i giovani vogliono lavorare nel welfare?

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i giovani vogliono lavorare nel welfare?
[ping-pong] POLITICHE
26 ∙ 4|2012 I GIOVANI VOGLIONO LAVORARE
NEL WELFARE?
Il sociale è cambiato, ma anche i giovani
non sono più quelli di una volta.
Intervista a Ariela Casartelli,
Gianluigi Rossetti, Luca Rumi,
Maria Rita Venturini, Ermellina Zanetti
a cura di Sonia Guarino
In questo numero abbiamo raccolto i pareri, le esperienze e i vissuti di
alcuni professionisti, che da tempo
operano nel sociale. Senza anticiparne i contenuti, si può comunque
affermare che il lavoro in ambito sociale e socio-sanitario, nonostante i
mutamenti incorsi negli anni, ritrova
ancor’oggi le sue motivazioni nel desiderio profondo dell’uomo di essere vicino ai suoi simili e di adoperarsi
per l’altro. Nel tempo questo atteggiamento, predisposizione, qualche
volta addirittura definito “vocazione”
è stato sempre più supportato dalla preparazione teorica, che ha trasformato questi mestieri in professioni, con un proprio sapere scientifico e tecnico di riferimento.
Intervista a Gianluigi
Rossetti, OSS *
Nel tempo, come è cambiato il
mondo del lavoro per gli ASA/
OSS?
Io ho iniziato questa professione
nel 1986. All’epoca c’erano, per
quello che ne sapevo, due soli tipi
di realtà in questo senso: l’ospizio,
come veniva chiamato al tempo, e
l’assistenza domiciliare. Ho fatto
entrambi, nel senso che sono entrato in struttura, dove, nel frattempo, oltre a lavorare, seguivo il corso di qualifica per ADB e per conseguire l’allora quarto livello, perché se non eri munito di questo attestato non potevi esercitare questa professione, né in struttura, né
come domiciliare.
Nei vari tirocini, ho passato un periodo anche all’assistenza domiciliare, ma personalmente, preferisco il lavoro in struttura, dove lavoro ormai da circa ventisei anni.
Oggi, come si può vedere, l’OSS
esercita in molte realtà assistenziali, chiaramente con mansioni diverse, a seconda che lavori in una
struttura protetta per anziani, o in
un ospedale. Nel tempo la professione è cambiata molto anche per
il tipo di ospiti che entrano in struttura. Il classico anziano autosufficiente che entrava, o perché messo dalla famiglia, o per sua spontanea volontà, magari dopo essere
rimasto solo alla morte del coniuge
e quindi per non volere essere, come si dice, di peso ai figli, non esiste più. Questo per due fattori, uno
prettamente di carattere economico e l’altro per l’arrivo del badantato. Oggi, quindi, noi assistiamo
solo due tipi di persone: l’Alzheimer e gli allettati, più o meno permanenti, un carico di lavoro psicologicamente e fisicamente non indifferente.
Quali tipi di giovani e con quali motivazioni si avvicinano alla
professione?
La maggior parte sono extracomunitarie e dell’est Europa, c’è
una percentuale anche di italiane,
ma da quello che vedo sono una
minoranza, e poi, sì, qualche maschietto qua e là! Ma questa, ancora oggi, è vista come una professione molto al femminile! Le
motivazioni? Penso principalmente che siano, avere un’opportunità
di lavorare ed essere indipendenti. Ma, ovviamente, devi avere anche altre motivazioni dentro di te,
perché questo lavoro non è proprio
una passeggiata, e quindi…
*] Si ringrazia il dottor Renato Dapero dell’Associazione Nazionale Operatori Sociali e Sociosanitari per la realizzazione dell’intervista.
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Gianluigi Rossetti
Vi sono differenze fra i professionisti di ieri e quelli di oggi?
La differenza sta nel fatto che quelli di ieri hanno svolto questa professione, diciamo così, partendo
dal nulla, nel senso che non vi erano corsi che ti potevano formare in
modo adeguato per affrontare questa realtà lavorativa. Tutto si basava sul buon senso delle persone e
su una esperienza che si costruiva
giorno per giorno. Ma detto questo, personalmente ritengo che una
persona che abbia conseguito questo titolo, oggi, che la rende abile
a fare l’OSS, debba sapere a cosa
va incontro, facendo una scelta in
questo senso, perché ci sono cose
che nessun corso ti può insegnare,
o comunque, possono anche farlo e sicuramente lo fanno, ma sei
tu in prima persona, molto sinceramente, che sai già se hai gli strumenti, umanamente parlando, per
svolgere questo lavoro, che non ti
fa sconti, che ti mette sempre alla prova, in tutto e per tutto, che ti
chiede più che molto! La pazien-
Per saperne di più
http://youtu.be/T7a9En_yaWE
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za, la costanza, ma anche l’umiltà
e una certa dose di rassegnazione,
che non vuol dire arrendersi, ma sapere che si lavora tantissimo e duramente e che i miracoli non li fa
nessuno, queste cose non te le insegna nessun corso, o sai di averle
oppure credo che dovresti cercare
altri orizzonti. Non è permesso improvvisare, in nessun tipo di realtà
lavorativa, men che meno in quelle
che hanno a che fare con la malattia o il disagio, con la morte.
Quali sono, secondo lei, le prospettive future per i giovani in
questo ambito lavorativo?
Oggi quella dell’OSS è una figura
presente in vari ambiti, dagli anziani al domiciliare ai disabili. Per
quello che ne so e quello che vedo, trovo parecchi corsi formativi
per accedere all’attestato di OSS,
in quanto poi, appunto, puoi scegliere quale indirizzo, diciamo così
vuoi seguire. Però, quello che dico sempre è che bisogna sapersi molto motivati, perché la realtà di queste professioni non ti fa
sconti.
Intervista a Maria Rita
Venturini, educatrice
Nel tempo, come è cambiato il
mondo del lavoro per gli educatori?
È cambiato il mondo del lavoro per
gli educatori perché nel tempo si
sono ampliati e modificati i servizi anche grazie al contributo degli stessi educatori. Si sono inoltre diversificati i problemi prioritari
socio-sanitari e di conseguenza le
risposte. Se all’esordio della professione (anni ’50) si prestava servizio in contesti residenziali chiusi, a partire dagli anni ’70 si è af-
fermata una nuova politica sociale che ha affrontato in termini nuovi i problemi dell’emarginazione e
dell’inclusione sociale e l’educatore ha cominciato a misurarsi con
la realtà dei servizi territoriali; negli anni ’80 abbiamo assistito alla chiusura delle “istituzioni totali” e sperimentato la progettazione territoriale con nuovi metodi di
intervento e cura. Successivamente si è dato ulteriore impulso a tale progettazione e si è intervenuti anche nell’ambito della prevenzione fino ad arrivare al periodo in
cui il sistema integrato del welfare è progettato e realizzato a livello
locale promuovendo la partecipazione attiva di tutte le persone. In
quest’arco di tempo molte diverse normative hanno previsto esplicitamente l’impiego dell’educatore
professionale, oppure hanno indicato funzioni educative relative alla
gestione di organizzazioni. In sintesi, oggi sono molteplici gli ambiti
e i servizi in cui l’educatore professionale opera, anche se la figura
trova un suo riconoscimento giuridico solo in ambito sanitario (d.m.
320/1998), mancando ancora una
regolamentazione in ambito sociale e socio-sanitario.
Quali tipi di giovani e con quali motivazioni si avvicinano alla
professione?
Senza addentrarci in studi sociologici, mi piace pensare (e comunque
nella mia esperienza è così) che i
giovani che scelgono di fare l’educatore concentrino la loro attenzione alla relazione con l’altro, alla persona e al suo benessere, al di
là delle diverse patologie o problematiche, senza però tralasciare di
curare la propria professione, tanto
bella quanto difficile e che richiede
conoscenze, saperi e competenze
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studi universitario specifico e attraverso un aggiornamento continuo.
assicurano stabilità, continuità e
certezze sia per loro stessi sia per i
soggetti con cui vanno ad operare.
Vi sono differenze fra i professionisti di ieri e quelli di oggi?
Possiamo identificare due macro
gruppi nella nostra realtà professionale: da una parte gli EP “storici e
stabili” e dall’altra i “nuovi e precari”. Gli EP di prima generazione, dai
40 ai 60 anni, sono nati sull’onda
di grandi battaglie ideologiche, con
la disponibilità a raccogliere molte
sfide che il mondo del lavoro procurava e tuttora forse procura loro,
considerano la retribuzione economica importante, ma altrettanto fondamentale il conseguimento
degli obiettivi professionali. La loro
formazione oltre che sul campo è
avvenuta nelle scuole professionali
incentrate sul sapere, sul saper fare e sul saper essere. Alcuni hanno
ancora forti difficoltà con le nuove
tecnologie, pur riconoscendo l’importanza del loro utilizzo. Alcuni si
sono sperimentati nell’organizzazione e gestione dei servizi mentre altri preferiscono restare in “prima linea”. Gli EP di nuova generazione sono coloro che sperimentano maggiormente il lavoro di cura a
diretto contatto con le persone, sicuramente si sanno muovere nella continua evoluzione tecnologica,
hanno conseguito il titolo in ambito universitario e sono freschi di saperi teorici, ma spesso si trovano
a fare i conti con la mancanza di
esperienza che invece viene richiesta dal mondo del lavoro. E allora
eccoli alla ricerca delle più diverse
esperienze che vanno dal volontariato di servizio civile, alle borse lavoro o a contratti atipici e temporanei, che se da una parte contribuiscono all’arricchimento di un curriculum esperienziale, dall’altra non
Quali sono, secondo lei, le prospettive future per i giovani in
questo ambito lavorativo?
In questo periodo non è facile parlare di prospettive per i giovani
perché sono proprio loro a fare le
spese maggiori della crisi che stiamo vivendo e che, sappiamo tutti,
non dipende solamente dalla congiuntura economica. Nello specifico, le prospettive per i futuri educatori professionali saranno migliori se si supereranno definitivamente gli approcci assistenzialistici, puntando su interventi di empowerment, se si interverrà sull’attuale “regolamentazione monca”,
facendo finalmente chiarezza a livello legislativo sulla figura dell’educatore professionale nei diversi
ambiti di intervento e se si farà una
programmazione seria sui fabbisogni formativi universitari della figura, sia a livello quantitativo che a livello qualitativo.
Intervista a Ermellina
Zanetti, vice presidente
Collegio Ipasvi, Brescia
Nel tempo, come è cambiato il
mondo del lavoro per gli infermieri?
In meno di vent’anni la professione ha vissuto radicali cambiamenti. Da professione ausiliaria a professione autonoma con uno specifico ambito d’azione e intervento.
Oltre che in ospedale oggi i professionisti, anche attraverso forme
autonome di esercizio della professione, lavorano nelle strutture
residenziali, nei servizi di assistenza domiciliare, nei gruppi di conti-
Ermellina Zanetti
nuità territoriale in collaborazione
con i medici di famiglia.
Recentemente si sta parlando di
un ampliamento delle competenze
degli infermieri (come peraltro già
avvenuto in Paesi come l’Inghilterra e il Canada) in alcune specifiche aree e tra queste l’area delle
cure primarie, dove ai professionisti saranno affidati compiti di screening e prevenzione di specifici
fattori di rischio e la presa in carico delle persone affette da fragilità, disabilità e patologie croniche
e con peculiari bisogni che richiedono interventi specifici e protratti nel tempo.
Quali tipi di giovani e con quali motivazioni si avvicinano alla
professione?
Da una recente ricerca realizzata dal Censis per la Federazione
dei Collegi Ipasvi (che rappresenta i 103 Collegi Infermieri provinciali e gli oltre 400.000 professionisti) emerge che vogliono fare l’infermiere sempre di più i liceali (erano il 46% tra le matricole di Scienze infermieristiche nel 2009-2010),
i maturati con un voto alto e sono in deciso aumento, il 59% delle matricole nel 2009-2010, i giovani per i quali il corso di studi in
Scienze infermieristiche rappresenta la prima scelta. I giovani si
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avvicinano alla professione perché
la considerano utile agli altri e perché consente di trovare lavoro rapidamente, sebbene in questo periodo vi sia difficoltà a trovare lavoro, a causa dei tagli ai servizi sanitari e socio-sanitari causati dalla crisi economica. Ciò si potrebbe tradurre in un aumento del carico di lavoro per gli infermieri in
servizio, con effetti non solo sulla
qualità dell’assistenza, ma anche
sull’effettiva possibilità di garantire l’assistenza necessaria.
Vi sono differenze fra i professionisti di ieri e quelli di oggi?
Certamente i cambiamenti che
hanno caratterizzato la storia recente della professione infermieristica in Italia hanno segnato alcune
differenze. Si pensi solo alla formazione: regionale fino al 1992, con
accesso consentito dopo il biennio di scuola superiore e successivamente in università con l’obbligo della maturità. Non di rado
tra “vecchi” e “nuovi” infermieri si
discute sul fatto che i primi hanno avuto una maggiore formazione clinica, orientata al fare, al buon
uso delle tecniche e i secondi una
maggiore preparazione teorica.
Certo è che nell’esercizio professionale, nella cura e assistenza,
contano entrambe.
Quali sono, secondo lei, le prospettive future per i giovani in
questo ambito lavorativo?
Nel futuro, gli scenari occupazionali sono destinati ad ulteriori innovazioni, tenendo conto che il nostro Paese, come altri Paesi europei, è destinato a sperimentare
una riduzione di medici e la riorganizzazione dell’offerta che si profila darà un maggiore spazio alle cure primarie, alla sanità di iniziativa,
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agli ospedali ad alta intensità tecnologica per le acuzie e aprirà nuovi, più ampi spazi per il ruolo degli
infermieri.
Intervista a Luca Rumi,
psicologo
Nel tempo, come è cambiato il
mondo del lavoro per gli psicologi?
Da un lato un mondo più complesso, dall’altro le mutate esigenze delle persone, dall’altro ancora
la necessità di promuovere, finalmente, interventi che in qualche
modo garantiscano efficacia, ossia è cambiato alla fine qualcosa
o no, tutto ciò determina un progressivo spostamento dagli ambulatori verso i contesti/sistemi, dalla logica del paziente verso la logica della gente, di persone che interagiscono con altri. Si guarda al
benessere e alla promozione della salute, oltre il problema, il sintomo. La società ci chiede di dire cosa andiamo a cambiare, dopo che famiglie, amministratori
pubblici, ecc. investono nei nostri
interventi. Il mondo degli psicologi da un lato dunque cambia perché vuole guardare a come si modifica il “come” delle relazioni; una
grossa fetta della categoria vuole
ancora guardare a come si modificano i profili, i cosa. Insomma occorre passare dall’intervento curativo di impostazione medica all’intervento basato sul cambiamento; dall’intervento personologico a
quello sulla comunità; dall’esperto di contenuti (anoressia, orientamento, disabilità, ecc.) all’esperto di processi; dall’utente inteso in
termini problematici a cui attribuire disturbi ad un utente in quanto risorsa, con competenze da svi-
luppare. Questi mutamenti chiedono agli psicologi uno sforzo: quello di cogliere i modi di pensare della gente e di trasformare le interazioni in cui la gente crea situazioni critiche e al contempo di abbandonare l’attitudine a classificare, a
etichettare, con movenze da camice bianco.
Quali tipi di giovani e con quali motivazioni si avvicinano alla
professione?
Qualche studente si iscrive a Psicologia con l’idea di aiutare l’altro.
Questo talvolta rimane su un piano morale e assistenziale ed è necessario che si traduca in competenza, capace di mostrare i cambiamenti che si è in grado di apportare. Altri si iscrivono con l’idea di fare il clinico. In questo caso si rischia di trovarsi in situazioni di disoccupazione, non solo perché i clinici sono molti ma proprio
in quanto la clinica non sembra essere la risposta pertinente ad alcune esigenze sociali: ad esempio la
sostenibilità, anche economica,
ecc. Sta all’università promuovere
un’idea di psicologia come quella
introdotta poc’anzi.
Vi sono differenze fra i professionisti di ieri e quelli di oggi?
Oggi c’è uno psicologo ogni 1.000
abitanti. Un avvocato, se non sbaglio, ogni 800. I secondi sono giustificati dal fatto che siamo un
Pae­se litigioso ed alla fine, gli avvocati, possono dire: “ho vinto la
causa perché…, l’ho persa perché”. Degli psicologi, se non si introduce un cambiamento, rischiamo che la gente non sappia che
farsene. Occorre cominciare a
pensare a dove si cambia e come
misuriamo questo cambiamento,
che è ben diverso dal pericolosis-
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30 ∙ 4|2012 Quali sono, secondo lei, le prospettive future per i giovani in
questo ambito lavorativo?
C’è necessità di non lavorare da
soli, di contaminarsi anche con altri settori di studio, con altri professionisti, di porre lo sguardo su
ambiti nuovi: ad esempio con gli
avvocati nell’ambito delle consulenze al giudice, della collaborazione con architetti come l’housing sociale, dello sviluppo di
competenze di management o di
consulenza (interventi di gestione
per Comuni, associazioni, Province, distretti). Oppure la mediazione, ambito elettivo per gli psicologi, purché siano in grado di dimostrare la loro efficacia e siano nella condizione di lavorare con altri soggetti.
Intervista a Ariela
Casartelli, assistente
sociale
S
catti
ociali
“Poveri Noi”
Foto di Fabrizio Villa
(foto precedente a pag. 23 – foto successiva a pag. 36)
simo “è soddisfatto?”. Lo psicologo di ieri ha aperto il varco all’occuparsi del fatto che la gente non
è fatta solo di cose, ma di relazioni, di modi di avere a che fare
con l’altro, di identità che si forma
grazie alle interazioni in cui è inserito. Quello di oggi questo var-
co lo deve capitalizzare, studiando con rigore tutto ciò che è riferibile al processo di cambiamento,
rilevandolo e misurandolo e, anziché cavalcare l’onda della creazione del “caso clinico”, generando forme, anche innovative, di anti-etichettamento.
Nel tempo, come è cambiato il
mondo del lavoro per gli assistenti sociali?
Dal punto di vista contrattuale, rispetto alla stabilità professionale,
è molto cambiato. Una volta chi
usciva dalla scuola di servizio sociale, dal corso di laurea, attraverso un concorso, acquistava un
posto stabile, un contratto a tempo indeterminato. Oggi non è più
così. La professione non è più così stabile; ci sono contratti a tempo determinato, non si lavora solo per il pubblico, ma anche per il
privato, per cooperative o come
libere professioniste. Ciò influenza il lavoro professionale, perché
le assistenti sociali che lavorano
con contratti precari nei Comuni,
e che affrontano le problematiche
di giovani legate all’instabilità la-
POLITICHE [ping-pong]
Letture...
vorativa, hanno lo stesso problema delle persone che dovrebbero aiutare e questo influenza la relazione che si va a costruire. La
precarietà dell’assistente sociale
influenza l’investimento nel proprio ruolo e nella programmazione di interventi, se poi il lavoro
viene svolto in Comuni di piccole
e medie dimensioni, influenza anche la possibilità di prendere delle
posizioni rispetto a problematiche
che, trattandosi di problematiche
sociali, investono anche una sfera politico-amministrativa. L’avere un contratto precario rende un
po’ ricattabili, non ci si sente sufficientemente forti per prendere
delle posizioni. Una volta il ruolo
dell’assistente sociale si inseriva
in un quadro di interventi, anche a
livello politico-amministrativo.
Inoltre, anni fa, parliamo degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta, c’era un grosso investimento
idealistico, in seguito alla riforma
sanitaria, alle riforme politiche in
atto che portavano ad un grande
sommovimento nel sociale: c’e-
4|2012 ∙ 31
ra un grande sostegno al ruolo di
questa idea­lità. Ora questo è meno presente. Gli assistenti sociali si percepiscono maggiormente
con un ruolo organizzativo, di funzionamento di servizi, di coordinamento e meno come punto di riferimento per la cittadinanza, per
i bisogni che la cittadinanza porta e che l’assistente sociale porta
all’amministratore.
Quali tipi di giovani e con quali motivazioni si avvicinano alla
professione?
Non saprei, la motivazione base è
la spinta verso la relazione di aiuto,
dell’essere vicini, dell’aiutare chi è
in difficoltà. Poi ciascuno ha le sue
motivazioni.
Vi sono differenze fra i professionisti di ieri e quelli di oggi?
Ci sono investimenti ed una preparazione diversa. Credo che oggi ci
sia una preparazione maggiore rispetto a ieri. Il fatto che la scuola
triennale sia diventata un corso di
laurea ha sostenuto le competen-
ze, c’è una maggiore preparazione tecnica.
Quello che emerge dalla mia esperienza, nell’incontro con giovani
professionisti, è il non essere riconosciuti e il non sentirsi riconosciuti. Penso che manchi questo
riconoscimento perché manca negli operatori l’autoriconoscimento del proprio ruolo e delle proprie
competenze, l’essere professionisti nel sociale.
Anche da parte della cittadinanza c’era una percezione differente dell’assistente sociale: c’erano rapporti meno conflittuali, oggi, spesso, i giovani colleghi dicono di avere paura delle persone arrabbiate che arrivano ai servizi.
Oggi i giovani professionisti si trovano anche ad affrontare una complessità maggiore rispetto al passato, da condividere con altri professionisti.
Quali sono, secondo lei, le prospettive future per i giovani in
questo ambito lavorativo?
Le prospettive sono difficili, come
in tutte le professioni sociali. In questo momento si stanno affrontando
delle grandi difficoltà: mi sembra si
vada a riscoprire un ruolo più centrato sul lavoro di comunità, che
non un lavoro specialistico sul singolo. La direzione specialistica che
si è molto sviluppata negli ultimi
vent’anni risulta essere un po’ perdente: credo che gli assistenti sociali debbano guardarsi intorno e
cercare di capire cosa stia accadendo e capire quale possa essere
la nuova direzione del lavoro.
Spetta anche ai giovani ripensare alla professione, anche se mi sembra
che i giovani mirino ad avere dei ruoli di coordinamento e non si riconoscono più in un ruolo di vicinanza alle persone che si rivolgono loro.