Aprile `10 a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini

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Aprile `10 a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Aprile '10
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Aprile '10
Numero Aprile '10
EDITORIALE
Primo numero di primavera per “Fuori dal Mucchio”, lo spazio del Mucchio storicamente
dedicato a quanto di più interessante avviene nell’underground musicale italiano, e quarto
dall’inizio dell’anno. Un anno che finora ha regalato grosse soddisfazioni per quanto riguarda
i nostri ambiti di competenza: artisti che in passato sono stati protagonisti delle nostre pagine
come Baustelle, Samuel Katarro, ...A Toys Orchestra, Virginiana Miller e Calibro 35 hanno
realizzato nuovi dischi di altissimo livello, e ci piacerebbe che la loro esperienza fosse di
esempio per le tante band emergenti che si stanno affacciando sulla scena. Perché è
doveroso cercare di inseguire qualità a prescindere dalle regole del mercato e dell’airplay
mainstream, e i nomi poc’anzi citati, ognuno alla propria maniera, dimostrano come un’altra
musica sia possibile rispetto a quella preconfezionata che i media di massa ci propinano
ogni giorno, magari cercando anche di farci credere che si tratti di prodotti dotati di una
qualche valenza culturale.
Detto questo, vi lasciamo al solito piatto ricchissimo di recensioni e interviste e vi
auguriamo, come sempre, buone letture e buoni ascolti. E, naturalmente, buona Pasqua.
Aurelio Pasini
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E42
Ritornano i romani E42 con un nuovo album – “Uomini celesti” (Cantoberon/Audiogobe) –,
occasione che ci permette di fare qualche chiacchiera con una band che non ama farsi
coinvolgere dal turbinio delle scadenze serrate dettate dalla discografie, e che ha prodotto
l'ennesimo disco attento al dettaglio e fedele ad un pop ricco di sfumature.
Sono passati più di cinque anni dal lavoro precedente, a che cosa è dovuto questo
lungo intervallo? In realtà avete sempre manifestato una certa tendenza a curarvi
poco delle classiche tempistiche della discografia, preferendo concentrarvi sulla
creazione di qualcosa che vi convincesse fino in fondo.
Si in effetti non teniamo molto in considerazione le cosiddette "esigenze" produttive fine a
sé stesse. Non esistono regole prestabilite, fortunatamente. Come detto in altre occasioni,
del resto, di musica a nostro avviso se ne produce fin troppa... vale la pena a volte prendersi
pause di riflessione o lavoro su un disco per poter portare a termine un lavoro secondo i
canoni desiderati. Dopo la pubblicazione del nostro primo album “Libera” e le relative date
live, abbiamo investito molto in pre-produzione e selezione del materiale per il nuovo album.
Inoltre ci siamo presi i nostri tempi, in accordo con l'etichetta discografica Cantoberon per cui
registriamo, per trovare la giusta piattaforma distributiva, e siamo molto contenti della
professionalità e la competenza degli amici di Audioglobe.
Il titolo - ma anche la copertina - sembra tirare in ballo il Battisti di “Anima latina”.
Magari è una coincidenza, ma mi sembra di intravedere qualche similitudine
attitudinale nel trattare il pop italiano come qualcosa di contestualizzabile all'interno
di un linguaggio “esterno”... in quel caso un certo tipo di progressive e di
contaminazione etnica, nel vostro caso una sensibilità dalle lontane radici new wave,
naturalmente aggiornata al presente.
Possiamo affermare che il filo conduttore dell'album è questa dicotomia tra la dimensione
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“alta” del titolo dell'album (e relativa copertina) e i temi che presentiamo nelle canzoni, che
trattano di tematiche invece molto terrene e spesso “basse”. Per definizione non possono
esistere “uomini celesti” e questo senso di “sospensione” emotiva crediamo sia percepibile
nell'intero album (temi a noi cari sin dai tempi degli Elettrojoyce). La copertina in particolare è
tratta da una foto originale di Claudio Corrivetti, un maestro della fotografia che ci
accompagna da molto tempo in soluzioni visive che fanno da contorno alla nostra musica.
Per quanto riguarda “Anima Latina” riteniamo che si tratti di uno degli album più interessanti
di quel periodo proprio per quella innovativa dimensione di contaminazione (che tu in
qualche modo chiami etnico-progressive), anche da un punto di vista puramente produttivo,
che indubbiamente ci ha influenzato in qualche misura. E infine, molto più banalmente,
troviamo il titolo dell'album poetico ed estremamente musicale.
Altra citazione, questa volta assolutamente consapevole, è lo “Spara Jurij” dei CCCP.
Un modo, in quel caso, per esibire un legame con un periodo fondamentale, di
autocoscienza, per un linguaggio rock autenticamente italiano?
Hai ragione, ovviamente è stata una citazione assolutamente consapevole. Abbiamo
rispetto per quella scena che ha dato moltissimo alla musica italiana. Nutriamo stima per i
grandi musicisti e autori che in quegli anni hanno aperto le porte e consolidato il cosiddetto
"rock italiano"... Trent'anni di grande musica che a volte è stata sottovalutata.. “Spara Jurij”
per noi è una icona e volevamo renderle omaggio... Evviva la musica italiana.
Gli E42 nascono dall'esperienza di un gruppo come gli Elettrojoyce, un nome di
spicco della scena anni 90: come vedete a distanza di un decennio quella esperienza
e come vi sembra il panorama musicale della penisola oggi? Quanto e come vi ci
ritrovate?
È cambiato molto dall'esperienza Elettrojoyce, mercato, tecnologie, pubblico, stampa e
media... Cosa dire.. Solo che ci riteniamo tra i pochi fortunati che hanno la possibilità dopo
15 anni di attività (il primo demo degli Elettrojoyce è datato 1994) di produrre ancora musica
con impegno e passione. Con Elettrojoyce prima ed E42 adesso abbiamo sempre avuto
un'ottica di lungo periodo con una forte attenzione al “senso della storia”... E la storia
continua.
Contatti: www.myspace.com/e42band
Alessandro Besselva Averame
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Flora
“Le traiettorie di volano” dei piacentini Flora, appena uscito per la Lizard, è una bella
sorpresa. Questo già di sé è un traguardo al giorno d’oggi. Le dinamiche del sestetto,
cercano un filo conduttore principale che è rappresentato dalla serenità e dalla leggerezza. Il
loro intento è raggiunto attraverso il metodo del post-rock, del jazz e della sinfonia di una
voce quella di Claudia Nicastro che ogni tanto è anche stonata ma riesce lo stesso a toccare
certe corde sensibili. Ne parliamo con Paolo Nicastro, bassista e seconda voce del gruppo.
Completano la band Pietro Beltrami alle tastiere, Fabrizio Lusitani alla chitarra, Pina Muresu
ai sassofoni e Michele Tizzoni alla batteria.
L'idea musicale dell'inizio dei Flora si è modificata nel corso di questi anni, con
aggiunta di componenti e di nuove concezioni della forma canzone. Quali sono state
le fasi salienti per voi che vi hanno portato al risultato attuale di "Le traiettorie di
volano"?
Fino al 2001 avevamo un sound più grezzo e immediato. L’ingresso di uno strumento a fiato
- all’epoca il clarinetto di Leonardo Andreoli, poi passato al sax fino al disco omonimo del
2005 - ha aperto un mondo nuovo. Le trame musicali si sono fatte più complicate e abbiamo
lasciato più spazio all’improvvisazione. Infatti se all’inizio era il sax che correva dietro alla
forma canzone quando eravamo ancora molto rock, poi si è verificato il contrario. Colono
che hanno avuto la possibilità di avere tra i suoi CD sia “Fili Distanti” del 2002 che “Flora” del
2005 non potrà che notare questo passaggio. “Traiettorie di volano” rifonde insieme le
caratteristiche dei primi due dischi però è impreziosito da una maggiore consapevolezza e
da un po’ più di tecnica, senza dimenticare l’istinto che rimane il nostro maggiore pregio. Mi
viene in mente per descriverci il sasso che si lancia nello stagno, perché noi ci sentiamo
come fossimo cerchi concentrici che si propagano.
La ricerca della leggerezza che si intravede nelle vostre trame, quanto è importante
per voi?
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Molto importante, tanto che è diventata una necessità. L’intersecarsi dei vari strumenti ha
come obiettivo proprio quello. Sappiamo che è difficile da raggiungere, ma è il nostro scopo.
Ogni strumento è singolo e corale nello stesso tempo. Forse è per questo che impieghiamo
dai tre ai quattro anni per concepire un disco.
Come avviene il momento della creazione di una vostra canzone e com'è cambiato
nel corso degli anni?
All’inizio Paolo arrivava con il pezzo già strutturato, lo scheletro per così dire, poi ognuno
aggiungeva la sua parte sempre con dose massiccia d’istinto. Invece, da quando abbiamo
inserito sax e tastiera tutto è cambiato. Ci siamo messi a fare lunghe improvvisazioni,
sempre molto circolari, tenendo il buono e scartando il marcio. Sistema complicato ma
redditizio. Parliamo sempre poco e suoniamo perché è così che comunichiamo tra di noi
soprattutto e c’è ancora un bel feeling, anche se gli anni passano.
"Come costruire un albero" mi è sembrata la canzone più profonda. Privarsi del
nostro essere noi stessi alla fine ci lascerà vuoti. Così l'ho interpretata da ascoltatrice.
Voi come la descrivereste?
In realtà è una rinascita, o quanto meno la speranza di ottenerla. Il verbo “potare” è la
metafora naturale (naturale in tutti i sensi) di un futuro più rigoglioso. Nei testi di Paolo c’è
sempre una componente cinica, a tratti ironica, a tratti rassegnata, tutto però incline al
benessere psico-fisico. In “Come costruire un albero” la speranza è celata dietro ad un
immagine cruenta, in realtà il fine è la ricerca della pienezza.
Cosa pensate dell'interpretazione delle canzoni? Quando le scrivete sperate possano
essere comprensibili per come le avevate pensate? O una volta pubblicate le vostre
canzoni sono di tutti e quindi possono per voi trovarci quel che vogliono?
Sarebbe bello ascoltare le varie interpretazioni di chi ci ascolta. Sarebbe divertente.
Sappiamo che i testi possono risultare di difficile comprensione, il guaio è che non possono
essere che così. In parte sono guidati dalla musica in parte dall’istinto: sono immagini che
prendono forma nella quotidianità, la vita si sa, fa piangere e ridere.
Dove avete registrato il disco e in che modo?
L’abbiamo registrato all’Elfo Studio di Tavernago (PC) con l’aiuto del preparatissimo Alberto
Callegari. Il basso, la chitarra e la batteria sono tutti registrati in presa diretta, il resto degli
strumenti uno alla volta. In tre giorni le tracce erano pronte, abbiamo dedicato invece molto
più tempo al missaggio. L’idea di base era quella di comunicare calore, speriamo di esserci
riusciti.
L'alchimia musicale che si sente tra voi musicisti di un sestetto è stato facile
conquistarla?
La risposta è si. Al costo di sembrare presuntuosi. Ci siamo trovati, non credo che avremmo
potuto tirare avanti per dieci anni in altro modo.
L'improvvisazione quanto è presente nella vostra musica suonata da vivo?
Il giusto. C’è molta energia dal vivo e il momento del live lo consideriamo il nostro lato
migliore da sempre. Ci sono tanti stili che si fondono insieme, ma il mix rimane personale e
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originale e mi chiedo perché non siamo ancora diventati famosi! A proposito siamo in cerca
di un booking.
Come mai la scelta di aggiungere DJ Krash per "L'attesa"?
Krash dei Lowpitch è un caro amico. “L’attesa” è un pezzo tratto dal nostro disco “Fili
distanti” riarrangiato per l’uscita di una compilation sulla Resistenza prodotta dal comune di
Piacenza. Il testo parla della guerra in generale senza dimenticare quella interiore, e Krash
aveva già remixato la vecchia versione. Poi lo abbiamo risuonato tutti insieme e funzionava.
Sarebbe stato stupido non inserirlo in “Traiettorie di volano”. In effetti si discosta un po’ dal
sound complessivo del disco e quei quindici secondi che la separano dal pezzo precedente
è un tentativo di renderla una ghost track neanche troppo ghost. Forse un po’ troppo sottile...
Il disco è uscito per ben quattro etichette. Come si sono accomunate queste
collaborazioni? E come il disco verrà distribuito?
In realtà, la Lizard è la capofila e produttrice esecutiva. Tea-Kettle Records si è aggiunta
all’ultimo per cercare di dare maggiore sostegno al progetto. BTF, GT Music, Eventyr sono
distributori che ci aiutano a divulgare il CD e permettono di rintracciarlo in canali
underground e via Internet. Speriamo che “Traiettorie di volano”abbia la visibilità che merita.
Quando aggiornerete il vostro sito?
Credo mai, a meno che qualche informatico appassionato ci prenda in simpatia. Siamo pigri
e tecnologicamente antiquati, però c’è sempre il MySpace.
Contatti: www.myspace.com/florakiki
Francesca Ognibene
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Il Pan del Diavolo
I Pan del Diavolo sono una bella realtà del nostro underground. Il duo palermitano –
Alessandro Alosi e Gianluca Bartolo – che si autodefinisce di “folk/melodramatic popular
songs/psychobilly”, ha al suo attivo un EP e un recente album davvero trascinante dal titolo
“Sono all’osso” (La Tempesta/Venus). Abbiamo scambiato qualche impressione con mezzo
Pan del diavolo, Alessandro Alosi, che non è un chiacchierone.
Il detto “il pan del diavolo è sempre avvelenato” è il manifesto della nostra musica”,
avete detto. Commenti questa affermazione?
Le cose fatte dal male e con cattiva fede vanno sempre a finire in malora, questo è il
significato del proverbio, per me rappresenta un cerchio magico all’interno del quale
immagino e scrivo le canzoni.
Il vostro approccio si può definire cantautorale-punk, se non fosse che non è proprio
semplice mediare le due attitudini. Quali sono i vostri maestri di stile, e cosa pensate
di aver “rubato” a ciascuno di essi?
Le mie influenze sono vaste e si sono pian pano polverizzate. Sicuramente mi sento
debitore nei confronti dei Cramps e nei confronti di Tenco quando diceva: ”per fare una
canzone che sia bella sincera e vera basta un buon testo“.
Ho letto di varie influenze attribuitevi, ma a me avete fatto pensare soprattutto al
primo Edoardo Bennato, con 12 corde e grancassa. Ti dice qualcosa o è un abbaglio?
Mi piace Bennato dei tempi di “Era solo un sogno” e sicuramente anche lui ha la sua colpa
se oggi il Pan del diavolo esiste, solo non è l’unico o il primo, ecco.
So che parlare di “scena” è sempre scivoloso, ma mi pare vi sia un importante
movimento che fa della Sicilia una specie di Arizona italiana; non so, penso ad artisti
come Cesare Basile, Marta sui Tubi... vi sentite parte di qualcosa, o vi pensate come
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un fenomeno a sé stante?
Non avevamo mai pensato a questo parallelismo però ci piace.
Di fatto loro però non vivono più in Sicilia.
Come avviene il momento compositivo? La maggior parte dei pezzi è firmata da te,
altri insieme. Che apporto dà ciascuno di voi alle intuizioni dell’altro?
Io butto giù lo scheletro dei pezzi con melodia e testo per il resto lavoriamo come una
squadra alla ricerca delle orchestrazioni più o meno definitive dei brani.
In uno dei testi più riusciti, “Il boom”, cantate: “viva la giornata che non lascia
certezze, viva lo schermo che mi lascia addosso come più forte segno di protesta”.
Elogio della precarietà e della sconfitta nobilitata?
Quella sconfitta era più personale, ma sempre con un’occhiata a quello che vedo succedere
attorno a me, in questo caso i due punti di vista si sono uniti. Il boom è una scossa che ad
una certo punto arriva, fa crollare le tue certezze e ti spinge a cercarne delle altre.
Vi confesso che ascoltando “Ciriaco”, pensavo di aver capito “celiaco”, parola che
collegavo a “pan del diavolo”, magari privo di glutine. Ci spieghi il pezzo, in cui si dice
“voglio essere ricordato come cattivo, non dolce e gentile casuale ma Ciriaco”?
È un pezzo estremamente rabbioso , scritto di getto , Ciriaco è il mio Mister Hide che vuole
uscire, urla e scalcia.
Il pezzo finale “Scarpette a punta” è nelle tinte di Vinicio Capossela. Potrebbe essere
uno sviluppo futuro del vostro mood?
No non direi, rappresenta una ricerca su questo disco, sugli stornelli e sulle ninna nanne.
“Scarpette” è un episodio a parte.
Il missaggio dell’album è stato realizzato insieme a JD Foster, che ha lavorato tra gli
altri con Calexico e Marc Ribot. Cosa ha aggiunto Foster? Da chi fareste produrre un
prossimo lavoro?
JD ha fissato il suono definitivo del disco, a lui il compito di tradurre le tracce semplicemente
registrate in un linguaggio musicale preciso. In questo caso il suono croccante delle chitarre
la grancassa esplosiva e in sapore vintage dell’album sono tutti stati prodotti dalla mano di
JD.
Eseguite cover dal vivo?
No, in questo momento ne stiamo preparando qualcuna per i live senza grancassa.
Contatti: www.myspace.com/pandeldiavolo
Gianluca Veltri
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Il Vortice
Si sono formati nel 2003 a Napoli, una città con una grande – direi grandissima - tradizione
musicale, che spesso guarda alla tradizione o alla contaminazione, ma Il Vortice (di cui vi
abbiamo riferito recentemente, in occasione dell’uscita del secondo album “Dodici gradi di
grigio” (Imakerecords/CNI), dopo altrettanti EP), guidato dal chitarrista/cantante Michele De
Finnis, che è anche il nostro interlocutore, non sembra interessato dalla memoria del suono
partenopeo, preferisce piuttosto ambire ad un rock ad ampio raggio, senza schemi, senza
senso di appartenenza – “se non a persone che abbiano capito che fare musica è qualcosa
di contro culturale oramai” – e guarda al domani artistico con fare disincantato, consapevole
che questi sono anni cupi per chi non si allinea, ma comunque soddisfatto di poter fare ciò
che gli piace, tanto da definirsi un privilegiato.
Non si può dire che avete saturato il mercato, in sei anni di storia, siete “solo” al
secondo album. Una scelta che condivido. In un momento dove tutti sembrano solo
interessati a produrre e a divulgare, a prescindere dalla qualità, non pensate di
rischiare di essere dimenticati, con questi lungi silenzi? Si pubblica quando c’è
qualcosa da dire o cosa altro?
Sarò onesto: la nostra più che una valutazione ben pianificata è stata una sorta di
necessità. Sono accadute cose all’interno dell’organico della band – la dipartita del batterista
e il seguente avvicendamento di sostituti fino allo stabilizzarsi dell’attuale line up ad esempio
– e nel privato dei componenti per cui si è arrivati alla composizione di un secondo disco
solo con questi tempi. In fin dei conti devo dire che il fatto che le cose siano andate in questo
modo, spontaneo, mi rende sereno; si, si pubblica quando c’è qualcosa da dire.
Vogliamo partire dal titolo, “Dodici gradi di grigio”? Come lo spiegate e cosa
rappresentano i vari livelli di grigio? Metafore della vita o cosa altro?
Niente di troppo pretenzioso in fondo. Se penso a un’immagine che ben descriva il lavoro
penso a questo piccolo album fotografico con dodici scatti. Penso anche a quanto le persone
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che conosco vedano tutto o “bianco” o “nero”, quindi o la “positività” o “il grigio”. Ecco per me
il grigio ha delle sfumature. Mi andava di parlarne.
Il vostro nuovo album suona fresco, frizzante, le canzoni hanno energia e personalità.
In che modo componete e come decidete che un brano è arrivato alla versione
definitiva? Spesso suonare dal vivo è il banco di prova, vi capita di cambiare
arrangiamenti e strutture, dopo aver provato i pezzi in concerto?
Ti ringrazio delle tue parole. Questo disco è il primo lavoro di una band. Precedentemente
componevo da solo e i ragazzi mi aiutavano ad arrangiare. Le dodici tracce di questo disco
così come le senti, invece, sono per lo più frutto del lavoro in sala. Succede spesso,
piuttosto, che nella dimensione live le canzoni si evolvano, cambino sfumature, questo si.
Come provereste a descrivere la vostra musica a chi non vi conosce?
Di solito trovo efficace la formula “tentiamo di coniugare melodia e rumore”.
Avete diviso il palco con artisti importanti come Marlene Kuntz, Giorgio canali, Bugo
e tanti altri. Ci sono stati feedback particolari e cosa si impara da esperienze di questo
tipo?
Beh banale dire quanto sia istruttivo seguire da vicino personaggi che, chi più chi meno, ti
han formato musicalmente. Altro discorso è invece il fattore umano. Lì vale la medesima
varietà in cui ti imbatti ogni giorno: ci sono bei personaggi e personaggi orrendi.
Sguazzandoci da anni, che idea vi siete fatti dell’indie rock italiano? Ha un pubblico
interessato o si tratta di venti passeggeri, legati a qualche nome di parziale successo?
Da anni emergono solo gruppi nuovi, che la critica coccola con qualche recensione di
belle speranze, regalandogli un briciolo di illusoria notorietà, per poi dimenticarli e
sostituirli con altri nomi. Ma secondo voi c’è ancora spazio perché qualcuno segua la
scia di Afterhours e Marlene Kuntz?
Sono sinceramente disinteressato ad un’idea di “scena” che non sia un conglomerato di
persone che abbiano capito che fare musica è qualcosa di contro culturale oramai - nel
senso meno “fascinoso” sia chiaro – e che abbiamo quindi come solo grande denominatore
comune questa difficoltà. Mi sento di “appartenere” a questo tipo di persone, quando le
incontro mi viene da abbracciarle. Ad altre “appartenenze” sono veramente poco interessato.
Chiamami banale e retorico ma la musica in Italia vive un momento che sembra non
conoscere fondo, questo non perché non ci siano band di caratura pari a quelle che citi, ma
perché proprio culturalmente la gente sembra sempre meno interessata al live, alla musica
che non sia di sottofondo ballabile. Direi infastidita quasi e il fatto che i grandi network
televisivi dedicati alla musica abbiano smesso di passare persino le cose risibili che nulla
avevano a che fare con la musica a cui ci avevano abituati negli ultimi anni, a vantaggio
delle serie tv, qualcosa vorrà dire.
Arrivate da Napoli, una zona che spesso riporta di cronache che nulla hanno a che
vedere con il concetto di musica come divertimento giovanile. Quanto abitare in
Campania, influenza il vostro scrivere e suonare? Esiste una scena rock dalle vostre
parti, che possa in qualche modo rappresentare un’alternativa al disagio delle nuove
generazioni?
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Faccio musica per necessità e non ho mai avuto alcuna pretesa di lanciare messaggi di
svolta o di disagio generazionale; il mio limite è di non saper scrivere di nient’altro che di me,
delle mie cose. Credo ovviamente di essere un privilegiato a poter far musica. La scena
esiste eccome, ci sono ottime band, ma non so dirti se possa rappresentare alternative ad
alcunché finché la musica è così sottovalutata.
Contatti: www.myspace.com/ilvortice.net
Gianni Della Cioppa
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La Linea di Greta
Luca Cattolico ed Emiliano Viccaro, colonne portanti degli I.R.A. (Iniziativa Ribelle Atipica),
tornano sulle scene romane con un gruppo nuovo e un disco, “Cani di banlieue”
(autoprodotto), che porta gli anni 90 di peso nel contemporaneo. Tra le note biografiche si
definiscono un gruppo postumo e gioia dalla sconfitta.
Partiamo da lontano, da I.R.A. Una sigla qiasi sconosciuta ai giovani lettori. Che
storia è stata? Come la ricordate?
Eravamo tutti attivisti, centri sociali e dintorni. Annusavamo l’aria e ci sembrava di presentire
ciò che sarebbe esploso di lì a poco con Seattle e poi con Genova. Pensavamo sarebbe
stato bello creare da noi la colonna sonora di quanto stavamo vivendo. È così che è nata
l’I.R.A. Del resto, era un momento interessante per la scena romana, oltre a noi c’erano
Elettrojoyce, Frangar Non Flectar, Atom Pig Neon, c’era fermento, le collaborazioni
intrecciate tra gli artisti. Per un paio d’anni c’è sembrato che la vita prendesse una certa
direzione, con i passaggi in radio, i concerti, i successi in un paio di concorsi importanti, le
recensioni, la stima corroborante degli addetti ai lavori. Poi i dissidi interni presero il
sopravvento e proprio il giorno dopo un concerto andato benissimo, e alla vigilia della firma
di un contratto, il gruppo non esisteva più. Una storia come tante. Che però, avremmo
scoperto, non era ancora finita.
La Linea di Greta è nata nel decennio che passa dalla fine di I.R.A. a oggi, oppure è
una creazione estemporanea legata alle esigenze del momento?
La seconda che hai detto. In realtà non ci siamo più visti né parlati per anni. Poi due di noi
hanno riallacciato i contatti ed è stato un attimo. Soprattutto grazie all’energia nuova portata
da Giorgiana Viccaro, Federico e Silvano Lama, “pischelli” di talento e con le idee chiare: se
il gruppo sta in piedi e sta crescendo, molto si deve a loro. Nonostante le differenze
“generazionali” si è creata da subito una reazione chimica sorprendente, che ci è scoppiata
in faccia, travolgendo stanchezze e resistenze, consentendoci di archiviare definitivamente il
retaggio dell’I.R.A. Nel giro di pochi mesi eravamo pronti per un disco, con l’esigenza
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assoluta di tradurre la nostra musica in qualcosa di tangibile, che affermasse oltre ogni
dubbio il nostro grado di esistenza. Poi è successo che è nata una bambina, Greta per
l’appunto, e abbiamo pensato che non ci fosse nulla di meglio che farci dare la “linea” da lei.
Il penultimo pezzo del disco, “In memoria di noi”, termina con la frase “in fondo
facevamo solo noise”.
Il disco è nato come una commemorazione laica, l’estremo saluto a tutto quanto eravamo
stati. Forse avevamo bisogno di lasciar andare i nostri fantasmi, finalmente. E “In memoria di
noi” è stato il primo pezzo che abbiamo scritto insieme. Una sorta di ringraziamento, questo
sì postumo, per tutti coloro che hanno vissuto quel pezzo di storia molto privata. Tuttavia
evitando celebrazioni enfatiche. “In fondo facevamo solo noise”. Appunto. Poi il disco ha
preso un’altra piega. Abbiamo mescolato alcuni pezzi nuovi con altri pezzi che erano rimasti
chiusi nel cassetto per anni. E forse questo si sente. Ci sono alcune cose evidentemente
datate, ma d’altro canto non avevamo alcuna voglia di selezionare, l’idea era proprio quella
di realizzare un disco “ponte”. Un disco necessario, che c’è venuto eterogeneo perché non
c’era altra scelta. Anche grazie alla collaborazione aperta con artisti e amici come Giulia
Anania, Andrea Ruggiero, Ilario Febi. Col prossimo ci piacerebbe usare di più la testa,
coltivando con metodo l’eterogeneità e valorizzando ulteriormente le nostre diverse
sensibilità musicali. Lo stile “meticcio” vorremmo divenisse un marchio di fabbrica.
Musicalmente, ora, quali sono i vostri riferimenti e le vostre scelte stilistiche?
L’assunto di base è continuare a fare musica non rassicurante né consolatoria per chi
ascolta, mantenendo la massima libertà stilistica a livello di suoni e generi, mescolando,
ricombinando. Ci divertiamo a inventare per noi definizioni tipo “rock ai tempi del colera”
oppure “punk anni zero”, ormai anni ’10, ma la verità è che non ci importa di incastrarci in un
dato genere, passiamo da un pezzo all’altro saltando di palo in frasca per vedere l’effetto
che fa. Poi naturalmente ascoltiamo tanta musica e nutriamo un profondo rispetto per artisti
come Afterhours, Assalti Frontali, Radiohead, Sigur Ròs, e allo stesso tempo ci dichiariamo
debitori nei confronti di Slint, Nirvana, Cccp, Massimo Volume. E oggi guardiamo con grande
interesse e ispirazione al collettivo La Tempesta, di cui stimiamo artisti come TARM, Il
Teatro degli orrori, Moltheni. E ascoltiamo musica elettronica, drum’n’bass, techno, hip hop,
vissute dal profondo della scena rave e delle serate free style. Insomma, un caos multiforme
che proviamo a liberare nelle nostre serate in sala prove.
“Cani di banlieue” è stato presentato il 30 gennaio al Sinister Noise di Roma. Come è
stato accolto?
È stata una serata strana che si è risolta in un modo fantastico. Pensavamo di dover gestire
ansia e tensione da “prima volta” o, per alcuni di noi, da “nuovo inizio”; poi siamo saliti sul
palco e quello che si è reso evidente da subito è stato che eravamo semplicemente felici di
essere lì. Nessuna posa, nessuna aspettativa, eravamo felici e basta. E per i reduci
dell’I.R.A. è stata davvero una prima volta. Emiliano dice che dieci anni fa quando salivamo
su un palco sembrava andassimo in guerra, tutti presi dai significati che ci sembrava di
dover rappresentare. Adesso ci sembra tutta paccottiglia enfatica e magniloquente. In fondo
si tratta solo di andar su e suonare le proprie canzoni. Poi, certo, non è stato un dettaglio da
poco vedere la sala piena.
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Tra il pubblico vecchi fan degli I.R.A.? Qualche nuovo accolito?
Soprattutto nuovi accoliti. Alcuni molto giovani. È quello che ci ha sorpreso di più. E
naturalmente qualcuno della vecchia guardia. Anzi, cogliamo l’occasione per ringraziarli tutti,
anche da queste pagine, per l’affetto con cui ci hanno abbracciati.
I testi parlano di disillusione, quasi di sconfitta. Forse i “Cani di Banlieue” non sono
solo nelle periferie romane al di là del raccordo o nei ghetti parigini. Forse siamo tutti
cani in una grande banlieue.
Siamo d’accordo. Tuttavia una cosa è raccontare i termini di una sconfitta e le sue
conseguenze, altra cosa è la disillusione, che non abbiamo alcun interesse a rappresentare
nelle nostre canzoni. La sconfitta è un dato di fatto. E su questo è bene provare a esser
chiari, per non correre il rischio di inciampare nella retorica lacrimosa intorno a “ciò che è
diventato il Mio Paese”: questo è un paese di merda e non è il Nostro paese, se intendiamo
con “nostro” la solennità trombona dell’interesse generale, dell’unità nazionale, dei nostri
bravi soldati che vanno a portare la pace in giro per il mondo. Siamo nati qui per un
accidente casuale e fortuito, un evento stocastico, dovuto al gioco delle probabilità. E ciò che
stiamo vivendo è il frutto della mutazione antropologica che ha investito la società italiana
dagli anni 80 in poi, fino all’immagine orribile delle/degli adolescenti con le sopracciglia
depilate che guardano “Amici” e “X Factor”, sperando di “farcela” andando anche loro a
Sanremo. Su quei giovani – citando Manuel Agnelli – ci scatarriamo su anche noi. In tale
contesto è difficile non dichiararsi culturalmente sconfitti. Ma non vinti, non rassegnati, non
disillusi. Ciascuno con la consapevolezza di un ruolo da giocare, scelte da fare con ancora
maggiore forza, come base di partenza per il nostro modo di partecipare, quindi di “prender
parte”, la parte di chi in questi anni, dal basso, ha provato a riscrivere la grammatica dei
diritti e delle libertà, fuori e contro il simulacro della rappresentanza politica. E su tutto questo
abbiamo cose da dire. “Scritto sui muri”, prima traccia del disco, è il primo tassello di una
nostra personale Trilogia sull’Italia, la cui seconda e terza parte saranno al centro del
prossimo disco.
Veniamo alle scelte di marketing: nel folder e sulla facciata del disco è stampato ben
visibile il marchio Creative Commons. Una cosa abbastanza insolita. Che rapporto
avete col copyright?
Semplicemente non ci interessa. Siamo nell’era della connettività globale e ci piace così.
Troviamo positiva e condivisibile la creazione dal basso di un codice di
auto-regolamentazione, come patto interno tra artisti, e in questo senso il progetto Creative
Commons sviluppa il discorso in modo esemplare. Sulla SIAE invece non abbiamo frasi
memorabili o sentenze lapidarie da consegnare. Ovviamente, siamo contrari ad ogni forma
di lucro sulla proprietà intellettuale, che saccheggia la natura cooperativa e comune dell’arte,
della produzione culturale, dei saperi. La SIAE fa il suo mestiere, c’è chi si riconosce nelle
sue regole e chi invece cerca (e per fortuna spesso trova) vie di fuga in rete. Certo, non
consentiremmo a nessuno di appropriarsi di un nostro pezzo per trarne profitto. Ma per il
resto, ricordiamo sempre con affetto una frase di Massimo Troisi: “La poesia non è di chi la
fa, ma di chi gli serve”.
Contatti: www.myspace.com/lalineadigreta
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Marco Manicardi
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Numero Aprile '10
Luca Gemma
L’assonanza di cantautore pop spesso fa venire in mente atmosfere volutamente leggere e
mai sopra le righe. Con Luca Gemma questa regola può essere disattesa. Lo incontriamo
dopo un concerto in una domenica pomeriggio sonnacchiosa d’inizio primavera a Rimini
nella sobria location della Domus di Bacco. Un’esibizione molto fisica, coinvolgente, un
equilibrio fra ragione e istinto, fra la leggerezza e l’immediatezza che è un po’ la
caratteristica di Gemma, con il supporto di Andrea Viti (ex Afterhours) al basso, Ray
Tarantino alla chitarra, oltre che produttore e collaboratore col Nostro nel disco
“Folkadelic”(Ponderosa/Universal) e Nick Taccori alla batteria.
Come è nato il tuo sodalizio con Ray Tarantino?
Ci conosciamo da diversi anni. Avevamo già collaborato al mio album precedente “Tecniche
di illuminazione” su alcune parti musicali. Con questo disco ci siamo visti e frequentati di più
dando vita a una collaborazione più intensa. In pre-produzione è venuto fuori un suono molto
interessante e lui ha dimostrato in maniera più chiara dove volesse portare le canzoni per cui
è diventato naturale che lo producesse.
Nei testi di “Folkadelic” si denota il tuo modo di vedere il mondo e il nostro modo di
rapportarci a esso.
Sì, uno dei pezzi dove viene fuori questo è “L’educazione sentimentale”, dove faccio
continuamente la domanda “Hai un idea di cosa ci può salvare?”. Una ricerca dell’ottimismo
e del fatto che la bellezza intorno a noi ci possa ancora salvare nonostante le cose oscene
che ci sono intorno a livello materiale e di sentimenti. Sono ancora convinto che il contatto
con l’armonia, la bellezza e la ricerca di quelle cose possa causare la nostra rieducazione
sentimentale e farci diventare persone migliori. Mi riferisco molto alla nostra situazione in
Italia di decadimento culturale e sentimentale che c’è da tanti anni.
In altre canzoni viene fuori una necessità di pulizia, immediatezza e spontaneità nei
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rapporti umani.
Non solo. “Nudi” è uno sfogo erotico e carnale di incontrarsi senza barriere e maschere, la
capacità di mettere in mano all’altro, anche se non per sempre, la propria vita. Lasciarsi
andare, sentirsi liberi che diventa approccio fisico anche nella batteria e nell’arrangiamento.
“Ogni cosa d’amore” invece è molto più allargato. Lo spunto è stato di cantare la pari dignità
dell’amore compreso l’amore gay.
In “AnimaProiettile” musicalmente viene fuori la psichedelica col tuo lato più folk, un
esperimento che si potrebbe accostare al Battisti di “Anima latina”?
Proprio quel disco è stato fonte di ispirazione per la copertina di “Folkadelic”, che preferisco
a quelli con “la canzone perfetta”. C’è una sorta di ricerca melodica ostinata su pochi
accordi, un gioco divertente scritto insieme a Ray Tarantino tranne la fine in cui diventa
reggae e cambia faccia.
Citando “Un miliardo”, basterebbe questa cifra per quantificare l’arte?
Singolarmente sì. Per comprendere tutta l’arte del mondo ovviamente no. Quella canzone
rappresenta un po’ la rapina del cantante, il sogno della classica rapina in cui non torci un
capello a nessuno. È una provocazione, mi serviva come spunto per la situazione di precario
che l’arte e cose affini ti offrono da sempre e forse in questo periodo ancora di più.
A differenza di altri, nella tournée ti sei voluto circondare di musicisti dalla forte
personalità più che da session man.
È sempre stato così per me avendo sperimentato per lungo tempo una situazione di band
come coi Rossomaltese. Ho sempre avuto, sia a livello di suoni che a livello di rapporti
personali, tutto ciò che si instaura all’interno di una band. Del resto mi piacciono cantautori
che hanno una band con un suono ben definito come i Bad Seeds per Nick Cave o altri. Il
mondo dei turnisti non mi piace, malgrado ce ne siano di bravi.
Durante gli anni 90 sembrava fosse nata una rinascita nella musica italiana, che hai
vissuto in prima linea coi Rossomaltese, ma che è venuta fuori anche con gli
Afterhours, Marlene Kuntz, Casino Royale e altri. Adesso sembra che, in generale,
non ci sia stato un ricambio generazionale di autori e realtà musicali. Pensi che ormai,
tranne rari casi, le nuove leve provengano ormai solo da talent show come “X Factor”
e “Amici”?
Dai talent show non c’è da aspettarsi nessun ricambio, sono dei contest basati più che altro
sull’interpretazione, sul personaggio, sulla lacrima e sul luccicone ma non certo sulla parte
autoriale. Inoltre si inseriscono in meccanismi totalmente diversi da quelli che la musica ti
richiede. Un tipo di gavetta fatta di palchi diversi, di serate con tre persone davanti e altre
con cinquecento, la capacità di sapere in studio cosa vuoi ottenere. Tutti quei ragazzi non
hanno modo di sperimentare nulla di questo.
 Come generazione successiva citerei i
Baustelle ad esempio come anche Dente. È diventato anche più difficile: negli anni 90 noi
suonavamo tantissimo dal vivo facendo un centinaio di concerti l’anno, un sacco di festival
estivi, i club facevano programmazione tutte le sere. Adesso i club sono diminuiti, quei pochi
programmano venerdì e sabato di cui una delle due serate cover band. Posti attrezzati
peggio di dieci anni fa, scarsa volontà di proporre cose nuove al pubblico, di rischiare, di
investire. Come fosse una genia diversa di gestori, tutti a vendere birra e basta, mentre negli
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anni 90 avevano un ruolo di mediatori culturali. Ora se ne trovano pochissimi anche se
succede che qualcosa viene sempre fuori nonostante le difficoltà.
Contatti: www.myspace.com/lucagemma
Beppe Ardito
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The Please
Dopo il primo EP "Bitch" del 2008, il trio milanese è giunto al debutto ufficiale con "E'ltica Sermon Your Nihilism" (Il Verso del Cinghiale). Costeggiando vari generi e ascolti, alla fine i
The Please si sono trovati in mano, un concept album sulla fine del mondo. Il dark elegante
dei Tinderstick qui c'è tutto. Ne parliamo con Marco Airoldi, il cantante.
Questo è il vostro esordio, ma quando vi siete conosciuti qual era la vostra idea di
gruppo?
Quando abbiamo iniziato a suonare insieme, cercavamo più che altro di imitare la musica
inglese, quindi: Blur, Smiths, Pulp, Cure ecc. Poi, circa due anni fa, abbiamo deciso di
chiuderci nella nostra sala prove, cercando nuovi orizzonti più personali e intimi. Da li è
iniziato il lavoro che ci ha portati a “E'ltica”
La vostra musica tocca punti "sensibili" nell'ascoltatore, grazie all'arte della
seduzione musicale che applicate su di essa. Quando componete, questo aspetto
della vostra musicalità viene fuori?
Innanzi tutto grazie per il complimento. Per quanto riguarda la composizione, a differenza
degli arrangiamenti, che vengono affrontati in un altro momento, la componente sensibile e
intimista ha un grande ruolo. Si può dire che sia un flusso di idee sviluppate da situazioni o
vissuti che vengono poi canalizzate nella musica. Ognuno porta del suo, per questo ciò che
ne deriva è fortemente personale e ci può solo fare piacere che venga percepito da chi ci
ascolta.


Chi o cosa pensate vi abbia portato ai The Please? Quali dischi, quali episodi, qual è
stata la vostra genesi?
Per me e Mattia è stata un'evoluzione continua, da quando abbiamo iniziato a suonare
insieme, otto anni fa, fino ad ora. Ci ha sempre legato un gusto comune nel modo
d’intendere la musica e di conseguenza negli ascolti che ne derivano. Mentre per quanto
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riguarda Luca era in un momento in cui aveva voglia di impegnarsi seriamente nella musica
e ha scelto d’approdare nel gruppo. Di episodi ce ne sono tantissimi. Oltre che essere
"colleghi" siamo amici e non sapremmo individuarne uno più significativo dell'altro. Ognuno
di noi ascolta molta musica, sicuramente Sigur Rós, Motorpsycho, Crosby, Still,
Nash & Young, Eels, assieme a tanti altri e un po’ tutti amiamo i Beatles. Più in generale ci
accomuna un grande piacere nell'ascoltare e cercare di riprodurre atmosfere melodiche
creative.
Come mai tanti pseudonimi sul cartoncino in mezzo al CD e non i vostri nomi. Chi si
nasconde dietro e qual è la storia?
“E'ltica” è un concept album e abbiamo voluto omaggiare quello che per noi è il più bel
concept album della storia, "Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band" dei Beatles. In
quell'album storico i Beatles si presentavano come alter ego di loro stessi per dimostrare alla
gente un cambio di prospettiva e percezione verso la quale volevano muoversi. Per noi è lo
stesso tentativo di affrancamento dalla realtà. Raccontiamo la fine del mondo in un nostro
personalissimo linguaggio metaforico. Questo rimane comunque uno dei moltissimi omaggi
che sono celati all'interno del disco e lo abbiamo plasmato in tutte le sue sfaccettature, dalla
copertina, ai titoli, dagli arrangiamenti ai nomi.
Chi ha collaborato a questo disco, affinché risultasse, così suonato, così registrato e
così prodotto?
Tutto questo disco, lo diciamo con fierezza, è un prodotto totalmente pensato e arrangiato
da noi The Please. Ha contribuito poi alla realizzazione finale una folta schiera di musicisti,
nostri amici, i quali hanno portato il loro talento alla nostra causa, cioè quella di creare un
disco orchestrale. Questa nostra opera prima è stata registrata da Fabio Intraina, che ci ha
saputi indirizzare nella scelta dei giusti suoni.
Cosa deve avere una canzone dei The Please per esserlo?
Non c'è un'unica risposta a questa domanda. Tra tutte le canzoni che scriviamo, emergono
da sole quelle più forti, più rappresentative. Sono in realtà essenze dotate di vita propria che
non mantengono mai nel corso del tempo la stessa faccia. Ci sono canzoni che si svelano a
poco a poco, altre sono dei lampi. Se cerchiamo un filo conduttore, ognuno di noi trova un
suo personale significato. Quando scrivo le liriche, le riempio di mie visioni che in qualche
modo trovano delle rispondenze negli altri della band e nella gente che ci
ascolta.


Dovendo raccontare questo disco ad un amico, come fosse un sogno, come lo
descrivereste magari attraversando i vostri testi?
Partendo dal fatto che molti di quelli che hanno ascoltato il disco lo giudicano un buon CD
da macchina, potremmo dedurre che il disco sia la metafora di un viaggio. Ebbene, in questo
viaggio cerchiamo di traghettare noi stessi e chi ci ascolta nella dimensione atemporale di
una fine del mondo che non solo sembra piuttosto prossima, ma che già è in questo
momento. L'apertura con “Humans Fakes”, fa da preludio all'inizio della fine. Ci si trova in un
punto di partenza dove tutto è saturo e non c'è più spazio per nulla. E' poi tutto un crescendo
di stati d'animo in cui la presa di coscienza che tutto stia finendo si fa più forte, e il “we are
fools!” ripetuto ostinatamente ne è l’esempio lampante, nell'attesa di un'apertura, una
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boccata d'aria fresca. Prima che tutto si concluda abbiamo una serie di propositi e
considerazioni da “Brand New Form” che inneggia a ripensare al rapporto uomo-società. Il
brano "May You Come", liberamente tratto dal libro di Cormac McCarthy "La strada",fa
riferimento allo stato d'animo dell'allontanamento da un affetto che una fine comporta.
Stesso tema è trattato da "Clementine": dietro la facciata di una ballata “allegrotta” è narrata
la storia di una coppia che si perde. “Hello You” e “Time” sono canzoni con un respiro più
ampio, forse anche rassegnato ma sono comunque rasserenanti. Il viaggio si conclude con
la ghost track "Sermon Your Nihilism"che per noi è l'inno finale, dove tutto ciò che doveva
accadere è ormai accaduto.
Come cambia la vostra musica dal vivo?
Ultimamente per comodità ed esigenze ci stiamo muovendo in acustico con una formazione
spesso ridotta rispetto ai dodici elementi del disco. Questo ci permette di portare in giro il
nostro progetto senza troppi impedimenti, dato che soprattutto in questo paese, i locali live
spesso non sono attrezzati per ospitare uno show come il nostro al completo. Per le nostre
date attuali, in acustico, ci affidiamo alle fasi ritmiche del nostro percussionista, Ygnazio
Salvador Taglìa. Per le date che richiedessero un show al completo stiamo lavorando al
momento con un turnista.


Com'è avvenuto l'incontro con Il Verso del Cinghiale che ha pubblicato il vostro
disco?
In realtà Fabio, il fonico che ha registrato il disco, che conosciamo da diversi anni è uno dei
tre soci della Il Verso del Cinghiale. Dopo esserci accollati noi stessi le spese di studio, i
ragazzi del Cinghiale ci hanno dato una mano nella realizzazione finale del prodotto,
facendo uscire le prime cinquecento copie e supportandoci per le date e la promozione.
Contatti: www.myspace.com/thepleaseplease
Francesca Ognibene
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The Record's
Dopo l'esordio autoprodotto “Money's On Fire” del 2008, i bresciani The Record's tornano
per l'etichetta Foolica con il nuovo disco “De fauna et flora”. Le sonorità sono attuali e
ostinatamente british, tanto che può sembrare davvero di trovarsi di fronte una band
d'oltremanica. The Record's suonano spesso e suonano bene, con un nutrito seguito di fan e
forse si comincia a parlare di loro anche al di fuori degli ambienti indipendenti e underground
del Paese.
Innanzitutto devo chiedervi che cosa ci fate in Italia. Sembra che le sonorità
anglosassoni siano impresse nel vostro DNA, oltre che nel suono che esce dai dischi.
Mah... a volte ce lo chiediamo anche noi. La verità è che nonostante tutte le storture del
nostro Paese ci stiamo bene e coltiviamo amicizie e collaborazioni con persone che ci
stimolano. Per fortuna questo è ancora possibile.
C'è già o sperate che arrivi una distribuzione che varchi i confini dell'Italia? Avete già
suonato all'estero?
È notizia fresca che a giugno saremo distribuiti in Giappone, a settembre usciremo in
Inghilterra. L’intento della Foolica è trovare partner seri per la distribuzione un po’ ovunque,
ci stanno lavorando alacremente.
E nel bresciano che aria tira?
Questa è la domanda più frequente che ci viene rivolta ultimamente ed è già di per sé una
conferma che la nostra scena sia ormai una realtà evidente e riconosciuta. Il numero e la
qualità delle produzioni e delle strutture dedicate a questo scopo è davvero considerevole.
La spinta parte spesso anche dall’esterno della cerchia degli addetti ai lavori, ad esempio si
può verificare che un’associazione culturale creata da ragazzi si prodighi per trovare i fondi
per produrre una compilation di inediti di band bresciane, pagando l’intero costo
dell’operazione, studio di registrazione compreso. Questo è un chiaro sintomo che la musica
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non sia più solo un’esigenza di chi la fa, ma un vero valore culturale per tutti.
Rispetto all'album d'esordio, nel nuovo “De fauna et flora” mi sembra che abbiate un
po' ripulito il suono. Sembrate meno ruvidi, più levigati ma anche carichi
d'esperienza.

Abbiamo deciso di assecondare al massimo la tendenza della nostra scrittura, che nel
tempo si è modificata, ha subito un'evoluzione. Oggi non mettiamo in primo piano l’energia o
l’impatto rock’n’roll, ma questa non è una scelta premeditata, è la normale conseguenza del
nostro nuovo approccio. Di base il nostro obiettivo era e resta quello di scrivere musica per
tutti, non di incuriosire una nicchia di esperti o appassionati dell’indie rock.
In fondo suonate musica “vecchia” (tipo Kinks) e la tirate a lucido rinnovandola. Si
può dire che fate parte dell'ondata revival?
Non è una definizione che ci piace molto... il revival è una ripresa molto fedele e didascalica
di generi e stili passati, contenuti compresi. Per noi è solo un linguaggio, ormai
metabolizzato, che usiamo per parlare di ciò che ci riguarda. Ovviamente gli elementi sono
riconducibili a una cultura ben definita, l’immaginario che ci siamo formati nel tempo è quello
che tu descrivi.
Trovo che ci sia molta cura nell'arwork di entrambi i vostri dischi. Quanto conta per
voi, l'immagine? E come è si è evoluta dai tempi di “Money's On Fire” al nuovo “De
fauna et flora”?
Si è molto importante. Siamo sempre stati fedeli a uno stile minimale ed elegante, calzava a
pennello con il sound asciutto e senza fronzoli cha abbiamo proposto fin dagli inizi. Per
questo disco però il materiale sonoro ha da subito stimolato i nostri collaboratori ( grafico,
fotografo, stylist) a concepire un artwork più elaborato, aderente alla varietà di suoni e
atmosfere presenti nell’album.
Il passaggio dall'autoproduzione all'etichetta è stato naturale o avete accettato dei
compromessi, non dico nel suono quanto nel modo di fare le cose?
Nessun compromesso, Foolica sta lavorando come un’etichetta dovrebbe lavorare nel
2010. In questo siamo stati molto fortunati perché abbiamo trovato in loro molta
preparazione e competenza, unite ad una dose smodata di entusiasmo. Questo è forse il
valore aggiunto che porta a sfinirsi di lavoro per perseguire un risultato, ed essere oltremodo
felici quando la mattina ci si guarda allo specchio. E vale per qualsiasi professione o attività,
io credo.
Sul Twitter di Nicola della Foolica Records ho trovato, cito testualmente: “I The
Record's hanno fatto nascere un bambino”. Questa me la dovete spiegare.
È stata un’esperienza abbastanza forte che ci è capitata dopo una data a Cesenatico. Alle
quattro del mattino siamo stati svegliati dai lamenti di una donna, che si aggirava per i
corridoi dell’albergo in cui eravamo alloggiati. La povera signora, sola ed in evidente stato di
shock, ha allarmato l’intero piano. Neppure il tempo di chiamare un’ambulanza e ha dato alla
luce un bimbo, nello stupore generale. Non abbiamo più ripreso sonno quella mattina.
Contatti: www.myspace.com/therecordsrocks
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Marco Manicardi
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Vinegar Socks
Jordan DeMaio, voce e chitarra, americano trapiantato a Roma, ha dato vita poco più di un
anno fa, insieme al violoncellista Paolo Petrocelli, ai Vinegar Socks. Un duo
occasionalmente aperto al contributo di altri musicisti, il cui debutto omonimo, prodotto
dall'etichetta americana Grinding Tapes, ci ha regalato una della più belle sorprese di questo
2010, mescolando con decisa personalità e un eclettismo mai forzato suggestioni folk prive
di precise connotazioni geografiche, spaziando tra ballate, gighe, infiltrazioni balcaniche e un
piglio a volte rock che fa venire in mente i Decemberists. Abbiamo scambiato qualche
chiacchiera con Jordan.
Prima di tutto, domanda forse scontata ma doverosa: cosa ti ha portato a Roma e
come hai incrociato la tua strada con quella di Paolo?
Ero in viaggio per l’Europa. Sono venuto in Italia pensando di rimanere solo poco tempo ma
ho conosciuto una donna italiana di cui mi sono innamorato. È stato per questo motivo che
sono rimasto. Poi ho passato un periodo di crisi. Non trovavo lavoro, mi avevano appena
licenziato. A volte mi mettevo a suonare la chitarra e a cantare, giusto per passare il tempo.
E’ stata la mia compagna Elena a convincermi a trovare dei collaboratori. Ho conosciuto
Paolo tramite un amico... fin da subito c’è stata una forte intesa artistica.
Come mai un duo? C'è di mezzo anche una questione di agilità organizzativa? In due
ci si muove (e si suona, e si compone) meglio?
Anche, ma siamo flessibili. Spesso suoniamo in tre o quattro. Più che altro è che non c’è
bisogno di essere sempre in tanti. Il suono, in due, è già molto pieno.
Il vostro progetto mi sembra da un lato molto legato al songwriting, dall'altra ricco di
riferimenti musicali molto ampi ed eclettici: è un disco folk, che però cerca di
interpretare l'idea della musica folk come un intreccio di elementi anche molto
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distanti, ci sono sonorità irlandesi, balcaniche, e molto altro. La tradizione, anzi le
tradizioni, sono una chiave per moltiplicare le possibilità espressive anziché onorare
semplicemente il passato.
Sì, ma non è intenzionale. La musica che esce fuori è sempre molto naturale, senza troppe
riflessioni. Credo che a volte ci sia parodia, ironia e forse anche “satira”, ma su queste
possibilità deve essere l’ascoltatore a decidere!
Una delle caratteristiche peculiari del vostro suono è l'utilizzo del dobro anziché della
classica chitarra acustica... uno strumento dal suono particolare, più risonante, che
mi pare legato alla necessità di fornire un suono più corposo, forte, a canzoni che
nascono dalla pura e semplice interazione di due strumenti. Anche se sul disco ci
sono altri musicisti a darvi una mano e a infittire le trame...
Esattamente come dici tu! Evoca anche una sonorità più legata al blues ed è molto adatta
allo slide.
A proposito della interazione tra i musicisti, come avviene la costruzione dei brani? I
brani sono tuoi, ma un grande spazio è affidato al violino di Paolo e ad altri strumenti,
in che modo si inseriscono le altre parti nella struttura delle tue canzoni?
Ogni brano è diverso, ma in genere sono io a portare un’idea a una prova, e poi ci
lavoriamo insieme. Se poi sentiamo che manca qualcosa, iniziamo ad immaginare come
arrangiarlo in un’altra maniera o ad inserire altri strumenti. Le scelte sono molto intuitive e
non potrei spiegare bene il perché della decisione di utilizzare uno strumento piuttosto che
un altro, in genere comunque arriviamo ad un momento in cui diciamo ‘sì, adesso il brano ha
un senso”.
Il disco esce per una etichetta straniera, tu sei americano, ma la vostra base
operativa è naturalmente a Roma... come vivete questa doppia prospettiva, l'Italia e
l'estero? In Italia state comunque suonando parecchio...
Siamo felici di essere in Italia, anche se puntiamo a portare la nostra musica al maggior
numero di persone possibile, anche in America. Alla fine non ha mai costituito un disagio
questa doppia vita, siamo stimolati dalle differenze che ognuno porta al progetto, comunque
devo ammettere che, in effetti, non ci penso così tanto. Per me è stato tutto molto fluido.
Ormai sono abituato a non avere una “casa”, anzi, la mancanza di un posto, un paese fisso,
mi costringe a non diventare troppo compiaciuto, e a cercare sempre nuovi modi per
costruire ed esprimere la mia identità.
Contatti: www.myspace.com/vinegarsocks
Alessandro Besselva Averame
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Alessandro Ducoli
Piccoli Animaletti
Merendine Musica
Alessandro Ducoli è un ancor giovane cantautore della Valcamonica che ha pubblicato la
media di un lavoro all’anno, se non di più, negli ultimi 10, forse 15. E tutti questi lavori,
spaziando dal puro stile cantautorale con venature jazz fino allo sfogo rock del gruppo Bacco
il Matto prima e degli Spanish Johnny oggi, hanno avuto qualcosa di importante da dire.
L’ultimo album, l’introspettivo ma per molti versi anche corale “Piccoli animaletti”, è uscito in
febbraio, si avvale della partecipazione di musicisti del calibro di Ellade Bandini, Michele
Gazich o Andrey Kutov e ancora una volta testimonia quanto questo autore sia prolifico,
intelligente, anticonformista e fieramente poco incline al mercato. Di certo c’è che canzoni
del calibro di “Una nuova città”, “Piccoli animaletti”, “Dialogo di guerra” o “Sopra il
davanzale”, sono piccole grandi perle nel triste panorama della musica italiana del 2010, e
da sole seppelliscono l’intero ultimo festival di Sanremo. Ci sono episodi interlocutori, gridati
o sussurrati, forse troppo jazz, vicini al Tom Waits più stralunato, come “La malura”, “Una
Silvia”, “Il mulo”, “Il laccabue” o “Un germano irreale”, ed è in questi casi che il Ducoli eccede
nell’osare, anche se lo fa consapevolmente. La tromba de “Il carro” ci porta addirittura nel
West. Nel complesso il progetto è di ottima fattura, cantato magistralmente, perfettamente
suonato e con una confezione che comprende anche un libretto di raccontini abbinati ad
ogni canzone. Un excursus ricchissimo diviso in animali “pseudonotturni”, “quasidiurni” e
“luminoneutri” che ci fa conoscere un artista che vale la pena di incontrare sulla propria
strada. Se le sue produzioni fossero state maggiormente centellinate e avessero goduto di
qualche taglio in più, oggi non avrebbero niente da invidiare ai dischi dei maggiori cantautori
italiani. Dal vivo poi è un fiume in piena di ironia dissacrante. Resta un vero peccato che sia
ancora relegato nel ghetto dell’autoproduzione, ma ormai sembra il destino comune di tutti
coloro che hanno qualcosa di interessante da dire in questo paese. Citando: “Sono sempre
un viaggiatore meno della metà, sono diventato cattivo per la necessità...”. Non perdetelo.
Contatti: www.ducoli.eu
Marco Quaroni
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Andrea Carboni
La terapia dei sogni
Red Birds-Seahorse/Audioglobe
Una storia abbastanza particolare, quella di Andrea Carboni, nato a Pisa ma cresciuto a
Ginevra, dove è rimasto sino alla fine del 2007. A seguire l’EP “L’amore manifesto” del 2006,
il pianista/chitarrista/bassista prosegue il suo percorso solistico con un vero e proprio esordio
sulla lunga distanza, registrato allo studio fiorentino Danza Cosmica con la collaborazione di
Alessandro Baris alla batteria, Andrea Cattani alla viola e al violino ed Elisa Pieschi al
violoncello. “La terapia dei sogni” è così un disco che non teme di puntare a composizioni
abbastanza articolate, sicuramente ricercate nell’elaborazione delle trame sonore: ci sono
canzoni nel senso letterale del termine, che rivelano finanche un’apprezzabile cura testuale,
così come lodevoli strumentali (l’elettrico “Magici mondi” tra Marlene Kuntz e Giardini di Mirò,
il classicheggiante “Il piacere della lettura”). Piuttosto che il rock, il panorama di riferimento è
però un cantautorato adulto che evita comunque le pretenziosità fini a se stesse. Il
programma è compatto, sebbene prodigo di sfumature funzionali all’atmosfera dei singoli
episodi: la title track, “L’ecosistema”, la suggestiva “Fingi”, “Salviamo almeno le forme”,
“Tiritera dell’amore di un minuto” o il recupero della medesima “L’amore manifesto” parlano
di un songwriter provvisto di una propria, colta visione artistica, al di là dei possibili margini
evolutivi. C’è spazio persino per un brano in francese, l’enfatico “Des larmes et leurs
cendres”.
Contatti: www.myspace.com/andreacarbonimusica
Elena Raugei
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Numero Aprile '10
Bad Apple Sons
Bad Apple Sons
autoprodotto
Nel 2008 i Bad Apple Sons hanno vinto la ventesima edizione del Rock Contest, giocando
praticamente in casa. Provenienti appunto da Firenze, Clemente Biancalani (testi, voce,
tastiere e percussioni), Andrea Cuccaro (basso), Andrea Ligia (batteria e percussioni) e
David Matteini (chitarre e voce) hanno così ottenuto la chance di registrare il loro omonimo
esordio sulla lunga distanza, a seguire l’EP “Cowards” del 2007. Un album che, al pari delle
energiche performance dal vivo, mette chiaramente in evidenza certi punti di riferimento: dai
Birthday Party al primo Nick Cave oppure dagli Einstürzende Neubauten ai Sonic
Youth, mentre la scelta di esprimersi in lingua inglese evita paragoni diretti con i Marlene
Kuntz degli albori. L’effetto déjà vu è però abbastanza forte, specie nei pezzi maggiormente
irruenti e dissonanti: “The Claim”, “Take This Moral Sea” e “Namby Pamby”, dove le
elettriche esplodono e il cantato si fa furente. Pur con i rimandi new wave del caso, la
personalità del quartetto emerge, invece, negli episodi che prediligono le dilatazioni
morbose: la melodica “Backroom Facials”, l’atmosferica “Whales Are Watching”, l’estesa “I’m
The Cutter”, l’intimista “Brag About”. Alle dieci vere e proprie canzoni si aggiungono due
brevi, funzionali intermezzi a base di recitazioni, trame elettroacustiche e il violino di Wassilij
Kropotkin/Francesco D’Elia, che assieme a Samuel Katarro e altri si presta anche ai cori per
la straniante “Y.O. (Screaming Monkey)”. Buoni lavori in corso.
Contatti: www.myspace.com/badapplesons
Elena Raugei
Pagina 30
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Numero Aprile '10
Canemorto
Canemorto
Music Valley
Canemorto è l’eccentrico progetto solistico di Andrea Nardi, già nel rockeggiante gruppo
Colya, al debutto per una major con l’EP “Laura” del 2005. Stavolta l’obiettivo è relazionarsi
con il cantautorato senza perdere contatto con i giorni correnti, ovvero senza arenarsi in
forme bolse ed eccessivamente seriose. Un obiettivo centrato per mezzo di dieci canzoni
dalle melodie accattivanti e al tempo stesso dagli arrangiamenti atipici, che si sposano al
meglio con liriche brillanti, non di rado ironiche. L’eclettico songwriter toscano, dalla
formazione classica alle spalle, si destreggia fra microfono, violino, chitarra e basso,
accompagnato da Leopoldo Giachetti alle altre chitarre e ai cori, Martino Mugnai alla batteria
e alle percussioni e il co-produttore Pio Stefanini – collaboratore di Irene Grandi e Noemi alle programmazioni e al piano. L’ispirazione dichiarata viene da mostri sacri come Fabrizio
De André, Giorgio Gaber (omaggiato esplicitamente con “Se ritornasse il Signor G”, uno dei
brani più vivaci all’interno di un disco prevalentemente morbido) o Ivan Grazian (omaggiato
direttamente con la reinterpretazione di “Firenze (canzone triste)”). Una proposta singolare,
dunque, che poggia tanto sul profondo rispetto di certi modelli storici quanto sul desiderio di
suonare moderno e antidogmatico. La scaletta presenta episodi più o meno riusciti, ma nel
complesso scorre via in scioltezza e mette in luce le potenzialità di una voce fuori dal coro. Il
che non è poco.
Contatti: www.canemorto.com
Elena Raugei
Pagina 31
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Numero Aprile '10
De Grinpipol
De Grinpipol
autoprodotto
Se negli ultimi anni le percentuali di band autoprodotte in Italia è aumentato a dismisura è
perché, finalmente, anche da noi si è capito che farsi pubblicare con un marchio a caso tanto
per farsi pubblicare è inutile. Meglio fare le cose per conto proprio. Per lo meno, si ha la
certezza di tenere a quello che si fa. Forse, poi, l’autoproduzione è il modo ideale per portare
avanti anche una proposta senza cadere a questa o quella campana mediatica. Spesso le
label “de noantri” pubblicano in base al “giro” che una band riesce a creare o se vede
possibilità di infilarsi in qualche nicchia. OK, direte voi, e la musica? Ed è quello che ci
chiediamo pure da queste parti. E probabilmente se lo chiedono pure i De Grinpipol, gruppo
di Sassari che si autoproduce perché autore di un tipo di pop che non troverebbe nessun
tipo di mercato. Si sente che il quintetto si è fatto le ossa sui dischi dei Modest Mouse e ha
cercato di ricreare quel tipo di suono che a inizio millennio aveva fatto pensare ad un ritorno
del rock’n’roll. Insomma, un suono che poteva essere di moda quattro o cinque anni fa ma
che ora resta ancorato ad un’idea di passione, collezionismo e melomania più autentica di
quanto si sente in giro di questi tempi. Non è per crogiolarsi sempre nel “piccolo, duro e
puro”, ma un semplice dato di fatto: se ci credi, si sente. E si perdonano difetti come la non
eccessiva personalità di scrittura (si prenda “Clap Your Hands” per capire come uno dei
dischi più ascoltati dai nostri sia “Good News For People Who Love Bad News”).
Contatti: www.myspace.com/degrinpipol
Hamilton Santià
Pagina 32
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Numero Aprile '10
Eimog
Scenario
Sudway
“Scenario” è il primo, suggestivo album sulla lunga distanza per i siciliani Eimog, a seguire il
demo-tape autoprodotto “Untitled” e l’EP “Early” - che aveva riscosso riscontri positivi
persino oltreconfine - nonché una considerevole attività dal vivo, compreso un tour in
compagnia dei Fine Before You Came. Registrato ai Vertigo Studios di Siracusa con la
supervisione di Toti Valente (Albanopower), masterizzato ai Nautilus Studios di Milano e in
procinto di essere distribuito anche in Giappone, c’è da dire subito che il lavoro evidenzia
una raffinatezza che non lascia indifferenti. Abbiamo difatti a che fare con un post-rock dal
retrogusto ambient e al contempo memore della lezione di formazioni come Mogwai o Sigur
Rós, poiché a prevalere sono senz’altro le atmosfere, la cura del dettaglio e dei
preziosi intarsi sonori. Rosario Cimino, Vincenzo Greco, Davide Lo Iacono e Carmelo
Barcellona – ai quali si è successivamente aggiunto Davide Indelicato, non accreditato nel
disco - si distribuiscono fra chitarre, basso, batteria e piano, mentre Jascha Parisi e Sarah
Diana apportano i loro funzionali contribuiti con violoncello e violino. La scaletta si articola in
sei composizioni estese, per circa cinquantasette minuti di durata complessiva: non si corre
comunque il rischio di annoiarsi, dato che i coinvolgenti saliscendi emotivi sono sostenuti al
meglio da note pennellate con gusto e misura. Per chi fosse disposto ad addentrarvisi con le
dovute attenzioni, un esordio meritevole di ripetuti ascolti.
Contatti: www.myspace.com/eimogmusic
Elena Raugei
Pagina 33
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Numero Aprile '10
Elton Junk
Loophole
Forears
Il cambiamento è evidente: meno new wave spigolosa e nevrosi sincopate, più forma
articolata e contaminazione. I richiami stilistici degli Elton Junk si espandono a dismisura
rispetto al passato, toccando la frontiera polverosa di “All Along The Horizon”, i Gun Club di
“Loophole”, i Sons & Daughters slabbrati di “Lost”, i Clash in levare di “Particular Skills”, la
psichedelia da crooner di “The Power Of Love”. Anche in quei pochi esperimenti in italiano
che qui più che altrove presagiscono un futuro roseo per la formazione toscana, tra i
chiaroscuri blues di “Al fiume”, il post-rock conciso in odore di canzone d'autore di “Ieri ho
mangiato la strada” e l'elettronica minimale di “Del miele” (forse il brano più riuscito della
terna).
Tanti collaboratori, come Matteo Cucini, Nicola Manzan (Bologna Violenta, Il
Teatro degli Orrori) e Giulia Sarno (UnePassante), impegnati a intessere una tela di synth,
ottoni, violini che contribuisce a moltiplicare le chiavi di lettura di un disco in bilico tra
indolenza e parentesi vibranti. Un'opera che da una parte sacrifica la concisione e la mano
ferma del precedente “Because Of Terrible Tiger” in favore di una maturità più strutturata e
dall'altra manda chiari segnali di solidità.
Contatti: www.myspace.com/eltonjunk
Fabrizio Zampighi
Pagina 34
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Numero Aprile '10
Fabio Abate
Itinerario precario
Narciso/Universal
Si sta spendendo molto Carmen Consoli per sponsorizzare questo debutto di Fabio Abate:
non solo ha messo a disposizione la sua etichetta, la Narciso, per mettere in circolazione
“Itinerario precario”, ma ha anche deciso di portarselo dietro nella versione teatrale del suo
tour 2009/2010 come set d'apertura. Di tutte le scelte artistiche della Consoli (il raffinato pop
de La Camera Migliore, il recupero filologico dei Lautari...) questa dobbiamo dire è quella
che ci convince di meno. Abbiamo avuto modo di vederlo prima dal vivo, Abate, e solo dopo
l'abbiamo sentito su disco. Già live non ci aveva convinto: ancora acerbo, ancora con un po'
di carisma da maturare, ancora un po' forzato nei toni, tra emozione ed affettazione – nulla di
irrimediabile, certo. L'ascolto del lavoro in studio invece di lenire i dubbi li ha in qualche
modo confermati. Interessante senz'altro la voglia di creare dei testi dall'impianto che sia
narrativo, ma l'affabulazione ogni tanto galleggia su luoghi comuni e in generale non ci sono
invenzioni fulminanti, di quelle che restano impresse davvero. Musicalmente poi qualche
colpo azzeccato c'è (“Guapo”, per esempio), ma la sensazione ricorrente è quella di avere a
che fare con un nuovo Branduardi leggermente immerso in sapori Avion Travel: i sapori
Avion Travel sono però troppo leggeri e Branduardi, beh, sinceramente anche l'originale ci
ha stufato parecchi anni fa. Insomma, siamo un po' perplessi.
Contatti: www.fabioabate.it
Damir Ivic
Pagina 35
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Numero Aprile '10
Flora
Traiettorie di volano
Lizard – Tea-Kettle/BTF- GT Music – Eventyr
I Flora da Piacenza, dopo dieci anni dalla loro prima mossa, ovvero mettersi insieme, ne
hanno passate di esperienze anche con altri gruppi collaterali come i Curious George, band
messa poi da parte. Claudia Nicastro, che cantava in quel gruppo e che canta anche qui,
oltre a suonare il glockenspiel, è presenza importantissima per questo disco perché è lei che
tocca meravigliosi angoli dell’essere e del divenire, del non pretendere e del non trattenere.
Nel il precedente album omonimo del 2006 Claudia c’era, ma solo a tratti; qui invece è molto
più presente, senza contare che ci sono stati dei cambi di formazione e scambi di strumenti
che alla fine hanno dato i loro frutti affinché questo gruppo venisse fuori meglio. I bellissimi
testi di Paolo Nicastro (fratello di Claudia), che invece c’è sempre stato dall’inizio della storia
del gruppo come bassista e ora anche seconda voce, divengono onde del mare, ruscelli di
montagna, nuvole di primavera che giocano a nascondino cantati da lei. Le canzoni di
“Traiettorie di volano” cercano nuove corrispondenze emotive alla forma canzone cantata
soprattutto in italiano. Gli strumentali come “Rami”, “Ed Hopper” e “Insalata n. 5” mostrano
un altro aspetto forte dei ragazzi: quello di rendere immaginifiche le musiche con cambi,
improvvisazioni, pagine musicali che si girano senza sbavature, mentre i sassofoni di Pina
Muresu proiettano le speranze di felicità in bella vista. Ottima la batteria di Michele Tizzoni,
che si districa con maestria sui vari versanti delle canzoni, e le melodie sono rette bene da
Fabrizio Lusitani ed echeggiate poi da Pietro Beltrami alle tastiere.
Contatti: www.myspace.com/florakiki
Francesca Ognibene
Pagina 36
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Numero Aprile '10
G.o.D.
Generation On Dope
Bagana/Edel
Un gruppo come i G.o.D. mancava in Italia. Mi spiego meglio: era da troppo tempo –
facciamo dai Thee STP? – che da queste parti non si sentivano band suonare del sano
rock’n’roll senza troppe sovrastrutture. E questi quattro ragazzi, un tempo noti come Razzle
Dazzle e con un buon bagaglio d’esperienza sia live che in studio, colmano questo vuoto.
L’esordio “Generation On Dope” infatti è una sintesi attuale di hard rock, punk e melodie di
facile presa, ed il termine di paragone che m’è saltato subito in testa sono i Backyard
Babies. Di questi ultimi hanno il piglio melodico, e l’apripista “Cinnamon” riuscirebbe anche a
piacere a qualche patito della dance, e l’attitudine non troppo seriosa, il tutto con un tocco di
metal ed una voce più graffiante. Proprio la voce, e nella fattispecie la pronuncia ed i testi,
sono forse l’aspetto che più meriterebbe attenzione, infatti a differenza della parte
strettamente musicale sembra mancare qualcosa per ottenere il miglior risultato, anche se
ad onor del vero i testi sono più interessanti della media degli italiani che si cimentano con
l’inglese. Più luci che ombra insomma, e soprattutto un po’ di buon vecchio r’n’r, semplice e
diretto. Ce n’è oggi più che mai un gran bisogno.
Contatti: www.myspace.com/generationondope
Giorgio Sala
Pagina 37
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Numero Aprile '10
Gaben
Cane
Benka/Halidon
Esce sull'etichetta dell'ex cantante dei Giuliodorme, Giulio Corda, la Benka Records (in
catalogo pure l'alter ego musicale di Violante Placido, Viola), il disco d'esordio di Alessandro
Gabini, in arte Gaben, un lungo passato di bassista per conto terzi e un predente in cui ha
deciso di mettersi in gioco in prima persona come autore. Le canzoni di “Cane” si muovono
tra chitarre in bassa fedeltà, una minima impalcatura tecnologica e certo immaginario
estetico-musicale prettamente indie. Nulla di rivoluzionario per intenderci, ma senza dubbio
quella che emerge è una scrittura piacevole, abbastanza varia, volutamente un po' naif ma
mai troppo di maniera. Insomma, un disco che si potrebbe definire “carino”, senza per
questo sottendere chissà quale tipo di atrocità musicale commessa dall'autore, anche se è
vero che il termine ha ormai assunto una connotazione quasi del tutto negativa. Forse
manca ancora un po' di personalità nell'interpretazione vocale, ma del resto è proprio
l'understatement la chiave di lettura del tutto. Al sottoscritto, dovendo citare qualche brano,
piace molto “Quello che ti sembra”, una ipotesi di Bugo meno agitato e meno sghembo,
comunque efficace nel veicolare la visione musicale disincantata, ironica e senza troppe
pretese dell'autore.
Contatti: www.myspace.com/gabencane
Alessandro Besselva Averame
Pagina 38
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Numero Aprile '10
Gasparazzo
Fonostorie
autoprodotto/Goodfellas
Combat-folk (il nome del gruppo è tratto dal cognome di un carbonaio tra i protagonisti della
rivolta di Bronte, in Sicilia, del 1860, assimilato attraverso l'omonimo personaggio
fumettistico anni Settanta, opera di Roberto Zamarin, inoltre la formazione è impegnata da
anni in vari progetti legati al recupero della memoria della Resistenza), ritmi in levare,
qualche chitarra dalle vaghe parentele surf/rockabilly, un basso che rotola e rimbalza con
grande agilità. Ma anche rumori, elettricità, piccoli disturbi sonori: non quello che ci si aspetta
esattamente dal filone cui il gruppo sembrerebbe appartenere. C'è poi un elemento che
emerge su tutti gli altri, nel nuovo album di questi teramani trapiantati a Reggio Emilia: una
presenza vocale, quella del cantante Alessandro Caporossi, istrionica e trascinante, a tratti
al limite della autoparodia ma comunque sempre capace di catalizzare l'attenzione. In alcuni
casi, “L'albero che non c'è” si affacciano ricordi anni Novanta, con un crossover che tira in
ballo rap, patchanka, ska e funk e riesce a suonare attuale nonostante l'impronta
inevitabilmente legata a stilemi passati, mentre altrove il passo si fa decisamente reggae
(“Nuvola Park”), e “Miraggi” ha l'andatura di Manu Chao, un omaggio evidente ma sentito. Si
è già detto molto, forse pure troppo, utilizzando questi suoni e queste parole, ma i
Gasparazzo riescono ad elevarsi al di sopra dei cliché, efficaci nel delineare una via di fuga
tutta loro.
Contatti: www.gasparazzo.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 39
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Numero Aprile '10
Gianluca Grasso
Vortex
autoprodotto
In questo folle e caotico mercato discografico del terzo millennio è possibile scoprire che un
musicista sperimentatore e di alto livello come Gianluca Grasso debba cercare visibilità nei
meandri dell’underground esattamente come una qualsiasi rock band di ragazzini alle prime
armi. D’altronde, da tempo il jazz e la fusion, territori all’interno dei quali si muove la
creatività del Nostro, sono diventate espressioni musicali destinate a un’élite di appassionati,
per non dire intenditori. Non possiamo però nascondere che i legami che questi generi
hanno stretto con il rock, soprattutto in chiave prog, ne hanno da tempo cancellato l’aspetto
snob e naïf. Ecco perché è lecito sperare che un album come “Vortex”, possa
raggiungere un interesse maggiore, che uno spazio destinato spesso agli emergenti. Magari
un’attenzione se non di pubblico, almeno di critica. Infatti i motivi di interesse di questo CD
sono davvero tanti, con i suoi saliscendi melodici, le sue strutture ad ampio respiro, con quel
suo essere innovativo e classico, vicino agli standard jazz rock, ma allo stesso tempo saper
esplorare paesaggi, è in grado di offrire stimoli sia ai fruitori di jazz/fusion che a quelli di prog
e rock. Nonostante la giovane età, Gianluca Grasso vanta un curriculum di tutto rispetto, la
fusion dei Janguì, il jazz rock del Koan Quartet e le collaborazioni con Luca Aquino e Gio
Gentile, viatico per un esordio solista, questo “Vortex”, autoprodotto e disponibile anche sulle
varie piattaforme digitali. Il rischio in sonorità di questo tipo è di apparire freddi e distaccati,
ma qui il pericolo viene scongiurato, perché il tastierista inserisce strutture variegate e
delinea passaggi sempre ben armonizzati che guardano ai maestri dello strumento,
cercando sempre di estrapolare una propria identità. “Vortex” è un lavoro chiaramente
destinato ad un certo tipo di pubblico, che – ne sono certo – ne ricaverà solo buone
vibrazioni.
Contatti: www.myspace.com/gianlucagrasso
Gianni Della Cioppa
Pagina 40
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Numero Aprile '10
Ilaria Pastore
Nel mio disordine
Totally Unnecessary Records/Audioglobe
Album d’esordio per Ilaria Pastore, cantastorie che invita gentilmente a entrare nella sua
“casa caotica, piena di storie vere, di riflessioni, vestiti da riordinare, calzini spaiati,
perplessità ma anche parole di conforto”. “Nel mio disordine”, che arriva finalmente a
sintetizzare un decennio di concerti, studi, concorsi e demo, allinea dieci canzoni – scritte,
arrangiate e prodotte in prima persona, quantunque con il supporto dei fidi musicisti Lucio
Fasino e Antonio Fusco nonché del chitarrista/produttore Gipo Gurrado - che suonano per la
verità ben organizzate nel miscelare acustiche, cantato melodico sufficientemente personale
e sfumature fiabesche, dai colori decisi (a tratti viene in mente la disciolta band toscana La
Camera Migliore, per chi se la ricordasse). A livello tematico si traccia un ideale itinerario
narrativo cementato dal senso del tempo, percorrendo le varie fasi, quando gioiose quando
dolorose, dell’esistenza. Episodi come “La chiamano notte”, “Occhi lucidi”, “A volte” e “Ora”
evidenziano l’abilità nel gestire i dettagli, nell’inserire elementi, come elettriche mai troppo
invasive, fiati immaginifici o tasti sognanti, in grado di impreziosire, valorizzare composizioni
sicuramente gradevoli nella loro fragrante, morbida semplicità di base. La songwriter
lombarda sa insomma come muoversi e lo fa aggirando le banalità del pop sin troppo
orecchiabile, votandosi viceversa alla ricerca, all’affinamento di un proprio linguaggio
espressivo. Da incoraggiare.
Contatti: www.myspace.com/ilariapastore
Elena Raugei
Pagina 41
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Numero Aprile '10
JudA
Malelieve
Il verso del Cinghiale
JudA è un trio milanese formato da Marco Antoci D'Agostino (basso tenebroso e voce),
Sergio Fossati (chitarra monolitica e potente), Alberto Mangili (batteria come un elicottero)
che imprime in “Malelieve” undici tracce per un'ora esatta di psichedelia e stoner di quelli
pesanti, anzi heavy. Le parti arpeggiate, come l'incipit di “Lontano dagli occhi”, sembrano dei
Marlene Kuntz dei tempi de “Il vile”. Ma la maggior parte dell'album è uno schiacciasassi che
incede a velocità alterne su tutto ciò che incontra, in pezzi variabili dai tre ai dieci minuti
abbondanti, come dei Deftones senza miriadi di chorus e delay nella voce e più vene in
rilievo sulle braccia che picchiano sugli strumenti. Una carrellata d'ospiti correda il
monumento: Paolo Fusini degli Spread, Stefano Antoci D’Agostino che alcuni conoscono
come Stead in ‘”Trema”, Laura Spada, voce degli Psychovox, nella nenieggiante “3c”, e
Xabier Iriondo, uno che ha bisogno di poche presentazioni, nella lenta, melodica e alienante
“Invasa da umori a distanza”. Un disco da dondolare al buio, con gli occhi chiusi e i pugni
stretti fino al sangue. Forse un poco pacchiani gli arrangiamenti, un po' troppo prevedibili e
quadrati, ma il risultato finale è un ottimo lavoro duro e pesante che schiva di un pelo
l'ossessività del genere in favore della freschezza del suono. “Malelieve” è anche adatto alla
– e forse figlio legittimo della – nevrosi da metropoli. Un disco da sparare a tutto volume
dalla macchina al posto del clacson. Farà sicuramente piazza pulita di fronte al vostro
tragitto.
Contatti: www.myspace.com/judabox
Marco Manicardi
Pagina 42
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Numero Aprile '10
København Store
Hi
42/Halidon
Per molti versi ambizioso il nuovo progetto in cui si sono imbarcati i København
Store, a un paio d’anni dall’uscita del loro primo album, “Action, Please!”: quella di realizzare
– sempre con il supporto della 42 Records – una trilogia di EP, il primo dei quali è “Hi” (i
prossimi saranno intitolati “Low” e “You”). Sei le canzoni al suo interno, all’insegna di un
gustoso indie-rock collocabile all’incirca a mezza via tra un gusto tipicamente post per le
circolarità e le stratificazioni progressive e l’orchestralità un po’ teatrale e non poco intensa
degli Arcade Fire. Una materia non facilissima da maneggiare, perché il rischio di cadere
nell’autocompiacimento o nell’eccesso di enfasi è sempre presente, ma che la formazione –
affiancata da ospiti quali Paolo Torreggiani dei My Awesome Mixtape o Nicola Manzan –
dimostra di saper gestire con equilibrio e sapienza, e che si concretizza in composizioni
vibranti e ricche di pathos, di impatto ma anche curatissime nelle sfumature, con archi e
chitarre liquide a reggere strutture articolate e di invidiabile solidità.
Se il buongiorno si vede dal mattino, nel suo insieme questo tris di dischi è destinato a
regalare buone soddisfazioni. Adesso non rimane che attendere “Low”, previsto per l’estate,
che vedrà la partecipazione di B. Fleischmann.
Contatti: www.myspace.com/kobenhavnstore
Aurelio Pasini
Pagina 43
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Numero Aprile '10
Letherdive
The Closet
Disco Dada/Venus
Ci vuole del coraggio, nel 2009, per mettersi a trafficare con i codici del trip hop. Ma questo
coraggio viene abbondantemente ripagato, e questo è il caso del progetto Letherdive,
partnership tra la cantante degli Ofeliadorme, Francesca Bono, e il produttore Trif_o, nel
caso che ci si avvicini alla materia con spirito nuovo e curioso. Non un recupero nostalgico,
quindi, ma una riflessione sulle potenzialità ancora attuali di un fenomeno che, fatta
eccezione per pochi, illuminati eretici, si è quasi immediatamente fossilizzato in maniera
quando si è manifestato al principio degli anni Novanta. Le canzoni di “The Closet” si
muovono in territori oscuri e metropolitani, accompagnate da bassi abissali e scansioni
ritmiche lente e minacciose, potendo contare sull'espressività vocale e della Bono, capace di
spaziare dal fondale più etereo alla coloritura black. In brani come “The Bravest” sembra di
assistere ad un recupero attualissimo dei Massive Attack di “Mezzanine”, con quella
tensione sotterranea che minaccia costantemente di esplodere, ma l'approccio ai suoni è
senz'altro al passo coi tempi, mentre la caracollante ritmica di “Repentance” fa venire in
mente i Boards Of Canada a braccetto con Beth Gibbons. Impressionante davvero: un disco
“di genere” quanto basta, curatissimo, ispirato, non completamente svincolato dai modelli di
riferimento i quali vengono però trattati con grande equilibrio, gusto e la giusta percentuale di
innovazione. Molto bravi.
Contatti: www.myspace.com/letherdive
Alessandro Besselva Averame
Pagina 44
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Numero Aprile '10
Lisagenetica
Ex vuoto
Latlantide/Giucar
Non sono gli ultimi arrivati i cuneesi Lisagenetica, hanno superato i dieci anni di attività e
questo nuovo album, che arriva dopo due EP autoprodotti e uno split su RedLed, condiviso
con i Wah Companion (la rock band di Ru Catania degli Africa Unite), ma soprattutto dopo
cinque anni di silenzio discografico – ma non artistico – è la testimonianza che non solo non
hanno perso il gusto per un certo tipo di rock cantautoriale, ma sono addirittura maturati
nella scrittura, negli arrangiamenti e nei testi. Ed è questo il passaggio fondamentale, perché
oggi come non mai assistiamo, all’interno della scena rock nazionale, a un proliferare di
superficialità nell’approccio alle liriche, spesso camuffate dietro un inglese di circostanza che
globalizza ed appiattisce tutto o, peggio, ad un ritrito . I Lisagenetica hanno il loro equilibrio,
in bilico tra una brezza poetica e una vena hard rock, affidata ad una sezione ritmica
funzionale, con un grande lavoro di basso, al resto pensa Riccardo Sereno Regis, punto
fermo del gruppo dagli esordi, che si occupa della chitarra ritmica (la solista è di Federico
Memme), delle tastiere e naturalmente della parti cantate, che con il suo timbro che ricorda il
grande Ivan Graziani, è la vera ossatura delle dieci tracce dell’album, che offrono un
bagaglio di scrittura variegato. Infatti se l’apertura di “Strega” (presente anche come
videoclip bonus), è un singolo ad ampio respiro, “Irresistibile” suona come una moderna
filastrocca, con i suoi ghirigori melodici e se si incunea duttile nella nostra mente, “Quadro di
Botero” e “Miocard” sono due pop song estive, dal refrain adescante, due singoli perfetti
insomma. Bella e credibile anche la rilettura di “Summer On A Solitary Beach” di Franco
Battiato. É evidente che di tanto in tanto appare l’ombra docile dei concittadini
Marlene Kuntz, ma i Lisagenetica risolvono il tutto con un’attitudine più morbida,
caratteristica che potrebbe aprire, se ben direzionato, anche opportunità radiofoniche.
Contatti: www.myspace.com/lisagenetica
Gianni Della Cioppa
Pagina 45
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Numero Aprile '10
Lush Rimbaud
The Sound Of The Vanishing Era
FromScratch – Brigadisco – BloodySound – HotViruz – SweetTeddy –
NarvaloSuoni/Audioglobe
Uscito nel 2007, “Action From The Basement”, il primo album targato Lush Rimbaud, ha
dato una certa visibilità agli anconetani, arrivando a suscitare anche l'interesse del
settimanale britannico “New Musical Express”, il quale ne lodava l'impatto sonoro, nella
fattispecie parlando di “teso flusso sonico” e “ipnotica andatura elettronica”. Il seguito, “The
Sound Of The Vanishing Era”, registrato da Fabio Magistrali, ribadisce la potenza di tiro dei
quattro, e la loro propensione a mescolare gli schemi ciclici e ripetitivi di certo krautrock con
una fresca e convincente passione per il post punk britannico più tagliente. Caratteristica
quest'ultima che nel trapestio di “They Make Money (We Make Noise)” lascia nell'aria una
vaga traccia della misantropia sferragliante dei Fall. La tempesta elettrica, volutamente
pestona, selvatica e un po' sconnessa (ma capace di aggregarsi in vortici di sequencer) di
“Space Ship” è un livido incubo elettro-country, pieno di entusiasmo però, che non può
lasciare indifferenti, e infatti ci convince ben presto di essere il brano migliore del lotto.
All'interno di un disco che, in ogni caso, è bello denso e pieno di energia, e non ha momenti
di stanca, attraversato com'è da una persistente e molesta tensione elettrica. Bravi, e
parecchio.
Contatti: www.lushrimbaud.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 46
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Numero Aprile '10
Marquez
Il rumore migliore
autoprodotto
“Paradossale”. Così i cesenati Marquez descrivono la loro opera seconda, “Il rumore
migliore”, che arriva cinque anni dopo l’esordio “L’incredibile storia del malinteso tra il dottor
Poto e la banda dell’acqua minerale”. Paradossale perché, sono sempre parole loro,
“perennemente in bilico tra il pop italiano e le sonorità sporche più note al mondo dell’indie”.
E in effetti, se dal punto di vista della grana degli strumenti l’ambito in cui ci si muove è
ancora quello, per così dire, “alternativo”, le melodie hanno un respiro che non sempre in tali
contesti è di casa. Si può parlare di rock d’autore, allora, equilibrato negli arrangiamenti e
nelle forme, con le chitarre che tingono i pezzi di elettricità ma li sanno anche rivestire di
calde tinte acustiche, facendosi alla bisogna da parte per cedere il passo a pianoforte e
archi. Le liriche, poi, riflettono una certa inquieta tensione, sia quando parlano di sentimenti
che quando, invece, affrontano problemi più prosaici (il mondo del lavoro, la società). Forse
servirebbe un poco di personalità in più, per dare al tutto quel tocco di unicità che qui ancora
manca; e tuttavia, la qualità media delle canzoni è tale da far passare la questione in
secondo piano. Una doppietta come “Signora mia dell’ignoranza” e “Quello che Federica non
sa”, in effetti, non se le possono permettere tutti, e sono trampolini che speriamo consentano
al quartetto romagnolo di raggiungere il pubblico sia dei rock club che – per intenderci – del
Club Tenco.
Contatti: www.marquezonline.com
Aurelio Pasini
Pagina 47
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Numero Aprile '10
Massimo Ferrante
Jamu
Felmay
Terza uscita solista di Ferrante, “Jamu” (“andiamo” in dialetto calabrese) prosegue
l’esplorazione della tradizione folklorica che il musicista di Joggi va conducendo. Presenze
più o meno fisse: Enrico Del Gaudio alla batteria, Francopaolo Pereca al clarinetto, Lello
Petrarca al basso e Lutte Berg alle chitarre.
Già spalla di Daniele Sepe, Ferrante è oggi un cantastorie prezioso nel nostro panorama.
Uno che musica la bellissima poesia di Ignazio Buttitta “Lingua e dialettu”, manifesto
programmatico dei subalterni, e la sistema in testa e in coda all’album, divisa in due parti.
Perché sia un memento costante che “un popolo diventa servo quando gli rubano la lingua”.
La lingua dei padri è anche quella d’oc, e con l’aiuto di Lutte Berg, viene riarrangiato il
tradizionale “La Piov e la Fai Soulelh” – la Calabria è sede di enclave valdesi da secoli – che
diventa un folk-rock elettrico. Stesso trattamento subisce “’U monacu”, appartenente alla
tradizione dell’Alta Calabria, percorsa da una trascinante elettricità. Ferrante ripropone un
“Lamento” (“pi la morte di Turiddu Carnivali”) di Otello Profazio e una tarantella in minore di
Danilo Montenegro; leva inoltre la polvere a “Tu compagno” del Canzoniere delle Lame (un
canto del 1973), che viene rieseguito con l’aiuto degli E Zèzi. “Ari cinqu” è una filastrocca di
Joggi, il paese d’origine di Ferrante”, eseguita con arrangiamento bandistico, e medesima
provenienza ha la “Ninnananna joggese”, riproposta nella versione materna. Jamu, Ferrante
è al suo meglio.
Contatti: www.massimoferrante.it
Gianluca Veltri
Pagina 48
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Numero Aprile '10
Miss Fraülein
The Secret Bond
MK/Venus
Cosentini di discendenza stoner, autori di un rock granitico infiltrato da massicce dosi di
melodia e caratterizzato da una decisa (e ispirata) propensione per il pop, i Miss
Fraülein pubblicano questo secondo album a distanza di un bel po' di anni da quello
che era stato il loro esordio adulto, “Aprofessionaldinnerout” del 2003. Le canzoni di questo
disco si posizionano a metà strada tra certe sonorità college rock anni Novanta (“Battle On
Ice”) e monumentali riff catatonici che si insinuano in numeri di eclettismo pop alla
Motorpsycho (“Sleepy Golden Storm”), transitando di tanto in tanto per sedimentazioni più
antiche, dove innesti di southern rock e amore per i primissimi Black Sabbath si incontrano:
è il caso di “See You Men”. La formula è compatta, né troppo circoscritta né troppo elastica,
ricca di spunti anche molto diversi, tenuti sempre sotto controllo da una attenta regia. Un
disco anche parecchio ambizioso, come indicano i fiati solenni che aprono il sipario sulla
conclusiva “The Secret Bond”, brano in cui gli stessi fiati, una sezione ritmica in fregola funk
e chitarre distorte si inseguono e si intrecciano a lungo prima di consegnarsi ad una
progressione di riff che tira in ballo scenari blaxploitation, divagazioni free e un hard rock
dalle geometrie asciutte. Una ambizione suffragata dai mezzi, che fa intuire un talento pronto
per approdare a nuovi lidi. Che molto difficilmente, insomma, si accontenterà di restare
dov'è.
Contatti: www.missfraulein.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 49
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Numero Aprile '10
Opa Cupa
Centro di permanenza temporanea
11/8 Records
Cesare Dell’Anna proviene da una famiglia di musicisti bandisti da generazione. Il suo
balkan-jazz sforna ora il terzo lavoro, sotto la ditta Opa Cupa. La fascinazione per la sponda
orientale dell’Adriatico, per lui salentino, un senso egalitario inesausto e un profluvio di fiati:
questa è la ricetta con gli ingredienti di Opa Cupa. Diciotto tracce, quasi tutte strumentali,
fiato alle trombe. In “Due inutili parole” e “Extasi di stelle salenti” la voce è di Irene Lungo e le
parole del poeta Giuseppe Semeraro, socio dell’Hotel Albania, la casa-laboratorio da cui è
nato il cammino di Dell’Anna che porta fin qui. La prima racconta la delusione di un migrante,
viaggiatore, profugo (extracomunitario, clandestino, senzatetto): “speravo di incontrare un
popolo nuovo e ho incontrato invece due guardiani come altri”. La seconda, introdotta da un
violino in lacrime, è un tango sotto le stelle di un amore perduto. I pezzi originali si alternano
in scaletta a traditional e persino a standard. “Baresh”, “Ciganja” – un western albanese – e
“Opa Cupa” appartengono al repertorio tradizionale; “Ebb Tide”, preceduta da uno spezzone
tratto dal film “I clowns” di Fellini (la cantò Frank Sinatra) e la coltraniana “My Favorite
Things” sono declinate alla maniera delle bande di paese. “Balkan trap” ondeggia nel
caratteristico 7/8 del jazz balcanico degli Opa Cupa; particolarmente felice e trascinante
“Neelie”. In coda frammento di un minuto, con “God Save the Queen” à la Opa Cupa. La
vendita del CD sostiene il Poliamburatorio di Emergency a Palermo, che presta gratuita
assistenza alla popolazione immigrata.
Contatti: www.11-8records.com
Gianluca Veltri
Pagina 50
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Numero Aprile '10
Outopsya
Sum
Videoradio
Un giovane progetto musicale che sa superare da subito gli steccati e gli stereotipi di
genere è già di per sé un piccolo caso underground degno di considerazione. Outopsya ha
origini trentine, forse un po’ erede delle storiche trasversalità aliene dei concittadini Runaway
Totem e Universal Totem Orchestra, e in quanto fresco virgulto proiettato più decisamente
su evolute matrici new metal. Nel crocevia dei riferimenti stilistici ed estetici, ideati da Luca
Pianini (chitarra, voce, synth, percussioni) e Evan Mazzucchi (basso), confluiscono svariate
influenze: l’ossessivo trash-prog-metal ai confini del math-rock, talune asperità industrial
stemperate scorrevolezze heavy-fusion, cenni electro-psichedelici, sinanche oscure
ambientazione gothic-death. Tante idee dunque e complessità compositive che si sviluppano
in devianti progressioni ritmiche, talvolta fin troppo compresse e condizionate da
un’eccessiva, frenetica meccanicità, che trae linfa anche da una gestione marcatamente
elettronica (ben poco decisiva la scelta nel brano “Sum”, sintesi che strizza, comprime,
accelera tutto l’armamentario ascoltato nei sette brani precedenti). Più felice ed efficace la
presenza vocale di Ylenia Zenatti in “Mothal” e “Don’t Mind”, tale da alimentare sentori di
epicità Zehul e di certe schizofrenie Zappiane. Basta e avanza per un plauso di merito
complessivamente convinto e benaugurante, suffragato anche dalla nitida sensazione di
ragguardevoli potenzialità sviluppabili in prospettiva.
Contatti: www.myspace.com/outopsya
Loris Furlan
Pagina 51
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Numero Aprile '10
P.A.Y.
La ragazza col coltello
Punkrocker’s
Se mi consentite un piccolo preambolo il problema, se così possiamo chiamarlo, dei P.A.Y.
è che visto il genere che fanno, ed il paese in cui son nati, sono “troppo”. Troppo intelligenti i
testi e troppa cura nel fare le cose; tutte peculiarità che altrove sarebbero apprezzate e che
invece qui rischiano di essere un handicap. L'equivoco forse potrebbe cadere con “La
ragazza col coltello”, ovvero il ritorno ad un album convenzionale dopo l'avventura del
concept di “Federico Tre”. Cinque anni senza un disco “vero” non son passati invano; una
crescita musicale che ha portato i P.A.Y. a frequentare molto più i lidi dell'indie rock che non
quel punk che è rimasto più come attitudine che non come suoni. E senza più l'obbligo di
raccontare una storia sola anche le tematiche dei testi prendono direzioni impreviste:
l'attualità vista di sbieco di “Se le madri uccidono”, la resa completa al proprio muscolo
cardiaco di “Desdemona e il panico”, ma anche lo sguardo ironico di “La Conquista
dell'Universo”. L'esperienza del mini “Elettro '80” poi viene fuori nitida nella drum machine di
“Zombies”, ed è un piacere vedere come un gruppo con la loro esperienza riesca ad avere
una vivacità creativa che non ritrovo spesso nemmeno in gruppi all'esordio. Sarete anche
“troppo”, ma andate benissimo così.
Contatti: www.ammore.net
Giorgio Sala
Pagina 52
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Numero Aprile '10
Sakee Sed
Alle basi della roncola
Chemical Archives
Sono bergamaschi che fumano e bevono, almeno da quello che percepiamo da “Alle basi
della roncola”. Sono quasi americani nel suono, di quell'America agricola da saloon nebbiosi
col piano appoggiato in un lato del locale e il pianista negro che soddisfa le richieste dei
cowboys ubriachi. Usano strumenti vintage come chitarre acustiche, elettriche sporche,
vibrafoni, banjo, ukulele, organi. Ritmo blues e da cabaret, voci rauche ma non troppo, come
Tom Waits al primo pacchetto della giornata; un piano sul quale dita esperte picchiano a
occhi chiusi e il bicchiere di wishky sulla cassa. A volte sembrano i Pavement trapiantati nel
vecchio West (come in “Happy Thomas” e “Mrs. Tennessee”), ma più spesso sono dei
vecchi crooner con la propensione per l'avanspettacolo (“Walzer”). Ho usato due volte la
parola vecchio, ma i Sakee Sed sono nati a metà degli anni '80 e il loro suono così esperto –
perché, intendiamoci, siamo di fronte a gente che sa suonare bene e lo sa – è talmente
insolito da sembrare uno scherzo. In “Alle basi della roncola” c'è esperienza e soprattutto un
quantitativo spropositato di alcool, non solo nei titoli delle canzoni (“Whisky & Coke”,
“Vermouth & Baby”, “I'm Drunk”), e c'è un cantato in italiano stralunato con testi mai lasciati
al caso ma ben ponderati, sguaiati e alticci. I Sakee Sed sono gente con la quale passeresti
volentieri una nottata fumosa a bere, scherzare e ballare in un locale di legno dell'ovest degli
Stati Uniti. Oppure a Bergamo, che si beve bene anche lì.
Contatti: www.myspace.com/sakeesedfamily
Marco Manicardi
Pagina 53
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Numero Aprile '10
The Hutchinson
Clan
Wallace/Audioglobe
Monomaniaci e ossessivi, ma nella migliore accezione possibile: i quattro Hutchinson
tornano a dire la loro con questi sette brani come sempre invischiati in trame
kraut-funk-hard, intenti a ribadire fino allo sfinimento idee dotate di una forza e di un impatto
tali da scongiurare, a dispetto della ripetitività, ogni rischio di annoiarsi. Più che canzoni, si
tratta di cavalcate in loop che si imbattono in incidenti di percorso perfettamente orchestrati,
leggi cambi di tempo, litigi in forma di fraseggi math-rock, distorsioni e volumi che salgono
come in un incidente tra i King Crimson e “La mala ordina”. Il contrappunto vintage delle
tastiere, dal gusto cinematografico, non prende mai il sopravvento sulle chitarre e sulle
immutabili evoluzioni krautrock, con il lessico che a tratti si incattivisce e chiama in causa
granitici space rock alla Hawkwind (“Atom Ama”). “Linfame”, invece, spinge sul versante più
funk, con batteria, chitarra e basso che si rimpallano note e rullate e i sintetizzatori sullo
sfondo a creare un gelido contrappunto, una situazione che si ripete, solo più acida e
inquieta, con denso raggrumarsi di chitarre wah wah, nella traccia finale, “Dood”. Insomma, il
gruppo dimostra ancora una volta di riuscire a mantenere sempre altissima la tensione, pur
utilizzando schemi in qualche modo facilmente collocabili. Una musica di situazione e di
atmosfera, ma nitida e pulsante, sempre in movimento.
Contatti: www.wallacerecords.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 54
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Numero Aprile '10
The Jains
Holy Changing Spirit!
AcidCodra/Venus
Terzo album e terzo passo in avanti per le Jains. Il duo formato da Kris Reichert, volto di
MTV ma soprattutto voce e chitarra, e dalla batteria di Anna di Pierno con questo “Holy
Changing Spirit!” non rinnega il rock abrasivo e quasi rrriot ma lo affianca ad atmosfere
acustiche, assecondando finalmente quella vena compositiva che finora covava sotto la
cenere. Merito di questo va anche al produttore, ovvero Amaury Cambuzat (Ulan Bator) che
ha insistito affinché brani come “Find Your Way” o la stessa title track rimanessero così
come sono nati senza riarrangiamenti rock. Un disco dalle due anime, capace di farti ballare
con il singolo “No Limits” ma anche cullarti con ballate acustiche, e con la stessa credibilità
in entrambi i casi. Decisamente un passo in avanti per affrancarsi da modelli che ormai
avevano mostrato tutti i limiti e una maturazione artistica che fa comprendere tutte quelle
potenzialità che prima si potevano solo intravedere. Abituati alla voce arrabbiata di Kris
riusciamo ancora a stupirci della dolcezza di “Light Above My Head”, e tutto sembra mettersi
a posto. Credo proprio che con quest'album le Jains abbiano spiccato il volo. E che il
“cambiamento di spirito” sia stato una vera benedizione.
Contatti: www.thejains.it
Aurelio Pasini
Pagina 55
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Numero Aprile '10
Vallanzaska
iPorn
Maninalto!/Venus
Una premessa fondamentale: chi scrive ama molto i giochi di parole, e in tal senso ha
sempre trovato divertente quello che sta alla base della ragione sociale Vallanzaska. Da qui
a pensare di coinvolgere nel loro nuovo lavoro Renato Vallanzasca – che, lo ricordiamo, è in
carcere, accusato fra le altre cose di un buon numero di omicidi –, oltretutto sbandierandolo
ai quattro venti in fase di promozione, ci pare una cosa quantomeno raccapricciante. Poi, se
non altro, il contributo del “bel René” sostanzialmente si riduce a una canzone sola, “Expo
2015”; ma, come si dice, è il pensiero che conta.
Mettiamo però da parte i giudizi sull’operazione, e concentriamoci sul disco. L’ambito è
grosso modo quello di sempre, tra ska, reggae, hip hop, una spruzzata di elettronica e un filo
di distorsioni; contesti nei quali l’ensemble è già da parecchi anni uno dei nomi di punta. Per
quanto riguarda le tematiche, invece, si passa dal faceto (“Monitor”, dedicata al proprio
tecnico del suono, “Spaghetti ska”) al serio, con liriche che di volta in volta si concentrano
sulla diffusione delle tecnologie di consumo e della pornografia in Rete, sul consumismo
esasperato, sugli intrecci tra economia e politica, su una Milano dove è sempre più difficile
fare musica, su Berlusconi e sul modo in cui i media hanno trattato la morte di Carlo Giuliani.
Buone intenzioni che nei fatti si traducono in canzoni sì curate; divertenti e sovente
impegnate, per lo meno nelle intenzioni, ma che sono destinate a non lasciare alcun ricordo
nella memoria, se non ai fan della linea dura e a chi mangia e dormono solo in levare.
Insomma, anche al netto della “questione morale”, non c’è molto qui che valga la pena di
essere ricordato, a livello di spunti musicali e compositivi; anzi, la cover di “Smells Like Teen
Spirit” dei Nirvana speriamo di dimenticarcela il più presto possibile.
Contatti: www.vallanzaska.com
Aurelio Pasini
Pagina 56
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Numero Aprile '10
Velvetians
Plastic Glam
Lottarox
Pare che da queste parti si sia deciso di dimenticarsi le velleità nu-wave, le mode
passeggere, il punk-funk e quello che succede nei locali hip di Milano. E questo potrebbe
essere già abbastanza per ascoltare i Velvetians e trovarne un gruppo “puro”,
“appassionato”, sicuramente in grado di riconoscersi in note che i lustrini e le paillette le
hanno abbandonate nel 1980. Sì, insomma, uno non è che chiama il disco “Plastic Glam”
così, a caso. Però, se devo dirla tutta, mentre in giro leggo di Marc Bolan, di Dead Boys, di
New York Dolls mi viene in mente che alcuni si siano persi qualche decennio di musica pop.
Perché ad ascoltar bene l’esordio degli umbri, ci si rende conto come il glam sia solo un
punto di partenza ideale (come se per un cantautore si citasse Bob Dylan), gli antenati, i
pro-genitori. Ci sono due nomi che sono tornati costantemente durante l’ascolto. Uno in
minuscolo, l’altro in maiuscolo: blur e SUPERGRASS. Ecco. Se siamo arrivati qui è perché a
un certo punto ci sono musiche che rimangono e altre che si dimenticano. Probabilmente, le
velleità in quanto tali spariranno alla prossima grande onda da trend-setter coi Wayfarer. A
quasi vent’anni di distanza, invece, siamo ancora qui a canticchiare “Parklife” e “Caught By
The Fuzz”. Un motivo ci sarà.
Contatti: www.myspace.com/velvetians
Hamilton Santià
Pagina 57
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Numero Aprile '10
Vivianne Viveur

Rain Feelings
My Fay Records
Dei Vivianne Viveur ci è sempre piaciuta l'attenzione maniacale per suoni e atmosfere.
Chiaroscuri in passato riconducibili a un'obliquità un po’ alla Blonde Redhead e ora
stabilmente posizionati dalle parti di un rock elegante con inflessioni dark-noir. L'altra faccia
della medaglia era ed è una scrittura difficilmente etichettabile, talvolta contraddittoria, in
bilico tra sussulto vaporoso e dispersività, formalismo aristocratico e autoreferenzialità,
morbidezza evocativa e accumulazione.
Il terzo disco della formazione italo-inglese
– base a Londra per Vienne Langelle, Enrico Aurigemma e Jonny Burgess – non fa
eccezione in questo senso, collezionando un pugno di brani che gioca con una chanson
decontestualizzata (“Victorian Rain”), onirismi assortiti (“Hard Feeling”), malinconie
decadenti (“Daydream Syndrome”), sviluppi post-rock mascherati (“My Rainstorm”). Per un
suono barocco che sa di romanticismo oscuro ed avvolgente. A dar man forte al trio alcuni
collaboratori di rilievo tra cui Richie Stevens (Simply Red, Jamiroquai, Gorillaz), Andrea
Cajelli, Christian Rainer e Simone Basso, chiamati a perfezionare una formula raffinata
capace di mescolare archi, chitarre elettriche, Rhodes, synth, flauto, pianoforte, corno
inglese, basso e batteria. Non tutto è necessario, ma il fascino non manca.
Contatti: www.myspace.com/vivianneviveur
Fabrizio Zampighi
Pagina 58
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Numero Aprile '10
Yokoano
Yokoano
Canapa/Venus
Nonostante siano una band all’esordio, i comaschi Yokoano, hanno parecchie frecce nel
loro arco. Li guida infatti Daniele “Dani” Marceca, per anni chitarrista/cantante dei
Pornoriviste, che qui ha deciso di allargare gli orizzonti compositivi e di sostituire i rigidi
schemi del punk, con un’imprevedibilità che si coglie sin dalle prime note di “Vengo dal
vuoto”, che si apre con un canto quasi drammatico e poi si estende in un furente metal rock.
Inoltre l’album è il primo capitolo dell’etichetta Canapa, edificata dai Punkreas che
dimostrano di tenere fede a quello che era il loro proposito fondamentale, ovvero non
ingaggiare solo band di derivazione... Punkreas. Infatti le undici tracce delineano un trio
(Dani è affiancato dal bassista Zak e dal batterista Dario, giovani e tecnicamente dotati), che
suona potente ed aggressivo, ma non sembra seguire nessuna linea in particolare, se non
quella che vuole l’istinto legarsi alla ragione e d’altronde Dani è chiaro quando spiega
“Quello che penso lo esprimo in musica e disegni e le parole le prendo dai sogni che faccio”.
Nasce così un crossover d’assalto che si lega tanto al metal, quanto al punk e a certo
hardcore , ma a trascinare il tutto, nonostante l’euforia della potenza di fondo, è un senso di
freschezza che traspare ovunque, da “U.o.m.o.” a “Voglio la guerra” a “Kinder”, tutte canzoni
dove la sezione ritmica svolge un ruolo determinante. Ma gli Yokoano riescono a stupirci
quando aprono “Qui” come una filastrocca degli anni zero, mentre in “Mai”, “In alto mare” e
“Fatto” recuperano un’andatura geometrica che ha reso unici gente come Helmet e Henry
Rollins. In chiusura le prove melodiche di “Buonanotte” e “Shhhhh”, che odorano di Timoria
versione metal. Da ascoltare anche i testi, cantati con voce semplice, ma ben comprensibili,
nonostante la coltre di elettricità. Trentacinque minuti di energia pura, ma di quella
intelligente. E adesso cerchiamoli in tour.
Contatti: www.myspace.com/yokoano
Gianni Della Cioppa
Pagina 59
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Numero Aprile '10
Elettra
Una ragazza con una voce suadente e basi elettroniche fatte come Dio comanda prende il
nome di Elettra e registra “My EPness”, cinque tracce che sono l'embrione di un progetto
che speriamo veda un seguito. Si parte con “La sua figura”, un pezzo di Giani Russo con
campionamenti di Dvorak, archi in stile sanremese che si mescolano a un'elettronica esperta
e pulita. Poi l'inedita “My Name With Blood (Just Hold Me Close)” che sembra un pezzo di
Madonna come Madonna non ne fa da anni, voce compresa. Segue una cover di
“Surrender” dei Depeche Mode, chiaramente numi tutelari di Elettra, e altri due inediti:
“Artificial Plus Min(e)or Mood”, con un campionamento da Twin Peaks, ancora un mood da
Madonna in estasi dance e una lunga coda invertita, e “Do U Want To...” piena di glitch e
carezze elettroniche ed elettriche che chiudono l'EP. Sul MySpace di Elettra c'è un appello
scritto senza mezzi termini: si cercano musicisti che l'accompagnino per portare avanti
quanto iniziato in solitudine. Fatevi avanti.
Contatti: www.myspace.com/eletart
Marco Manicardi
Pagina 60
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