bocca ansante e storta. Ci
tuffammo nei bassifondi, correndo a zig zag per evitare le corde di bucato e il liquame delle fogne a
cielo aperto, ma lui ci stava sempre alle calcagna e si sbarazzava di oggetti e persone che gli
ostacolavano il cammino. Quando pensavamo di averlo distanziato, zigzagando tra i vicoli e le
labirintiche stradine laterali, sentivamo ancora il suo Potere e la sua frustrazione che vibrava nella
notte.
Ci guidava Lexi e, che fosse grazie al suo Potere o a una certa familiarità con la città, riusciva
sempre a trovare la giusta scala antincendio su cui saltare o la pila di spazzatura utile da ribaltare.
Forse non era la prima volta che scappava da un demone di quella statura.
«Il porto marittimo», sibilò. «È la nostra unica possibilità».
Damon annuì. Per una volta aveva preso ordini da un’altra persona senza problemi. Ci
dirigemmo a ovest, verso i viali che costeggiavano il possente fiume Hudson.
All’improvviso, Lexi socchiuse gli occhi e indicò qualcosa davanti a sé. Un clipper, un bel
vascello blu brillante sul punto di lasciare il porto, carico di ogni tipo di merce newyorkese da
vendere oltremare.
Lexi, con un potente salto, volò sull’acqua fra la banchina e il ponte della nave, tenendo le
braccia a mezz’aria come un gatto che balza sulla preda. Io e Damon la imitammo e atterrammo in
silenzio sul ponte scuro. Prima che ci riprendessimo, lei aveva già soggiogato il marinaio sconvolto
che aveva assistito al nostro rocambolesco arrivo.
«Siamo nel manifesto di bordo. Io e i miei fratelli abbiamo una cuccetta qui. Non siamo
semplicemente saltati a bordo…».
Damon contemplava la nave con interesse, soddisfatto del nuovo ambiente.
Io mi voltai a guardare la riva. Appoggiato alla ringhiera del molo, c’era solo un uomo
dall’aspetto innocuo, pallido come se avesse risucchiato dentro di sé tutto il chiaro di luna. Aveva
un’aria disinvolta, come se stesse lì solo per guardare le navi che andavano e venivano.
Ma lo sguardo dei suoi occhi era mortale, eterno. Era lo sguardo di chi non perdona.
29
Si chiamava Mina M. Era una nave veloce di rara bellezza, dalla forma slanciata e con le vele
bianche. L’albero di legno era ben oliato a lucido, e vantava una piccola bandiera rossa che
schioccava al vento.
Stavo a prua con gli occhi chiusi, e immaginavo il nostro viaggio. La pungente brezza salmastra
e il brillante sole giallo mi avrebbero sferzato le guance arrossate mentre la Mina fendeva le onde,
lasciando una scia di schiuma bianca e spruzzi. Avrei visto i pesciolini d’argento luccicare
nell’acqua e guizzare via in fretta al passaggio della nave.
Durante il viaggio – nelle Indie Orientali – avremmo avvistato piccole barche a remi cariche di
banane e rum. Ci saremmo fermati per commerciare spezie in India. Avrei finalmente visto l’Italia,
avrei fatto un giro nella Cappella Sistina, avrei ammirato il Duomo e avrei bevuto Chianti
proveniente direttamente dalla vigna.
Forse… forse sarebbe stato questo il mio nuovo stile di vita. Viaggiare alla velocità dell’acqua
piuttosto che confinarmi nelle ombre. Non sarei mai rimasto in un porto troppo a lungo, avrei corso
più veloce della morte e della mia maledizione. Di solito i marinai non hanno amici al di fuori del
proprio equipaggio: questa condizione mi calzava a pennello.
Poi aprii gli occhi e le mie fantasie si dissolsero nella profonda oscurità di mezzanotte che mi
circondava. Una densa coltre di nubi, che la luce delle stelle non riusciva a penetrare, oscurava il
cielo. La Mina scivolava in silenzio sull’oceano, fendendo l’acqua oleosa con un sibilo
impercettibile.
Era il regno dei vampiri. Anche se l’anello mi permetteva di camminare alla luce del sole, il mio
mondo prendeva vita nel buio. Era allora, mentre il sole dormiva, che cacciavo, eludevo i nemici,
sputavo maledizioni, infrangevo promesse e mi abbandonavo all’odio. Eravamo sfuggiti al tirapiedi
di Klaus, ma non lo avevamo sconfitto. Lui e il suo padrone erano ancora là fuori, da qualche parte,
a pianificare il modo in cui avrebbero torturato e ucciso me e Damon.
Lexi salì in coperta e mi sfiorò le spalle.
«Siamo in viaggio verso San Francisco», disse con calma. «È un bel po’ che… non ci torno. Ma
adorerai la nebbia e il clima lugubre. È perfetto per meditare». Mi rivolse un debole sorriso. «E ho
la sensazione che tu intenda rimuginare parecchio».
Mi appoggiai alla ringhiera del ponte. Non avevo il coraggio di dirle che non sarebbe mai stato il
posto per me, che non mi ci sarei mai adattato. E comunque non me lo meritavo, dopo tutte le vite
che avevo distrutto.
Il vento notturno mi scompigliò i folti capelli castani e Lexi mi infilò una ciocca dietro l’orecchio.
«Ha detto occhio per occhio», cominciai.
«Sì. Certo». Lexi trasse un profondo sospiro e mi guardò seria per un momento, stringendo gli
occhi. «Questa è una nave veloce e occorrerà del tempo per interpretare il manifesto di borso. Oltre
al carico legale di tè e caffè, c’è una considerevole partita di oppio che hanno in mente di
imbarcare a Frisco. Il capitano ha omesso di registrarla sul libro mastro, quindi ci vorrà un po’ prima
che qualcuno capisca dove stiamo scappando».
«No. Cioè, sì, è una buona cosa». Mi strofinai via dagli occhi un improvviso spruzzo d’acqua.
«Ma volevo dire… ha ucciso quelle che supponevano fossero le nostre mogli, perché la sua
Katherine era stata uccisa».
Lexi annuì, rabbrividendo.
«E poi ha catturato te… e stava per ucciderci entrambi, e probabilmente anche Damon, in una
chiesa, proprio come era stata assassinata Katherine».
Lexi socchiuse gli occhi. «Non sono sicura di capire dove vuoi arrivare».
«Se è stato tanto meticoloso nella scelta delle vittime e delle modalità dell’omicidio, perché non
ha incendiato la chiesa?».
Lexi batté gli occhi. Mi accorsi che ci stava ragionando su. Rimase in silenzio a lungo. Non
riuscii a decifrare il suo sguardo, ma mi sentivo in imbarazzo a pensare a Katherine in un momento
del genere.
«Stefan», cominciò. «Ascoltami, per favore. Ci sono tutti i livelli di malvagità tra i membri della
nostra specie. Dalle creature più antiche, che commettono atrocità enormi alle… piccole, orribili e
giovani creature che vivono solo per il proprio piacere, senza curarsi del male che procurano agli
altri.
Katherine voleva che tu diventassi un vampiro. E guarda i risultati. Non piangere più per lei,
Stefan, e smettila di cercare indizi sulla sua morte o sulla sua vita passata. Lasciala andare.
Sinceramente, è la cosa migliore che tu possa fare».
Girai la testa da un’altra parte, per non incrociare il suo sguardo, e fissai l’unica stella
abbastanza luminosa da penetrare la coltre di nubi: la stella polare.
Katherine era come quell’astro: fisso sul posto, uno spettro silenzioso sospeso su di me, un
punto di riferimento per misurare i miei progressi. I miei sentimenti nei suoi confronti erano
ininfluenti: lei mi aveva creato e sarebbe stata sempre con me.
«Noi non siamo tutti malvagi», dissi, mettendole un braccio intorno alla vita. «Tu non lo sei».
«Io sono molto più vecchia di te», rispose con dolcezza. «Ora sono diversa dalla persona che
sono sempre stata. Non sei l’unico che abbia dei peccati da espiare, Stefan. Ma ho fatto a me
stessa la promessa che sarei cambiata».
«Oh, puah! Promesse». Damon salì sul ponte, inciampando e facendo un gran fracasso. «Per
l’amor di Dio, non abbiamo fatto abbastanza promesse per una vita intera?»
«I matrimoni sono stati una tua idea, non mia», puntualizzai.
«Ueee, uee, sono un vampiro, ho avuto un matrimonio magnifico, champagne a fiumi, mio
fratello mi ha salvato e io continuo a lamentarmi».
Damon scavalcò la ringhiera del ponte, afferrò la sbarra di legno liscio e si spinse di nuovo
dall’altra parte, barcollando finché non ci raggiunse. A un occhio inesperto sarebbe parso ubriaco,
ma c’era un’eloquente macchia cremisi all’angolo della sua bocca. Era ubriaco della nostra fuga,
del nostro salvataggio, della linfa vitale di qualche povero mozzo… Ma non di alcol. Non ancora,
almeno.
«Sì, a proposito di salvataggi, Margaret…», suggerii.
Damon sospirò. «Quando l’ho interrogata sulla sua capacità di resistenza al soggiogamento,
Margaret ha ammesso di essere una strega e ha detto che mi avrebbe aiutato».
«Tutto qui?», chiesi scettico.
Damon alzò gli occhi al cielo. «In cambio ha chiesto che lasciassimo New York e che non
tornassimo più… almeno nel corso della sua vita. Inoltre –˗ questa è la parte che mi uccide – che le
restituissi le doti».
«Accidenti, Damon. Mi dispiace», disse Lexi, con un luccichio negli occhi che smentiva la
seriosità del tono. «Il tuo piano di spennare il ricco di turno non ha funzionato. Ti andrà meglio la
prossima volta». Gli diede un leggero pugno sulla spalla.
«Le dobbiamo la vita», dissi serio. «Non era per niente tenuta ad aiutarci. Anzi, aveva tutto il
diritto di rifiutarsi. L’incantesimo di protezione che ha lanciato su di sé e sul marito… pensate che la
terrà davvero al sicuro?»
«Devo crederci. In ogni caso, si è dimostrata una persona migliore di tutti voi», dichiarò Lexi.
«A proposito di persone migliori…», dissi, soffocando a malapena un sorriso, «Cosa ti ha
spinto a tornare indietro a salvarmi? Credevo che fossi determinato a “non perdonarmi mai” e a
“punirmi fino alla fine dei miei giorni”».
Gli occhi celesti di Damon si velarono. «Sì. Certo, rivendico tutto quello che ho detto. Io non ti
perdonerò mai. Renderò un supplizio ogni momento della tua vita».
Scossi la testa, ricacciando dentro l’ondata di rabbia nera che voleva urlare a Damon che lui
poteva aver perso l’amore della sua vita, ma io avevo perso la vita che amavo. E un padre, una
casa.
Un fratello.
Ma la rabbia, con la stessa rapidità con cui mi era montata dentro, defluì, lasciandomi vuoto.
Come potevo aspettarmi che mio fratello mi perdonasse per averlo trasformato in vampiro quando
io stesso non riuscivo a perdonarmi per quello? Un tempo mi aveva voluto bene, come io avevo
amato Katherine, ma io non le avrei perdonato mai e poi mai di avermi reso quel che ero.
Damon mi prese per le spalle. «Comunque», aggiunse, sollevando gli angoli delle labbra, «se
qualcuno ti ucciderà, quella persona dovrò essere io».
Poi, senza dire altro, saltò sulla ringhiera del ponte con uno scatto da vampiro e restò in
equilibrio senza muovere un muscolo, mentre la barca s’immergeva e oscillava sull’acqua, simile
alla polena di una nave, scolpita nel marmo freddo.
Alzò la mano in segno di saluto. «Arrivederci, fratello».
Poi, prima che potessi pronunciare il suo nome, saltò dalla ringhiera e affondò nelle acque
scure.
Mi precipitai verso il bordo della barca e osservai le onde spumeggianti. Ma mio fratello non
riemerse. Restai lì con Lexi per quella che parve un’eternità, finché ci trovammo così lontani dalla
costa che ci sembrava di essere sospesi nell’oscurità.
Poi, quando finalmente dall’orizzonte d’acqua spuntò la testa rossa del sole, ci ritirammo nella
penombra della cabina per affrontare il nostro futuro.
EPILOGO
Il periodo trascorso a New York ha messo in chiaro i rischi della mia vita; nonostante le mie
buone intenzioni, sono un pericolo per gli umani, e mio fratello è un pericolo per tutti.
E adesso? Cosa mi riserva il futuro? I miei giorni passano come minuti. Immagino che ciò
voglia dire che mi sto abituando all’idea dell’eternità.
Ho perso così tanto nei mesi trascorsi da quando sono diventato la creatura che sono ora. Ma
ho guadagnato tempo. E col tempo ho ottenuto delle opportunità. Visiterò l’Italia. E il resto
dell’Europa. Viaggerò per il mondo intero. Ma non mi costruirò mai più una casa fra gli umani.
Quanto a Damon… Credo che la strada da fare assieme sia ancora lunga e che la nostra
storia non sia ancora finita. Se uno di noi, alla fine, dovesse mai incorrere nella propria rovina,
sarà solo l’altro a provocarla.
E sullo sfondo – preceduta dal leggero profumo di zenzero e limone – ci sarà sempre
Katherine, a ridere di noi.
Indice
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Epilogo