De Paolis

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De Paolis
“Prospettive e sviluppi delle Opere degli Istituti religiosi”
Convegno per Superiore Maggiori e Consigli
Roma, 15 – 16 novembre 2007
LA RILEVANZA DELL’ECONOMIA NELLA VITA RELIGIOSA
S. E. Mons. Velasio De Paolis
Il discorso sulla rilevanza dell’economia nella vita religiosa a prima vista può apparire ovvio e
addirittura superfluo. E’ infatti di immediata percezione, non solo nella vita religiosa, ma
semplicemente nella vita umana. L’economia è tanto rilevante nella vita umana che qualcuno, a
partire da tale constatazione, ha proposto l’economia come chiave di lettura della realtà umana. Il
marxismo è stata una dottrina che ha ricondotto tutta la realtà all’economica. Non si può tuttavia
negare che l’economia gioca un ruolo spesso determinante nella storia umana, anche religiosa.
Questo per la natura stessa dei beni temporali: da una parte sono necessari e ritenuti quindi beni,
in quanto rispondono ad esigenze primordiali dell’uomo, dall’altra per essi succedono spesso
conflitti e guerre, e quindi vengono visti con sospetto fino a ritenerli lo strumento del diavolo.
Non si può negare che particolarmente oggi l’economia determina la struttura dell’organizzazione
sociale e rispecchia spesso la stessa visione dell’uomo. In nome delle leggi dell’economia spesso
prosperano l’ingiustizia e la conflittualità. All’interno di questa società, ormai secolarizzata e
dominata dalla sete dei beni, la vita cristiana fa fatica a collocarsi. I religiosi avvertono
particolarmente questo pericolo: da una parte sono quasi indotti o costretti ad entrare nel
meccanismo delle leggi dell’economia moderna e dall’altra sono consapevoli che, se non
procedono con la debita cautela, corrono il rischio di perdere la propria identità. Di fatto gli
istituti religiosi, particolarmente quelli che per il loro carisma sono chiamati a gestire opere
apostoliche o caritative, come gli ospedali, le cliniche, le scuole, le librerie, l’educazione, ecc.
avvertono l’esigenza, anzi spesso sono costretti, ad adeguarsi alle legislazioni civili in questi
campi, con il rischio di soccombere di fronte alla concorrenza economica e quindi di non essere
più in grado di gestire le loro opere. Tutto questo poi avviene in un momento di profonda crisi
degli stessi istituti, almeno per quanto riguarda il personale. In realtà la crisi è ancora più
profonda. Se è vero, come afferma l’esortazione apostolica VC, 4, che la vita “si pone nel cuore
stesso della Chiesa come elemento decisivo per la sua missione, giacché <<esprime l’intima
natura della vocazione cristiana>> e la tensione di tutta la Chiesa-Sposa con l’unico Sposo”, la
profonda secolarizzazione della società di oggi, che si esprime particolarmente nell’economia,
non può non riflettersi sulla stessa vita consacrata e da questa sulla vita della Chiesa. In questa
situazione, se da una parte non ci si può rinchiudere rifiutando la realtà così come essa è,
dall’altra, mentre ci si apre ad essa, occorre operare il necessario discernimento perché non si
finisca a perdere lo spirito e l’identità degli istituti stessi, con grave danno per la Chiesa e per il
Regno di Dio.
La riflessione sulla rilevanza dell’economia negli istituti religiosi dovrebbe servire proprio ad
affrontare queste nuove realtà, senza rifiutarle a priori, ma anche senza accettarle acriticamente. I
beni temporali non hanno avuto nei tempi del postconcilio una sufficiente riflessione nella vita
degli Istituti religiosi. Una eccezione di rilievo è stato certamente il fatto che l’Unione dei
Superiori Generali nel maggio del 2002, ha tenuto per la prima volta un’assemblea sul tema:
1
Economia e Missione nella Vita Consacrata oggi1. Purtroppo questo documento non ha avuto
l’attenzione necessaria. Pensiamo cosa utile farne una presentazione raccogliendo i punti
essenziali, in modo da essere aiutati ad operare il necessario discernimento, rifacendoci anche ad
alcuni miei scritti in materia2. I religiosi potranno intraprendere anche strade nuove, secondo le
attuali esigenze, se terranno fermi i principi essenziali circa il significato dei beni e le norme
della legislazione della Chiesa e del proprio istituto, nell’obbedienza ai superiori ecclesiastici,
particolarmente alla Santa Sede. In questa prospettiva, richiameremo anzitutto alcuni punti
sottolineati dall’assemblea dell’Unione dei Superiori Generali (I), quindi evidenzieremo alcuni
punti da condividere (II) ci soffermeremo infine sul ruolo dell’economo e dei superiori (III).
I. Economia e Missione nella vita consacrata oggi.
Nella assemblea menzionata, sono stati affrontati particolarmente cinque grandi temi: 1)Nuova
figura dell’economo generale nell’Istituto religioso e responsabilità (pp. 103-116); 2)Criteri di
investimento per un Istituto religioso. Investimenti nel no profit. (pp. 117-124); 3)Condivisione
dei beni all’interno di un Istituto religioso: modello, esperienze e criteri (pp. 125-132);
4)Economia e vita religiosa nei Paesi del terzo mondo: dipendenza, autonomia, stili di vita, aiuti
(pp. 133-140); 5) Amministrazione dei beni e criteri evangelici: Come calcolare quello di cui
necessitiamo come riserva e cosa fare con le eccedenze. Quale è la collocazione della
Provvidenza nella nostra vita? Il nostro è uno stile di vita povero? (pp. 141-152). Presentiamo
alcuni rilievi dell’assemblea dei Superiori generali.
1
Gli atti sono pubblicati nel volume Economia e missione nella vita consacrata oggi, a cura dell’Unione
Superiori Generali, editrice il Calamo, Roma 2002.
2
Cf. V. De Paolis, I Beni temporali della Chiesa, Edizioni Dehoniane, Bologna 2001, pp.241-260.
ID., I beni temporali e la loro amministrazione negli istituti religiosi, in Il nuovo Codice di diritto canonico,
ed. Rogate, Roma, 1984, 134-159.
ID., I beni temporali nel Codice di diritto canonico, in Monitor Ecclesiasticus, 1986, 9-30.
ID., Ruolo, competenze, responsabilità nell' amministrazione alla luce della normativa canonica e civile, in
L' attività degli istituti religiosi tra norma canonica e legge civile, Atti del convegno nazionale AGIDAE,
Laterano 25-27 marzo 1993, (A cura di F: Ciccimarra), Roma, 1993.
ID., Dimensione ecclesiale dei beni temporali destinati ai fini ecclesiali, in Periodica, vol. 84 (1995) pag.
77-103.
ID., La proibizione del commercio ai religiosi, in Ius Ecclesiae, VII (1995) 2,693-712.
ID., Beni temporali della Chiesa, Canoni preliminari (cann. 1254-1258) e due questioni fondamentali, in I
Beni temporali della Chiesa, Quaderni della Mendola, 4, a cura del Gruppo Italiano docenti di diritto
canonico, ed. Glossa, Milano 1997, pp.9-41.
ID., Alcune osservazioni sulla nozione di amministrazione dei beni temporali della Chiesa, in Periodica,
1999, pp. 91-140.
ID., L’amministrazione dei beni. Soggetti cui è demandata in via immediata e loro funzioni, cc. 1279-1289,
Relazione tenuta presso l’Arcisodalizio della Curia Romana, pubblicata in I Beni temporali della Chiesa,
Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano 1999, pp. 59-82.
ID., L’amministrazione dei beni e responsabilità dei superiori e degli economi, in Informationes SCRIS,
27(2001) n. 2, pp. 109-122.
ID., Qualche annotazione in margine al documento “Economia e Missione nella vita consacrata oggi”, in
Informationes SCRIS, anno XXVIII (2002) numero 2, pag. 111-126.
2
1. La necessità che il tema economico trovi la sua giusta collocazione all’interno della vita
religiosa, particolarmente per le ripercussioni sulla stessa missione degli istituti religiosi: “Il tema
economico è stato poco popolare tra i religiosi e, tuttavia non può essere estraneo alla VC; esso vi
deve occupare il giusto posto. Sono molte le ripercussioni che esso ha nella missione delle
congregazioni; la missione non può prescindere dall’economia” (p. 14, n. 10).
2. Si deve superare l’atteggiamento di riserbo sull’economia caratteristico dei tempi passati, per
fare spazio alla trasparenza e coinvolgere la responsabilità di tutti i religiosi: “In passato c’è stato
un eccessivo mistero attorno all’amministrazione dei beni e ciò ha dato vita ad un atteggiamento
irrealistico nei confronti del denaro e del suo uso da parte dei religiosi. Ad esso è necessario dare
maggiore spazio e priorità alla professionalità, alla chiarezza ed alla trasparenza: aspetti che
stanno diventando sempre più indispensabili in questo campo con tutti gli importanti
cambiamenti che ne conseguono” (p. 13-14, n.9)..
3. Il tema dell’economia in realtà è intimamente connesso con il problema della rivitalizzazione
di un istituto di vita consacrata: “Per cominciare è opportuno affermare che non si può
intraprendere un processo di rivitalizzazione di un Istituto religioso senza prestare una particolare
attenzione all’uso evangelico dei beni” (p. 11, n.1).
4. E’ necessario superare un falso spiritualismo che vede l’economia estranea alla vita, alla
consacrazione e al Vangelo. Come risulta dal vangelo stesso, l’economia è una dimensione
essenziale della vita: “All’inizio della nostra riflessione desideriamo ricordare che l’economia è
una dimensione essenziale della vita; così lo riconosce lo stesso Gesù come possiamo vederlo nel
Vangelo e particolarmente nel Vangelo di San Matteo, antico collettore di imposte. Il regno dei
cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo e una perla di grande valore (Mt 13, 44-46); per
costruire è necessario sedersi e fare bene i calcoli e preventivare i costi (Lc 14, 18): Gesù non
risparmia elogi per il buon amministratore (Mt 24, 45). San Paolo, a sua volta pone in tela di
giudizio coloro che aspirano a diventare vescovi e “non sanno amministrare la loro casa” ( I Tim
3,5). Il Vangelo ci orienta sempre e anche quando cerchiamo criteri per mettere a profitto i nostri
talenti in banca affinché producano il dovuto interesse (Mt 25, 14-30) (p. 12, n. 5).
5. Anzi il senso dei beni temporali può venirci solo dal vangelo: “Dobbiamo ricordare che il
Vangelo ci impone di far sì che i beni servano per creare e rafforzare la comunione, vivere la
dipendenza dal Padre, esercitare la libertà di fronte a ciò che possediamo e la prudenza nell’uso
che ne facciamo. Il Vangelo, inoltre ci invita chiaramente alla gratuità nell’uso dei beni e alla
generosità senza misura nel condividerli. In una parola, dobbiamo partire dal Vangelo per
giungere ad usare e gestire i nostri beni mossi da una forte spiritualità. Nel Vangelo troviamo pur
i criteri per amministrare bene; senza dimenticare che una buona gestione deve puntare a
migliorare le entrate e ad una amministrazione ordinata e trasparente” (p. 24, n. 49)..
6. La riscoperta della rilevanza dell’economia nella vita degli Istituti ha come conseguenza
necessaria immediata la rivalutazione del ruolo degli economi, particolarmente a livello generale
e provinciale, e degli esperti in materia: “E’ necessario descrivere meglio il loro profilo, la
3
missione dell’economo generale o provinciale e la nuova funzione che essi svolgono nell’insieme
del cammino di un Istituto religioso oggi: tali figure devono possedere una formazione in
economia, in giustizia sociale e preoccuparsi di rispondere alle esigenze della povertà religiosa.
L’attenzione deve andare anche all’equipe di consulenti nella gestione delle nostre finanze e ai
consigli provinciali generali che hanno il compito di stabilire la politica economica degli Istituti
religiosi” (p. 16, n. 18).
7. Gli amministratori e gli esperti non hanno un ruolo solo tecnico; essi devono coniugare
insieme le esigenze delle leggi e le esigenze evangeliche: “E’ importante delineare bene il modo,
a volte originale, di amministrare che ha un religioso economo o responsabile dei beni. Non
risulta facile coniugare le esigenze evangeliche con la legislazione fiscale o economica. Tale
compito merita un’attenzione pastorale e una buona descrizione del ruolo o della funzione da
svolgere. E’ necessario dunque elaborare e descrivere il nuovo profilo dell’economo” (p. 19, n.
19).
8. Il compimento della missione da parte degli Istituti religiosi non è possibile senza debite
risorse economiche: “La vita religiosa non può svolgere bene la sua missione se non dispone
delle necessarie risorse economiche; le risorse economiche di una congregazione non saranno ben
orientate se non saranno al servizio della missione. Al tempo stesso è opportuno ricordare che la
gestione economica non riguarda solo la povertà, ma ha a che vedere anche con l’obbedienza, dal
momento che vi sono leggi della Chiesa, del proprio istituto e dei governi che vanno seguite, e
riguarda anche la castità, dal momento che la libertà del cuore è imprescindibile perché i beni
siano messi al servizio della persona umana” (p. 18, n. 26).
II. Alcuni temi generali importanti da condividere.
1. Significato dei Beni Temporali
1)Beni temporali.
Parliamo di beni temporali, ossia di beni che servono a realizzare le finalità nel tempo. Si
oppongono ai beni eterni. Si tratta di “beni”, di qualche cosa di positivo, anzi in una certa misura
necessari all’uomo perché si possa sviluppare e crescere. Sotto questo profilo il loro possesso,
rispondendo ad una esigenza dell’uomo, reca anche una certa gioia; rende beati coloro che li
possiedono. In quanto però sono beni temporali, essi non possono essere assolutizzati e la felicità
che portano è necessariamente relativa. In quanto sono un servizio all’uomo, hanno la funzione
strumentale: sono mezzi per raggiungere un fine, lo sviluppo della persona. La persona non
potrebbe realizzare se stessa e compiere la sua missione nel tempo, se non avesse a disposizione i
beni temporali necessari. Questi conservano la loro positività nella misura in cui rimangono al
servizio della persona e della comunione delle persone nella carità. Per questo i beni temporali a
volte vengono chiamati semplicemente cose per sottolineare la loro inconsistenza quando
vengano confrontate con le persone: il valore delle cose è in relazione alla persona. Le cose
hanno un prezzo, la persona non ha prezzo, ma ha una dignità (Kant). I beni temporali non si
identificano però semplicemente con beni materiali. Di fatto essi possono essere anche spirituali.
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Quanto si parla però nel nostro contesto di beni temporali amministrati dagli economi si tratta di
beni economici, ossia che hanno un valore economico e quindi possono entrare nel commercio.
2) Ambiguità dei beni temporali.
In quanto mezzi, essi hanno anche una certa ambiguità, che deriva loro dall’uso che l’uomo ne
può fare. Di fatto non si può dimenticare che il disordine che regna nel cuore dell’uomo si
ripercuote necessariamente nelle cose, in quanto l’uomo le usa per fini perversi e perfino contro
la persona. A tale pericolo è esposto particolarmente l’uomo decaduto, che pone la sicurezza nei
beni, al punto che tenta di accaparrarsene in grande quantità, facendone uno strumento di potere,
di odio e di morte. Per sfuggire a tale pericolo, si impone la necessità del possesso e dell’uso
parsimonioso dei beni, in modo da richiamare la loro relatività e il loro uso strumentale. Della
povertà evangelica e della relativizzazione dei beni sono testimoni particolarmente i religiosi, con
il loro voto di povertà. In proposito è necessario richiamare la visione biblica, particolarmente
neotestamentaria dei beni. L’insegnamento di Gesù è molto preciso.
3) Il periodico ritorno di tendenze manichee.
Sulla natura dei beni temporali di tanto in tanto ritorna qualche tendenza manichea, che li
demonizza. E’ certamente una dottrina errata; ma come tutte le deviazioni, su qualche cosa di
vero deve pure appoggiarsi, altrimenti non potrebbe attecchire e soprattutto non avrebbe nessuna
possibilità di ripresentarsi sul proscenio della storia. E’ tautologico affermare che i beni temporali
sono beni. Non si può negare però che di fatto tali beni spesso sono causa di tanto male. Sono
beni, ma hanno qualche cosa di demoniaco che va continuamente esorcizzato per recuperare in
modo sempre nuovo la loro bontà. Appena ci mettiamo in ascolto della parola di Dio ci rendiamo
facilmente conto dell’ambiguità che circonda i beni temporali. Ci accorgiamo allora che
propriamente l’ambiguità non è nei beni, ma nel cuore dell’uomo. Ciò che va esorcizzato allora
non sono tanto i beni quanto il cuore dell’uomo. L’insegnamento della Sacra Scrittura riproposto
continuamente dal magistero della Chiesa, e avallato dall’esperienza umana, ci dice che tutto ciò
che è uscito dal cuore di Dio è buono. I beni temporali sono i doni che Dio ha preparato all’uomo,
prima che apparisse sulla scena del mondo, perché trovasse in essi tutto ciò che è necessario per
la realizzazione della propria vita nel tempo. Essi sono divenuti occasione di peccato per l’uomo
da quando questi si è ribellato a Dio e ha posto nei beni il senso della propria vita. Da allora i
beni temporali sono stati all’origine di innumerevoli mali, di tante lotte fratricide, di tante guerre.
Si è così potuto pensare, erroneamente, che i beni siano un male. Oggi viviamo in un(a) contesto
mondiale di secolarizzazione e quindi di immanentismo. L’uomo sembra tornato sotto la
schiavitù dei beni; l’economia mondiale non è affatto liberante per l’uomo. Il vangelo è stato
messo da parte. Le leggi economiche sembrano imperare sovrane. Il mondo degli affari sembra al
di sopra degli uomini. Anche il mondo religioso sembra esserne trascinato, se non travolto. La
tentazione manichea di considerare i beni temporali qualche cosa di demoniaco si fa più forte e
sembra portare i benpensanti lontano da tale mondo e lasciarlo in balia delle potenze diaboliche.
In realtà proprio per questo urge riprendere in mano il problema e con il cuore libero e forte della
fede affrontarlo in nome del vangelo e all’interno del progetto di Dio. I beni vanno riscoperti nel
disegno creatore di Dio: hanno il loro significato intrinseco di servizio all’uomo e alla comunione
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fraterna. Usati dal cuore cattivo dell’uomo essi possono essere facilmente deviati dalla loro
funzione e snaturati, con i pericoli che ne possono derivare: essi vanno maneggiati con
precauzione; con cuore distaccato, ma con impegno e dedizione, nella consapevolezza di svolgere
un ruolo importantissimo per la vita dell’uomo e per la vita religiosa. Ciò è possibile e doveroso,
perché il cristiano crede al mistero della redenzione, che ha fatto dell’uomo una creatura nuova e
gli ha dato un cuore nuovo; con la grazia del Signore è possibile riscoprire la funzione dei beni
dell’uomo, a servizio dell’uomo e della comunione. Diverse sono pertanto le componenti che
vanno prese in considerazione e vanno armonizzate. Di tutte bisogna tener conto.
4)La ricomposizione delle cose attraverso il cuore nuovo di Gesù.
Gesù che è venuto nel mondo per salvare l’uomo, dando all’uomo un cuore nuovo, gli ha anche
permesso di sottrarsi alla schiavitù dei beni e li ha riportati allo stato originale, ossia come mezzi
al servizio dell’uomo e di comunione tra gli uomini. Egli è povero; conduce una vita povera;
proclama beati i poveri. Sui beni ha tante cose da dire: mette in guardia da mammona di iniquità;
manda i suoi discepoli all’insegna della povertà e della fiducia nella provvidenza; insegna che la
vita non dipende dai beni; e sollecita i suoi a servirsi dei beni per farsi amici nell’eternità. I beni
devono essere messi in comunione; essi vengono redenti e salvati solo se diventano strumento di
comunione e di carità. Sua preoccupazione sovrana è la volontà del Padre; e ai suoi discepoli egli
insegna a mettere al primo posto il regno di Dio e la sua giustizia. Per il resto si deve
abbandonare la propria vita nella mani del Padre. Anche se, preso dalla compassione, moltiplica i
pani per sfamare le folle, rifiuta di farsi eleggere re. Egli è venuto per portare a compimento il
progetto salvifico del Padre e nell’obbedienza al suo volere colloca tutta la sua vita. Fin
dall’inizio respinge le tentazioni diaboliche di farsi un’esistenza autonoma dal Padre con le
ricchezze che il diavolo è pronto ad offrirgli in sovrabbondanza. Né teme di offrire la propria
vita. Egli così da ricco che era si è fatto povero per arricchirci della sua povertà. Gesù usa i beni
in sovrana libertà; li riscatta dal loro potere di asservire gli uomini e li riporta al loro significato
originario: i beni, doni di Dio all’uomo, sono al servizio dell’uomo e dell’amore.
L’insegnamento dei padri e della Chiesa non hanno mancato di trasmetterci il nucleo essenziale
di questo insegnamento fino ai nostri giorni. Il Concilio Ecumenico Vaticano II se ne fa eco e
ripropone tale insegnamento particolarmente per quanto riguarda la Chiesa, continuazione del
mistero di Cristo nel tempo. Richiamiamo alcuni punti essenziali che stanno alla base di ogni
riflessione sulla natura e sulla funzione dei beni, particolarmente quando si tratta di beni
ecclesiastici, che sono per definizione al servizio della missione della Chiesa e degli istituti di
vita consacrata, che della stessa missione partecipano.
5) I Beni temporali e l’insegnamento del Concilio Vaticano II.
La costituzione pastorale sulla Chiesa, Gaudium et spes, dopo aver riproposto brevemente
l’insegnamento biblico sui beni temporali (GS, 69), si sofferma anche sul diritto della Chiesa ai
beni e del loro significato. La missione che il Fondatore ha affidato alla Chiesa “non è di ordine
politico, economico e sociale: il fine infatti, che le ha prefissato è di ordine religioso” (GS, 42).
Ma vivendo nel mondo, essa ha bisogno delle cose temporali e si serve di esse “nella misura in
cui la propria missione lo richiede. Tuttavia essa non pone la sua speranza nei privilegi offertigli
6
dall’autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisti, ove
constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove
circostanze esigessero altre disposizioni” (GS, 76). Nella sua opera evangelizzatrice essa
utilizzerà “tutti e soli quei mezzi che sono conformi al Vangelo e in armonia col bene di tutti,
secondo la diversità dei tempi e delle situazioni” (ivi). La Chiesa sente l’impegno di destinare i
beni che possiede “per gli scopi per il cui raggiungimento è lecito alla Chiesa possedere beni
temporali, ossia: l’ordinamento del culto divino, il dignitoso mantenimento del clero, il
sostenimento delle opere di apostolato e di carità, specialmente per i poveri” (PO, 17). Il Concilio
si premura di indicare anche il criterio della misura dei beni da parte della Chiesa: esso dipende
non solo dai fini, ma anche dal modo con cui i fini devono essere perseguiti: “Gli apostoli e i loro
successori con i propri collaboratori, essendo inviati ad annunziare agli uomini il Cristo salvatore
del mondo, nell’esercizio del loro apostolato si appoggiano sulla potenza di Dio, che molto
spesso manifesta la forza del Vangelo nella debolezza dei testimoni. Tutti quelli che si dedicano
al ministero della parola di Dio, bisogna che utilizzino le vie e i mezzi propri del vangelo, che, in
molti punti, differiscono dai mezzi propri della città terrena” (GS, 76). In realtà anche nell’uso
dei mezzi temporali la Chiesa deve mettere in luce la profondità del suo mistero, che è il
prolungamento del mistero di Cristo nel mondo, sacramento di salvezza, strumento di comunione
di tutti gli uomini con Dio e tra di loro. Egli ha salvato gli uomini nella debolezza dei mezzi
umani e nella potenza dello Spirito che la anima. La missione della Chiesa nel tempo si realizza
ad immagine di quella del suo Fondatore: “Come Cristo ha realizzato la sua opera di redenzione
nella povertà e nella persecuzione, anche la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via, per
comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo, <<sussistendo nella natura divina…
spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo>> (Fil, 2,6-7) e per noi <<si fece povero da
ricco che egli era>> (2 Cor 8,9): così anche la Chiesa, benché per eseguire la sua missione abbia
bisogno di risorse umane, non è fatta per cercare la gloria sulla terra, ma per espandere l’umiltà e
l’abnegazione anche col suo esempio” (LG, 8). Nel suo cammino nel mondo, deve essere chiaro
che la forza della Chiesa è quella del mistero del Signore che la sostiene: “Dovendosi essa (la
Chiesa di Cristo) estendere a tutta la terra, entra nella storia degli uomini, benché allo stesso
tempo trascenda i tempi e i confini dei popoli, e nel suo cammino attraverso le tentazioni e le
tribolazioni è sostenuta dalla forza della grazia di Dio che le è stata promessa dal Signore,
affinché per la umana debolezza non venga meno alla perfetta fedeltà, ma permanga degna sposa
del suo Signore, e non cessi, con l’aiuto dello Spirito Santo, di rinnovare se stessa, finché
attraverso la croce giunga alla luce che non conosce tramonto” (LG, 9). Il ruolo decisivo dei beni
della Chiesa è in relazione ai suoi fini e al modo con cui essa è chiamata a perseguirli. Vogliamo
richiamare quanto Paolo VI ebbe a dire in un suo discorso: “La necessità dei mezzi economici e
materiali, con le conseguenze ch’essa comporta: di cercarli, di richiederli, di amministrarli, non
soverchi mai il concetto dei fini, a cui essi devono servire e di cui deve sentire il freno del limite,
la generosità dell’impiego, la spiritualità del significato”3.
6)Vangelo e legislazione fiscale4.
3
4
Cf. L’Osservatore Romano, 25 giugno 1970.
Peloso, Vita consacrata e Missione, in Informationes SCRIS, a. XXVIII, n. 1, p. 141.
7
“La complessità del fatto economico, sia in riferimento all’economia stessa che alle varie
legislazioni che la regolano civilmente e fiscalmente, va assunta nell’amministrazione dei beni
ecclesiastici in modo critico e creativo, senza pigre sudditanze o frettolose deleghe. Proprio per
fare ciò, occorre avvalersi di quelle consulenze e collaborazioni dei professionisti laici che
garantiscono la correttezza civile e la sana gestione delle risorse. Ciò però non dovrebbe in alcun
modo significare una totale delega a terzi dell’amministrazione dei beni che la Provvidenza mette
a disposizione, quanto invece la sapiente distinzione degli aspetti tecnico-gestionali da quelli più
specificamente decisionali, di impostazione economica e di destinazione delle risorse, dei quali
non si può delegare la responsabilità”.
“Infine, la trattazione globale dell’argomento amministrativo ha fatto emergere che, oltre alle
finalità proprie e istituzionali, l’amministrazione dei beni degli Istituti oggi deve farsi carico di
promuovere attivamente una alternativa profetica e competitiva al violento e ingiusto sistema
economico imperante. Per non entrare consapevolmente o inconsapevolmente in strutture
economiche inique e per non essere condannati alla marginalità e irrilevanza economica, i
religiosi devono farsi promotori, come già in altri tempi, di imprese economiche eque e solidali”5.
7)Dottrina e normativa della Chiesa sui beni temporali nella situazione attuale.
La dottrina della Chiesa sui beni temporali risale al Signore. Essa è stata riletta nelle diverse
situazioni che la Chiesa ha vissuto lungo la sua storia più che bimillenaria. Essa si ripropone oggi
con urgenza di fronte alla situazione attuale. L’economia è profondamente cambiata. Anche in
essa, come in altri settori della società, assistiamo alla scristianizzazione. Il mondo cattolico
sembra essersi tirato indietro di fronte alla economia attuale. Non sembra che vi possa essere
spazio per il credente.
Le leggi economiche sembrano essere ferree; non vi è spazio per la carità, per la comunione. Il
principio supremo è quello della concorrenza e del libero mercato. I religiosi fanno fatica a
ritrovarsi in questo tipo di economia. Ma la fuga non è la soluzione. E’ questo anzi uno dei motivi
per cui gli Istituti religiosi devono confrontarsi con l’economia.
La reazione che spesso si riscontra è quella manichea: imprecare contro l’economia attuale;
rifugiarsi nello spirituale e stare a guardare il mondo che va a rotoli. Scrive Flavio Peloso:
“Talvolta si crea nella vita religiosa una separazione tra <<spirituali>> e <<pragmatici>>. Si
produce una specie di buffa contrapposizione tra idealismo e quotidianità, come nei celebri
personaggi del Cervantes: Don Chisciotte e Sancio Panza. Il primo, idealista, sognatore, si
inventa vibranti battaglie contro i mulini a vento, mentre il suo loquace scudiero, coi piedi per
terra, mangia e beve e ogni tanto richiama il suo signore alla realtà”6.
Eppure il religioso è chiamato, partendo da Cristo, a trasformare tutto anche l’economia a
servizio dell’uomo e della carità. Emerge allora l’impegno di far sì che i beni, che i religiosi
6
Altri temi potrebbero essere i seguenti:1)Le eccedenze e la prudente riserva economica.2)Gli ambiti
della comunione dei beni 3)Trasparenza amministrativa: rendiconto amministrativo, e controllo
amministrativo “liberato da connotazioni emotive e da pregiudizi che richiamino sfiducia, sospetto e
disistima, il controllo è uno strumento indispensabile di aiuto reciproco, di prevenzione di errori, di
corresponsabilità condivisa” (Peloso, art. cit., p. 129). 4)Informazione e progetto economico.
6
F. Peloso, Vita consacrata e Missione, in Informationes SCRIS, a. XXVIII, n. 1, p. 120.
8
hanno, vengano amministrati bene effettivamente per il servizio della missione dell’Istituto. Ma
la corretta amministrazione dei beni, se da una parte deve attenersi alle leggi che la regolano, sia
canoniche che civili, deve essere animata dallo spirito evangelico e deve tenere presente la
situazione del mondo attuale (realtà economica che ci circonda, realtà ecclesiale, situazione della
vita religiosa oggi) e deve coinvolgere direttamente i religiosi, nel rispetto del ruolo di ciascuno
(superiori e consigli, economi, consulenti). Si deve trattare di un’amministrazione che è insieme
al servizio della vita dell’Istituto, dell’apostolato, della carità e dei poveri.
“All’origine del difficile rapporto dei religiosi con i beni sta “la confusione che spesso si fa tra il
concetto di povertà e quello di economia. La povertà è una scelta e un impegno personale del
religioso che vive in una istituzione che ha bisogno di risorse economiche, senza le quali lo
svolgimento della missione propria dell’istituzione religiosa è impossibile”. Non sta nelle risorse
economiche il problema, quanto piuttosto “nella loro entità, nel modo di amministrarle e nella
chiarezza della gestione. Qui si colloca la tentazione dei beni: in un loro uso egocentrico e non
solidale. Le risorse economiche “non saranno bene orientate se non saranno al servizio della
missione”7 .
“A detta del prof. Stefano Zamagni, intervenuto all’Assemblea USG, è dall’avvento del
capitalismo di inizio ‘800 che il mondo cattolico ha disarmato la sua capacità imprenditoriale,
lasciando l’economia in mano agli uomini d’affari. Anche la vita religiosa, prima promotrice di
impresa in favore dei deboli, si è ridotta a promotrice di carità. “Come emerge chiaramente
dall’insegnamento della Dottrina Sociale della Chiesa, la solidarietà senza sussidiarietà scade
inevitabilmente nell’assistenziali-smo, dunque nell’umiliazione”8.
2.Comunione e comunicazione dei beni.
La parola comunione indica il principio della destinazione universale dei beni: il primo principio
sui beni temporali è: I beni sono comuni!
Ognuno tuttavia se ne appropria secondo le proprie necessità: i beni perciò entrano a far parte del
patrimonio di ciascuno, in modo che sia garantita la libertà di ciascuno e nello stesso tempo siano
assicurate le sue esigenze: il principio della proprietà privata è derivato e secondario.
Rimane però fermo il principio della destinazione universale, per cui i beni, pur essendo al
servizio del proprietario, conservano la destinazione comune originaria: in caso di bisogno e di
necessità i beni vanno comunicati, vanno cioè distribuiti a chi ne ha bisogno.
Perciò il principio della comunione comporta la comunicazione dei beni a chi ne ha bisogno
secondo le diverse necessità.
Il principio della comunione e della comunicazione dei beni ha diversi livelli: esso vale per tutti i
beni; ma si applica anche ai beni ecclesiastici9, e ai beni dei religiosi in particolare10. Per i
7
Peloso, Vita consacrata, p. 131.
Citato da Peloso, Vita consacrata, p. 131-132.
9
Per quanto riguarda i beni ecclesiastici si possono indicare i seguenti punti: 1. L’origine, il fine e
l’amministrazione dei beni al servizio della Chiesa. 2. La nozione di bene ecclesiastico nell’ordinamento
canonico: beni appartenenti alla Chiesa, per i fini della Chiesa. Un diritto della chiesa, partecipato alle
persone giuridiche che operano a nome e per i fini della Chiesa (cf. cann. 1254-1257). 3. Pluralità di
titolari di beni, unità nei fini, sotto la vigilanza dell’autorità ecclesiastica (Cf . cann. 1256; 1254; 1273). 4.
Diritto di proprietà e necessità che i beni siano destinati agli scopi per i quali si possiedono (cf. can. 1256;
1257; 1267; 1300). 5. Principio di comunione e di comunicazione dei beni, particolarmente verso i poveri
8
9
religiosi tale principio ha una sua peculiare applicazione secondo il diritto proprio degli istituti
religiosi.
1) Alcune annotazioni in genere.
La natura dei beni è strumentale; essi non sono fini ma mezzi per il fine; essi sono comuni a tutti
e pertanto devono servire a tutti: destinazione universale dei beni. I beni sono necessari all’uomo
che vive nel tempo. L’uomo, posto nel tempo e nel mondo, ha nella natura stessa i mezzi
necessari per la propria realizzazione. I beni sono mezzi necessari per la sua vita.
I beni sono comuni a tutti gli uomini, perché tutti gli uomini hanno uguale dignità e tutti ne hanno
bisogno. I beni sono comuni perché gli uomini hanno in comune la dignità umana. A maggior
ragione i beni necessari per vivere da uomini. Ne scaturisce il principio della destinazione
universale dei beni. Tuttavia ognuno ha diritto ai beni per il servizio della propria dignità. La
destinazione universale dei beni si attua mediante l’appropriazione da parte degli uomini dei beni
che sono necessari alla propria vita: dalla destinazione universale dei beni scaturisce come
principio secondario il principio della proprietà privata, che garantisce la libertà dell’uomo e la
sua dignità.
Tuttavia il principio della proprietà privata è derivato e secondario. Qualora vi siano altri che non
hanno il necessario per la sussistenza, nel contrasto tra il principio della destinazione universale e
quello della proprietà privata, prevale il principio primario, ossia quello della destinazione
universale. In caso di estrema o grave necessità i beni ritornano ad essere comuni (cf. GS, 69; 71;
63).
2) La comunione e la comunicazione dei beni nella Chiesa
a) Il principio della comunione e della comunicazione dei beni aveva un particolare rilievo presso
il popolo ebraico: il dono della manna era per tutti: ognuno aveva quanto era sufficiente, sia che
ne raccogliesse di meno che di più. La conseguenza: non vi era tra il popolo nessun indigente
(Deut 15, 4).
La proprietà era a garanzia della dignità e della libertà dell’uomo: ogni tribù aveva la propria
terra; ogni famiglia aveva la proprietà. Le feste giubilari avevano il compito di ripristinare la
situazione precedente che eventualmente fosse stata modificata (cf: Lev 25, 10; Is 61, 1-4; Ez 46,
7).
(LG, 13; LG, 23, PO, 21): 1) Il can. 1271: il servizio della Sede Apostolica. 2) Il can. 1274 § 3: il servizio
alle chiese più povere.
10
Per quanto riguarda gli istituti religiosi si possono richiamare i seguenti punti: 1) PC, 13. 2) Il diritto
proprio può apportare ulteriori determinazioni al diritto universale, circa i soggetti e i diritti di essi ai beni:
can. 636. 3) Il diritto proprio è chiamato a precisare il tipo di povertà degli istituti stessi: can. 635, § 2. 4)
Testimonianza di povertà collettiva: can. 640. 5) Comunione e comunicazione dei beni all’interno e
all’esterno: can. 640. 6) Il principio organizzativo della proprietà subordinata.
10
b) Il popolo pagano: l’ideale dell’amicizia mette in comune i beni. Amicitia vel parem invenit vel
parem facit.
c) La comunità di Gerusalemme: Atti: 2, 42-45: “Erano assidui nello ascoltare l’insegnamento
degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore
era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro che erano diventati
credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le
vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno”.
Atti, 4, 32-(34)-(35): “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e
un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva; ma ogni cosa era tra
loro comune. Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del
Signore Gesù e tutti essi godevano di grande stima. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché
quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e
lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno”.
Nella prima comunità cristiana avviene la realizzazione dell’ideale veterotestamentario e del
mondo pagano: i beni in comune. Il fondamento della comunione dei beni è più profondo e tipico
della comunità cristiana. I cristiani avevano in comune la fede nel Signore risorto, il dono dello
Spirito Santo, l’insegnamento degli apostoli, la preghiera comune, la frazione del pane: la
comunione dei beni non era altro che il completamento della comunione di realtà più profonde.
L’agape era il fondamento della comunione dei beni. La raccolta dei beni avveniva
particolarmente durante la celebrazione eucaristica. Si ricordi anche quanto Paolo dice circa la
colletta che egli aveva organizzato in favore della comunità di Gerusalemme (Cf. 2 Cor 8-9).
3) La comunione e la comunicazione dei beni negli istituti religiosi.
a) PC, 13.
b) Il diritto proprio può apportare ulteriori determinazioni al diritto universale, circa i soggetti e i
diritti di essi ai beni: can. 636.
c) Il diritto proprio è chiamato a precisare il tipo di povertà degli istituti stessi: can. 635, § 2.
d) Testimonianza di povertà collettiva: can. 640.
e) Comunione e comunicazione dei beni all’interno e all’esterno: can. 640.
f) Il principio organizzativo della proprietà subordinata.
4) Nella situazione attuale.
Di fronte al mondo globalizzato, bisogna globalizzare la solidarietà, in reazione al “materialismo
avido di possesso, disattento verso le esigenze e le sofferenze dei più deboli e privo di ogni
11
considerazione per lo stesso equilibrio delle risorse naturali” (VC, n. 89). La comunione di beni
riguarda sia la vita interna dell’istituto che l’esterno (la chiesa, i poveri, la carità). Si devono
tenere presenti alcune linee direttive:
a)La comunione dei beni risponde innanzitutto ad esigenze di giustizia; “Inoltre, cospira contro la
comunione dei beni, oggi, la continua necessità di lavori nelle case, complice la società dello
spreco che con normative, a volte capricciose, obbliga a ristrutturare case perfettamente
funzionanti. D’altra parte queste esigenze, spesso mettono in moto un incessante bisogno di fare
lavori senza che avanzi mai niente per i bisogni di altre case e per la missione. Dovrebbe essere
naturale per chi, con il voto di povertà ha rinunciato, come minimo al superfluo, ogni tanto
trovare un <<plus>> da condividere con chi è più nel bisogno nell’Istituto, aiutare nuove
fondazioni e progetti dell’Istituto e della Chiesa”11.
b)L’aiuto deve servire a creare graduale autosufficienza. “L’aiuto sia regolato in modo tale che
coloro i quali lo ricevono vengano, a poco a poco, liberati dalla dipendenza e divengano
autosufficienti”12. Si eliminino gli effetti, ma anche le cause dei mali. Si condividano i beni non
tanto per dare il superfluo, ma per rimanere poveri.
3. I beni della Chiesa
I beni degli istituti religiosi sono beni ecclesiastici, in quanto hanno come soggetto di titolarità
non dei soggetti fisici, ma dei soggetti giuridici, per di più pubblici. Questi soggetti sono creati
dall’ordinamento canonico, che in tal modo conferisce loro la capacità di acquistare, ritenere,
amministrare e alienare i beni. Gli istituti religiosi in quanto persone giuridiche pubbliche sono
eretti dalla competente autorità della Chiesa, perché essi agiscano a nome suo per fini dalla stessa
autorità stabiliti. In quanto essi intendono raggiungere nel tempo fini ecclesiali, essi vengono resi
partecipi dei diritti della stessa Chiesa ai beni temporali. In questo modo i beni temporali delle
persone giuridiche pubbliche, e quindi anche degli istituti religiosi, sono detti “ecclesiastici”, in
quanto si posseggono a nome della Chiesa, sono governati dalle leggi della Chiesa, e devono
essere al servizio dei fini della Chiesa.
1) I Beni ecclesiastici sono retti dalle leggi della Chiesa.
L’espressione è tolta, anche se non letteralmente, dal can. 1257 § 1, il quale dopo aver dato la
nozione di bene ecclesiastico, afferma precisamente “reguntur canonibus qui sequuntur, necnon
propriis statutis”, ossia dal diritto universale e particolare o proprio. Ma vogliamo precisamente
sottolineare il nesso che esiste tra la nozione di beni ecclesiastici e il richiamo alla normativa che
li regola. I beni ecclesiastici se, in quanto sono beni temporali, potrebbero non differire dai beni
non ecclesiastici, come quelli in possesso dei fedeli o cittadini, od anche dello stato, dall’altra
parte in quanto sono beni al servizio dei fini della Chiesa rivestono una particolare natura e
partecipano della natura stessi dei fini della Chiesa. Per questo si dicono ecclesiastici, anche se il
loro dominio è presso le diverse persone giuridiche pubbliche. In realtà la definizione di bene
11
12
Peloso, art. cit.p. 125)
Peloso, art. cit., p. 125.
12
ecclesiastico è riservata, secondo il can. 1257, § 1, proprio ai beni di cui sono titolari di dominio
le persone giuridiche pubbliche della Chiesa, ossia presso quelle persone attraverso le quali opera
e si fa presente la Chiesa, per realizzare la propria missione. E’ opportuno ricordare il can. 116 §
1 che della persona giuridica pubblica dà la seguente definizione: “Personae iuridicae publicae
sunt universitates personarum aut rerum, quae ab ecclesiastica auctoritate competenti
constituuntur ut intra fines sibi praestitutos nomine Ecclesiae, ad normam praescriptorum iuris,
munus proprium intuitu boni publici ipsis commissum expleant”.
2) La Chiesa ha diritto proprio e nativo ai beni perché ha fini propri da raggiungere con mezzi
propri.
La Chiesa rivendica il diritto nativo e proprio, indipendente dalla autorità civile, ad acquistare,
ritenere, amministrare ed alienare i beni in quanto ha dei fini propri ed esclusivi da raggiungere
(cf. can. 1254 § 1). E come essa ha la esclusiva competenza sui fini propri, così ha la competenza
propria ed esclusiva sui mezzi temporali che le sono necessari per il raggiungimento di tali fini.
Le persone giuridiche pubbliche hanno la capacità di acquistare, ritenere, amministrare ed
alienare i beni temporali in quanto partecipano precisamente delle finalità della Chiesa.
L’esercizio di tale diritto avviene pertanto in base al diritto della Chiesa, sotto la sua vigilanza e
controllo, e in base alla norme che da essa sono date o approvate: diritto universale e particolare o
proprio delle singole persone giuridiche pubbliche.
3) Connessione tra beni temporali e fini
Il codice di diritto canonico all’inizio della legislazione sui beni temporali (Libro V)
nell’enunciare il principio del diritto della Chiesa ai beni temporali, collega direttamente tale
diritto ai fini propri ed esclusivi che essa è chiamata ad attuare.
Il can. 1254 § 1 afferma: “La Chiesa cattolica ha il diritto nativo, indipendentemente dal poter
civile, di acquistare, possedere, amministrare ed alienare beni temporali per conseguire i fini che
le sono propri”. Il vincolo tra il diritto ai beni e i fini è quanto mai significativo. I fini della
Chiesa sono soprannaturali. I beni temporali sono mezzi al servizio dei fini ecclesiali; sono realtà
temporali, che partecipano però, sia pure come mezzi, alle realtà soprannaturali della Chiesa. Dai
fini i beni temporali ricevano la loro dignità e il loro significato. La salvezza delle anime, con
tutte le azioni che essa comporta (apostolato, spiritualità, opere di carità, educazione, ecc.) non è
disgiunta dai beni temporali, ossia dai mezzi con i quali la Chiesa la persegue.
Di fatto i fini dei beni della Chiesa vengono riassunti nell’espressione ormai tradizionale, ripetuta
dal can. 1254 § 2: “I fini propri sono principalmente: organizzare il culto divino, provvedere ad
un onesto sostentamento del clero e degli altri ministri, esercitare opere di apostolato sacro e di
carità, specialmente a servizio dei poveri”.
3) Connessione tra responsabilità dei fini e dei mezzi temporali
Da quanto detto, segue necessariamente che chi ha la responsabilità dei fini della Chiesa ha
necessariamente un nesso con la responsabilità dei mezzi, compresi i beni temporali. Non fa
meraviglia pertanto leggere l’affermazione del can. 1273 sulla responsabilità del Papa e del can.
13
1276 sulla responsabilità degli ordinari circa i beni temporali. Il can. 1273 recita: “Il Romano
Pontefice, in forza del primato di governo, è il supremo amministratore e dispensatore di tutti i
beni ecclesiastici”. Il can. 1276 in due paragrafi stabilisce:
§ 1. Spetta all’ordinario di vigilare con cura sull’amministrazione di tutti i beni appartenenti alle
persone giuridiche pubbliche a lui soggette, salvo titoli legittimi per i quali gli si riconoscano più
ampi diritti.
§ 2. Gli Ordinari, tenuto conto dei diritti, delle legittime consuetudini e delle circostanze,
abbiano cura di ordinare l’intero complesso dell’amministrazione dei beni, dando speciali
istruzioni entro i limiti del diritto universale e particolare.
A tali norme fa eco la normativa del codice circa i beni degli istituti religiosi. Il can. 636, in due
paragrafi, stabilisce:
§ 1. In ogni istituto, e parimenti in ogni provincia retta da un Superiore maggiore, ci sia
l’economo, costituito a norma del diritto proprio e distinto dal Superiore maggiore, per
amministrare i beni sotto la direzione del rispettivo Superiore. Anche nelle comunità locali si
istituisca, per quanto è possibile, un economo distinto dal Superiore locale.
§ 2. Nel tempo e nel modo stabiliti dal diritto proprio, gli economi e gli altri amministratori
presentino all’autorità competente il rendiconto dell’amministrazione da loro condotta.
A tali norme, piuttosto generali, vanno aggiunte quelle specifiche, soprattutto quelle che
riguardano l’amministrazione straordinaria (cf. cann. 638, 1281) o le alienazioni (cf. cann. 638,
1291-1292, 1295) che coinvolgono maggiormente la responsabilità dei superiori. Da questi brevi
cenni è facile comprendere la rilevanza dei beni temporali per la vita della Chiesa e degli istituti
religiosi in particolare e la responsabilità che di essi hanno sia gli amministratori che i superiori,
sia pure con ruoli diversi.
La peculiare importanza dei beni temporali nella vita della chiesa e degli istituti deriva dal nesso
che essi hanno in ordine ai fini. In forza di tale nesso, i beni temporali e la loro amministrazione
hanno una grande incidenza sulla vita e la missione della Chiesa e come pure sulla vita, sul
carisma degli istituti religiosi. La costituzione Gaudium et Spes dopo aver affermato che “la
missione propria che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è d’ordine politico, economico e
sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso è di ordine religioso” (GS, 42), precisa “le cose terrene
e quelle che, nella condizione umana, superano questo mondo sono strettamente unite, e la
Chiesa stessa si serve di strumenti temporali nella misura in cui la propria missione lo richiede”.
Ed è precisamente la natura stessa della Chiesa che impone di operare in modo che i beni
temporali non oscurino la natura e i fini di essa. Richiamiamo in proposito quanto Paolo VI ebbe
a dire: “La necessità dei mezzi economici e materiali, con le conseguenze ch’essa comporta: di
cercarli, di richiederli, di amministrarli, non soverchi mai il concetto dei fini, a cui essi devono
servire e di cui deve sentire il freno del limite, la generosità dell’impiego, la spiritualità del
significato” (Osservatore Romano, 25 giugno 1970). Per quanto riguarda i religiosi, il codice
sottolinea come i beni, il loro uso e la loro amministrazione sono intimamente connessi con la
spiritualità, il fine, la missione e l’apostolato dell’istituto, al punto che ogni istituto deve stabilire
14
“norme adatte circa l’uso e l’amministrazione dei beni, perché sia favorita, tutelata e manifestata
la povertà che gli è propria” (can. 635, § 2).
Segue chiaramente che l’amministrazione dei beni, particolarmente nella vita della Chiesa e degli
istituti religiosi, non è semplicemente una questione tecnica di cui debbano occuparsi delle
persone con capacità tecniche, ma riguarda la vita dell’istituto in tutti i suoi settori (apostolato,
spiritualità, formazione, ecc.) e in tutte le sue componenti. Ma peculiare è certamente il ruolo dei
superiori e degli economi, che sono chiamati ad operare insieme, secondo le norme della Chiesa e
del diritto proprio, nel rispetto del ruolo e delle competenze di ciascuno.
4)I Beni ecclesiastici devono corrispondere alla natura e allo spirito della Chiesa.
Va anche subito aggiunto che il fatto che i beni temporali vengono posti al servizio della Chiesa e
delle sue finalità implica anche che essi devono essere amministrati anche secondo la natura
stessa della Chiesa e lo spirito che la anima. Il Concilio Vaticano II, dopo aver richiamato che la
natura e la missione della Chiesa, non è politica, ma religiosa, precisa subito che i beni ai quali
essa ha diritto devono rispondere alla natura stessa della Chiesa e ai criteri evangelici,
consapevole che essa si fonda non sulla potenza e sulla logica dei mezzi umani, ma sulla forza
dello Spirito.
5) Il servizio del diritto e la natura della persona giuridica e le sue finalità.
In questa linea si comprende anche che il diritto non è semplicemente una forma esterna,
puramente tecnica e formale. La norma in realtà ha una forma precisa secondo la natura della
persona giuridica al cui servizio di pone e in base alle finalità alle quali deve servire. Sotto certi
aspetti si può paragonare ad un abito che risponde alla persona che lo indossa e al ruolo che la
persona stessa vuole esprimere. Affermare allora che i beni temporali sono retti dalle leggi della
Chiesa significa che i beni devono essere amministrati secondo le finalità e la natura della stessa
Chiesa, secondo la sua missione e le modalità con le quali tale missione deve essere attuata.
Se la Chiesa pone un nesso tra la nozione di beni ecclesiastici e il principio della necessità che
essi siano retti dalle leggi canoniche, non si può neppure dimenticare che la nozione di bene
ecclesiastico non è legata solo ai fini, ma anche al soggetto che è titolare di tali beni, ossia le
persone giuridiche pubbliche, che, come abbiamo richiamato, sono costituite dall’autorità
ecclesiastica, agiscono a nome della Chiesa, per raggiungere un bene comune della stessa Chiesa.
Ciò significa da una parte che una persona giuridica pubblica della Chiesa può rivendicare i beni
temporali ecclesiastici solo in quanto è un soggetto pubblico della Chiesa e opera per fini
propriamente ecclesiastici; dall’altra significa anche che i fini ecclesiastici presuppongono
sempre alla radice soggetti ecclesiastici pubblici. Tutto questo pone il delicato problema di enti
ecclesiastici che ricorrono con una certa facilità ad apparire con la personalità giuridica civile, a
volte addirittura come enti commerciali, senza che esistano motivi di necessità, in quanto gli
ordinamenti civili riconoscono gli enti ecclesiastici. Tale presentazione infatti ricopre gli enti
ecclesiastici con un “abito” che non è loro proprio, li sottopone ad una legislazione che
propriamente è loro estranea, in quanto animata da ben altro spirito, li sottopone ad un governo
15
che non è quello contemplato dallo stesso ordinamento canonico e li sottrae, da un punto di vista
legale, al controllo e alla vigilanza dei superiori canonici.
6) Legge canonica e legge civile canonizzata o no.
Si può obbiettare che di fatto la legislazione canonica è molto limitata, in quanto l’ordinamento
canonico, in questa materia ricorre abbondantemente al rinvio e alla canonizzazione della legge
civile (cf. cann. 22, 197, 1290). Per di più tante volte gli ordinamenti civili non riconoscono
l’ordinamento canonico e la personalità giuridica canonica. Si tratta di argomenti di grande peso.
Ma è necessario che cerchiamo di capire di più. E’ vero che molte volte gli ordinamenti civili non
riconoscono la personalità giuridica canonica. Di fronte alla necessità non rimangono vie di
uscita. Ciò è previsto dallo stesso ordinamento canonico. Rimangono tuttavia alcuni strumenti
che si possono attivare per conservare per quanto è possibile all’ente la natura propria
dell’ordinamento canonico e soprattutto la possibilità di raggiungere le proprie finalità. Il
principio stabilito dal can. 1295 a proposito delle alienazioni può valere anche per altri aspetti che
riguardano i beni temporali delle persone giuridiche canoniche, là dove si dice di conformare gli
statuti delle persone giuridiche canoniche alle norme canoniche in modo che queste, se non
vengono riconosciute come norme canoniche, possono valere davanti agli ordinamenti civili
attraverso gli statuti propri della persona giuridica. In linea generale si dovrebbe ricordare che
una persona canonica costretta per necessità a rivestire la forma giuridica civilistica in realtà è
una persona giuridica canonica che deve essere amministrata secondo la legislazione canonica.
Se è vero poi che la Chiesa per l’amministrazione dei beni temporali ricorre in gran parte, per
motivi più che ragionevoli, alla canonizzazione delle leggi civili, va pure richiamato che tale
canonizzazione è fatta sempre con la clausola “a meno che non sia contro il diritto divino o il
diritto canonico non disponga diversamente”. Si tratta di una clausola che bene evidenzia il
significato del diritto nella Chiesa. Esso è normativo solo se rimane dentro il solco del diritto
divino e si inserisce nel progetto salvifico divino. Ma soprattutto va richiamato che nelle poche
norme che il diritto universale offre è in funzione di una protezione della identità dei beni
temporali della Chiesa in genere e il diritto particolare o proprio è in funzione del significato e
della peculiarità della persona giuridica pubblica che esso intende regolare.
7) Alcune Norme canoniche significative
a) Rispetto della volontà dei fedeli
Tra le norme di diritto universale, vanno ricordate particolarmente alcune che meglio
caratterizzano il senso dei beni temporali della Chiesa e il modo di amministrarli. Sotto questo
profilo, oltre al can. 1257 § 1 che offre la definizione stessa dei beni temporali ecclesiastici, e i
cann. 1254 e 1255 che trattano rispettivamente del diritto della Chiesa ai beni ecclesiastici in
relazione ai fini e delle persone che hanno la capacità giuridica di acquistare, si dovrebbe
richiamare il diritto/dovere dei fedeli a sostenere la Chiesa per le sue finalità con le loro offerte,
sia libere che richieste (cf. titolo I, de acquisitione bonorum, cann. 1259ss) e soprattutto il
principio del can. 1267 § 3 che stabilisce che “oblationes a fidelibus ad certum finem factae,
nonnisi ad eundem finem destinari possunt”. Si tratta di un principio di fondamentale importanza
16
che viene richiamato anche dal can. 1300, quando prescrive che le volontà dei fedeli
“diligentissime impleantur etiam circa modum administrationis et erogationem bonorum, firmo
praescripto can. 1301, § 3)”. E’ una norma che sta alla base di tutta la legislazione sulle cause
pie, particolarmente sulle offerte per le intenzioni di sante Messe. In particolare va richiamato il
can. 1282 che stabilisce: “Omnes, sive clerici sive laici, qui legitimo titulo aprtes habent in
administratione bonorum ecclesiasticorum, munera sua dimplere tenentur nomine Ecclesiae, ad
normam iuris”.
b) La competente autorità ecclesiastica
Si possono richiamare pure alla memoria le norme che riguardano la competente autorità della
gerarchia ecclesiastica sull’amministrazione dei beni, a cominciare dal Romano Pontefice (cf.
cann. 1256, 1273) e del Vescovo e ordinario con il loro potere di vigilanza o addirittura di
amministrazione (can. 1276, 1277), particolarmente per quanto riguarda gli atti di
amministrazione straordinaria o di alienazione (cf. cann. 1277, 1281, 1292).
4. I beni degli istituti religiosi nel contesto e all’interno della Chiesa
Nel contesto della Chiesa vanno compresi anche gli istituti religiosi, i quali, pur non
appartenendo alla struttura gerarchica della Chiesa, fanno parte del suo mistero di vita e di
santità. “I religiosi con il loro stato testimoniano in modo splendido ed esimio che il mondo non
può essere trasfigurato e offerto a Dio, senza lo spirito delle beatitudini” (LG, 31). “La vita
consacrata si pone nel cuore stesso della Chiesa come elemento decisivo per la sua missione,
giacché <<esprime l’intima natura della vocazione cristiana>> e la tensione di tutta la ChiesaSposa verso l’unione con l’unico Sposo” (VC, 3).
Gli Istituti religiosi, come la Chiesa, hanno bisogno di risorse umane, per raggiungere la loro
missione; tuttavia non fanno affidamento sui mezzi umani, ma su quelli della grazia. Gli istituti
religiosi eretti canonicamente dalla Chiesa, ricevono dalla stessa la missione da adempiere nel
mondo in suo nome (cf. can. 675, § 3), essi pertanto devono agire in modo che siano lo specchio
della stessa realtà misterica della Chiesa13.
Per i religiosi sono particolarmente significativi i pochi canoni che regolano l’amministrazione
dei beni che ad essi appartengono (cann. 634-640). E’ già rilevante che la materia venga trattata
sotto il capitolo che parla del governo degli istituti. Di fatto l’amministrazione dei beni temporali
implica la partecipazione al governo della Chiesa, sia pure a livello di cose temporali. Gli atti
amministrativi sono atti del potere amministrativo, al quale gli economi partecipano. Ma i beni
sono in funzione della missione dell’istituto religioso; e come i beni sono in funzione delle
persone e della missione, così gli amministratori dei beni non possono essere autonomi dai
responsabili della vita dell’istituto e della sua missione. Di fatto i superiori religiosi, in quanto
responsabili della missione dell’istituto, sono responsabili anche dell’amministrazione, anche se
non possono ricoprire l’ufficio di amministratore (can. 636, § 1). Questo però non può
amministrare autonomamente, ma deve farlo sotto le direttive del superiore. Si comprende
13
VC, introduzione.
17
pertanto la norma del can. 636 § 1 che afferma che l’economo amministra i beni sotto la
direzione dei rispettivi superiori e che l’economo debba periodicamente rendere conto della
amministrazione ai superiori (cf. can. 636 § 2). Quanto poi agli atti di amministrazione
straordinaria o di alienazione, i superiori non solo hanno la responsabilità dell’amministrazione in
genere ma sono chiamati essi stessi a porre in prima persona tali atti (can. 638). Anzi in alcuni
atti di alienazione è coinvolta la stessa Santa Sede, che deve intervenire per dare la propria
autorizzazione (can. 638, § 3).
Di fatto l’amministrazione dei beni dell’istituto non è una questione puramente tecnica. Neppure
dal punto di vista del modo di amministrare. Il can. 635 § 2 prevede infatti delle norme proprie
circa l’uso e l’amministrazione dei beni temporali, in modo che la povertà propria di ogni istituto
sia promossa, difesa ed espressa.
Infine, il can. 640 chiama in causa questioni di maggiore rilievo e profondità: “Gli istituti, tenuto
conto dei singoli luoghi, si adoperino per dare una testimonianza in modo collettiva di carità e di
povertà e, nella misura delle proprie disponibilità, destinino qualcosa dei propri beni per le
necessità della Chiesa e per contribuire a soccorrere i bisognosi”.
5.Corresponsabilità di tutti
Una visione spiritualista gnostica, che non è per nulla spirituale, disdegna di interessarsi delle
cose temporali. E’ molto diffusa tra i religiosi, soprattutto se superiori. Questi infatti non trovano
mai tempo per interessarsi delle questioni riguardanti i beni temporali. A livello di consigli
relegano l’argomento all’ultimo punto; spesso manca il tempo necessario per un esame attento
dei problemi di ordine economico. Scaricano la questione come tecnica sulle spalle
dell’economo, il quale per altro non deve far mancare nulla14. In realtà proprio perché la povertà
caratterizza il carisma e la spiritualità di un istituto, l’economia non può non essere responsabilità
di tutti i religiosi, e soprattutto dei superiori, sotto le cui direttive gli economi devono agire. In
una visione spirituale cristiana come non si può contrapporre corpo ed anima, così non si possono
14
Peloso, Vita consacrata, p. 120., descrive bene questa situazione: “In una visione manichea, capita che
ci sono quelli che non vogliono contaminarsi: <<che ci pensi un altro, io non tocco i soldi, ma che non mi
manchino>>. In realtà, dopo il confessore, è l’economo che più di ogni altro –controllando bene i
comportamenti e i rendiconti- conosce lo stato di salute spirituale di un religioso o di una casa. Certo, l’uso
del denaro e il rapporto con i beni ha molto a che vedere con la qualità spirituale e apostolica di persone e
comunità.
C’è chi demonizza l’economia, mentre il vangelo elogia il buon amministratore (cfr. Mt. 25, 14-30). D’altra
parte, capita che ci sono amministratori che impongono la figura del faccendiere onnipotente che <<ci sa
fare>>, che spadroneggia, che si prende tutto come un affare personale, che non rende conto a nessuno,
ma trova i soldi, i permessi dei superiori e anche il rispetto interessato dei confratelli cui non manca
niente. Questo atteggiamento di relegare l’economia in una specie di <<area riservata>>, come se fosse
un tema meno spirituale, si verifica, ad esempio, quando l’economo si attiva solo quando c’è una
questione di soldi, oppure quando in un Consiglio si tende a mettere i temi economici alla fine di
lunghissime sedute, dedicandovi i cascami del tempo, si verifica quando all’economo si chiede che faccia
presto, che dia le buone notizie delle entrate, che risparmi il dispiacere delle uscite e, soprattutto, che le
grane con enti e istituzioni, avvocati e tribunali le risolva lui e, se può, se le tenga per sé, che di queste
cose non si occupano gli uomini spirituali. Con questa dicotomia è sempre più difficile trovare religiosi che
vogliano svolgere il ruolo di economi ed economi che lo facciano con criteri religiosi chiari”.
18
contrapporre esigenze spirituali e esigenze materiali. Di fatto le esigenze materiali condizionano
enormemente la vita spirituale. Lo Spirito di Dio come anima il corpo è all’opera anche per
l’animazione e la spiritualizzazione delle cose temporali, attraverso uomini autenticamente
spirituali.
6.L’importanza del ruolo del buon economo:
Ma è innegabile che una peculiare responsabilità spetta propriamente a colui che
istituzionalmente ha l’ufficio di amministrare i beni temporali. Il codice, parlando dell’economo,
afferma anzitutto che egli deve adempiere i suoi compiti a nome della Chiesa (can. 1282), alla
quale in definitiva appartengono i beni. Si tratta infatti di beni ecclesiastici che, tendendo come
fine ultimo alla salus animarum, partecipano del significato salvifico di tutti i mezzi di cui la
Chiesa dispone per compiere la sua missione nel tempo. Più specificamente il compito
dell’economo è descritto nel can. 636 in relazione al superiore. Egli esercita la sua funzione sotto
la direzione del superiore proprio perché l’amministrazione fa parte precisamente del carisma,
dell’apostolato e della spiritualità dell’Istituto di cui, in modo del tutto particolare, i superiori
hanno la primaria responsabilità. In questa prospettiva e in questo senso è pienamente da
condividere quanto scrive P. Peloso: “Con riferimento al nostro tema specifico, è da riconoscere
che il ruolo del religioso economo nell’Istituto e nelle singole comunità è decisivo per il buon
funzionamento del dinamismo che lega economia, vita religiosa e missione. Di tale dinamismo
globale egli è il promotore e il garante. Non può egli ridursi a svolgere un disincarnato servizio
tecnico-amministrativo e neppure può prescindere giustificandosi che si occupa dei soli aspetti
religiosi. Infatti, è impossibile scindere la povertà dall’economia, la comunione fraterna dai
rapporti amministrativi. <<Quando occorra, bisogna provocare la <<cattiva coscienza>> in chi
non vive la vita di povertà professata nella congregazione>>. Molta parte della fedeltà alla vita
religiosa passa per una buona gestione economica, specialmente in una Congregazione di vita
attiva, che gestisce opere spesso complesse. Molte aspirazioni ad una maggiore autenticità di vita
religiosa vivono o muoiono a seconda della qualità dell’amministrazione. Il ruolo dell’economo
deve essere bene collocato <<in quanto collaboratore del Direttore e del suo consiglio>>, sia a
livello locale, provinciale che generale; è amministratore dei beni <<sotto la direzione del
rispettivo Superiore” (can. 636 § 1). In tal senso va giudicata la bontà o meno della tendenza in
alcuni Istituti di nominare economo generale o provinciale un religioso non membro del
Consiglio. Come evitare che tale scelta porti a minore coinvolgimento dell’economo nel governo
globale della Provincia/Istituto, a discapito della valenza spirituale e apostolica dell’economia e
delle reciproche implicanze tra economia, vita consacrata e missione? Come evitare, che la
presenza tecnico-settoriale dell’Economo nel Consiglio non si trasformi in un segno di quella
deleteria dicotomia sopra segnalata?”15.
Tale responsabilità va particolarmente sottolineata, perché data la attuale situazione
dell’economia, molto complessa, il rischio di affidarsi semplicemente ai tecnici è molto grosso.
In realtà l’economia negli istituti religiosi, se ha chiaramente degli aspetti tecnici, non è prima di
tutto e meno ancora esclusivamente una questione tecnica. Sono ancora una volta da sottoscriver
pertanto le riflessioni di P. Peloso: “Altro elemento di crisi per il ruolo dell’economo è dato dalla
15
Peloso, Vita Consacrata, p. 122.
19
esigenza delle competenze tecnico-professionali che esso comporta. Molto spesso mancano le
persone adatte oppure, a causa degli avvicendamenti, manca il tempo per una sufficiente
preparazione ed esperienza. Ciò può causare una sopravvalutazione del ruolo degli
amministratori laici, perché in genere più competenti e stabili dei religiosi economi. La
conseguenza pratica è che Case, Province e Congregazioni finiscono per dipendere di fatto, dai
<<consulenti>> o <<amministratori>> laici in scelte che non sono puramente di carattere
tecnico-amministrativo”16. La questione diventa ancora più seria, qualora si pensa di affidare la
stessa amministrazione a dei tecnici laici esterni all’Istituto. Condividiamo ancora una volta le
preoccupazioni di P. Peloso: “Anche più gravida di conseguenze sarebbe la scelta di affidare a
laici non solo compiti di collaborazione amministrativa, ma addirittura il ruolo di economo in un
Istituto religioso. Non è in questione la fiducia e la valorizzazione dei laici, ma l’inalienabile
competenza e responsabilità <<religiosa>> che deve avere l’effettiva priorità su quella
<<tecnico-amministrativa>>17. Come canonista, voglio aggiungere che una eventuale scelta di un
economo laico, non membro dell’istituto sarebbe al di fuori e contro la legislazione canonica.
Anche se non esiste nessuna norma esplicita che proibisca tale scelta, essa non può giustificarsi.
Se tale argomento da solo fosse valido dovremmo concludere che neppure i consiglieri generali o
provinciali debbano essere religiosi dell’istituto, perché in nessuna norma canonica ciò è scritto.
Ugualmente si dovrebbe dire per il rappresentante legale, e così via discorrendo. In realtà se
l’economo deve agire sotto la responsabilità del superiore e se l’economia è intimamente
congiunta con la spiritualità e la missione dell’Istituto va da sé che può amministrare i beni
dell’istituto solo uno che è membro dell’istituto stesso. Non per nulla il diritto proprio della
generalità degli istituti ha interpretato così la legislazione canonica. Il problema è stato posto in
qualche caso solo recentemente ma proprio perché gli istituti si sono trovati di fronte alle
difficoltà derivanti dalle complessità dell’economia moderna e dalla scarsità di personale. E vi è
stato chi lo ha risolto nel senso di ricorrere ad un economo laico esterno, proprio perché si è
incorsi nell’errore di pensare che l’economia sia una questione prevalentemente, anzi
esclusivamente tecnica. La lettera e lo spirito del documento che è oggetto della nostra riflessione
segnano chiaramente una inversione di tendenza. Non si può scindere l’economia dalla vita
religiosa; la tecnica dell’economia dalla responsabilità politica delle scelte in servizio dalla
missione. Anzi la tecnica deve essere al servizio della “politica” e della missione dell’istituto.
Altra è giustamente la strada da percorrere, come ancora una volta suggerisce il P. Peloso: “Un
buon religioso economo, oggi, dovrebbe concepirsi come l’<<allenatore>> di una squadra ben
scelta e amalgamata nel comune obiettivo da raggiungere. L’Allenatore non deve scendere in
campo, non è uno a fianco degli altri, ma deve sapere tutto dei suoi giocatori, delle metodologie e
degli schemi di lavoro, delle condizioni ambientali e degli avversari da affrontare, deve saper
ricorrere a tecniche preparatorie, ad altri esperti. Il religioso economo deve fare <<gioco di
squadra>> e, fuori metafora, porsi come punto di sintesi tra le dinamiche amministrative (che
quindi deve conoscere) e quelle religiose per aiutare le decisioni che vengono prese dai superiori
nei consigli. Solo un buon religioso economo può evitare o guidare alla soluzione di eventuali
<<problemi e comportamenti poco opportuni, messi in atto in diversi luoghi e in alcune
16
17
Peloso, Vita Consacrata, p. 122
Peloso, Vita Consacrata, p. 122.
20
congregazioni religiose a causa di errori nel gestire e nell’investire il denaro”18. E’ da salutare
positivamente pertanto anche il suggerimento seguente: “Da ultimo, un suggerimento: non si
potrebbe prevedere anche per religiosi <<economi>> dei corsi teorico-pratici come già in varie
nazioni sono stati ottimamente organizzati per religiosi <<formatori>>, religiosi <<missionari>>,
religiosi <<educatori>>, ecc., nei quali lo specifico è l’integrazione delle competenze settoriali
con le motivazioni e dinamiche religiose”19. Tuttavia rimane fermo che la responsabilità ultima
anche dell’economia non spetta neppure all’economo, ma al superiore.
7. Le risorse economiche:
1) L’acquisizione delle risorse
“Fondamentalmente sono quattro le modalità di acquisizione di beni economici negli Istituti di
vita consacrata: le donazioni, il lavoro dei religiosi, le entrate legate alle opere, gli interessi
maturati dal capitale. E’ chiaro che la diversa proporzione di queste quattro voci di entrate
economiche non incide solo sul sistema economico di un Istituto, ma anche sulla sua mentalità,
sulla sua spiritualità, sui rapporti comunitari, sull’impegno lavorativo-apostolico”20. “Un fatto è
certo: il tipo di acquisizione delle risorse economiche ha notevole rilevanza sulla vita religiosa e
la missione, quindi non basta accontentarsi che entri denaro. Occorre fare scelte e gestire
l’acquisizione delle risorse in base a criteri etici e carismatici. Diversamente si ingenererà un
cambio di mentalità e di identità di cui nessuno si sente responsabile e a cui non si potrà reagire
in termini di richiami ideali o esortazioni spirituali”21.
2) L’investimento delle risorse economiche
“Anche nell’economia degli Istituti di vita consacrata si è verificato il fenomeno della progressiva
diminuzione di importanza del patrimonio immobiliare e della progressiva finanziarizzazione
dell’economia dovuta alla crescita di importanza del denaro”22.
“L’individuazione di alcuni criteri nella gestione degli investimenti negli Istituti di Vita
consacrata è diventata un’urgenza su cui necessita confrontarsi serenamente ma anche
coerentemente, pena la dissoluzione dell’identità della vita consacrata” (Peloso, art. cit., p. 133).
Alcuni criteri: 1)La testimonianza della povertà (Va ricordato che la testimonianza della povertà
è possibile solo se è personale, e comunitaria, privata e pubblica, spirituale e materiale; 2)La
finalità apostolica del denaro; 3)La qualità dell’investimento (eticità e moralità!).
III. Responsabilità dei superiori, ruolo degli economi e dei consigli.
1. Osservazioni generali.
18
19
20
21
22
Peloso, Vita Consacrata, p. 123
Peloso, Vita Consacrata, p. 123.
Peloso, art. cit. p. 132.
Peloso, art. cit., p. 133Peloso, art. cit., p. 133-
21
Gli istituti di vita consacrata hanno in genere diversi livelli di organizzazione, che assumono
anche diversi significati secondo la storia e il carisma di ciascuno. L’organizzazione più comune,
prevista dal codice, è quella che si realizza a tre livelli: generale, provinciale, locale. Nella prassi
la realtà è più varia. Non va neppure dimenticato che esistono anche delle attività o opere, che
possono avere una propria organizzazione.
Ad ogni livello è previsto un governo, che, con l’autorità che possiede, può dare unità e spingere
alla realizzazione delle finalità proprie. Il governo riguarda le persone e le cose. Ad ogni livello il
codice di diritto canonico prevede un responsabile o superiore nel governo circa le persone e un
responsabile o un economo circa i beni. A volte i due uffici possono essere cumulati nella stessa
persona, altre volte invece devono essere affidati a due persone diverse. In genere spetta
propriamente al superiore essere il punto di riferimento e il centro di unità. Pertanto, anche se il
superiore non è chiamato a svolgere ogni funzione nella comunità, ha però la responsabilità di
tutto ciò che esiste o accada nella comunità. In particolare il superiore ha la responsabilità anche
dell’aspetto economico-amministrativo, anche se non è economo. Del resto tutto è in funzione
delle persone. Chi ha la responsabilità delle persone non può non avere anche la responsabilità
della economia. D’altra parte il codice, quando vieta che il superiore sia anche economo, vuole
evitare che il superiore impegnato nelle cose economiche trascuri l’impegno primario delle
persone. Per quanto riguarda gli istituti religiosi, il codice ammette la compatibilità dell’ufficio di
economo con quello di superiore locale, mentre vieta espressamente la compatibilità tra economo
e superiore maggiore, generale o provinciale.
Quando i due uffici sono affidati a persone distinte, è necessario conservare l’unità nel governo
della persona giuridica. La legislazione garantisce tale unità affidando il compito di unità al
superiore, subordinando pertanto l’economo al superiore. Il superiore, quando non è economo,
deve lasciare all’economo la funzione amministrativa.
2.Relazione tra l'amministratore e il superiore
Il c. 1279 stabilisce il principio generale che chi regge la persona giuridica ne è anche
l'amministratore. Ammette però che il diritto sia universale che particolare e proprio o gli statuti
possano disporre diversamente. Di fatto in non pochi casi lo stesso Codice stabilisce
incompatibilità tra l'ufficio di superiore e quello di amministratore della persona giuridica. Nel caso
della distinzione quale può essere la relazione tra i due? Premesso che la domanda deve trovare la
risposta esaustiva nel diritto che regola la persona giuridica che prevede la distinzione, indichiamo
la risposta che risulta dallo stesso Codice per quanto riguarda la diocesi e gli istituti religiosi.
Il Codice prevede che il Vescovo sia il rappresentante legale della diocesi in tutti i negozi giuridici
(c. 393), come pure indica il Vescovo come colui che pone gli atti di amministrazione
straordinaria o ordinaria di maggiore importanza (c. 1277), come pure gli atti di alienazione (c.
1292, par.1). Egli però non può essere l'amministratore dei beni diocesani; deve infatti nominare
un economo con il compito di "amministrare i beni della diocesi sotto l'autorità del vescovo
22
diocesano" (c. 1494). L'economo che fosse eletto amministratore diocesano deve provvisoriamente
rinunciare all'ufficio (c. 423).
Il diritto dei religiosi impone la distinzione degli uffici di economo generale e provinciale da quello
rispettivamente di superiore generale e provinciale, e la raccomanda per l'ufficio di economo
locale e superiore locale (c. 636, par.1).
La distinzione tuttavia non priva il superiore di responsabilità in campo amministrativo. Il Vescovo
presiede il consiglio di amministrazione (c. 492, par.1), pone atti amministrativi (c. 1277);
l'economo agisce "sotto l'autorità del Vescovo" (c. 494, par.3); lo stesso consiglio per gli affari
economici opera "secondo le indicazioni del Vescovo" (c. 493). L'economo religioso deve
condurre l'amministrazione sotto la direzione del rispettivo superiore (c. 636, par.1). Lo stesso
superiore pone gli atti amministrativi, sia straordinari che ordinari. Il c. 638, par.2 afferma: "Le
spese e gli atti giuridici di amministrazione ordinaria sono posti validamente, oltre che dai
Superiori, anche dagli ufficiali a ciò designati dal diritto proprio, nei limiti del loro ufficio". Non si
fa cenno degli atti di amministrazione straordinaria perché la decisione di questi spetta al superiore
nelle modalità già indicate sopra. La questione è dunque solo per l'amministrazione ordinaria.
Da tali testi risulta chiaro un intimo nesso tra il governo e l'amministrazione dei beni. L'
amministrazione dei beni fa parte del governo della persona giuridica; essa può far capo alla stessa
persona, o avere due persone diverse. La distinzione va mantenuta dove il Codice la impone. Il
diritto comune la prescrive in particolare per uffici di governo che assumono una speciale gravità
sia per il cumulo degli oneri che comportano, sia per la particolare responsabilità che l'ufficio di
superiore richiede. Tali considerazioni valgono soprattutto per l'ufficio episcopale e per gli uffici
di alcuni superiori maggiori degli istituti religiosi. In tali casi il legislatore considera necessario
che il superiore affidi ad altri i compiti amministrativi, creando una incompatibilità tra ufficio di
superiore e quello di amministratore. Con ciò il superiore non perde la responsabilità
dell'amministrazione della persona giuridica alla quale è preposto. Gli economi, pur godendo di un
ampio spazio di autonomia, definita dall'ufficio stesso, secondo il diritto, e quindi pur godendo di
poteri propri, in quanto inerenti all'ufficio stesso (c. 131), sono, in forza dello stesso ufficio,
subordinati al superiore competente: essi assolvono i loro compiti derivati dall'ufficio sotto la
direzione del superiore competente.
E' vero che il superiore può porre validamente gli atti di amministrazione ordinaria (c. 638, par.2).
Un superiore però che ponesse abitualmente atti amministrativi ordinari si sostituirebbe
all'economo, assolvendone le funzioni, violando lo spirito e la lettera della norma, e agendo così
illegittimamente.
23
3. Amministratori e consigli di amministrazione.
Anche se gli atti amministrativi sono posti dai superiori e dagli economi, non va dimenticato che
l'atto amministrativo, particolarmente se di amministrazione straordinaria, esige prudenza ,
ponderazione e consiglio. Il c. 1280 impone ad ogni persona giuridica l'obbligo di avere un
consiglio di amministrazione o anche dei consiglieri che coadiuvano gli amministratori con il loro
consiglio e talvolta con il loro consenso, a norma di diritto, nel portare avanti un amministrazione
oculata. Un consiglio di amministrazione è previsto per la diocesi (c. 1492), per la parrocchia (c.
537), per gli istituti religiosi è lo stesso consiglio che i superiori devono avere come aiuto nel loro
governo (c. 627). Va ricordato che tali organismi non sono propriamente di governo, ma di
consiglio e di partecipazione. Il superiore, quando, per agire, deve avere previamente, in base al
diritto universale e particolare o proprio o per statuto, il consenso o il parere di tali organismi, deve
agire nel rigoroso rispetto delle norme dettate dal c. 127, che includono parecchie clausule
invalidanti.
4. Atto amministrativo e controllo dell'autorità superiore
In non pochi casi l'atto amministrativo deve sottostare al controllo dell'autorità superiore, sia
preventivo che susseguente. Il controllo susseguente si realizza mediante il rendiconto, di cui
abbiamo parlato sopra. Quello preventivo si esprime con la esigenza del permesso o della licenza
previamente all'atto amministrativo. Così gli amministratori hanno bisogno della licenza prima di
introdurre una lite o di contestarla (c. 1288), come pure prima di alienare i beni (cc. 1291 e 638,
par.3) e comunque ogni volta che si tratti di atti di amministrazione straordinaria. Tale licenza è in
genere per la validità dell'atto. Essa però non è un atto di amministrazione, ma un requisito
necessario per l'atto di amministrazione (c. 124, par. 1); non ne è un elemento costitutivo né
essenziale. Il superiore che dà la licenza non è propriamente responsabile dell'atto amministrativo;
egli non dà un mandato, ma autorizza semplicemente un atto, dandogli via libera, senza per altro
assumersene la responsabilità. Rientra nel potere di controllo, non di amministrazione.
5. Alcuni principi che presiedono l'amministrazione dei beni ecclesiastici.
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1) L'amministrazione riguarda i beni ecclesiastici, cioè delle persone giuridiche pubbliche,
attraverso le quali la Chiesa raggiunge i propri fini soprannaturali. L' amministratore ecclesiastico
pertanto deve amministrare i beni a nome della Chiesa, secondo le norme della Chiesa, secondo la
natura e la missione della Chiesa, nel rispetto delle finalità proprie dei beni ecclesiastici.
2) L'amministrazione va fatta sempre sotto la vigilanza dei superiori ecclesiastici, sia della Santa
Sede (cc. 1255, 1256, 1273), sia degli Ordinari (c. 1276), sia dei superiori religiosi (cc. 1276,636).
3) Vanno osservate sempre le volontà dei fedeli, trattandosi di volontà pie, che hanno cioè un fine e
una motivazione religiosa, di culto e quindi di relazione con Dio. Perciò le offerte date per
determinati fini non possono essere destinate che per quel fine (cc. 1267, par.3, 1308).
4) I beni devono essere amministrati con prudenza, in modo che si evitino pericoli per essi ed
anche scandali per la Chiesa. Numerosi sono i canoni che possono essere letti in questi
prospettiva. Tutta la legislazione della Chiesa del resto tende a questo (cf. cc. 1279, 1280, 1288,
1281, par.2, 1289, 1292, par.4, confrontati con i cc. 127, par.3, 1277, 1281, 1292, 638). In genere
si può dire che a tale scopo tendono soprattutto le norme che riguardano i consigli di
amministrazione, i consensi e i pareri da ottenere, quando il diritto li prescrive, le licenze e i
permessi debiti.
5) L'amministrazione va fatta nell'osservanza delle leggi civili, sia perché canonizzate dalla Chiesa
(ed allora si tratta propriamente di leggi ecclesiastiche!) (cc. 22,197, 1290), sia per precauzione
(cc. 668, par. 4,1274, par.5, 1284, par.2,2,1284, par.2,3), sia perché esse obbligano per se stesse
(c. 1286).
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