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Collana Ombre
Serial Kinder di William Silvestri
Collana: Ombre
Genere: Giallo grottesco
ISBN: 9788898036103
PRIMA EDIZIONE Febbraio 2015
©2015 Watson edizioni – Tutti i diritti riservati
Editing e cura redazionale: Arianna Rossi
Cover design: Bernardo Anichini
Watson edizioni, via Pescosolido, 102 – 00158 Roma
www.watsonedizioni.it
[email protected]
William Silvestri
Serial Kinder
Watson edizioni
Al mio papà
Dovevo avere fgli per capirti
“La gente è il più grande spettacolo del mondo.
E non si paga il biglietto.”
(Charles Bukowski, Storie di ordinaria follia, 1972)
Prologo
E chi lo capisce il cervello delle donne. Voi ci riuscite? Volete
farmi credere di essere in grado di comprendere cosa succede nella
loro testa?
Prendiamo una femmina a caso, che so, Romina Spahiu: albanese, vedova ma piacente, un fglio in età scolastica da mantenere.
L’impiego come donna delle pulizie non assicurava un futuro al
pargolo, così aveva scelto un amante con tutti i crismi: vecchio,
con la grana e, se proprio dobbiamo essere onesti, non del tutto
defunto nei Paesi Bassi.
Era una donna, dicevamo, e dunque di natura pragmatica: per
questo, prima di capire, mettersi a strillare e andare nel panico, un
input bizzarro nella testolina la portò a constatare che per togliere
tutto quel sangue dal pavimento si sarebbe dovuta fare un mazzo
a girasole. Ma fu appena una frazione di secondo. Dopodiché
capì, urlò e piombò nel panico più totale.
«Daranno la colpa a me» il suo primo pensiero. È risaputo: l’istinto di sopravvivenza prevale sempre, pure sull’orrore.
Una nuova manche di grida ricominciò più acuta, provocando
uno straziante rimbombo nella gigantesca sala da ballo e trafggendo la poveretta come uno stormo di dardi scagliati sui timpani. In realtà erano le sue stesse urla, ma non se ne rese conto perché le mancava l’aria. Avrebbe desiderato piangere, vomitare,
strapparsi i capelli, ma riuscì a trattenersi. Grazie a un attimo di
lucidità ricordò che nelle scene del crimine l’importante è non la-
sciare tracce. Ne aveva viste tante di fction sulla polizia: agli sbirri
sarebbe bastata un’impronta per sbatterla in galera. Innocente. O
meglio, colpevole, ma non di omicidio.
Innanzitutto il suo era un lavoro irregolare: dopo aver lasciato
Valona si era trasformata in una sguattera con un inutile cassetto,
che ogni tanto apriva per togliere un po’ di polvere dalla laurea in
scienze naturali. Comunque non si era mai lamentata, a certe sue
amiche era andata molto peggio.
Cosa le mancava, in fondo? Viveva in una casetta arredata con
gusto (l’aftto glielo pagava lui) e sbarcava il lunario grazie al lavoro che lui le aveva procurato. Lui¸ che era il suo amante, aveva
un nome e un cognome anche se da tempo immemore tutti si
scappellavano chiamandolo Cavaliere. Alla fne Romina ruppe gli
indugi e gli telefonò, in fondo la sala da ballo era sua.
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Molti uomini tremano quando sono in famiglia e il cellulare
squilla. Ferdinando no. Coscienza pulita? Macché! Quello lì aveva
una gran faccia di corna. Anche se, in efetti, da decenni le corna
facevano pendant con la chioma tinta di sua moglie Anita che,
come tante altre sue epigone, si era sempre guardata bene dal vedere, fngendo di non sapere e, talvolta, quando l’occasione faceva
l’uomo suino e la donna zoccola, rendendogli pan per focaccia.
A ogni modo, per la moglie del Cavaliere quella lì era solo
un’extracomunitaria che faceva le pulizie al Circolo. Stop. Una
cosa che invece Anita sapeva bene era che assai di rado Ferdinando perdeva il controllo: quando ciò avveniva erano cazzi.
«Uh Maronna» tremò nel chiudere la conversazione «Ci sta...
c’è una morta al club.»
Romina non era riuscita ad aspettare dentro: quella cosa proprio
non poteva guardarla. E pensare che in origine era stata una donna.
Decise di attendere il Cavaliere in strada, con il vento a scompigliarle la criniera moresca. Avrebbe voluto gettargli le braccia al
collo, smorzando i singhiozzi contro le sue spalle larghe; invece il
Cavaliere si presentò insieme allo scorfano con la fede al dito.
Per tutti i suoi sessantanove anni Ferdinando non si era mai distinto come cuor di leone, ma il cervello (al contrario di altre parti
del corpo che a volte bisognavano di un qualche aiutino chimico)
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gli funzionava ancora bene. Decise dunque di avventurarsi da solo
nel club sulla base di un semplice ragionamento: essendo trascorso
più di un quarto d’ora dalla telefonata di Romina, un eventuale
malintenzionato avrebbe avuto tutto il tempo di ammazzare pure
lei. Sicuro che non vi fosse più anima viva al Circolo, lasciò nel
pieno imbarazzo la moglie con l’amante e s’incamminò nel locale.
Era svelto di pensiero, ma questo non signifca che avesse uno
stomaco di ferro e così, a diferenza dell’albanese, il Cavaliere non
si fece problemi e vomitò senza ritegno contaminando la scena del
delitto col proprio materiale organico. Altro lavoro per la sua
amante.
Quando ricominciò a respirare s’impose di sollevare lo sguardo.
Intuì che quel coso in un lago di sangue era proprio un cadavere di
donna. Anzi, soltanto il busto e la testa: gambe e braccia forse solo
Dio sapeva quale fne avessero fatto. Era nuda, una bella donna.
Giovanissima, bionda, due tette così. Non era il caso di pensare a
certi argomenti, si censurò da solo il Cavaliere. Dietrofront e segno della croce in rispetto della vittima; di spalle, ché senza guardarla gli venne meglio.
Uscì e trovò sua moglie che abbracciava Romina. Cosa si diceva a proposito del cervello delle donne? Quegli esseri lì sono incredibili: avrebbe giurato di trovare un’altra morta, uscendo dal
club, e invece…
«Ti prego, Cavaliere: no chiami polizia.»
«Non ti preoccupare, Romi’: chiamo a mio fratello.»
«Ma tuo fratello è polizia!» protestò.
«Appunto: vediamo che può fare.»
Da sempre abituato al comando, dispose nuovi ordini.
«Telefona a tua sorella» intimò alla moglie «dille che svegliasse
a Don Gennaro: sta sempre a dormi’ ‘sto vecchio di merda.»
A Romina invece toccò chiamare gli altri due soci, Peppe e
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l’Avvocato.
Il commissario Celentano fu il primo ad arrivare. Ferdinando
non lo chiamava nemmeno per gli auguri, e quando lo faceva era
per chiedergli un favore. Se poi esordiva con “Ciao fratellino” il
favore era bello grosso. Quella volta però il Cavaliere si era superato: una sconosciuta fatta a pezzi nel suo locale.
«Ma come non puoi fare niente?»
«Te l’ho detto, Ferdina’: se ne deve occupare l’Anticrimine.»
Il Cavaliere non si arrese.
«Mamma mia, per una volta che ti chiedo un piacere.»
«Ti ho insabbiato una multa appena due settimane fa» gli rinfrescò la memoria.
«Proprio non lo vuoi capire che non si può parcheggiare sui
marciapiedi, eh? Meno male che il tenente della Municipale è un
amico.»
«Ma mo che ci azzecca? Qua stiamo parlando di omicidio.»
«Esatto» annuì il commissario «Converrai che è un pelino più
delicata come faccenda. Finché si tratta di dimenticare qualche
contravvenzione, come quella volta che ti rifutasti di pagare il pedaggio della tangenziale, io ti aiuto pure.»
«Ma quale rifutato! Non tenevo spicci.»
«Fefè, ti ha scambiato per un camorrista. La devi fnire di minacciare la gente.»
«Se vabbuò, che paroloni.»
Celentano sbufò. Lo avrebbe preso volentieri a schiaf ma era
il fratello minore e, in quanto tale, costretto a rispettarlo in virtù
di ancestrali consuetudini del Meridione; d’altra parte, fn dall’infanzia il Cavaliere andava ripetendo come a suo avviso Ferdinando I fosse più importante di Federico II, e per questo motivo riteneva che la primogenitura gli concedesse il diritto di non fare un
tubo nella vita; al contrario, il futuro commissario comprese ben
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presto la necessità di rimboccarsi le maniche per trovare il suo posticino nell’universo.
«Lo vuoi capire che è molto più grave? Hai trovato un cadavere,
Ferdinando.»
«Ué, ué. Mica so’ stato io. L’ha trovato questa.»
Cioè Romina, che il Cavaliere indicò per discolparsi. Anita interruppe l’atto d’eroismo del marito: sua sorella aveva svegliato
Don Gennaro che li avrebbe raggiunti a breve, coprendo come
suo costume la distanza a suon di bestemmie.
«Senti Fefè» ricominciò il commissario «io devo segnalare l’accaduto. Poi, al massimo, posso informarmi e capire a chi assegneranno le indagini per vedere di ammorbidire le conseguenze per il
club.»
«Che conseguenze?» domandò il Cavaliere, scettico.
Celentano si accese una sigaretta.
«Stasera qua si balla, no? Ti conviene avvisare quelli che hanno
già prenotato, fratellone: secondo me per un po’ il Circolo chiude
i battenti.»
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A titolo di cronaca, il nome era Giuseppe Gori. All’anagrafe,
giacché nessuno lo chiamava più in quel modo; per tutti era Peppe ‘o Mericano.
Sempre per amore della precisione (se ci sono pignoli fra voi
lettori) non era davvero statunitense: quel soprannome glielo avevano afbbiato per due ragioni, una antropologica e l’altra di natura pratica. La prima, più banale, servirà forse a chiarire ai signori lettori del Nord come si ragiona nel Mezzogiorno. Peppe era
originario di Firenze, città nella quale visse per quasi un ventennio e, nonostante abitasse a Napoli da più di cinquant’anni, non
era mai riuscito a padroneggiare l’accento partenopeo; anzi, a dire
il vero aveva tuttora qualche problema di traslitterazione del dialetto, specie quando interagiva con Don Gennaro che, viceversa,
mostrava parecchie lacune nella lingua di Dante. Ma parleremo
del don in un secondo momento. Ora restiamo su Peppe.
Non essendo napoletano veniva percepito come straniero dai
suoi concittadini. Ma perché proprio Americano? Ed eccoci arrivati al secondo punto: per molti anni l’uomo era stato impiegato
come elettricista presso la base NATO di Agnano; anzi a essere
cavillosi (sempre per quei quattro o cinque precisini fra di voi) si
trattava del Navy Exchange, la marina americana.
Va detto che il suo inglese era fuente quanto quello di un bambino di terza elementare. Bisogna comunque sottolineare che
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quando le circostanze lo richiedevano (cioè quando si incazzava)
Peppe come per magia era capace di tirar fuori dal cilindro dello
slang una serie di frasi che non ti insegnano a Oxford, come quel
giorno in cui il suo capo non credeva che fosse malato e lui, dal
telefono del club, sbraitava «I am sick. SICK! Don’t break my
balls1!» Devo tradurre?
A proposito di Circolo: dopo la telefonata dell’albanese, l’Americano si era precipitato sul luogo e una volta lì, accortosi della
presenza del fratello del Cavaliere, non l’aveva mollato un attimo.
Si era afrettato a dichiararsi dispiaciuto per la donna ma era palese che nutriva soprattutto preoccupazioni inerenti al locale.
Quando gli fu chiaro che avrebbero dovuto annullare la serata (e
chissà quante altre attività), si attaccò al cordless per avvertire,
uno a uno, tutti i client… ehm, i soci ordinari che avevano prenotato. Terminato l’elenco, passò con diligenza ad avvisare i dipendent… voglio dire i soci collaboratori.
Il numero di Red Fonzi, lo squinternato pianista/cantante che
faceva parte dell’arredamento del locale, era occupato; vedendo
arrivare Don Gennaro, l’Americano decise di riprovare più tardi.
«Ma n’agg capit» esordì il don, ciancicando ciò che restava di
una di quelle sigarette sottili. Come si fa a fumare una porcheria
simile, tra parentesi?
«‘os’è che ‘un hai ‘apito?» gli chiese Peppe che, al contrario del
don, non fumava più ma continuava ad aspirare le c, da buon toscanaccio.
«‘sta femmena. Doveva morire proprio qua?»
«Eh, uno ora se lo sceglie il posto dove farsi ammazzare» ironizzò il Cavaliere, che nel frattempo li aveva raggiunti.
«Ma l’Avvo’ato ‘un viene?» domandò Peppe.
«Boh, è latitante» replicò Ferdinando. «Don Genna’, hai una
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dall’Inglese: "Sono malato, malato! Non rompermi le palle!".
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sigaretta?»
Il vecchio, come lo chiamavano i tre soci (giacché, rispetto a lui
si sentivano nel fore degli anni), bofonchiò qualcosa tra sé e sé
che non compresero né Peppe, in quanto Americano, né il Cavaliere che pure era nato, vissuto e pasciuto a Napoli. Con ogni probabilità, comunque, il don si lagnava del fatto che Ferdinando
fosse uno scroccone.
«Il cellulare dell’Avvocato è spento.» argomentò Ferdinando
dopo un paio di boccate «Ho provato pure allo studio, ma anche
là nessuno l’ha visto.»
«E il tu’ fratello dov’è andato?» incalzò Peppe, che aveva perduto di vista il commissario.
«In macchina. Sta cercando di sapere a chi afdano le indagini.»
Si accomodarono nella Direzione, vale a dire un bugigattolo
senza fnestre in cui entravano a malapena due sedie e un piccolo
scrittoio di legno con cassetto. Peppe aveva mal di testa, poiché
già ipotizzava funeste conseguenze per il Circolo, e si reggeva la
fronte con le mani. Decise di occupare lo sgabello: la sedia, quella
con i braccioli e la seduta in pelle, era di Don Gennaro e l’Americano non ci teneva a essere accusato di lesa maestà. Il decano del
club a dire il vero stava in piedi dirimpetto a Ferdinando, ma guai
a chi gli toccava la scranna.
«Almeno s’è ‘apito chi è la donna?»
«E io che ne so, Pe’!» sbottò il Cavaliere.
Aveva pronte altre domande, Peppe, tipo: chi l’ha fatta entrare,
conosceva qualcuno, perché proprio il club, eccetera eccetera, ma
le tenne per sé.
«Arriverà la scientifca.» spiegò Ferdinando, forse resosi conto
di aver risposto male al socio «Federico non può fare niente: uno
perché è mio fratello, due perché gli omicidi violenti spettano al8
l’Anticrimine.»
Don Gennaro smadonnò.
«Se almeno arrivasse l’Avvo’ato» si lamentò Peppe.
«Tanto quello è inutile all’umanità» tagliò corto il Cavaliere.
«‘un è vero» protestò l’Americano «la legge la ‘onosce ‘ome
po’hi.»
«Ohipè!» esplose Don Gennaro, sputando il mozzicone «Hanno
uccisa a una dentro il Circolo. Stamm ‘nguajat.»
«Peggio che inguaiati» s’intromise il commissario entrando in
Direzione con una faccia da funerale. L’Americano si agitò e pur
paventando la risposta pose la fatidica domanda.
«Ci chiuderanno il club?»
«No» rispose pronto Celentano.
Peppe respirò. «Cioè, sì. Penso di sì» corresse il tiro.
L’Americano diventò tutt’uno con lo sgabello: non ci fosse stato il pavimento, sarebbe sprofondato nell’Ade.
«Ma la cattiva notizia» aggiunse Federico come se quell’altra
fosse stata buona «è che ho appena saputo il nome del titolare dell’indagine.»
«Uno stronzo?» ipotizzò il Cavaliere.
«No, Ferdinando. Quello è Lo Stronzo, con la elle e la esse maiuscole. Si chiama “commissario Duraccio”, sarà qui a momenti e,
forse, una volgarità servirà a chiarire meglio la situazione: siete
nella merda.»
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Nessuno si era preso la briga di avvertire Red Fonzi che il ballo
era saltato. O meglio: Peppe un tentativo l’aveva pure fatto, ma il
telefono del pianista era occupato e poi, con tutte le cose che gli
ballavano (quelle sì) nella testa, si era dimenticato di richiamarlo.
Come sua antica abitudine Alfonso Riccio, in arte Red Fonzi
per via del ciufo rosso sfoggiato in gioventù, si era presentato al
Circolo con largo anticipo rispetto all’ora in cui veniva purtroppo
richiesta la sua presenza; solo così poteva infatti dedicarsi alle tre
cose che in assoluto gli riuscivano meglio. In ordine d’importanza: leccare il deretano ai soci fondatori, in ispecie quello del Cavaliere; spettegolare, sublime arte in cui egli era maestro indiscusso e
campione europeo imbattuto per il quinto anno consecutivo; giocare alle macchinette, cioè le slot machine del club, aggeggi nei
quali scialacquava le sue misere fnanze per la gioia della consorte.
Capirete quindi come mai un individuo di tal pasta, per il quale impicciarsi degli afari altrui costituiva un preciso diritto-dovere
incastonato fra gli aminoacidi del suo DNA, trovando le volanti
della polizia con tanto di nastro giallo per tenere a bada i curiosi
(di cui Fonzi era sindaco honoris causa), si commosse credendo di
aver trovato l’Eldorado.
«Peppe» urlò Ferdinando appena vide il tastierista «ti avevo ordinato di avvisare tutti gli schiavi.»
«Il suo numero era sempre o’upato» si giustifcò l’Americano.
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«Che succede Presidente?» domandò con la bava alla bocca
Fonzi, rivolto al Cavaliere. Questo fece imbestialire Don Gennaro, l’attuale presidente in carica. D’altra parte pochi sanno che lo
statuto del Circolo prevedeva che ciascuno dei quattro soci ricoprisse la carica presidenziale a rotazione, cambiando la stessa ogni
sei mesi. Anche se, va detto, per tutti e da sempre Ferdinando era
il presidente per antonomasia: uno così, un Cavaliere, era sempre
presidente di qualcosa.
«Vattenne!» sbraitò Don Gennaro.
«Perché? Non si suona stasera?» simulò falsa ingenuità, proprio
mentre uno sbirro gli passava accanto.
«No. Te ne devi andare, rosso» lo apostrofò Ferdinando guardandolo in cagnesco.
«Ma ho messo benzina per venire fno a qui» protestò l’ignavo.
«Ah, vuoi essere pagato lo stesso?» lo irrise il Cavaliere «E potevi dirlo prima, no?»
Così dicendo si avvicinò all’attaccapanni ed estrasse un oggetto
dal giaccone. Un portamonete. Lo aprì e lo scagliò più lontano
che poté verso il bancone del bar, facendo rovesciare tutte le monetine che erano per la maggior parte da uno e due centesimi.
«Tie’, pezzente. Vedi se ti bastano.»
Due agenti osservarono la scena divertiti, ma subito si diedero
un contegno rimettendosi sull’attenti: era infatti apparso sulla scena un omone la cui vista li aveva terrorizzati. La prima cosa che
vide il commissario Joe Duraccio entrando nel Circolo fu un vecchio rachitico dalla capigliatura grigia con accenni di rosso qua e
là, ricurvo a quattro zampe mentre raccattava con avidità pochi
spiccioli.
«A parte i titolari tutti gli altri se ne devono andare» ruggì.
Il suo collega e pari grado gli si parò davanti tendendogli la
mano. Duraccio lo evitò di proposito.
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«Anche i parenti. Non voglio nessuno fra i coglioni.»
Il riferimento a Celentano fu evidente, e il commissario non
era uno da farsi passare la mosca sotto il naso; tuttavia, per amore
del fratello, si sforzò di non reagire.
«Commissario» gli fece «si sono spaventati: è naturale che Ferdinando abbia pensato di chiamare me.»
«Poverini» lo schernì «è morta la donna ma si sono spaventati
loro. Mi faccia il piacere, Celentano: vada a casa prima che io la
faccia processare per favoreggiamento.»
Il prurito della mano destra, che si chiama orgoglio, gli suggerì
di tirar fuori la Beretta e fnirla lì, con un bel buco nella fronte di
Duraccio. Poi però Celentano rammentò che l’arma in dotazione
serviva ad afrontare i delinquenti, non i commissari stronzi. In
fondo quell’animale stava solo cercando di fare il suo dovere; con
modi discutibili, ma in sostanza aveva ragione.
«Ci mancherebbe, tolgo il disturbo» rispose a fronte alta. Salutò
il fratello e gli altri con un cenno del capo, e lasciò il locale.
«Lei ha fnito di strisciare come un verme?» inveì Duraccio rivolto a Red Fonzi. Sentitosi chiamare per nome, il lombrico inflò
quante più monete possibile nei jeans e scivolò fuori dal Circolo.
«Accomodatevi, dottore» propose Don Gennaro indicando la
Direzione.
«E già che ci siamo» rispose sarcastico il militare «mi faccia pure
un cafè.»
Don Gennaro non colse l’ironia e senza aprir bocca si diresse al
bancone.
«Allora, a me risulta che i titolari di questa bettola siano quattro. Chi manca all’appello?»
«L’Avvocato» rispose di getto Ferdinando.
«Non siamo riusciti a trovarlo» spiegò Peppe.
«Interessante» commentò caustico Duraccio annotando qualco12
sa su un blocchetto con una matita. In realtà non aveva scritto
niente, solo qualche scarabocchio per impressionarli. Faceva molto CSI.
«Quando sua maestà l’avvocato Orlando Migliaccio si degnerà
di farsi vivo, ditegli che aspetto una sua telefonata. Qua c’è il mio
numero» aggiunse consegnando un biglietto da visita a Peppe.
«Per il momento è tutto: toglietevi dalle palle e lasciateci lavorare.»
«Il cafè» lo interruppe Don Gennaro, servendolo in una tazzina
dai bordi dorati adagiata su un vassoio rotondo.
«Mi sta prendendo per il culo?» ringhiò il commissario. Con un
gesto repentino gli fece volare via tazzina e vassoio, provocando
un frastuono di cocci e dignità umana infranti. Don Gennaro assunse uno sguardo truce che era tutto un programma, ma sapeva
che il piedipiatti in quel momento fruiva del diritto di vita e di
morte sul club.
«Ma n’agg capit.» si limitò a constatare «Dotto’, il cafè me lo
avete chiesto voi.»
«Portate via questa mummia» ordinò il commissario agli altri
due soci «E ora fuori!.»
Cacciati dal Circolo. Da casa loro. Peppe era furibondo: se
quel tizio non avesse indossato una divisa gli avrebbe spaccato la
faccia, anche se l’Americano da pochi giorni aveva varcato il traguardo della settantina e il suo destro non era più temibile come
un tempo. Don Gennaro seguitò a lanciare anatemi verso il cielo
e i suoi abitanti, a maggior ragione dopo che il Cavaliere gli ebbe
scroccato l’ennesima sigaretta.
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