Numero Aprile `06

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Numero Aprile `06
Numero Aprile '06
EDITORIALE
Primo Fuori dal Mucchio di primavera. Come sempre, i mesi a cavallo tra la fine
dell’inverno e l’inizio – almeno teorico – del bel tempo coincidono con una vera e
propria fioritura di dischi nuovi. A livello internazionale come italiano. Tanto, quindi, il
lavoro da fare per scegliere quali recensire e, in un secondo momento, quali dei loro
autori intervistare, in modo da offrirvi una fotografia il più possibile varia ed
esaustiva del meglio dell’underground “emergente, autoprodotto, esordiente,
sotterraneo, di culto” tricolore.
Per questo motivo, ancora una volta facciamo presente che, se anche non
riusciamo a recensire tutto il materiale pervenutoci – e del resto non solo non ce ne
sarebbe lo spazio, ma una selezione a priori ci pare un atto di rispetto per gli artisti
stessi –, vi possiamo assicurare che ogni cosa viene ascoltata e vagliata con la
massima attenzione. Per questo motivo, è importante seguire bene le istruzioni
riportate qui a lato nella pagina “Per invio materiale”, e cioè far pervenire una copia
del tutto a entrambi i curatori di questo spazio e, al fine di facilitarci ulteriormente le
cose, ad almeno uno dei collaboratori fissi.
Ciò detto, non ci rimane che lasciarvi a un inserto dal sommario particolarmente
ricco: quali che siano le vostre preferenze – indie-pop oppure punk, folk o
avanguardia – ci piace pensare che lo troverete di vostro gradimento. Buona lettura,
quindi, e buoni ascolti. Magari allietati dal tepore del primo sole primaverile.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Aprile '06
Satellite In
In The Land Of The Sun
Urtovox/Audioglobe
Pionieri in terra italica dell’alt-country, se così si può dire, semplificando un poco:
autori nel 1999 di un debutto, “Cold Morning Song”, pubblicato dall’americana
MoodFood Records, ospiti all’epoca di festival importanti come il South By
Southwest, i romagnoli Satellite Inn ritornano a fare sentire la loro voce in un
panorama musicale nel quale rischiano di fare la figura, di fronte ai meno informati e
accorti, degli ultimi arrivati tra i seguaci dell’indie a stelle e strisce, versante
tradizionalista. Nessun rischio in tal senso, in realtà, perché ascoltando “In The Land
Of The Sun”, nuovo capitolo dopo sette anni, si percepisce una grande maturità nel
maneggiare materiali classici e inconfondibilmente americani, intrecciandoli allo
stesso tempo con una interpretazione libera da vincoli troppo formali. E così, da un
lato ci si trova in compagnia di struggenti ballate colorate da strumenti acustici,
violini, piano e steel guitar (“Last Summer Day”), dall’altra i volumi si alzano e la
batteria incalza (la tirata e ruvida “The Hard Ground”, con i suoi stop and go, una
“Adeline” che pure conserva nel mezzo spazi intimisti per rifiatare). In brani come
“Mountains”, poi, si raggiunge un equilibrio quasi perfetto, nello specifico tra il
pestare “sporco” della batteria e le atmosfere quasi desertiche degli altri strumenti.
Gruppo di grande spessore, e questo disco lo conferma: ci auguriamo che se ne
accorgano in parecchi (www.satelliteinn.net).
Alessandro Besselva Averame
Hot Gossip
Angles
Ghost/Audioglobe
Per gli strani casi del destino, al sottoscritto - che, pur senza aver alcun tipo di
preconcetto, notoriamente non ama in modo particolare le band e/o i cantanti e/o i
menestrelli che provengono dall’italico suolo - capita di recensire nell’arco di
neanche sei mesi due uscite degli Hot Gossip. Che sono, sì, un gruppo italiano (i tre
- all’anagrafe Giulio Calvino, Luca Fontaneto e Nicola Zenone - hanno precedenti
esperienze con Candies e The Fog In The Shell), ma fanno di tutto (e bene) per
nasconderlo. Tra le tredici tracce di “Angles”, in effetti, si respira molto, moltissimo
rock, ovviamente indipendente, sia americano sia britannico ma non v’è traccia,
neppure una che sia una, di influenze del Bel Paese; i brani, alla fine se ne
conteranno tredici di cui uno (“Intro”) strumentale, formano una micidiale sequenza,
elettrica e nervosa, che non può dare scampo se non a condizione di premere il
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pulsante stop del proprio apparecchio. Ascoltate “Five”, “(Things Happen) On A
Tuesday”, “Before Tonight”, “Mother Says” e sarete proiettati in un magnetico luogo
in cui il suono sghembo delle chitarre si confonde con il ritmo, mai esausto, delle
pelli di una batteria per generare suoni da cui è impossibile non rimanere affascinati.
“Stab City” è già conosciuta ma nondimeno lascia un segno che ogni volta scende
più in profondità, a cercare un ipotetico punto di contatto con Franz Ferdinand e The
Strokes. Insomma, new-wave come se ne suonava negli anni ‘80 e come si è
ripreso a suonare oggi; con l’avvertenza che i tre arrivano, appunto, dall’Italia ma
hanno capacità, potenza e cattiveria come solo all’estero si possono trovare (
www.ghostrecords.it).
Gabriele Pescatore
Sweepers
Sweepers
Point of View/CNI
L'esordio degli Sweepers ha tutte le potenzialità per far parlare di sé in futuro. E
non fatevi ingannare da tutte le altre volte che avete letto una frase del genere in
una recensione, perché stavolta diciamo sul serio. Il terzetto in seno alla Point of
View (stessa etichetta di quei Methel & Lord che due anni fa vinsero il nostro premio
Fuori dal Mucchio) ha trovato un punto di contatto tra le sonorità abrasive di un
garage-blues zona One Dimensional Man o Cut, le melodie tipiche di certo
guitar-pop anglosassone di sponda Rough Trade e la lingua italiana. Se già
coniugare questi tre aspetti senza forzature può essere un enorme traguardo, è
sicuramente di prestigio la partecipazione dei tre al Festival Musicale Brasiliano,
come rappresentati della musica italiana, chiamati dal Ministro della Cultura Gilberto
Gil in persona.
E le canzoni? Qui sono dieci ed esprimono - attraverso quel coinvolgente rock'n'roll
distorto sopra descritto in cui la semplicità la fa da padrona - alcune perplessità e
domande che, per quanto di tutti i giorni, non perdono certo efficienza e aderenza
alla realtà: si tratta di love-song un po' deviate che descrivono relazioni sempre in
bilico tra paradosso e incomprensione. Certo qualche ingenuità ancora c'è, ma è
tutt'altra storia - e tutt'un altro ascoltare - rispetto ad altri dischi maggiormente
pretenziosi dove la lingua di Dante applicata al rock produce lo stesso effetto di una
mano unghiata sulla lavagna (www.sweepers.it).
Hamilton Santià
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Cripple Bastards / Skruigners / Woptime
Night Of The Speed Demons
Tube/Venus
Che cosa succede se si ritrovano sullo stesso palco tre dei “pesi massimi” della
scena hardcore-grind nostrana? Se i nomi sono quelli di Cripple Bastards, Woptime
e Skruigners molto probabilmente sarà la “Notte dei demoni veloci”, o “Night Of The
Speed Demons” per dirla nel modo in cui i Nostri hanno intitolato quella che doveva
essere una one night only, di seguito replicata per il grande successo avuto. Quello
che possiamo ascoltare in questo album non è nient’altro che il fedele resoconto di
quella prima serata, svoltasi nel compianto Babylonia di Biella e che, anche su un
freddo CD, riesce a rendere l’energia presente, sopra e sotto il palco, quella sera di
maggio. Cosa accomuna i tre gruppi? Fondamentalmente si tratta di tre modi diversi
di affrontare lo stesso argomento: l’hardcore punk attuale. Decisamente più
nichilista e ipercinetico per i Cripple Bastards, maggiormente legato alla tradizione
torinese e, in generale, alle “radici” quello dei Woptime, mentre cinismo e disincanto
la fanno da padroni quando tocca agli Skruigners. Un legame di amicizia
cementatosi negli anni tra i gruppi, una serata che mostra tutte le possibili
sfaccettature presenti in Italia nel 2006 e, soprattutto, tanta buona musica e tanta
energia da vendere. Volete scommettere che, da qui a dieci anni, questo documento
rimarrà un’importante tassello di questa “nostra” storia? Personalmente non ne ho
alcun dubbio (www.tuberecords.it).
Giorgio Sala
Simona Salis
Chistionada de mei
UPR/Edel
La lingua sarda è straordinariamente musicale e non si contano più le vie poetiche
al suo utilizzo: Carta, De André, Sannia, Tenores, Ledda e molti altri. La lingua si
piega (o la si piega) a contesti differenti, e l‘esordiente Simona Salis ce lo mostra
con “Chistionada de mei”, che significa “Parla di me”. La cifra scelta dalla Salis è
l’eleganza, sotto la produzione accurata di Ivan Ciccarelli. Uno stuolo di ottimi
musicisti ne sostiene il debutto: Mark Harris (piano), Saverio Porciello (chitarra),
Massimo Germini (mandolino e bouzouki) e molti altri. Le sonorità sono
addomesticate con una spruzzata di etno-pop, la strumentazione (contrabbasso,
flauto, zucca d’acqua) conferma l’adesione a un progetto musicale eco-compatibile.
Le melodie sono accattivanti pur senza eccessivi ammiccamenti.
Il placido e ovattato abbandono di “Calat sa nii” (scende la neve) è ispirato a “Neve”
di Maxence Fermine, il singolo “Su chi mi praxidi” (quello che mi piace) è una bossa
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che a orecchie incolte - come le nostre - sembrerebbe pure cantata nella lingua
giusta, “S’omini” (l’uomo) è una filastrocca in levare che racconta la trogloditica
chiusura dell’uomo occidentale vista da un aborigeno. Le tre canzoni “Su gherreri” (il
guerriero), “Mes’e’idas” (dicembre) che ha qualcosa dei Madredeus, e “S’arriu de su
coru” (il fiume del cuore) segnata dal bel violoncello di Enrico Guerzoni,
compongono la striscia finale dell’album, più evocativa e incline ai ripensamenti (
www.simonasalis.com).
Gianluca Veltri
Nicola Ratti
Prontuario per giovani foglie
Megaplomb/Wide
L'universo artistico di Nicola Ratti è fatto di cose semplici ma genuine. Come la
bustina in carta bianca con cui è confezionato il suo primo cd da solista: la stessa
che danno i pasticceri quando devi portar via i cornetti alla crema; come le chitarre
malinconiche che fanno da filo conduttore alle sue undici nuove composizioni.
Poche note ad accompagnare una voce dimessa che recita testi in italiano; qualche
base elettronica: registrazioni ambientali mandate in sequenza.
Più spartano di Fabio Viscogliosi, l'ex chitarrista dei Pin Pin Sugar intraprende una
minimale ricerca sonora, scovando risvolti espressivi sovente trascurati dal
cantautorato tradizionale. Eppure l'attitudine e la forza emotiva – così ricca di
sentimenti e di un intimismo in chiaroscuro – sono proprio quelle di un autore di
canzoni; ma anziché banalizzare la melodia, Nicola segue i percorsi più insoliti della
speculazione elettroacustica, soffocando qualsiasi slancio corale a favore di uno
scarno individualismo.
Nell’economia dell’album assumono poi un valore considerevole anche i suoni e i
rumori di contorno, quegli armonici su cui – in contesti più accademici –
Charlemagne Palestine ha costruito la propria notorietà. Tuttavia questo “Prontuario
per piccole foglie” non ha le ambizioni di un disco di avanguardia. Anzi, manifesta
un’indole sostanzialmente artigianale, che definiremmo “lo-fi” – all’americana – se
non fosse così radicata negli umori nebbiosi della pianura lombarda (
www.megaplomb.it).
Fabio Massimo Arati
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Franco Maria Serena
Frammenti
Club degli Amici
Artista poliedrico e cantante di razza, Franco Serena muove i primi passi musicali
negli anni ’60, in pieno beat, con il gruppo I Ragazzi Dai Capelli Verdi, ancora oggi
oggetto di culto tra i collezionisti. Nel decennio successivo scopre il pop progressivo
con Le Nuvole Di Paglia, fino a innamorarsi dell’hard rock, tema che sviluppa ancora
oggi con la Serena Rock Band. Ma nel suo DNA c’è una cultura musicale enorme,
che viene alimentata continuamente e poi sviluppata in vari progetti. Alla frastagliata
discografia del cantante patavino oggi dobbiamo aggiungere questo “Frammenti”,
un CD che raccoglie spore, alcune inedite, del suo percorso musicale. A
sorprendere non è la qualità di scrittura (con l’unico limite di liriche troppo lineari) ma
l’omogeneità di ascolto, nonostante le tappe in alcuni casi siano lontane, Ci sono
richiami e rifacimenti al beat, “Noi siamo felici” e “Prendimi tutto (sai)”, sorta di
tributo ai Kinks (“Ray Davies è un genio..:”, il suo motto), ripresi con “It’s Too Late”.
Non manca un omaggio al progressive che fu in “Dormi pensiero dormi”, e un paio
di ballate con venature classicheggianti e forse troppo prevedibili, come “La voglia di
sentirti”. Una citazione a parte per “Io sono qui a testa in giù”, con
un’interpretazione vocale fantastica. Nel mucchio spunta pure una “Yellow
Submarine” in versione folk ribattezzata “A mi me piase el vin”. Il fondo, lo diciamo
sempre, il rock è anche (solo?) divertimento (www.mcservice.it).
Gianni Della Cioppa
Ixis & Steve
Meet Friends
Ammonia/Edel
Sono conosciuti da tutti come “Ixis & Steve” e sono tra i selecter ska più importanti
d’Italia, di quelli per intenderci capaci di far ballare anche le sedie. E poco importa
che un destino crudele ci abbia ormai privato da un paio d’anni di Luca Kirchmayr, in
arte Ixis, perché la sua memoria continua a vivere nelle mille iniziative nate per
ricordarlo, come appunto questo “Meet Friends”. Un album che è un omaggio corale
al personaggio e che vede impegnati i più grossi nomi del panorama ska-punk,
italiano ma non solo, in una doppia veste. Perché se da una parte troviamo brani già
noti di artisti quali Giuliano Palma & The Bluebeaters, Hormonauts e Meganoidi,
dall’altra sono soprattutto i pezzi inediti a intrigare: innanzitutto perché si tratta di
brani pensati proprio dal duo in questione, e poi perché a realizzarli sono stati
chiamati personaggi quali Bunna e Parpaglione di Africa Unite, Roy Paci e molti
altri. Sul tenore degli stessi bastano pochi aggettivi: ska allegro e danzereccio che
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sa divertire, e del resto un titolo come “Festa in testa” dice già tutto in tre parole.
Importante il lavoro in cabina di regia svolto da Olly (ex Shandon, ora Fire), che ha
saputo tirare fuori il meglio pur non disponendo di una vera band. Risultato? Un’ora
abbondante di musica ad alto tasso di ballabilità che ben si sposa con il ricordo, a
tema, di un personaggio che manca a tutti noi. Serve forse altro? (
www.ammoniarecords.it)
Giorgio Sala
?Alos
Ricordi indelebili
Bar La Muerte-Precordings-Vida Loca/Audioglobe
Primo album solista di Stefania Perdetti già nelle Allun e nel duo Ovo assieme a
Bruno Dorella. Qui però non parleremo di lei ma di ?Alos: il suo personaggio venuto
fuori dopo due anni di concerti per l’Europa e, prima ancora, dai suoi dipinti.
Descrivendo il suo immaginario racconteremo di teste mozzate e corpi trafitti o
mutilati; tuttavia ?Alos crescendo e maturando vuole mostrare ancora sofferenza,
ancora brutture, ma stavolta sotto forma di cicatrici messe a lucido. Cicatrici che
diventano il punto di forza, il carattere, la bellezza, la ragione di vita di ?Alos. La
vedrete nei locali suonare il violino, cantare come un demone buono, cucinare
persino, per farvi assaporare la sua essenza, sino alle viscere. L’album raccoglie i
ricordi più importanti, quindi i momenti in cui queste cicatrici si sono formate. Certo,
non potrete riconoscervi nelle parole perché sono inventate: dovrete allora tendere
l’orecchio e, in “27 gennaio 1997”, farvi traviare dalla dolcezza di un tamburo, con
?Alos che sembra canzonare Ava Gardner. “Aprile 1999”, invece, potrebbe
appartenere ai Blonde Redhead più scarni. La canzone però che supera di una
spanna le altre è “21 Gennaio 2003”: sotto gli effetti-terremoto di DJ Tonnerre, il
tintinnio di ?Alos e poi la sua voce ora calma ora addirittura cattiva e quasi paurosa.
Ci pensa poi il suo violoncello (che suona da poco), presente in diversi momenti del
disco, a ammorbidire tutto. Nel finale, poi, ecco Mae Starr (Rollerball) che suona il
piano. Spettacolare (www.barlamuerte.com).
Francesca Ognibene
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Be-Hive
A Wakeful EP
autoprodotto
Ci sono parecchi punti in comune tra i Be-Hive e i Mosquitos. In primis, il fatto che
Sandro Martufi da qualche tempo militi come chitarrista anche nei secondi (insieme
al fratello Mario che ne è il cantante). Naturale quindi che anche loro propongano un
rock'n'roll intransigente e assai personale che, sulla scia degli anni '80 più
psichedelici e punk, non può fare a meno di appassionare i patiti del guitar-sound.
"A Wakeful EP" è tra le più personali autoproduzioni degli ultimi due anni: i ragazzi
di Fiuggi hanno carattere e sanno perfettamente cosa vogliono dalla musica,
riuscendo a sintetizzare il tutto in sei frammenti secchi, essenziali e senza fronzoli,
come vuole la tradizione dell'underground cui i Nostri sembrano rifarsi. Non è una
bestemmia, infatti, avvertire degli echi dei Dream Syndicate (sopratutto quelli del
primo "The Days Of Wine And Roses") in "No One Sleeps" e "Cheap Sex", così
come in "Hypnotized" sembra di sentire i Thin White Rope sciolti nello stoner dei
Queens of the Stone Age. Notevole, poi, anche la cover di "Personal Jesus" dei
Depeche Mode. Chitarre distorte, ritmica martellante e canzoni suonate con la
passione che questa musica merita: per un'autoproduzione è anche troppo (
[email protected]).
Hamilton Santià
Vieux Carré
Glispiriti Icorpi Elementi
autoprodotto
Attivi da circa un lustro, i perugini Vieux Carré hanno impiegato alcuni anni per
trovare una line-up stabile. Anni spesi a codificare un suono partito dal jazz e
approdato poi al rock progressivo. Percorso perlomeno bizzarro, visto che spesso
accade il contrario. La scelta di seguire le tracce del pop italiano, che ha reso celebri
PFM, Banco del Mutuo Soccorso e Le Orme e gruppi minori del periodo, con
inevitabile alone leggendario al seguito, ne limita fatalmente gli obiettivi, confinandoli
a un pubblico di nicchia. Esponendoli inoltre al rischio del pregiudizio di una certa
parte della critica, annidata anche tra i collaboratori del Mucchio Selvaggio.
Nonostante ciò, i Vieux Carré sapranno conquistarsi la fiducia di chi questo genere
lo ama, grazie a buoni fraseggi melodici, un certo gusto in fase di scrittura e
all’abilità di piazzare, di tanto in tanto, qualche spunto per nulla banale, con vibranti
tratteggi di tastiere, moog compreso. La registrazione in presa diretta limita la
potenzialità delle canzoni, che in alcuni casi meriterebbero un maggior
approfondimento, ma forse proprio questo suonare genuino rende “Glispiriti Icorpi
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Elementi” un album godibile. In mezzo a prevedibili riferimenti di Genesis e pop
progressivo tricolore, colpisce però la bellissima “Palinodia”, che richiama il Battiato
synth-pop dei primi anni ‘80. Non convince invece la decisione di cantare alcuni
pezzi in inglese e altri in italiano: molto meglio la seconda scelta (www.vieuxcarre.it).
Gianni Della Cioppa
Pedro Ximenex
Che fretta c’era
Shinseiki/Audioglobe
Il debutto dei Pedro Ximenex ha una gestazione molto lunga: attivi da almeno sei
anni - con una quantità invidiabile di show in giro per la penisola – e vincitori
dell’edizione 2004 di Arezzo Wave, il collettivo rompe gli indugi e mette alla luce
“Che fretta c’era”.
Creatura curata dall’auctoritas Lorenzo Corti (chitarrista di Nada, Cesare Basile e
della Donà), il lavoro della band è tutto italiano. I testi sono bene arrangiati su
strutture che vanno dal rock classico, al punk, alla saudade, e in questo senso,
sicuramente non c’è da annoiarsi: la scaletta si apre con “Ridere solo a metà”
partendo fremente e mantenendo l’umore fino a “6”, che, leggera, tradisce le
aspettative create dai primi due pezzi; di qui, avventuratisi a metà strada su di un
terreno più morbido, i Pedro si dimostrano decisamente a loro agio in un quadrato di
suono dai contorni piacevolmente pop.
I Pedro sono capaci, dunque, di un pop-rock coi piedi ben piantati per terra e lo
sguardo fisso su ciò che è concreto e tangibile: l’oggetto lirico privilegiato della
formazione sembrano infatti essere – canzoni tonde come “Manchinme”, “Vola” e
“Adulta-bambina” lo provano – pelle, occhi, attese, insicurezze ed atti di arroganza e
umiltà che restano visibili, non mascherati, non equivoci. Tanto più che tra i valori
degli otto componenti della band pare che la semplicità e la sincerità occupino un
posto di rilievo. E se ogni musicista in fondo non è altro che un artigiano, allora nella
bottega degli Ximenex si lavora sodo, alla buona, vecchia maniera (
www.pedroximenex.com).
Marina Pierri
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Manodopera
Op-là
UPR/Edel
Secondo episodio discografico della band veneta – all’esordio nel 2001 con
“Terratradita” –, “Op-là” riprende le fila del discorso interrotto all’epoca del primo
disco, recuperando un linguaggio fortemente influenzato dai dettami del folk ma al
tempo stesso aperto ad influenze musicali altre. Ska, reggae, soul, paesaggi
sudamericani, world music, ottoni a profusione in stile Roy Paci e pregevoli doti
tecniche: questa in due parole la ricetta alla base dell’opera. Un quadro variopinto e
dai mille soggetti, ribollente di note vivaci e aromi lontani.
E’ così che “L’eremita” si trasforma in un inno alla “strada” in stile Keruac sospeso
tra musica nera e ritmiche in levare, “Il circo” si lascia conquistare da variazioni
stilistiche mediorientali, “Anita” abbraccia l’indole sfrenata e carnale di un mambo
cubano, “La mosca d’o bar” mescola swing e musica napoletana, “La tammuriata
delle stagioni” e “La statua” trovano il punto di incontro tra Fabrizio De Andrè e le
danze popolari di casa nostra. Il resto è sudore ska (“Fudbalerska”), good vibrations
dal terzomondo (“Africa”), dichiarazioni di intenti in stile Madness (“Manodopera”),
per cinquanta minuti d’evasione e divertimento – ma non stupidità – dedicati
soprattutto ai più giovani.
Complessivamente pregevole l’opera di sintesi e rielaborazione messa in atto dai
Manodopera – anche se a tratti quasi troppo pulita e ragionata –, una band che con
“Op-là” si candida seriamente ad attrazione danzereccia ufficiale dei festival
musicali estivi di quest’anno (http://www.manodopera.org/).
Fabrizio Zampighi
The Cavemen
Il buio è tra di noi
Misty Lane/Teen Sound
Ad ascoltare la title-track, più che al garage americano degli anni '60, la mente si
dirige per direttissima agli anni del Bitt italiano e, in particolare, ai Corvi. Sarà per il
suono particolare delle chitarre o per le liriche non prive di una certa rabbia
giovanile, ma questo "Il buio è tra di noi" di quella ghenga di "pochi di buono" dei
Cavemen ha tutte le carte in regola per rappresentare un ottimo esempio,
ovviamente fuori tempo massimo, della musica rock anni '60 di certa Italia
"capellona".
Pubblicato per la sempre attenta Misty Lane, questo LP di 28 minuti appena include
anche delle composizioni in inglese - "All Is Wrong", "Pigs In The Sky" e "Just To
See You" - che però, purtroppo, non si mantengono sugli standard dei pezzi in
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madrelingua e, anzi, risultano abbastanza piatte e scontate. Molto meglio
l'immaginario Sixties italico, quindi. Non è difficile immaginarsi i Cavemen divorarsi
45 giri di quegli anni, cercandone di catturarne l'ingenua freschezza. La title-track e
"Veleno" sono brani acidi e pieni di rimandi al loro immaginario di riferimento,
riuscito riassunto degli anni del Clan di Celentano, dei Ribelli, dei Rokes di Shel
Shapiro e chi più ne ha più ne metta in questo riuscito gioco alla citazione "di
genere". Missione compiuta, quindi. Non è il caso di accusare gruppi di tal guisa di
fermarsi a degli stereotipi di oltre quarant'anni fa e il fiorente sottobosco garage-beat
del nostro paese conferma che questa formula, con tutti i suoi inevitabili passatismi,
può risultare vincente (www.thecavemen.it).
Hamilton Santià
Nema Niko
No Zeit 7905
Lizard/Audioglobe
Coraggio, incoscienza e passione. Ecco cosa serve per pubblicare un album come
questo. Piacevolmente pazzi i Nema Niko lo sono sempre stati: due album nel
carniere, “Mio scialbo” del 2000 e “La storia dell’uomo che incontrò se stesso” di due
anni più tardi, inzuppati di intimità e pianoforti che vagano nel buio, con la voce di
Marco Tuppo – né cantautore né cantante, quasi narratore di nightclub – che
accenna melodie e racconta acquerelli di storie e poi fugge via. Questi i Nema Niko
che ricordavo. Ma per questo terzo capitolo, la band ha scavato negli archivi di
Raffaello Regoli, un discepolo di Demetrio Stratos, che nel 1979 (notare il titolo
“7905”) accompagnato da un delirante fagotto, aveva registrato delle partiture
vocali; e ha rivestito quei tratteggi di voce nuda e magnificamente cruda, con un
tappeto sonoro – chiamiamolo pure -moderno. Vagiti elettronici e tenui dissonanze
dub si annidano nei sei pezzi, simbolicamente intitolati “Part 1” e cosi via, che nel
loro insieme si chiamano “Rivestire la voce”, che contemplano percorsi di cosmic
music, con echi di Tangerine Dream, ma anche Massive Attack e - perché no? ultimi Radiohead, fino a perdersi nei mondi di altrove. Versatili, imprevedibili e
innamorati degli ostacoli, i Nema Niko, svelano una personalità più grande di quella
che conoscevamo. Musica molto di più che semplicemente affascinante (
www.nemaniko.it).
Gianni Della Cioppa
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Masoko
Bubu’7te
Snowodnia/Audioglobe
Gli anni ’80 non sono mai stati così tanto di moda neanche negli anni ’80. Con la
scusa che “non tutto era da buttare”, ciò che abbiamo gettato dalla finestra
vent’anni fa rientra oggi in pompa magna dalla porta principale: meno male. Così
per dire dei Masoko si possono tirare in ballo gli Editors, i Kaiser Chiefs, o un altro
nome a caso tra quelli che sono riusciti ad aggrapparsi al volo al carrozzone trainato
dai Franz Ferdinand, senza più andare a scomodare mostri sacri come Gang of
Four e A Certain Ratio. Una cosa sono i fanti e un’altra sono i santi, infatti: coi primi
ci si può giocare, gli altri bisogna lasciarli stare. Il problema dei Masoko, a dirla tutta,
non sta neanche nella loro derivatività, perdonabile per un gruppo che giunge
soltanto ora al suo esordio discografico; il punto è che “Bubu’7te” ha la pretesa di
essere un disco divertente e nervoso, ballabile e affilato, cantabile e intellettuale. In
pratica, tutto e il suo contrario. Contemporaneamente. In questi casi, o si è
completamente padroni della materia, o si rischia di peccare di presunzione e
narcisismo. E la seconda cosa, purtroppo, al quartetto romano riesce benissimo.
Brani dal piglio sicuro come “Ferrari” e “Cool”, infatti, possono contare su un appeal
immediato ma non su una scrittura altrettanto brillante, così quello che nello spazio
di tre minuti diverte, alla lunga stanca e annoia. I ritornelli si confondono, i riff pure e
giunti alla fine del disco non ne resta neanche uno nella testa. Il sound sì, ma quello
non l’hanno inventato i Masoko (www.masoko.too.it).
Enzo Zappia
Terre Differenti
Cities Of Dreams
Open Sound/Different Lands
Giunto al secondo lavoro – il primo, omonimo, risale ormai a sei anni fa –,
l’ensemble Terre Differenti continua lungo una percorso che ha nella
contaminazione il proprio obiettivo finale. Contaminazione tra suoni, sapori,
sensazioni – insomma, tra mondi all’apparenza lontani, l’Oriente e l’Occidente. In
altri termini, ciò che il collettivo guidato da Fabio Armani vuole mettere in pratica non
è una mera sovrapposizione di elementi di provenienza diversa, bensì una loro
compenetrazione profonda, sostanziale prima ancora che formale, nel nome di
“dell’incontro fra universale e particolare, fra la natura sociale dell’uomo e la sua
individualità, fra fratellanza e solipsismo”.
Un progetto ambizioso, niente da dire, sorretto da una visione artistica bene a fuoco,
che si concretizza in composizioni di grande raffinatezza e altrettanto fascino, i cui
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testi in inglese e turco raccontano di una Città dei Sogni (da cui il titolo del CD)
sospesa tra dimensione onirica e realtà – allo stesso modo in cui gli arrangiamenti
sono sospesi tra world music e jazz, tra prog (come nel caso di “Splinters Of
Reality”) e new age, sorretti da ricchi tappeti percussivi e tenuti insieme da
un’elettronica talmente discreta da risultare impalpabile. Un viaggio interessante per
paesi esotici e familiari allo stesso tempo; un viaggio, però, molto più mentale che
fisico, più di testa che di stomaco. Un po’ come camminare per una strada fangosa
e ritrovarsi le scarpe perfettamente pulite (www.terredifferenti.com).
Aurelio Pasini
The Gaia Corporation
Equilibrium
Wynona/Edel
Si rivela sempre ricco di sorprese il sottobosco hardcore nostrano. Non pago del
suo ruolo nei Vanilla Sky, infatti, Vinx ha messo insieme un mini-supergruppo
reclutando il collega di band Brian, Leo dei 9mm, Paolo dei Face The Fact e Kikko
(ex Remove) alla voce per sfogare suonare alcuni dei pezzi che, per la loro natura,
non sarebbero stati bene in un disco del suo gruppo principale. Ne è venuto fuori il
progetto Gaia Corporation, che si presenta, bene, con questo EP intitolato
“Equilibrium”. E che i pezzi non siano “da Vanilla Sky” appare chiaro fin da “The
Deadline”, primo vero brano dopo l’intro affidata a “The Day Mother Earth Quit
Living”; un sound che ricorda abbastanza da vicino band come Atreyu e Thrice e
una voce che si alterna forsennatamente tra urli hardcore e melodie simil-pop sono
le principali coordinate stilistiche, a cui si affianca il tocco inusuale di tastiere e synth
ad aggiungere maggiori sfumature sonore. Un quarto d’ora di musica capace di
convincere anche chi, come il sottoscritto, non impazzisce per quello che
Oltreoceano viene chiamato “screamo”, e a tal proposito sono da appuntarsi sia il
singolo “Pitchblack” che la furiosa versione di “Wonderwall”, decisamente poco brit e
per nulla pop. Insomma i Gaia Corporation sono da tenere d’occhio, e non è infatti
un caso che, pur trattandosi di un esordio, questo disco sia già in uscito in mezza
Europa e anche in Giappone. Un brillante futuro? Staremo a vedere, le premesse ci
sono tutte (http://www.wynonarecords.com/).
Giorgio Sala
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Numero Aprile '06
La Pelle
Nel sole
Riff
La Pelle è un quartetto con sede a Bolzano, dedito ad un rock robusto e venato di
melodie spartane e poco inclini al romanticismo. Basterebbero questi indizi, per
immaginare un prototipo di rock’n’roll band italica, solo un poco più fortunata e
capace delle centinaia che affollano le cantine della penisola. Invece i quattro
dimostrano che, partendo da basi solide e tutto sommato già sentite, è possibile
costruire un’impalcatura che mescola con entusiasmo psichedelia e suggestioni
stoner, aperture rumorose e sipari di intimismo.
Il mantra che apre l’album, “In bilico”, è un buon esempio di Queens Of The Stone
Age trasfigurati dalla provincia, mentre in “Cenere” fanno capolino degli inaspettati
squarci di lirismo. Il cantato in italiano, che dimostra una buona capacità di scrittura
ed evocazione, non fa che impreziosire un album carico di spigoli, che pur senza
regalare grosse novità al nostro affollato underground, non si limita a riproporre un
canovaccio, ma cerca di offrire la propria versione di stoner rock, un genere troppo
spesso sottovalutato dai nostri musicisti. La produzione di David Lenci, una
garanzia, regala a “Nel sole” una veste credibile e aggressiva, appassionata e
grintosa, che si distende in episodi come “Pioggia” e “Non ti voglio giudicare”, forse i
momenti più ispirati del lotto, a dimostrazione dell’intuizione felice della Riff Records,
nuova e combattiva label che si aggiunge al già florido panorama che popola il
“rumoroso” panorama italico (www.riffrecords.it).
Giuseppe Bottero
Punchline
Vecchio stile
autoprodotto
Sono in quattro, i lombardi Punchline, in giro da una decina di anni e con all’attivo
una serie demo e di 7”. Questo album, “Vecchio stile”, racconta l’evoluzione di una
formazione partita da territori punk e post-hardcore – la ragione sociale tratta di
peso dall’album di debutto dei Minutemen non mente in tal senso – e arrivata, come
i dodici brani di questo album testimoniano fedelmente, a una formula che ingloba
iniezioni noise’n’roll e soluzioni melodiche mai scontate. Non ce ne vogliano gli
autori, visto che quello che stiamo per dire lo consideriamo un complimento, ma le
canzoni posseggono a tratti l’irruenza e l’immediatezza dei primissimi Marlene
Kuntz, trasposte in uno schema più compatto e meno cesellato, più ruvido. La
formula, somiglianze vere o presunte a parte, funziona al meglio nella tagliente
“Impara a perdere”, che si ferma e riparte ciclicamente in un intenso gioco di botta e
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risposta tra gli strumenti, senza perdere di vista l’immediatezza melodica, e in brani
come “La svolta”, “San Valentino” e la quasi scanzonata “Lo sbaglio”, composizioni
in cui l’irruenza è sempre funzionale alla veste pop delle linee vocali.
Complessivamente “Vecchio stile” è una onesta raccolta di canzoni, a tratti
decisamente brillante, che non insegue il miraggio dell’attualità e della modernità a
tutti i costi, risultando per questo motivo più godibile di molti – troppi – dischi partoriti
dall’inseguimento dell’ultimo trend e dell’ultima sonorità disponibile (
[email protected]).
Alessandro Besselva Averame
Lino Straulino
Al soreli
Nota
Difficile che un disco di Lino Straulino non offra spunti pregevoli, e “Al soreli” non fa
eccezione. Si tratta di un vecchio progetto di Straulino (dedicato al sole – “soreli”,
appunto), su poesie friulane di Emilio Nardini risalenti al 1934, adattati in musica dal
folk-singer della Carnia. È un altro capitolo di un percorso poetico che potremmo
definire crosbyano per certi versi, gozzaniano per altri, senza voler distrurbare altri
convitati. Straulino sembra sempre più attratto dal patrimonio popolare o
popolareggiante, così “Vìsite e invît” è una danza nordica che non
sfigurerebbe nel penultimo album (tuttofolk) del cantautore, “La bella che dormiva”,
mentre “L’orloi de sachete” è una riflessione sul battito della vita che potrebbe
appartenere al repertorio dei Pentangle. “Larìn lontàn” è cantato a cappella con voci
sovrapposte, “La fàrie” contiene sommessa il sogno di un mormorìo d’acqua e di un
pane che non sappia di amaro, il vagheggiamento soleggiato di quel vivere “quieto
semplice sicuro” che la musica valligiana di Straulino sempre evoca. Ma è “Ché di
Peonis” la perla dell’album, un brano delicatissimo e struggente, che racconta le
favole della nonna davanti al caminetto, favole che sfumano magicamente nel
sonno e nel fuoco, e non finiscono mai.
La ricchezza armonica è come di consueto affidata allo splendido chitarrismo
acustico di Straulino, ricco, armonioso e fiorito, assistito per l’occasione dalla
fisarmonica di Sebastiano Zorza e dal contrabbasso di Simone Serafini (www.nota.it
).
Gianluca Veltri
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Projecto Heleda
Roma – New York – Baires
Club
Dapprima vi è una bella foto di copertina, porto di mare e possibile approdo per
anime in viaggio, poi un titolo che sintetizza una precisa rotta intercontinentale
“Roma - New York - Baires”. Quando infine ci si accorge di una sorta di timbro
apposto nell’angolo con su scritto “tango – jazz”, allora si sta per mettere a fuoco la
storia del Projecto Heleda, cooperativa più che gruppo comunemente inteso, che
dalla capitale italiana muove passi eleganti e sensuali in esplicita direzione latina.
Passi di tango e bossa già risaputi, ma stavolta rivestiti di sonorità più ampie e
contaminate: tanto jazz ad animare pregevoli effusioni solistiche – la tromba di Luca
Pietropaoli ad esempio – ma ancor più la costante della chitarra acustica di
Emanuele Bultrini (entrambi già parte degli apprezzati Fonderia), il pianoforte e
piano Rhodes di Francesco Bennardis, la fisarmonica di Massimiliano Lazzaretti.
C’è altresì una fruibilità persino pop-rock nel sound del Projecto Heleda, con un
motore ritmico (Massimo Magnosi alla batteria, Marco Polizzi al basso) in rilievo,
fluido e lineare, campionatori e loop che ammiccano ad un respiro moderno. Ne
giova un disco, con la sua coerente, raffinata e seducente atmosfera d’assieme, che
pare venire da lontano, antico eppure sorprendentemente attuale, come una musica
che non invecchia mai, rianimata dal soffio di una passione genuina e di una
delicata e rispettosa innovazione (www.clubrecords.net).
Loris Furlan
Spectre
Mantra Voluntatis
Hau Ruck SPQR
I più attenti cultori dell’underground capitolino si ricorderanno forse di Marcello
Fraioli alla chitarra di Kim Squad & The Dinah Shore Zeekapers; altri l’avranno certo
conosciuto come cantante degli Ain Soph, gruppo industriale assai apprezzato
anche al di fuori dei confini nazionali.
Ma da sempre il musicista romano ambisce alla propria affermazione da solista. Già
una decina di anni fa, con l’acronimo dI Sex Voto, realizzava un brillante 12" in
chiave elettronica; un lustro più tardi, usando il proprio nome di battesimo, ci
riprovava sulla lunga distanza con un singolare “Cocktail frizzante multigusto”. Se
mettiamo da parte quei primi vagiti, realizzati quasi per gioco, il recente “Mantra
voluntatis” è il primo su lavoro concepito e prodotto con tutti i crismi dell’ufficialità.
Fraioli ha sempre tifato per la musica innovativa e fuori dagli schemi, pur senza mai
rinnegare completamente i principi di melodia e di forma canzone. Piuttosto, sulla
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scia dei Velvet Underground, dell’icona rock di Lou Reed e dei Sonic Youth, ha
preferito ricercare i risvolti più reconditi dell’arte sonica: i rumori, le dissonanze, gli
echi, le contaminazioni psichedeliche. Nel suo CD cita con pari disinvoltura
Gainsbourg e Poe, mischia basi preregistrate, chitarre e percussioni elettroniche,
lavorando un’allucinata massa sonora che non scade mai nell’invadenza o nel
fastidio; anzi si plasma con invidiabile naturalezza sugli umori del momento e sulle
situazioni contingenti. Insomma le idee non mancano, ma certo un po’ di brio in più
non ne avrebbe affatto pregiudicato la fruibilità (www.hauruckspqr.com).
Fabio Massimo Arati
The Grain
Just Our Flame
Misty Lane/Teen Sound
Trentaseiesimo disco nel catalogo della Teen Sound - divisione dedicata alla
musica italiana dell'etichetta garage romana Misty Lane - "Just Our Flame" si
candida come perfetto e definitivo sussidiario sonoro dell'epopea dei “Nuggets”. Il
quintetto trevigiano autore del tutto, The Grains, dimostra uno smisurato amore per
quei suoni, cercando di riprodurli con fantastica, e per certi versi maniacale, fedeltà:
dal suono delle chitarre - tagliato, acido, pieno di fuzz, tipico di gruppi come Blues
Magoos o The Seeds - all'essenzialità delle linee di basso, passando per le rullate
animalesche di una batteria alla Kingsmen e un cantato sguaiato che diverte e fa
molto "Here Are The Sonics".
I Grains si muovono, in questa stagione d'oro del Sixites garage revival (e per
garage intendiamo quello "autentico"), con una sapienza e una passione che li
fanno spiccare. Tutto oro quel che luccica? Nient'affatto. Peccato infatti che,
prestata troppa attenzione all'aspetto puramente filologico della proposta, i Nostri
non si siano concentrati a sufficienza nella scrittura di canzoni che potessero, in
qualche modo, lasciare un segno. Per dire, molto bella la proto-power-pop "They've
Got A Gun" e interessante la psichedelica "Guess The Dream" - nastri rovesciati:
trucco vecchio ma sempre affascinante - ma sono sparuti lampi di genio in un
esercizio di stile sì divertente, ma senza nient'altro da offrire. Non è però il caso di
preoccuparsi: le potenzialità sembrano esserci e, avendo ora curato i suoni, ci sarà
il tempo in futuro di mettere a segno una "Strychnine" personale (www.grains.it).
Hamilton Santià
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The Rituals
The Past Twelve Months
Wynona/Edel
La folgorazione, per il sottoscritto, è arrivata un paio di anni fa, teatro del fatto un
piccolo locale di provincia, con i Rituals chiamati all’ultimo minuto per sostituire il
gruppo titolare della serata. Nonostante le premesse, e il fatto che certamente non
giocasse in casa, questo quartetto veneto, ora ridotto a trio, fece un’ottima
impressione; all’incirca la stessa sensazione provata ascoltando “The Past Twelve
Months”: l’esordio, appena pubblicato dalla sempre attiva Wynona, sulla lunga
distanza. A volerli per forza paragonare a qualcuno, si potrebbero spendere i nomi
di Lawrence Arms e Dillinger Four, e più in generale un certo modo “colto” di
intendere il punk venato hardcore, anche se i Rituals non stanno bene ingabbiati in
un qualche cliché. Il loro è un mondo musicale che concede spazi sia alla melodia
che all'aggressività, con un cantato inglese perlopiù rabbioso ma capace anche di
farsi “pulito” senza perdere credibilità. Dalla botta iniziale di “Not A Tear”, passando
per le armonie di “Back In The Days” arrivando fino al calor bianco espresso da
“The Brotherhood”, il disco non perde per un secondo la sua tensione emotiva,
mostrando una maturità che va ben oltre un curriculum da matricola. In aggiunta a
tutto questo anche il tocco internazionale dato dall'artwork, realizzato da James
Cochran, artista che ha al suo attivo collaborazioni con, tra gli altri, MTV America e il
New York Times, e che fa di “The Past Twelve Months” un disco completo sotto tutti
i punti di vista (www.wynonarecords.com).
Giorgio Sala
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Graziano Romani
Parlare con Graziano Romani è un’esperienza unica. Difficile tenere a freno il flusso
delle sue parole e quello che qui vi viene proposto è solo un estratto della ben più
copiosa conversazione che, per ragioni di spazio, siamo stati costretti a tagliare. Da
queste righe ne risulta un artista, ma soprattutto un uomo, onesto, sincero e
appassionato.
"Confessions Boulevard" (Freedom Rain/Music Service) vuole in qualche
modo riflettere una certa malinconia di fondo? Dai titoli delle canzoni alla loro
struttura, gli indizi sembrano chiari.
Ovvio che si possa avvertire un forte senso di malinconia. Le canzoni del mio nuovo
album parlano di sensazioni, passioni, dolore, gioia, amore, speranza e rabbia.
Parlano dell'esigenza che tutti sentiamo, quotidianamente, di esternare le cose che
non riusciamo a tenere dentro e di rivelarle a chi ci sta a cuore. Immagina un luogo
dove ognuno di noi può accostare la macchina e far entrare un amico intimo e
iniziare a confessare i propri sentimenti.
C'è un motivo particolare per la tua decisione di cantare in inglese o in
italiano?
Ho iniziato a cantare e comporre in inglese nei Rocking Chairs, e l’ho sempre
trovata una scelta naturale. E l’ho fatto per quattro album, due dei quali registrati a
New York e Nashville. Negli anni '90 sono poi diventato un solista e da allora non mi
sono mai fermato. Ho realizzato dischi e progetti paralleli – sia in inglese che in
italiano – cercando di essere sempre sincero e onesto con il mio lavoro e i miei
sostenitori. Non vedo una vera e propria divisione tra italiano e inglese, tutto quello
che produco rappresenta me stesso e il mio percorso di artista. E il mio pubblico lo
sa.
Parlando del pubblico, che rapporto hai con le generazioni più giovani? La tua
“inattualità” sembra portarti lontano dall'acquisire nuovi fan, ammesso che ti
interessi.
Un rapporto molto buono. Molti giovani musicisti spesso mi avvicinano per
chiedermi consigli. I Rocking Chairs sono stati a loro modo significativi per un
periodo di musica italiana, quella in cui moltissime band agli esordi proponevano
materiale in inglese – ricordo tra gli altri gli amici Gang. Anni indimenticabili. Più che
di “inattualità”, mi piace pensare alla mia musica come “a sé stante” rispetto al resto
della scena italiana. E non credo che questo allontani l'interesse di eventuali nuovi
fan. Ti dirò, negli ultimi tempi riscontro un interesse crescente verso la mia musica.
Sia per l'affluenza ai concerti che per il gradimento dei dischi. Come outsider,
ultimamente vedo il bicchiere mezzo pieno.
Secondo te, l'interesse della gente per la musica rock è cambiato rispetto agli
anni passati? C'è molta offerta ma quasi nessuna domanda: concerti
semivuoti, dischi invenduti.
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In effetti è impossibile non avvertire un generale calo d'interesse e di curiosità da
parte di un pubblico che considera solo i Pezzi Grossi. Ma credo che la buona
musica live sia dappertutto e spesso gratis, o al prezzo di una birra. Basta solo
cercarla con curiosità. Spesso mi emoziono ai concerti di giovani band in giro nei
piccoli club emiliani. C'è tanto fermento e creatività, ma capisco che fare musica sta
diventando sempre più difficile. Io ho scelto la via dell'autoproduzione già da diversi
anni fondando la mia etichetta – la Freedom Rain – e mi sento una specie di
artigiano. Diffondo i miei dischi specialmente ad un pubblico di estimatori del vero
rock, esigente e preparato. Ovvio: i miei dischi non li troverai mai all'Autogrill. Ed è
meglio così.
Nel disco duetti con Dirk Hamilton e in passato hai collaborato, tra gli altri,
con Elliott Murphy. Com'è stata accolta la tua musica negli Stati Uniti?
Mi conoscono grazie al mio personale tributo a Springsteen (“Soul Crusader” del
2001, NdI) e alla versione di "The Promise" inclusa nel recente "Light Of Day"
(2003, su Schoolhouse, con la partecipazione di Steve Wynn, Elvis Costello e Jesse
Malin, NdI). Mi fa piacere che gli americani abbiano apprezzato i miei dischi. Per
loro è difficile contemplare l'idea di un italiano che canta il loro rock. Per quanto
riguarda Dirk Hamilton, l'ho conosciuto diversi anni fa. Gli ho proposto di collaborare
al mio album è lui ne è stato entusiasta: duettiamo in due brani ("Come In From The
Rain" e "Made Of Gold") e il suo canto è eccezionale, molto soul. Dirk è un amico ed
un vero artista. Sta per far uscire un nuovo album e spero riesca ad ottenere
l'attenzione che merita. Ero un suo fan da ragazzo, come lo ero di Elliott. Ora sono
onorato di averli come amici e collaboratori. Entrambi sentono l'Italia come la loro
seconda casa. Qui hanno un pubblico di nicchia, ma affezionato.
Cosa rappresenta per te "Confessions Boulevard"?
È il mio dodicesimo album: lo considero un disco cruciale. La chiusura di un ciclo
iniziato con "Up In Dreamland" e "Painting Over Rust", quasi a formare una trilogia.
Mi rappresenta pienamente ed è forse il mio lavoro più maturo e riuscito.
Che sogni hai, come musicista? Sei soddisfatto di quello che hai fatto?
Mi sento assolutamente soddisfatto del mio percorso. Il mio sogno è quello di poter
continuare a fare il mio lavoro e di consolidare l’interesse verso la mia musica. Di
questi tempi trovo sia più che mai importante partire dal basso e creare un legame
forte con il pubblico. La musica mi emoziona sempre tantissimo e non potrei mai
rinunciare alle grandi emozioni che provo nel suonare dal vivo. Inoltre sto
attraversando un grande periodo creativo. Scrivo in continuazione e mi sento
ispirato come mai prima.
Il prossimo disco sarà in italiano?
Esatto. Spero di farlo uscire nel 2007. Ci sto lavorando in questi mesi, nei ritagli di
tempo dal tour. Ho già gran parte del lavoro pronto, tra cui un duetto con i Gang
intitolato "Guardando in faccia il sole" e un paio di brani cui partecipano alcuni
Modena City Ramblers. Sarà un album importantissimo per me e voglio davvero
realizzarlo al meglio, lavorando sodo su testi e suoni. Avrai capito che gli ingredienti
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saranno ovviamente il rock e il soul, ma anche il folk e parecchia della sensibilità e
della veracità tipica della gente come me, quella che corre ogni giorno su quel
"vecchio nastro grigio asfalto" chiamato Via Emilia. Sai, molte delle mie canzoni le
ho scritte o immaginate proprio guidando su quella antica e leggendaria strada, che
non riesco proprio a smettere di amare. Perché dovrei?
Contatti: www.grazianoromani.it
Hamilton Santià
Thee STP
Una delle cose più noiose del fare interviste è scoprire, domanda dopo domanda,
che il vostro interlocutore non è assolutamente interessato a quanto si sta dicendo,
intendendo queste occasioni come una parte noiosa del proprio “lavoro”. Ed è per
questo che è un piacere scoprire che il Metius, cantante e fondatore dei Thee STP,
si diverte molto a parlare con chi, come lui, ha un’innata passione per il rock’n’roll.
Tra disco nuovo, “Paradise & Saints” (Ammonia/Edel), e mille altri argomenti, eccovi
un distillato di quasi un’ora di parole in libertà.
Per “Paradise & Saints” ci avete fatto aspettare parecchio: avevate voglia di
far le cose per bene?
Si, anche perché per la prima volta ci siamo presi il nostro tempo senza fretta
alcuna. Come gruppo abbiamo poche occasioni, se si escludono ovviamente i
concerti, per stare assieme. Abitiamo in posti distanti tra loro e quindi anche provare
diventa difficile, e quando si è trattato di pensare al disco nuovo abbiamo deciso di
prenderci tutti quanti una settimana di ferie per andare a rifugiarci in un luogo dove
poter suonare per otto ore al giorno. Abbiamo quindi fatto una sorta di
pre-produzione e, dopo le inevitabili modifiche, siamo andati a registrare le musiche
a Pisa, mentre io ho lavorato sulle voci con Olly (ex Shandon, ora Fire, NdI) nel suo
studio.
Credo che il risultato di tutto questo lavoro si senta nel disco: a quasi un
anno dalla sua registrazione ti soddisfa ancora in pieno?
Guarda, non l’ho ancora riascoltato. L’ho giusto sentito un paio di volte prima della
stampa definitiva per controllare che non ci fossero errori, ma non riesco ancora ad
avere il necessario distacco da questi brani per poterlo analizzare. Una cosa però
posso dirla, anche se può risultare banale: è sicuramente il disco più importante,
anche in termini di ore spese per realizzarlo, che abbiamo mai fatto.
Soprattutto credo che sia un passo in avanti nella vostra musica. Un disco
più sfaccettato dei precedenti.
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Ti ringrazio. “Paradise & Saints” è certamente più rock, nel complesso, dei suoi
predecessori. Abbiamo lavorato maggiormente sui brani, cercando di essere
sempre noi stessi anche quando tentavamo cose mai fatte prima. Anche il lavoro di
scelta fatto in pre-produzione è stato molto importante: abbiamo eliminato 4-5 brani
che non ci soddisfacevano scegliendo solo quelli di cui eravamo più convinti. E, per
quanto mi riguarda, ho anche cercato di rendere le parti vocali più interessanti.
Ecco, un’altra delle cose che ho notato è proprio la tua crescita come
cantante.
Perché finalmente sono riuscito a dedicarci del tempo (risate, NdI)! Vedi, anche
quando suoniamo in sala prove mi trovo continuamente a lottare con due chitarristi
che suonano a volumi mostruosi, per cui l’importante in questi casi è che la voce
riesca un po’ a emergere da tutto quel rumore. Questa volta, complice anche Olly,
non mi sono limitato a cantare dei pezzi “buoni alla prima”, ho cercato di sforzarmi
per ottenere un risultato buono e, soprattutto, più vario. Ed il risultato finale è
sicuramente superiore a ogni mia precedente performance.
Com'è il vostro rapporto con il rock dei giorni nostri? Ascoltando il disco mi è
parso di capire che abbiate ascoltato molto gruppi come Queens Of The Stone
Age...
Negli STP ci sono cinque persone che ascoltano veramente di tutto, e di certo per
quanto mi riguarda non vivo nel revival e ascolto molta della musica di oggi, anche
se ovviamente i miei miti – e potrei dirti Ramones, Cramps, Clash e Stooges – sono
più legati al passato. Per quanto riguarda i Queens Of The Stone Age, sono un
gruppo che piace molto a tutti quanti, e sono stati capaci di sfornare uno di quei
dischi (“Song For The Deaf”, NdI) come forse te ne può uscire uno solo nella vita.
Quindi è molto probabile che, inconsciamente, qualcosa di queste sonorità sia finito
nel nostro disco, anche perché il suono del nostro gruppo è l’insieme, eterogeneo, di
tutto quello che ci piace come musicisti.
Con il precedente album avete tentato la carta dell’estero: puoi farci un primo
bilancio di quest’esperienza?
Il discorso dell’estero è un punto che non abbiamo mai potuto sviluppare come
avremmo voluto. Abbiamo fatto un paio di tour in Germania e uno in Olanda in
compagnia dei Peter Pan Speedrock, quest’ultimo tra l’altro in tutti locali sold-out.
Abbiamo riscontrato tantissima attenzione per il rock in generale e anche per la
nostra musica, sono state esperienze bellissime che speriamo di replicare con il tour
che abbiamo appena iniziato. Fortunatamente siamo un gruppo che suona molto in
Italia, non ci dispiacerebbe iniziare a farlo anche al di fuori dei nostri confini.
Visto che siamo in tema di crescita toglimi una curiosità: dopo tutti questi
anni avete raggiunto una posizione che non è quella degli esordienti ma non è
neanche quella degli “arrivati”; siete in una spezie di terra di nessuno assieme
a moltissimi altri gruppi. Secondo voi in Italia ci sono possibilità di crescita
ulteriore per gruppi come il vostro?
Personalmente sono molto contento e soddisfatto di come vanno le cose al nostro
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gruppo. Come ti dicevo suoniamo molto, i nostri album riescono ancora a vendere
abbastanza e abbiamo un seguito che ci apprezza e rispetta, il tutto senza esserci
mai dovuti adeguare a nessun tipo di compromesso. Se volessimo tentare un salto
di qualità, inevitabilmente dovremmo rinunciare a qualcosa, e siccome non ne
abbiamo alcuna voglia ti dico che spero vivamente che le cose continuino così.
L’unica cosa che mi spiace è che in Italia o sei un gruppo da club o riempi i
palazzetti dello sport, manca assolutamente una via di mezzo, cosa invece presente
nel resto d’Europa.
Contatti: www.theestp.com
Giorgio Sala
Marco Notari
Il nome di Marco Notari circola da qualche anno, fra gli addetti ai lavori e fra i
semplici appassionati. Perennemente in bilico fra canzone d’autore e rock, il suo
percorso artistico è stato caratterizzato da incontri importanti e da cambiamenti di
rotta spesso inattesi: il risultato è “Oltre lo specchio” (Artes-Mescal/Sony), un album
d’esordio che lo mostra felicemente deciso a coniugare asperità e dolcezza. La
nostra chiacchierata, in una Torino assolata e ancora avvolta dal clima olimpico, si
muove su più fronti.
Iniziamo con una breve introduzione al progetto.
Il progetto nasce essenzialmente dal vivo. Nel 2001, dopo la registrazione di un
demo, ho ottenuto la possibilità di esibirmi ad “Help”, invitato da Red Ronnie. È stata
una esperienza importante, seguita, un paio d’anni dopo, dalla partecipazione al
Tora! Tora! Festival, su invito di Manuel Agnelli. È iniziata così, con l’interessamento
di un paio di persone e con l’aiuto di una band, i Madam, la stessa con cui ancora
collaboro. Poi, dopo la trafila dei concorsi ed un paio di aperture anche prestigiose,
c’è stato l’incontro più importante, quello con Giulio Casale.
Com’è successo?
Ci siamo incontrati ad Asti, nel backstage di un suo concerto, ed è stato tutto molto
naturale:
ha apprezzato i miei lavori e, dopo aver trascorso un pomeriggio insieme,
chiacchierando degli argomenti più vari, ha deciso che valeva la pena produrre il
mio lavoro. È stato un incontro fondamentale: ci siamo trovati perfettamente, sia a
livello umano che a livello artistico.
Come avete agito in fase di registrazione?
Beh, nonostante la sua impronta sia molto presente, Giulio non ha fatto interventi
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troppo drastici.
Non è stato mai invadente, anzi, mi ha responsabilizzato, con dei suggerimenti
mirati e mai fuori luogo: mi fido di lui, sia artisticamente che umanamente, e credo
che questo sia fondamentale, in un rapporto di questo tipo. Le registrazioni sono
state molto veloci, non abbiamo avuto il tempo di riflettere troppo a lungo sui
dettagli, ma alla fine, questo approccio quasi live, si è dimostrato valido.
Immagino che gli Estra siano stati un gruppo importante, per te, anche come
semplice ascoltatore..
Si, decisamente. Così come sono stati importanti tutti i principali gruppi di quella
“stagione”.
Penso agli Afterhours, ai Marlene Kuntz, a Moltheni. Tutte band, o artisti, che
riescono a far convivere due anime: quella rock, più sfrontata ed energica, e quella
più intima, cantautorale.
Ci sono altre realtà che si sono rivelate importanti per la tua crescita?
Sicuramente i Radiohead. I Radiohead sono fantastici, e parlo di tutta la loro storia.
Paradossalmente, anche nei pezzi più complicati, riescono a conservare un amore
tutto particolare per la melodia: pensa ad un disco come “Kid A”. Beh, molti pezzi
possono essere suonati solo con la chitarra acustica, e ugualmente conservano un
fascino incredibile. Rimane, comunque, l’amore per i cantautori, e non escludo che
in futuro potrò scegliere una strada più vicina alla canzone d’autore classica. Alla
fine, i dischi che ami rispecchiano un periodo della tua vita: “Oltre lo specchio”
descrive bene i sentimenti dell’adolescenza e della post-adolescenza, e sento il
bisogno di cercare delle strade differenti, anche dal punto di vista della scrittura.
In “Oltre lo specchio”, comunque, c’è molta disillusione.
Si, sicuramente. Ma c’è anche molta rabbia. Pensa a “Noia sacrificale”, che è il
pezzo più adolescenziale dell’album. Forse, ora, riesco a vedere le cose in modo più
chiaro, probabilmente addirittura più cinica.
Come sta andando l’album?
Bene, sono contento. Il disco ha venduto circa tremila copie in poco tempo, e per il
panorama indipendente italiano è veramente un gran risultato. Mi fa piacere, perché
l’obiettivo è quello di arrivare a più gente possibile, senza distinzioni. A volte mi
stupisco dello snobismo di qualche gruppo italiano, che non riesce a mettersi in
gioco. Penso al Festival di Sanremo. Io non credo avrei grossi problemi a
parteciparvi: ovvio, non accetterei compromessi artistici, ma la soddisfazione di
condividere le proprie sensazioni, i propri messaggi, è alla base del mio discorso.
Avete scelto un singolo atipico, “Ninfee”.
Si, è stata una presa di posizione del gruppo. Credo sia il pezzo che rappresenta
meglio il disco, e anche il fatto di averlo messo in apertura è una dichiarazione
d’intenti. È una canzone dalle due anime, così come il resto dell’album. Lo stesso
titolo, “Oltre lo specchio”, si riferisce alla necessità di percepire la realtà secondo la
propria immaginazione, cosa difficile da fare in un momento in cui la percezione è
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alterata dalle forme di comunicazione. Io penso che sia importante riuscire ad
abbandonare i valori più materiali, e lo dico sapendo che può essere una banalità:
eppure, seguire un percorso particolare, può essere una delle poche soluzioni per
trovare un senso nella propria vita, per cercare una fisicità che oggi manca. Ma
nell’album c’è anche un altro sentimento, che è quello dell’amore, l’unica cosa che ti
permette di elevarti, di uscire dai problemi quotidiani. È possibile essere felici in
questa società? Mi rispondo di sì, grazie all’amore.
Immagino che ora suonerete molto, soprattutto dal vivo.
Si, abbiamo già fissato molte date. Sono convinto che dal vivo emerga veramente lo
spirito di un artista. I nostri live, poi, sono abbastanza imprevedibili. Capita spesso
che vengano proposte delle cover, anche atipiche, o che ci siano dei momenti
unplugged. Fa parte del gioco, l’obiettivo è quello di creare un clima intimo, con il
pubblico partecipe. Sai, questo è un disco su di me. Parla di me. Nonostante
questo, però, è giusto che le canzoni vadano condivise. Anche i pezzi, rispetto
all’album, sono abbastanza trasfigurati, e questo mi piace, perché è come offrirsi in
una veste diversa.
Contatti: www.marconotari.it
Giuseppe Bottero
?Alos
Stefania Pedretti, già componente di Allun e Ovo, ci presenta il suo progetto solista
che la trasforma in ?Alos, un personaggio nato e cresciuto dentro di lei da sempre e
che è venuto fuori tra un concerto e un dipinto e negli ultimi due anni si è
materializzato. ?Alos ha una voce scomoda insinuante, suona il violino, la chitarra
ma anche il violoncello. “Ricordi indelebili” (Bar La Muerte/Audioglobe) racconta
diverse corde dell’amore musicale di questa donna, che ci fa semplicemente dono di
sé suonando e cucinando un piatto vegetariano che poi condividerà.
Mi ricordo che una delle volte che ci siamo incontrate, tornando da un
concerto a Palermo mi dicevi che per salvare una data delle Allun ti sei
ritrovata a salire sul palco da sola. Può essere questo l’avvio del progetto
?Alos?
Quella data a Palermo è stata la prima e unica volta senza le altre Allun ma ho
potuto sperimentare la possibilità di suonare da sola e di rendermi conto che potevo
farcela divertendomi. Provai ad usare le verdure, vari elementi culinari e il pensiero
per interagire col pubblico. Fu molto bello.
Torniamo per un attimo agli altri tuoi gruppi. Come prosegue la vita musicale
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delle Allun e degli Ovo?
Con le Allun bene. Adesso siamo in fase di stallo perché Natalia è partita per
l’Argentina, quindi più che altro siamo alla ricerca di date. Sia a ottobre che a
gennaio abbiamo fatto sfilate, nel primo caso per un festival femminile mentre a
gennaio in un locale con qualche cambiamento rispetto al nostro live perché c’era la
DJ con cui parto in tour per ?Alos e quindi eravamo super carini e divertenti.
Poi gli Ovo, il gruppo che condividi con Bruno Dorella, una grande svolta
visto che adesso avete firmato per Load.
“Contratto fittizio” perché anche loro sono della nostra stessa ottica: noi siamo
contro queste forme burocratiche. Crediamo invece a un approccio di vita, loro
hanno ideologie molto simili alle nostre, è un’etichetta davvero ottima per noi. E
quindi finalmente gli Ovo hanno trovato casa. Ad aprile esce il disco e poi partiremo
per il tour Europeo.
Tu guardi le facce del tuo pubblico durante le varie performance. Le vedi o
non ci fai caso?
Dipende dalle volte. Tendo a suonare con gli occhi chiusi con tutti i miei progetti.
Direi di no quindi. A volte ci sono delle persone che mi colpiscono e quindi le
osservo ma di solito li tengo chiusi. A volte con le Allun capita che le persone siano
proprio basite, invece tante volte ci sono bambini gasatissimi e vedere una persona
piccola piccola supercoinvolta: è molto bello perché vedi loro senza né freni né
conoscenza musicale e ti rendi conto che a volte, per la nostra musica, la gente si
mette i paraocchi.
Chi è ?Alos?
L’idea è di questa donnina un po’ rétro: un personaggio nato dai miei dipinti e
disegni che ha preso vita ed è riuscita a venire in quest’altro mondo per fare dei
concerti. Oltre ai pezzi elettro ci sono anche pezzi suonati con il violoncello. Questo
disco è strutturato come una colonna sonora: delle musiche che accompagnano le
varie azioni, i momenti più allegri e di riflessione e i momenti di stasi. E il violoncello
non è una base, come alcuni pensano, ma è suonato da me. Ultimamente infatti mi
sono dedicata a studiare questo strumento che amo moltissimo perché ci sono i
miei adorati archi. Volevo utilizzarlo perché crea un’atmosfera totalmente diversa,
mille volte più sognante rispetto a una chitarra.
Raccontaci cosa succede nella tua performance.
La performance ha molti componenti che si collegano con la mia arte. Volevo
riprodurre l’intimità della casa, così ho pensato alla cena. Con gli altri progetti
musicali sono solitamente interattiva ma qui in più, speravo d’ampliare la
conoscenza dei cinque sensi cucinando dal vivo per far venire via il pubblico da un
concerto in cui non solo vedi e ascolti la musica ma anche puoi assaggiare, toccare,
odorare oltre il sudore del tuo vicino anche un profumo culinario di verdure con il
tofu (se lo trovo) per far conoscere la cultura vegetariana. Intanto, DJ Tonnerre
mette i dischi, Mae Starr suona e io canto, suono e cucino. Un ibrido tra una pièce
teatrale e un concerto coinvolgente. Questa cena va infine condivisa. Nasce come
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cena romantica per se stessi - ?Alos infatti dovrebbe consumare questa cena da
solitaria - ma poi sceglie un uomo del pubblico e mangia con lui.
Nelle foto all’interno del CD ci sei tu ritratta piena di cicatrici. Da dove
nascono?
Nascono dalle donne che disegno. Faccio sempre delle figure di queste donne che
una volta erano sul mozzato ma adesso hanno le cicatrici. Da dove arriva ?Alos la
cicatrice è una forma di bellezza. Nelle persone crea il carattere e la sensibilità per
ognuno di noi, nel mondo di Alos questa sensibilità è riportata all’esterno. Cicatrici
come ricordi.
Le foto le ha firmate Natalia. Cosa le hai chiesto?
Volevo che facesse venire fuori l’idea di questa donna tra il triste e il non ma in
un’epoca differente. Quindi volevo dare al disco un’idea rétro anche perché la
raccolta delle date vuole somigliare a un album, un diario di questa certa persona
antica. È come scoprire un baule proveniente da un altro periodo storico: te lo ritrovi
in mano e scopri quasi la vita di qualcuno. In particolare le foto erano ispirate
esteticamente agli anni ‘20 e ‘30, a parte le cicatrici.
Ci parli dei tuoi compagni di viaggio?
DJ Tonnerre, di cui finché posso vorrei nascondere l’identità, è un ragazzo
conosciuto non per l’elettronica perché di solito suona tutt’altri strumenti. Con ?Alos
gli ho proposto di prepararmi delle musiche già anni fa senza dirgli che cosa ci avrei
fatto sopra. Per lui è stata una sorpresa scoprirlo al mio concerto. Invece, per
quanto riguarda Mae Starr dei Rollerball, quando ho iniziato a pensare ad ?Alos ho
pensato subito a lei col pianoforte e lei mi ha mandato la traccia molto bella che
chiude il disco e la userò anche come traccia conclusiva del live.
Contatti: www.barlamuerte.com
Francesca Ognibene
Mr. Henry
Enrico Mangione da Malnate (Varese) è, da alcuni anni, Mr Henry: il suo debutto,
“Lazily Go Through”, pubblicato nel 2003 da Ghost, svelava l’esistenza di un
bluesman atipico ed eccentrico. Il nuovo “& The Hot Rats”, coproduzione tra
Suiteside e Pulver & Asche (distribuita Audioglobe), ne riconferma il talento,
coinvolgendo una band più o meno stabile in canzoni estrose e, ancora una volta
poco, canoniche.
Il tuo progetto è nato come one man band con contributi esterni più o meno
estemporanei, ora invece c'è un gruppo che ti accompagna, gli Hot Rats. I
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pezzi sono nati, sin dall'inizio, con in mente il palco. Una evoluzione naturale o
una svolta premeditata? È cambiato qualcosa nel tuo approccio alla scrittura?
È stata un'evoluzione naturale che, una volta emersa con chiarezza, è diventata
l'obbiettivo principale. Per quanto riguarda la scrittura, il primo disco era legato ad
un certo periodo della mia vita, ogni pezzo era stato concepito in determinato
contesto e per me aveva un significato ben preciso, era perciò strutturato, suonato
ed arrangiato in certo modo. Con il secondo disco non volevo e non potevo
ripetermi, ho deciso quindi di rimescolare totalmente le carte in tavola. Però molti
dei pezzi erano già stati scritti prima che uscisse “Lazily Go Through”, quindi più che
il mio songwriting credo sia cambiato il mio modo di affrontare i pezzi.
Come mai un approccio ai titoli così insolito? Volevi che sembrassero i
tasselli di uno stesso puzzle, frammenti senza gerarchie?
Mi piace questa cosa della gerarchia e del puzzle, non ci avevo mai pensato. Se
vuoi puoi vederla anche così. In realtà penso che le persone prestino troppa
attenzione ai testi delle canzoni, e chiamarle tutte “No-Sense #” è come dire
all'ascoltatore che il modo migliore di ascoltare questi brani è considerarli come
fossero pezzi strumentali: non date importanza alle parole, le parole non hanno
senso, ascoltate i suoni, gli arrangiamenti, le melodie, questa è musica non
poesia…
Il desiderio di dare fisicità ai brani, di puntare sull’impatto live, non ti
impedisce di trafficare spesso e volentieri con elettronica e campionamenti.
Un modo per ribadire che importa più il fine del mezzo? Senza l'elettronica,
d'altra parte, il disco non avrebbe forse quello spirito artigianale, da collage,
che lo fa funzionare così bene...
L'impatto live e fisico deriva dal fatto che i pezzi sono stati arrangiati per il live con
gli Hot Rats e quando siamo entrati in studio è stato naturale suonarli in una certa
maniera. Nei pezzi in cui non ha suonato il gruppo, ho dovuto, e voluto, arrangiarmi
con l'elettronica. Avrei potuto andarci giù molto più pesante, ma avrei snaturato lo
spirito del disco. Comunque non credo che elettronica e fisicità debbano essere
separate. Sono già un paio d'anni che in concerto uso una macchina per i loop, ora
ho anche aggiunto una drum machine distorta. Tutto questo senza che il live
perdesse impatto o calore, anzi...
Due, tre anni fa sei stato inserito anche tu nel calderone della scena di
Varese. Come descriveresti ora, passata quel poco di attenzione mediatica, la
scena della tua città?
La situazione di Varese è piuttosto deprimente: ci sono i gruppi (molti e bravi), c'è
amicizia o per lo meno rispetto reciproco (tanto che spesso i componenti di gruppi
diversi si trovano a suonare insieme), ma non c'è l'interesse da parte del pubblico.
Nel 2003 c'erano 4 o 5 locali dove sapevi di poter andare ad ascoltare i tuoi amici,
oggi è il deserto. Se vuoi suonare o fai cover o resti in sala prove, e quando riesci a
trovare una data a Varese ti trovi a combattere contro impianti audio indecenti, con il
chiacchericcio del pubblico (perché magari sei di spalla, e nessuno ti ascolta, o
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perché stai suonando ad un aperitivo), devi tenere i volumi molto bassi (se no dai
fastidio) e devi accontentarti (quando va bene) di un rimborso spese quasi
simbolico. Non so come sia la situazione delle altre città, ma da noi è un disastro e
la cosa fa ancora più male se pensi che ci sono band come Encode, Midwest,
Nostos (da tenere d'occhio perché hanno finito di registrare un gran bel disco
d'esordio), Hormiga, Cluster o Clark Nova, che invece meriterebbero molto di più.
È legittimo considerarti in qualche modo un bluesman? Pur con tutte le
variazioni, gli innesti, la varietà degli ingredienti, la macro-area musicale più
vicina a quello che fai pare proprio quella.
Beh, io ho cominciato suonare come chitarrista solista in gruppo di blues elettrico
classico, ho ascoltato tonnellate di blues e ho letto un sacco di cose sull'argomento,
quindi credo che sia ovvio che si senta una forte influenza di quel genere nella mia
musica, ma ti assicuro che è assolutamente involontaria. Alla fine, una volta che lo
capisci e che lo suoni, il blues non ti molla più, è come un tatuaggio. Non credo di
essere ancora in grado di potermi fregiare del titolo di “bluesman”, troppe ne devo
passare, ma lo prendo comunque come un complimento. Sempre che per bluesman
tu intenda gente tipo Muddy Waters, Robert Johnson, Captain Beefheart, Tom
Waits, Matt Johnson (The The), Chris Whitley, il primo Dr. John e non vari
“smanettoni” come Stevie Ray Vaughan, Robben Ford e compagnia “schitarrante”,
se così fosse potrei anche entrare in crisi.
Il futuro di Mr. Henry? Un progetto da riportare in vita di tanto in tanto o
qualcosa di più continuativo?
Assolutamente un progetto da portare avanti con continuità. Ma sempre cercando di
muovermi su strade diverse rispetto a quelle già battute. Ho in mente un mio
percorso ben preciso, spero di riuscire a portarlo a termine, poi - credo che ci
vorranno almeno altri 10 anni - si vedrà...
Contatti: www.suiteside.com
Alessandro Besselva Averame
Progetto MB
Progetto MB ovvero, Marco Bucci, debutta nelle lande musicali con “Contrappunti”,
uscito alla fine del 2005 per l’etichetta messinese Snowdonia e distribuito da
Audioglobe. Un album “costruito” nel vero senso della parola, visto che consta di
suoni sovraincisi fino alla soddisfazione, alla quale segue il titolo, ogni volta venuto
fuori per istinto. Musica amata dentro uno studio con tanti strumenti e un PC in
mano a questa sorta di burattinaio che ci porta via con le sue tracce strumentali, tra
Roma e la Luna.
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Marco, come ti sei avvicinato alla musica?
Ho iniziato molto presto a manipolare un registratore a bobine che avevano i miei
genitori. Già a quattro/cinque anni registravo chiacchiere e barzellette e quelle sono
state le mie prime esperienze con la registrazione. A vent’anni ho iniziato a suonare
la chitarra e poi la batteria, incidendo con registratori a cassette e un mixer. Iniziavo
così a fare piccole composizioni e sovraincidere i suoni. Da lì è iniziata la passione
prima con le cassettine poi coi CD-R fino a questa prima produzione.
Quando componi a cosa pensi visto che non possiamo attaccarci a delle
parole…
In realtà questo disco rappresenta solo un lato delle mie composizioni, che sono
anche canzoni vere e proprie. Di solito mi metto lì, faccio scorrere le dita sulla
chitarra e registro, dopodiché sovrappongo e sovrappongo ancora finché, esce fuori
il pezzo ma io non so partendo, dove andrò a finire. Per lo più non ho una vera e
propria ispirazione per i pezzi strumentali.
Oltre a questo porti avanti altri progetti?
Ho un gruppo con il quale suono la batteria da dieci anni. Il nome lo cambiamo
molto spesso. È un gruppo tra Frank Zappa, Morricone o i Soft Machine. Non
abbiamo un genere preciso perché siamo in via di rielaborazione di tutto il nostro
materiale.
Questo disco l’hai registrato su quattro e otto piste tra il 1999 e il 2004, così
almeno scrivi sul CD. Quali dischi ascoltavi in quell’arco di tempo?
Ascolto in generale parecchia new wave anche se nel disco non si sentirà come
ispirazione, comunque i miei riferimenti musicali (più nell’approccio che nella
musica) sono Robert Wyatt, Brian Eno e Syd Barrett. Questi tre personaggi sono
stati fondamentali per il mio tipo d’approccio solista.
Sulla copertina c’è una foto minacciosa. Come mai?
Quella è stata una scelta di Snowdonia, avendo come d’accordo il totale controllo
sulla copertina. Mi hanno spiegato che l’ispirazione deriva dal fatto che alcuni pezzi
del CD ricordavano delle possibili colonne sonore di film horror di serie B. E per
questo hanno messo questa copertina orrorifica con una donna incappucciata che
blandisce un coltello in mezzo a delle canne da zucchero. La foto è stata realizzata
da Angela Anzalone che cura anche gli aspetti fotografici di alcuni gruppi della
stessa Snowdonia. Io non la conosco.
Quindi non eri d’accordo su questa copertina?
No. Mi dissero nella preparazione del disco che la copertina sarebbe stata ispirata
ad un tema orrorifico. Poi quando l’ho vista potenzialmente mi è piaciuta. Poteva
andare peggio.
Hai già fatto dei concerti con questo progetto?
No e non credo ne farò mai. Questo progetto è legato alla dimensione di musica da
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studio. È un passatempo. Lo faccio nel tempo libero. Mi metto lì e registro anche
perché certi suoni sarebbe impossibile per me riprodurli nuovamente e convincere
delle persone a suonarli per me. Ho il mio gruppo per suonare.
Come hai conosciuto Cinzia e quindi Snowdonia?
Tre o quattro anni fa, una volta raccolto molto materiale iniziai la solita prassi
mandando a diverse etichette indipendenti il mio CD. Ho ricevuto tante risposte
negative logicamente. Alla Snowdonia prima del mio materiale mandai una e-mail
abbastanza provocatoria asserendo che le etichette indipendenti producevano
sempre la stessa musica, o noise o pop rock, e che non c’era spazio per musiche
diverse. Cinzia mi rispose: “Ma chi ti credi di essere tu che pensi queste cose?
Mandami un CD e vediamo!”. Quando gliel’ho mandato, ascoltandolo ha detto che
forse avevo ragione sulle nuove musiche indipendenti e che potevamo fare
qualcosa. Quindi da lì sono entrato in una sorta di lista d’attesa. Già nel 2002
sapevo che il CD sarebbe uscito nel 2005. Ho dovuto cambiare al volo la scaletta ed
eliminare i frammenti cantati, visto che Cinzia non era soddisfatta della voce. Era
troppo macchinoso per me ricantare quei pezzi così le ho proposto di eliminarli e
così è stato.
Come è andata in porto la cosa? A che livello interviene Cinzia oltre la
copertina?
Le spese di stampa e produzione vengono divise al 50% con l’artista. Loro pensano
alla stampa e alla promozione mandando i CD alle radio, alle riviste e ai giornalisti.
Poi una parte delle copie rimangono a loro e il resto lo riceve l’artista che si vende i
CD attraverso i propri canali: i concerti, gli amici, eccetera…
Forse potresti fare la colonna sonora di qualche corto visto che non farai dei
live.
Sì, mi piacerebbe intervenire in questi ambiti. Tra l’altro sto scrivendo una piccola
colonna sonora per un cortometraggio di una mia amica. Poi le mie musiche si
prestano molto a interagire con le immagini.
Mi piacciono molto i titoli dei tuoi brani. Ad esempio “Se una notte d’inverno
un suonatore”.
Molti nascono spontaneamente. Una volta finito di comporre quello che m’ispira il
pezzo diventa il titolo più o meno definitivo. C’è un pezzo che però è stato stampato
male. Nel CD è la 12 e risulta come “8on” quando in realtà è “80N”: l’autobus
notturno che io sono solito prendere. È un omaggio a quell’autobus di disperati. “Se
una notte d’inverno un suonatore”, dal celebre libro di Italo Calvino (“Se una notte
d’inverno un viaggiatore”, NdI) l’ho finita in una notte e per questo ho scelto quel
titolo. In realtà non c’entra molto col romanzo.
E “L’attesa inquieta”?
È appunto il pezzo un poco più orrorifico che dà la sensazione di attesa anche per le
atmosfere create a cui si riferisce la copertina del CD e l’ispirazione di Cinzia.
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Poi hai avuto “Improbabili pulsioni verso il cosmo”…
Quel pezzo è una libera improvvisazione. Mi sono ispirato ai primi pezzi dei Pink
Floyd sia per il titolo che per l’approccio. Nasce da una sorta d’improvvisazione semi
strutturata di batteria su cui poi ho costruito il pezzo con tutti i suoni. Improvvisazioni
(im)probabili.
Contatti: www.progettomb.it
Francesca Ognibene
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“Casseta Acustica”
Casseta Popular, Grugliasco (TO), 16/2 e 2/3/O6
“Casseta Acustica” è una mini-rassegna che si svolge a Grugliasco, nella periferia
di Torino, giunta quest’anno alla terza edizione.rganizza Gigi Giancursi, chitarra dei
Perturbazione: basta questo per essere sicuri della buona riuscita delle serate. Due,
quest’anno.
La prima schiera una coppia di outsider: Appino, transfuga dagli Zen Circus per un
piccolo tour semiacustico, e Bob Corn, l’uomo che si muove dietro l’organizzazione
Fooltribe, bravo a replicare il piccolo miracolo di “Sad Punk And Pasta For
Breakfast” con un secondo album, “Songs From The Spider House”, altrettanto
profondo e ispirato. Serata per chitarre acustiche e voci, quindi, che mostra i due lati
del cantautorato indipendente: quello divertito, sopra le righe, del jolly toscano, e
quello più intimo e sommesso di Tizio, sorprendente e ispirato sia nel proporre pezzi
autografi che nell’abbozzare cover emozionanti, come una “I’m Waking Up To Us”
dei Belle And Sebastian decisamente più sghemba rispetto all’originale.
La seconda serata è una piccola chicca. Emidio Clementi, magnetico ed
ammaliante, accompagnato da tutta la Torino che, musicalmente, conta: membri di
Perturbazione, dei Chomsky, dei Gatto Ciliegia, con l’aggiunta di Pietro Salizzoni e
Stefano Giaccone si alternano sul piccolo palco, regalando all’ex voce dei Massimo
Volume un supporto non solo musicale. I brani scelti da “L’ultimo dio” si mischiano a
quelli tratti dai romanzi precedenti, e, verso la fine, c’è anche spazio per un tuffo nel
passato, con due estratti dal repertorio dei Massimo Volume che non perdono la
capacità di emozionare. “La città morta” conserva un fascino oscuro e
assolutamente non convenzionale, mentre “Stagioni”, trasfigurata dal sax di
Giaccone, rimane uno dei pezzi più coinvolgenti della musica italiana degli ultimi
anni. Da brividi.
Giuseppe Bottero
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