Abstarct tesi: Analisi della Logistica e dei
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Abstarct tesi: Analisi della Logistica e dei
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II FACOLTÀ DI ECONOMIA CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN ECONOMIA E COMMERCIO TESI DI LAUREA IN ECONOMIA DEI TRASPORTI ANALISI DELLA LOGISTICA E DEI TRASPORTI QUALI FATTORI DI RIENTRO DELLE FILIERE PRODUTTIVE (ABSTRACT) Relatore Candidato Ch.mo Prof. Ennio Forte Giuseppe Romanelli Matr. N28/10 ANNO ACCADEMICO 2009/2010 Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una costante crescita del commercio internazionale e dei trasporti. Le cause alla base di questa crescita sono da rilevare nello sviluppo dell’economia che ha acquistato carattere sempre più globale grazie, soprattutto, all’eliminazione delle barriere commerciali. Un dato rilevante è che, a livello globale, la crescita del valore del commercio internazionale, dal 1989 in poi, ha sostanzialmente superato quella della produzione. La forza trainante di questa crescita, che non si è equamente distribuita nel mondo probabilmente a causa delle differenze territoriali, sociali, politiche ed atmosferiche, è individuata nello sviluppo della logistica. Oggi le maggiori capacità delle comunicazioni, la migliore efficienza delle operazioni di trasporto, così come la standardizzazione dei processi, rendono possibile l’organizzazione su scala internazionale delle catene di fornitura, segnando il passaggio da una dimensione “locale” ad una “globale”, dalla produzione attraverso i fornitori, i consumatori e i dettaglianti, fino al consumatore finale. Tali tendenze verso la globalizzazione, verso Supply Chain Management e lo sviluppo dell’Information and Comunication Technology (ICT) hanno rimodellato tutti gli schemi commerciali del mondo e conseguentemente tutti i flussi fisici di commercio. Cambiamenti questi che favoriscono la crescita economica consentendo una migliore allocazione di risorse nonché una maggiore libertà di scelta per i consumatori. La logistica è uno dei settori maggiormente influenzati dalle trasformazioni dell’economia. Il continuo susseguirsi di mutamenti che hanno investito l’economia globale ha, così, determinato un’evoluzione delle reti commerciali, dovuta principalmente allo sfruttamento delle differenze del costo del lavoro, ad opportunità di differenziazione del prodotto e alla maggiore disponibilità, in specifici paesi, di materie prime a basso costo. Il loro sviluppo è stato consentito dalle principali tendenze in ambito sia normativo che tecnologico: la liberalizzazione del commercio, in particolare nell’ambito di blocchi commerciali come l’UE e il NAFTA, ha rimosso i vincoli sulla circolazione di merci transfrontaliera e ha ridotto i relativi barrier costs; i progressi nel campo delle telecomunicazioni e della tecnologia dell’informazione hanno, invece, garantito alle aziende i mezzi per gestire il movimento fisico dei prodotti sulle varie rotte, lunghe e spesso tortuose. La combinazione di tutti questi fattori dà origine ad un gran numero di tendenze individuali che si manifestano in diverso modo in funzione della portata geografica in cui operano le imprese e i mercati, ma soprattutto in funzione dell’analisi relativa al totale dei costi logistici, misura dell’accessibilità ad un determinato network. Lo sviluppo del commercio internazionale è influenzato dalle differenze nei costi dei fattori nelle rispettive regioni, dalle barriere agli scambi, dal grado di regolamentazione e dalla distanza tra queste regioni, tutti elementi che incidono direttamente sui costi del flusso logistico (Φ). Al fine di massimizzare il network globale è opportuno utilizzare, come misura della resistenza tra diverse regioni economiche e quindi come misura dell’accessibilità, seguendo i principi della LE, il concetto di Costo Totale Logistico (CTL), piuttosto che i soli costi di trasporto, dipendenti quasi esclusivamente dalla variabile distanza (Dij). In un mondo divenuto “villaggio globale”, la funzione spazio diviene relativa, mentre acquista fondamentale importanza la funzione tempo. La possibilità di rispondere a una domanda tramite un’offerta generata in una qualunque parte del mondo, impone una competizione basata sul fattore tempo: tra due prodotti analoghi dal punto di vista del prezzo e degli standard qualitativi viene premiato quello che per primo raggiunge il mercato. Inoltre, è evidente come il processo produttivo maggiormente diffuso nell’epoca globale, il just in time, sottolinei già nel nome l’importanza dell’elemento temporale e di conseguenza l’impossibilità di far parte di questo processo per chi, produttore o fornitore che sia, non si adegui a questo nuovo paradigma produttivo. Con ciò non si vuol dire che la funzione spazio abbia perso importanza, ma soltanto che la sua valenza competitiva si esalta quando viene coniugata con la funzione tempo. I CTL non solo riflettono elementi connessi ai trasporti, ma tutti i costi logistici che comprendono anche lo stoccaggio, i costi di movimentazione delle merci e quelli di magazzino, nonché i costi di tutte le attività di logisticizzazione del prodotto volte ad incrementarne il valore. Rispetto all’idea tradizionale che individuava nella logistica una funzione esclusivamente interna alle aziende (trasporto, stoccaggio e movimentazione dei prodotti, alimentazione delle linee produttive, gestione dei magazzini, pianificazione e controllo delle scorte, etc.) si è affermato il concetto di supply chain inteso come un sistema che gestisce in modo integrato le transazioni fisiche e informative di una pluralità di imprese che partecipano ad una precisa catena del valore. Obiettivo della logistica, quindi, è il raggiungimento della massima soddisfazione del cliente finale e la minimizzazione dei costi logistici (problema di minimax) dell’intero network globale. Nella letteratura di gestione della logistica l’accento è solitamente posto sulla possibilità di conseguire l’efficienza e l’efficacia simultaneamente. Efficienza, ovvero la minimizzazione dei costi logistici; efficacia, nella misura in cui si raggiunge la soddisfazione del cliente, quando cioè i fornitori di beni e servizi riescono ad esaudire le crescenti esigenze dei consumatori, non solo rispetto alla natura fisica dei prodotti richiesti, ma anche rispetto alla flessibilità, affidabilità e puntualità della consegna. Tuttavia i costi totali logistici sono correlati ad un altro fattore di costo determinante: i costi di produzione. I manager delle Supply Chain, quindi, cercheranno, al fine di massimizzare il network globale, di minimizzare la somma totale dei costi di produzione, di logistica e di gestione, dato il servizio richiesto dal cliente. I diversi costi di produzione tra le regioni sono dovuti all’incidenza di variabili di carattere economico, come le differenze salariali e il tasso di cambio, ma anche del grado di regolamentazione e delle condizioni atmosferiche. Guardando alla realtà produttiva in questi anni, abbiamo assistito a rilevanti trasformazioni nelle strategie delle imprese, legate ai processi di internazionalizzazione delle economie. Gli ultimi vent’anni sono stati, infatti, caratterizzati da un fenomeno che ha assunto dimensioni considerevoli: la delocalizzazione dei siti produttivi, intera o in parte, sia delle imprese multinazionali sia di quelle di più piccole dimensioni. Questa strategia viene attuata per mantenere la competitività sui mercati, spostando le fasi a più alta intensità di lavoro in paesi dove il costo del lavoro è minore rispetto a quello d’origine. Tale fenomeno non è privo, però, di effetti negativi sulla partecipazione al mercato del lavoro locale, in particolare sui livelli di occupazione ma anche sulle condizioni di lavoro degli occupati. La banalizzazione dei costi di trasporto, insieme ad una serie di altri fattori come l’avvento di internet e delle tecnologie low cost di comunicazione, che hanno portato, oltre ad una diminuzione dei costi aziendali relativi a flusso di informazioni, ad un annullamento dei tempi di invio e ricezione delle stesse informazioni, sono stati tra i motori della globalizzazione. L’idea di “fabbrica diffusa” ne è stata una logica conseguenza. Queste tendenze sono iniziate qualche secolo fa, ma recentemente si sono intensificate (anni ’80 e ’90); paesi come la Cina vengono oggi “sfruttati” a causa delle loro grande quantità di manodopera a basso costo disponibile. In numerosi casi, però, lo spostamento verso queste aree non è permanente, in quanto le attività economiche in esse svolte tendono ad avere un rapido adattamento verso standard di vita occidentali modificando radicalmente le preferenze di consumo. Questo porta ad un incremento dei salari e un conseguente aumento dei CTL, rendendo così, probabilmente, non più conveniente la scelta dell’impresa di produrre in quella determinata area economica. Pertanto, nonostante l’importanza di fattori come le barriere agli scambi e il costo delle materie prime, l’accessibilità (in termini di CTL) rimane il fattore chiave di collegamento tra la logistica e l’economia del territorio. La possibilità per un ambito territoriale locale di poter fornire infrastrutture di collegamento e di accesso ai circuiti internazionali di comunicazione, servizi logistici avanzati a supporto della catena produttiva e distributiva può essere considerata come un vantaggio nella competizione territoriale e un fattore di innesco di processi di sviluppo locale. Quanto precedentemente analizzato è confermato dall’attuale tendenza di molte imprese, sia multinazionali che di piccole e medie dimensioni, di far rientrare in patria la produzione (Reshoring): la crisi economica che ha investito l’economia mondiale negli ultimi anni ha modificato radicalmente il comportamento e le decisioni strategiche di molte imprese; esse sono in continua lotta, non solo per soddisfare le sempre crescenti esigenze dei consumatori, ma ormai, anche per combattere e controllare i crescenti costi. Le economie emergenti si stanno sviluppando nei mercati reali e non possono più essere considerate semplici luoghi di procacciamento delle parti low cost e di produzione esternalizzata (vedi i cosiddetti paesi BRIC – Brasile, Russia, India, Cina). Molte imprese stanno ridisegnando le proprie Supply Chain, riportando in patria la produzione, non potendo più godere di tutti quei vantaggi che hanno caratterizzato le loro scelte negli anni della delocalizzazione. Si assiste oggi ad un incremento dei costi di trasporto dovuti all’aumento dei costi del carburante; ad un aumento del costo del lavoro in molti dei paesi finora a “bassi salari” (Cina e Romania in particolare); ad agevolazioni fiscali concesse dagli Stati alle imprese (in particolar modo Stati Uniti e Germania), con l’obiettivo di far rientrare le fasi produttive all’interno dei confini nazionali così da favorire il livello occupazionale, finora messo in crisi proprio dai processi di delocalizzazione. Non è più possibile, quindi, parlare di banalizzazione di costi del trasporto né tantomeno di salari bassi. Modifiche a questi due elementi portano a focalizzare l’attenzione anche su altre voci di costo che, seppur sempre considerate, risultavano avere un’incidenza minore rispetto alle scelte localizzative proprio in virtù della maggiore convenienza derivante dai suddetti elementi: aumenta, rispetto alla scelta di dove e come delocalizzare, il peso dei costi di magazzino, di quelli per il controllo di qualità della produzione, che all’estero non è sempre garantita, dei costi derivanti dall’allungamento del time to market e di quelli relativi alle spese legali per contrastare la commercializzazione di copie del proprio prodotto. Obiettivo della tesi è di evidenziare l’importanza nelle scelte strategiche aziendali del tasso Traslog, inteso come misura dell’incidenza dei costi di trasporto e delle altre attività logistiche sul prezzo dei prodotti finali. Partendo dall’analisi economica delle reti ed identificando poi i fattori, esogeni ed endogeni al sistema dei trasporti, che possono portare ad una variazione delle stesse e quindi ad una modifica dei flussi logistici, si arriva a focalizzare l’attenzione sul fenomeno del rientro delle filiere produttive, causato proprio dall’attuale congiuntura economica che ha modificato le principali variabili prese in considerazione dalle imprese in fase strutturazione dei propri network. Variazioni dei Network logistici, il fenomeno del “rientro delle filiere” ANALISI DELLA FUNZIONE DI INVARIANZA Il processo di globalizzazione, in cui le relazioni economiche politiche e sociali si estendono in un ambito geografico sempre più vasto, sta modificando la configurazione strutturale dell’intera catena di fornitura segnando il passaggio da una dimensione “locale” ad una “globale”, dalla produzione, attraverso i fornitori, i distributori e i dettaglianti, fino al consumatore finale. Nelle ultime due decadi, infatti, una nuova modalità di divisione del lavoro fra le imprese e i paesi si è affermata nell’economia mondiale. Questa divisione internazionale del lavoro è caratterizzata principalmente da imprese che separano le fasi della loro attività (lungo tutta la catena del valore: dall’ideazione alla progettazione, alla realizzazione, alla distribuzione, alla vendita, ai servizi postvendita) in moduli (tasks) differenti; e localizzano in paesi differenti questi moduli (ripartendo così fasi della produzione in un solo sito), al fine di sfruttare le differenti condizioni localizzative. In primis, ma non solo, i differenziali nei costi di produzione, in particolare, nel costo della manodopera, e le loro conseguenze – data la produttività – sul costo unitario dei servizi. Queste decisioni riguardano sia grandi multinazionali, sia imprese di medie dimensioni. Non necessariamente implicano che tutti i moduli produttivi siano sotto il controllo aziendale; alcuni possono, infatti, essere commissionati, con una vasta gamma di relazioni, ad altre aziende. Nel momento in cui alcune attività (prevalentemente, ma non necessariamente labour intensive) sono trasferite al di fuori dei confini nazionali si parla di delocalizzazione internazionale. Le imprese decidono contemporaneamente quali fasi esternalizzare e dove localizzarle; quali fasi della catena del valore devono rimanere all’interno e quali devono essere affidate ad altri, e dove. Il tutto attraverso una serie di valutazioni comparative tra le diverse soluzioni possibili; sempre più spesso, per tali attività comparative, vengono considerati i differenziali di costo per le diverse attività di logisticizzazione dei prodotti. Il processo di delocalizzazione può avvenire, sia all’interno dei confini aziendali, con investimenti diretti all’estero (IDE) in proprie filiali (controllate o partnership con altri), sia attraverso intese senza partecipazioni azionarie (non-equity) con imprese indipendenti, tipicamente accordi di sub-fornitura con un ventaglio molto ampio di possibili condizioni e clausole1. Due sono i fattori che hanno fatto si che alle imprese si dischiudesse, più semplicemente e più convenientemente che in passato, questa possibilità: • • 1 la caduta progressiva delle barriere al commercio internazionale; il progresso tecnologico (in particolare le nuove tecnologie digitali) che ha permesso un più agevole, nonché rapido ed economico coordinamento delle fasi del processo produttivo, anche quando queste sono localizzate in vari paesi del mondo. Berger S., Mondializzazione, come fanno per competere?, Grazianti, Milano, 2006. La globalizzazione dell’economia e le tecnologie consentono più di prima la suddivisione in moduli; inoltre, il trasporto e lo scambio con modalità rapide e più economiche spingono le imprese a riorganizzare le catene del valore su scala globale. È da evidenziare, però, che non esiste una forma di organizzazione ottimale2; questo vale sia per le imprese che competono in settori altamente tecnologici che per quelle dei settori tradizionali. La forma organizzativa migliore dipende dalle diverse capacità competitive nelle imprese nelle diverse fasi della catena del valore; dalla convenienza delle diverse localizzazioni possibili dei diversi moduli (Invarianza); dalla convenienza relativa della frammentazione rispetto allo svolgere congiuntamente le diverse fasi. Naturalmente la delocalizzazione è una delle possibili strade per competere sui mercati mondiali, ma non è l’unica. Vi sono casi di successo sia di imprese “frammentate” sia di imprese che mantengono al loro interno molte, o quasi tutte, le fasi produttive. Riprendendo la definizione elaborata dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), la globalizzazione riguarda la crescente interdipendenza dei paesi del mondo attraverso transazioni sempre più numerose, da un confine all’altro, di flussi di beni, servizi e capitale internazionale, e riguarda anche una più rapida ed ampia diffusione della tecnologia. Il grado di interdipendenza tra le aree geografiche è stato rafforzato e incrementato dallo sviluppo delle reti di comunicazione e del processo tecnologico. Come effetto di tali sviluppi è aumentata la tendenza al decentramento della produzione che ha favorito la nascita di insediamenti produttivi anche a grande distanza dalle casemadri. Queste condizioni hanno portato a considerare il trasporto merci come una funzione centrale del processo aziendale. Come si evince dall’analisi fatta nei paragrafi precedenti, esso ormai è considerato un input di filiera; infatti, svolge una funzione più complessa e strategica rispetto al passato in quanto non si limita più al mero trasferimento di cose da un luogo ad un altro, dal produttore al consumatore, ma è parte integrante del processo produttivo, un fattore strategico dell’economia della filiera logistico-produttiva e distributiva nel suo complesso3. I costi di trasporto hanno una funzione centrale nelle decisioni produttive e distributive in quanto c’è un legame tra questi e i costi della distribuzione e della produzione che insiste fino agli stessi ricavi delle imprese se il costo del trasporto risulta a carico dei clienti. I costi di distribuzione e produzione sono connessi a: • • • 2 3 la scelta di concentrazione degli impianti produttivi e/o distributivi al fine di ottenere economie di scala nella produzione e/o nelle attività di magazzino; la scelta di integrazione verticale o di separazione verticale delle diverse fasi del processo di produzione/distribuzione, che consente di sfruttare le attività specializzate che hanno un effetto soprattutto sui costi di trasporto dei semilavorati; la scelta di lavorazione e/o stoccaggio/distribuzione di prodotti omogenei in tutti gli impianti o di differenziare i prodotti dei singoli impianti, se esiste l’opportunità di segmentare la domanda nei rispettivi mercati questo, però, comporta maggiori costi di trasporto se i mercati risultano geograficamente separati; Ibidem. F.Iannone, Trasporti e terziarizzazione logistica: evoluzione verso una logistica di sistema, Dipartimento di scienze Economiche e Sociali, Università degli studi di Napoli Federico II. • la scelta di lavorazione e/o stoccaggio/distribuzione di diversi prodotti nello stesso impianto, che peraltro implica maggiori costi di trasporto se i mercati dei singoli prodotti sono tra loro diversi e distanti, o viceversa di produrre e/o stoccare/distribuire i diversi prodotti in impianti diversi, soprattutto se la rispettiva domanda è differenziata a scala geografia. La funzione d’Invarianza, che ha lo scopo di evidenziare e misurare il differenziale di costo tra diverse soluzioni ubicazionali dei fattori di produzione che scaturisce da attività logistiche finalizzate ad aumentare la competitività dei beni, utilizza il tasso traslog4 per confrontare la convenienza relativa al posizionamento produttivo in una determinata area geografica, così da determinare il costo-opportunità della localizzazione degli investimenti nello spazio a parità di altre condizioni5. Una volta trovato il tasso traslog rispetto ad una determinata “decisione ubicazionale”, è possibile confrontarlo con il tasso traslog di una decisione alternativa così da valutare l’eventuale maggiore convenienza dell’una o dell’altra decisione. Risulterà indifferente per una determinata impresa, localizzare la produzione in una specifica area geografica anziché in un’altra qualora il differenziale tra i due tassi traslog precedentemente identificati sarà pari a zero; quando, cioè, sarà nullo il fattore di “varianza”. È possibile dimostrarlo attraverso l’analisi di un modello di Invarianza localizzativa basato sul tasso logistico6. Consideriamo, ad esempio, il caso della scelta tra due localizzazioni alternative (K1 e K2) per produrre un bene intermedio, che sarà poi trasportato verso una terza area (K3), per essere lavorato ulteriormente e quindi trasformato in prodotto finito (Y3) per la vendita finale. In questo caso si ipotizza che è possibile ottenere Y3 in maniera alternativa da una logisticizzazione del prodotto intermedio X1 o X2, ottenuti rispettivamente in K1 e K2. Ipotesi del modello: C1 = C2; C.G.T.(K1 - K3)> C.G.T.(K2 - K3) La prima ipotesi è relativa al fatto che, per semplicità, si assume che il costo di produzione C1 (del prodotto intermedio X1) sarà uguale al costo di produzione C2 (del prodotto intermedio X2). Con la seconda ipotesi, inoltre, si assume che il costo generalizzato di trasporto da K1 a K3 è maggiore di quello che occorrerebbe sostenere per il trasporto del bene intermedio da K2 a K3. Date queste ipotesi risulta che: C1 + C.G.T.(K1 - K3) > C2 + C.G.T.(K2 - K3) Il principio di invarianza in termini di total cost (ossia, costi di produzione e di logistica, compresi quelli di trasporto) tra le sue localizzazioni alternative entra in 4 Inteso come misura dell’incidenza del costo del trasporto e delle altre attività logistiche sul prezzo dei prodotti. 5 Forte Ennio, Trasporti Logistica Economica, Cedam, 2008. 6 Forte Ennio, Logistica Economica e strumenti di analisi: obiettivi e condizioni per l’ottimo, www.logisticaeconomica.unina.it gioco qualora in una delle localizzazioni, ad esempio K2, venga effettuato non solo il processo di produzione del bene intermedio X2, ma anche tutta una serie di altre attività come ad esempio lo stoccaggio, il controllo di qualità e la distribuzione verso K3 da parte di un fornitore di servizi logistici in conto terzi. In una situazione di equilibrio dei costi totali tra le due localizzazioni, infatti, sarà il tasso logistico (L), che esprime in questo caso la percentuale complessiva dei costi di trasporto e delle altre attività logistiche sul costo totale dei prodotti intermedi, a far si che in presenza di processi logistici possa risultare che: C1 (1+L1-3) = C2 (1+L2-3) In tal caso L risulta costante nella localizzazioni K1 e K2 con particolare riferimento al loro rispettivo posizionamento economico nei confronti della localizzazione K3. Formalizzando il concetto di tasso logistico, risulta che: L1-3 = [C.G.A.(K1 - K3) / C1] + [C.G.T.(K1 - K3) / C1] L2-3 = [C.G.A.(K2 - K3) / C2] + [C.G.T.(K2 - K3) / C2] Dove C.G.A.(K1 - K3) e C.G.A.(K2 - K3) rappresentano il costo generalizzato delle altre attività logistiche escluso il trasporto rispettivamente nelle localizzazioni K1 e K2. Sulla base delle assunzioni fatte, per avere una situazione di invarianza, ossia una situazione nella quale risulta indifferente per il decisore localizzare la produzione del bene intermedio in K1 anziché in K2, dal punto di vista dei costi sostenuti nelle due localizzazioni alternative, è necessario che: C.G.A.(K2 - K3) = C.G.T.(K1 - K3) - C.G.T.(K2 - K3) A questo punto, però, nella localizzazione K3 occorrerà svolgere un numero maggiore di attività logistiche di quasi-manufacturing per il prodotto X1 rispetto, invece, a quelle necessarie per il prodotto X2 al fine di completare il ciclo produttivo ed ottenere il bene Y3 da vendere ai consumatori. Rispetto, quindi, ad una invarianza di costo totale dei beni che arrivano da K1 e K3, il prodotto maggiormente logisticizzato, ovvero X2, risulta competitivo nell’economia complessiva della Supply Chain, provocando una “varianza” a favore di K2. Il modello di analisi dell’invarianza basato sul tasso logistico va dunque sempre interpretato considerando la possibilità di sostituire il costo dei servizi di trasporto con il costo degli altri servizi logistici. Tale possibilità è confermata dalle tendenza attuali legate alla metodologia produttivo-distributiva basata sul just in time7, nonché alla banalizzazione dei costi di trasporto8. 7 Politica di gestione delle scorte a ripristino che utilizza metodologie tese a migliorare il processo produttivo, cercando di ottimizzare non tanto la produzione quanto le fasi a monte, di alleggerire al massimo le scorte di materie prime e di semilavorati necessari alla produzione. In pratica si tratta di coordinare i tempi di effettiva necessità dei materiali sulla linea produttiva con la loro acquisizione e disponibilità nel segmento del ciclo produttivo e nel momento in cui debbono essere utilizzati. 8 Forte Ennio, Logistica economica ed equilibri spazio-territoriali in: Atti del seminario: I fondamenti concettuali della Logistica Economica. Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Politecnico di Ogni impresa, quindi, ha la possibilità di scegliere tra una più o meno ampia gamma di scelte localizzative decidendo di sopportare più o meno costi di attività logistiche rispetto a quelli di trasporto e viceversa. Tale discrezionalità dipende dalla disponibilità di un’organizzazione a rete di servizi logistici che connetta aree di approvvigionamento con quelle di produzione e di consumo e che sia progettata accuratamente, in modo da poter sfruttare più vantaggiosamente le diverse modalità di trasporto, garantendo la gestione ottimale dei prodotti lungo la Supply Chain e, quindi, la flessibilità nelle scelte ubicazionali. Milano, 29 Maggio 2003; e Fedele Iannone, Economia della logistica e dello spazio-territorio: innovazioni organizzative ed approcci modellistici in: Riequilibrio ed integrazione modale nel trasporto delle merci in Italia: attori e casi di studio (Borruso G., Polidori G.), Franco Angeli, Milano, 2005. MODIFICHE DEI NETWORK LOGISTICI DERIVANTI DA INPUT L’INCIDENZA DELL’AUMENTO DEL COSTO DEL TRASPORTO INTERNI. UN ESEMPIO: L’evidenza empirica dimostra che l’incidenza di determinati input, siano essi interni o esterni alle reti, modificano i network logistici ogni qualvolta ci siano delle variazioni nel sistema. Di qui l’importanza dei concetti di “reattività” e “agilità”9. Per le aziende la rilevanza della ricerca di network logistici flessibili ed agili è messa maggiormente in evidenza dall’attuale congiuntura economica dove la competitività delle imprese operanti sui mercati reali è inficiata dalla crisi che ha investito il mondo finanziario. Pertanto ogni scelta connessa alla configurazione e alla gestione della catena logistica diviene un fattore cruciale per assicurarsi vantaggio competitivo sostenibile. Per questa ragione la definizione del corretto livello di centralizzazione della pianificazione della Supply Chain e la scelta della configurazione ottimale della rete logistica ricoprono un importanza di assoluto rilievo. Tali scelte impattano inoltre sull’orientamento dell’azienda in termini di reattività e agilità della catena logistica. In funzione delle caratteristiche di ogni specifico contesto aziendale e di quelli che sono i cambiamenti della domanda, la creazione di nuove strutture (ad es. poli logistici), i mutamenti continui dei costi delle strutture distributive nonché le variazioni in aumento dei costi del trasporto, è necessario che ci sia un processo di “trasformazione” continuo che porti le aziende a cambiamenti di configurazione dei propri network logistici. Secondo Martin Christopher10, inoltre, l’agilità nel seguire le variazioni del mercato diviene un elemento fondamentale per creare Supply Chain resilienti11, in grado di reagire a mutamenti improvvisi, limitando gli impatti negativi sulle prestazioni di servizio al cliente nonché sull’efficienza globale12. Uno studio dell’IBM effettuato 200813, che si basa su interviste fatte a 400 manager responsabili di aziende dell’ America del Nord, Europa Occidentale e Asia-Pacifico che gestiscono le strategie e le operazioni delle Supply Chain per le loro società, evidenzia proprio le difficoltà che stanno affrontando i manager, la loro continua lotta per ottenere maggiore visibilità per la Supply Chain, dovendo soddisfare le crescenti richieste dei clienti interni e il controllo dei costi - e come le economie emergenti si stanno sviluppando nei mercati reali, non solo più semplici luoghi di procacciamento delle parti low-cost e produzione esternalizzata. Più risparmio, più velocità e migliore qualità, sono – e sono stati – il mantra tra i manager delle supply chain. Importante, nell’attuale congiuntura economica, è gestire la crisi, tanto quanto lo è essere più economici, veloci e migliori. Imprevedibile. Questo è forse il termine migliore per descrivere il mercato globale di oggi. Al pari delle economie e dei mercati finanziari, anche le Supply Chain sono cresciute in modo più interconnesso e globale, esposte al rischio di crisi e sconvolgimenti. La velocità semplicemente aggrava il problema. Anche piccoli passi 9 Alessandro Creazza – Fabrizio Dallari, Reti logistiche Agilità globale, Centro di ricerca sulla logistica, Università Cattaneo LIUC. 10 Martin Christopher è professore di Marketng e Supply Chain Management presso la Cranfield School of Management, UK. 11 In psicologia, la resilienza è la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà. Nella fisica dei materiali, invece, essa è la "proprietà di un materiale di riacquistare la propria forma in seguito ad una sollecitazione". 12 Martin Christopher, Creating Supply Chain resilience through agile six sigma, 2004. 13 IBM, La Supply Chain più intelligente del futuro – Studio globale sui Responsabili delle Supply Chain, 2008. falsi o errori di calcolo possono avere grosse conseguenze poiché i loro impatti si diffondono come virus attraverso le complesse reti della Supply Chain. Dallo studio IBM risulta che uno degli strumenti utilizzati per fronteggiare la crisi è il contenimento dei costi, che rappresenta la responsabilità aziendale prioritaria per i manager delle Supply Chain, ancor più importante della crescita e dell’innovazione prodotto- servizio. Ciononostante, quello che veniva utilizzato come un processo di miglioramento continuo e metodico, è ora divenuto frenetico. Scossoni ai costi totali – rapida inflazione dei salari nei mercati del lavoro precedentemente a basso costo, punte nei prezzi all’ingrosso o improvvise restrizioni del credito – stanno diventando sempre più diffusi. I responsabili delle Supply Chain si trovano a dover reagire a qualunque sia l’emissione di prezzo del giorno. I prezzi crescenti del carburante, per esempio, portano i manager a battersi per rivalutare strategie di distribuzione, ingaggiare provider di logistica esterni in maniera più estensiva e perfino condividere oneri con i concorrenti. Quando i prezzi del carburante crollano, i sistemi di distribuzione e trasporto diventano più lenti giacché le aziende evidenziano l’alto costo del servizio, tornando a spedizioni più piccole, frequenti e con modalità più veloci. I cambiamenti nei costi ed in altri indicatori operativi si stanno verificando in modo così veloce che le strategie convenzionali e le tecniche di design non riescono a tenere il passo. I nuovi progetti sono superati prima ancora che i manager riescano ad attuarli. Lo studio dell’IBM riscontra che l’attenzione alla flessibilità e la strutturazione di network logistici “agili” è uno degli strumenti che viene utilizzato per contrastare il problema dell’innalzamento dei costi. Infatti, quando si tratta di dover gestire i costi, le società con le maggiori Supply Chain – quelle riconosciute nella AMR Research’s Top Supply Chains per il 2008 – guardano alle conseguenze future. Si muovono più velocemente verso Supply Chain più snelle ed agili, che permettano rapide risposte alle mutevoli condizioni dei mercati ed alle strutture variabili dei costi che gradualmente aumentano e diminuiscono con i profitti. La flessibilità è il loro antidoto alla volatilità dei costi. La banalizzazione dei costi di trasporto, insieme ad una serie di altri fattori come l’avvento di Internet e delle tecnologie low-cost di comunicazione, che hanno portato, oltre ad una diminuzione dei costi aziendali relativi al flusso di informazioni, ad un annullamento dei tempi di invio e ricezione delle stesse informazioni, sono stati tra i motori della globalizzazione. L’idea di “fabbrica diffusa” ne è stata una logica conseguenza. Ma ora l’espansione dei costi di trasporto insieme (in realtà con un senso d’urgenza minore) a considerazioni sul cambiamento climatico e sull’impatto ambientale delle produzioni emission-intensive, spingono a ripensare a questo modello portando ad un “rientro delle filiere”. Un esempio di quanto detto è che nell’aprile del 2008 il costo della spedizione di un container da Shanghai ad un porto americano ammontava a $ 8000 contro i $ 3000 di qualche mese prima14. Questo maggior onere sostenuto dalle imprese è imputato ai clienti finali in maniera direttamente proporzionale alla quantità di merce trasportata nell’unita di carico (container): se, infatti, un costo per container quasi triplicato non ha un’eccessiva incidenza su un carico di magliette cinesi, lo stesso produce effetti 14 Maurizio Ricci, Le merci non viaggiano più. La produzione torna locale, La Repubblica, 24 giugno 2008, p.35,sezione: ECONOMIA diversi quando si fa riferimento alle movimentazioni oceaniche di beni pesanti e voluminosi come motori, elettrodomestici, parti di macchinari, mobilia. Inoltre i tempi di percorrenza, in quello stesso periodo, sono lievitati di quasi una settimana: le grandi navi porta-container hanno ridotto del 20% la velocità di crociera, per risparmiare sul carburante. Trasporti più cari e più lenti! Questo ha comportato ulteriori effetti negativi sulla fluidità degli scambi internazionali e sulla sostenibilità dei modelli industriali basati su delocalizzazione e sistemi just-in-time15. L’aumento dei costi di trasporto cargo – secondo uno studio della banca canadese degli investimenti CIBC – equivale ad una soprattassa del 9% sul commercio estero. Il risultato è che le riduzioni tariffarie introdotte negli ultimi anni dalla liberalizzazione degli scambi vengono azzerate o quasi. Ulteriori esempi di “trasformazione” che hanno portato le aziende alla riconfigurazione dei propri network logistici sono dati da IKEA che nel maggio 2008, per contenere l’incidenza dei costi di trasporto, ha aperto il primo impianto di produzione negli Stati Uniti, a Danville in Virginia. Un’area questa caratterizzata da una lunga tradizione distrettuale nella produzione di mobili che la globalizzazione (e in particolare la concorrenza asiatica) aveva messo in ginocchio; ora è una zona in pieno rilancio. IKEA non è l’unica casa ad aver modificato il proprio network logistico avendo intuito che non è più una strategia conveniente quella di spedire in Cina legname europeo (o americano) per essere trasformato in prodotto finito e poi nuovamente importarlo in Europa (o negli Stati Uniti) per la commercializzazione. Ancora, il caso della dream car Tesla, un coupé sportivo con motore interamente elettrico, che era nato su un modello di Supply Chain che assegnava la produzione delle batterie alla Thailandia, l’assemblaggio al Regno Unito, la finitura e la commercializzazione agli Stati Unti. Ora, invece, tutta l’auto è realizzata e assemblata nel raggio di un paio di chilometri dalla casa madre, in California. Seguendo la tendenza generale delle imprese manifatturiere intenzionate a rendere più corte (proprio in senso fisico) le catene di fornitura. Con la prevalenza di scelte di insediamento che privilegiano la vicinanza a fornitori e clienti finali. È possibile fare un ulteriore esempio, relativo all’acciaio brasiliano che veniva trasportato in Cina per la produzione di elettrodomestici. Una scelta imprenditoriale che conveniva quando il barile di petrolio costava $ 10, ma oggi assai meno conveniente, per via dei prezzi del petrolio schizzati all’insù di dieci quindici volte. È il modello di globalizzazione basato sull’idea di “fabbrica diffusa” (delocalizzazione) che viene messo in discussione perché troppo dispendioso dal punto di vista energetico. Questo però non significa una crisi generale del modello di integrazione globale dell’economia mondiale, che vede nel costo dei trasporti solo una delle componenti in gioco, ma certo un suo ripensamento. Specie per alcune tipologie di beni e per alcuni modelli di fornitura. BOX 1 – La disponibilità di petrolio a basso costo è in declino16 15 Gianluca Salvatori, Come il rincaro dei trasporti cambia la globalizzazione, Il sole 24 0re, Aprile 2008. 16 Aspo Italia, La crisi economica legata a diminuzione del petrolio. Sussistono ragioni molto fondate per ritenere che la crisi finanziaria, partita nel 2007 in modo graduale ed evoluta nel 2008 in un vero e proprio ridimensionamento dell’economia globale, tragga in gran parte la propria origine nell’incapacità di estrarre petrolio greggio in quantità sufficienti, e a costi sufficientemente bassi, tali da sostenere la crescita imposta dall’economia aperta di mercato ormai affermata in tutto il mondo. La medesima crisi e la conseguente diminuzione dei consumi ha senza dubbio avuto l’effetto, molto temporaneo, di rallentare l’incipiente deficit di petrolio, ovviamente al costo di un relativo impoverimento di molti Paesi e degli strati più svantaggiati delle relative (e sempre crescenti) popolazioni; l’attuale stabilizzazione dei prezzi del barile di petrolio, ben oltre gli 80 dollari, testimonia tuttavia che i fondamentali scatenanti non si sono modificati. La relativa e modesta ripresa in corso non potrà che accentuare e avvicinare il momento in cui l’offerta di petrolio non potrà più fare fronte alla domanda minima sufficiente a sostenere la crescita necessaria a uno sviluppo armonico e al benessere diffuso. La stessa Agenzia Internazionale per l’Energia e il Governo USA ha diffuso per la prima volta un avvertimento che, se ben interpretato e seguito da azioni adeguate, potrà aiutare almeno ad attenuare gli effetti del prossimo “crash” petrolifero la cui collocazione nel tempo è estremamente ravvicinata (entro 2-3 anni) e che, di fatto, rende difficilmente proponibili e praticabili programmi di riconversione a breve termine del sistema energetico e tecnologico. Emerge qualche positivo elemento di speranza, almeno per il nostro Paese, rappresentato, a titolo d’esempio, dal vero e proprio “boom” del fotovoltaico, passato in pochi anni da una nicchia trascurabile a oltre 1.200 MW di potenza installata, e dell’eolico, la cui potenza installata presto raggiungerà i 5.000 MW, contribuendo complessivamente per quasi il 5% al fabbisogno nazionale di energia elettrica. La via d’uscita necessita un forte sostegno da parte di tutti i livelli di governo e amministrativi riguardo alla produzione di energia da fonti rinnovabili, al risparmio e all’efficienza energetica e al trasporto sostenibile. Qualche dato sul picco del petrolio Il grafico sottostante è stato prodotto dal Dipartimento dell’Energia (DOE) del Governo degli Stati Uniti d’America a partire dai dati dell’Agenzia Internazionale per l’Energia (AIE), agenzia intergovernativa dei Paesi OCSE, dedicata allo studio e alle previsioni sul futuro energetico mondiale. Questa figura prospetta un futuro energetico molto preoccupante caratterizzato, a breve, dal picco della produzione di combustibili liquidi. Si tratta di un evento storico già in corso, il cui momento critico è collocabile, secondo i dati AIE, tra circa 18 mesi, intorno al valore di 87 milioni di barili al giorno. La produzione di petrolio convenzionale, che è in pratica tutto il petrolio con cui è stato alimentato il metabolismo sociale ed economico mondiale almeno negli ultimi 50 anni, ha superato un picco di capacità nel 2008, ed è prevista declinare con un tasso annuo del 4%. L’apporto di petrolio non convenzionale, essenzialmente sabbie bituminose e altri progetti simili, non coprirà che in minima parte il deficit che si sta aprendo tra domanda e offerta. Tale deficit è rappresentato, nella figura, dall’area bianca classificata come l’insieme dei progetti produttivi ancora da identificare, che si trova tra la porzione colorata della figura data dalla somma della produzione delle varie categorie di liquidi combustibili e la curva in colore blu scuro, che rappresenta le previsioni dell’AIE sulla domanda da oggi al 2030. In altre parole, la parte colorata della figura rappresenta la realtà, la parte bianca l’immaginazione. Questa quantità di petrolio “immaginario” ammonterebbe, nel 2030, alla cifra stratosferica di 60 milioni di barili al giorno, pari alla produzione attuale di sei produttori che hanno una capacità produttiva pari a quella dell’Arabia Saudita. I problemi, tuttavia, inizieranno molto prima, allorché la domanda inizierà a superare definitivamente l’offerta. Purtroppo le scoperte di nuovi giacimenti, lungi dal ripetere i fasti dei tempi in cui furono individuati i grandi campi petroliferi che ci hanno generosamente servito per diversi decenni, dopo un picco a metà degli anni sessanta del secolo scorso, sono andate irregolarmente ma inesorabilmente calando e si attestano oggi intorno ad 1/5 dei consumi. Tali scoperte sono inoltre principalmente costituite da progetti petroliferi estremamente complessi dal punto di vista geologico e ingegneristico (per esempio in alto mare, in zone perennemente coperte da ghiacci, a profondità chilometriche, greggio di qualità scadente, contenente sostanze pericolose o da eliminare, complicate lavorazioni di enormi quantità di sabbie o di rocce). Tale complessità si riflette in prima istanza, ovviamente, in costi economici più alti e ritorni energetici minori (minore estrazione di petrolio per unità di energia spesa per estrarlo), aspetto, quest’ultimo, che, indipendentemente dalle quantità di petrolio ancora esistenti, definisce il “vantaggio” tramite il quale la struttura socio-economico-produttiva può continuare a svilupparsi. Negli Anni Trenta del secolo scorso si utilizzava l’energia corrispondente a un barile di petrolio per estrarne cento, oggi con un barile se ne estraggono da dieci a quindici, e ciò pur tenendo conto degli enormi progressi tecnologici intervenuti nel frattempo! La stessa crescente complessità della ricerca ed estrazione di petrolio si riflette anche, come purtroppo testimoniano le recenti cronache dal Golfo del Messico, in un aumentato rischio di incidenti dalle conseguenze particolarmente gravi e durature. Il metabolismo sociale ed economico del nostro Paese, delle sue Regioni e città è ancora totalmente dipendente dalla fruibilità di combustibili liquidi a buon mercato. Il panorama prevedibile nella fase di declino di disponibilità di tali combustibili è caratterizzato da costi crescenti degli stessi che si trascineranno dietro costi crescenti dell’energia in generale e delle materie prime (come si è visto nel periodo 2004-2008). Tutti i settori produttivi, dai trasporti all’agricoltura, così come l’intero assetto economico e sociale soffriranno – in modo al momento imprevedibile – generando una riduzione delle disponibilità di beni, servizi e lavoro così come oggi li concepiamo. Si rileva che l’attuale fase di sostituzione dei combustibili liquidi di origine petrolifera con il gas naturale può alleviare solo in minima parte i problemi per il settore dei trasporti. È necessario, quindi, che l’azione politica e amministrativa si occupi nel più breve tempo possibile di garantire alla società il mantenimento dei servizi essenziali focalizzandosi verso la preparazione, sia materiale, sia culturale, di una comunità informata e resiliente, chiamata ad affrontare un periodo di diminuzione del flusso di beni e servizi senza per questo collassare o trasformarsi in qualcosa di diverso e sicuramente meno gradevole. Tali cambiamenti di rotta riguardano anche le imprese italiane, in particolare quelle che, negli anni in cui la tendenza dell’economia globalizzata iniziava ad essere quella di delocalizzare la produzione, hanno “conquistato” Timisoara (Romania); per tutti ormai considerata «l'ottava provincia veneta», punta di diamante di una poderosa delocalizzazione produttiva che ha riguardato tutta Italia17. Oggi, invece, i dati e i numeri monitorati dagli uffici di commercialisti, banche e associazioni imprenditoriali presenti in Romania mostrano defezioni e ridimensionamenti d’impresa: il 35% delle aziende nordestine presenti nel paese ha deciso di chiudere il proprio stabilimento o l'ufficio commerciale, su un totale di circa 11.200 aziende del Triveneto, il 40% delle 28.000 società italiane presenti. «Negli anni d'oro, tra la metà degli anni '90 e la metà degli anni 2000, si contava una media di 50 registrazioni di società italiane all'anno – spiega Roberto Turchetto, dello studio commercialista Boscolo e Partners, con sede principale a Trieste e Treviso e svariate sedi tra Bucarest e Timosoara – nel 2008 e 2009 non abbiamo costituito nessuna società». Nel 2006, alla vigilia dell'entrata del paese nella Ue, i primi segnali di allarme fra gli operatori: è sempre stato per le aziende più difficile trovare personale, vista la forte emigrazione, soprattutto maschile, e vista anche la dinamica esplosiva degli stipendi (+25%) che ha messo in crisi più di un'azienda. A tutto ciò si sono aggiunte altre problematiche, in particolare quelle relative all’incapacità del paese – per mancanza 17 Katy Mundurino, Un’azienda su tre lascia la Romania, Il Sole 24 ore, 5 Dicembre 2010. di organizzazione e per la forte corruzione – di utilizzare i fondi strutturali europei, fermi al 4-5% (il 2013, l'anno di scadenza per l'accesso a 19 miliardi destinati a infrastrutture, è alle porte) e burocrazia troppo macchinosa. «Con l'allargamento della Ue sono iniziate le difficoltà: abbiamo usato delle corriere anche fino a 80 chilometri dalle fabbriche per reclutare personale nelle campagne – racconta Bruno Gonzato, titolare di India Spa di Malo, Vicenza, produzione e distribuzione di ferro battuto. Ora la crisi ha fatto il resto, e abbiamo ridimensionato i due stabilimenti di Braila e Aiud da 400 a 150 dipendenti il primo, da 250 a 55 il secondo, preferendo mantenere il più possibile l'occupazione in Italia». I primi settori in cui le aziende italiane hanno fatto un passo indietro sono il tessile e il calzaturiero. È rilevante il caso Geox: l’addio della produzione in Romania è del marzo 2009. L'azienda trevigiana comunicava che «nell'ambito di una strategia di riorganizzazione produttiva, il gruppo ha ceduto le proprie attività manifatturiere in Romania a imprenditori terzi». La produzioni della "scarpa che respira" a Timisoara rappresentava nel 2008 il 5% del totale; oggi Geox basa tutto sull'outsourcing, mentre chi aveva rilevato gli stabilimenti romeni ha poi chiuso. Per l’economia romena, però, le opportunità restano grazie soprattutto ai programmi europei: la Romania è area Obiettivo 1. I settori delle energie rinnovabili, come ad esempio l'eolico, offrono opportunità di contributi a fondo perduto fino al 75%. Secondo Luca Serena, presidente di Confindustria Romania, «la caduta del costo di lavoro dovuta alla crisi, nonché l'incremento della disoccupazione ha portato il paese a essere nuovamente competitivo: nel tessile-abbigliamento molte aziende spostano lavorazioni dalla Cina in considerazione della buona qualità del manifatturiero romeno». «Sta cambiando la tipologia di imprenditori che sceglie di insediarsi qui – chiarisce Marco Rondina, direttore generale di Unimpresa Romania, l'associazione fondata nel 2003 e riconosciuta dal governo di Bucarest che riunisce le aziende italiane operanti nel paese. Oggi prevalgono gli operatori delle nuove tecnologie». Il cambiamento è frutto di una forte selezione: «La prima fase della delocalizzazione aveva portato imprese piccole, attratte dal basso costo del lavoro – osserva Antonio Bianchin, direttore generale di Banca Italo Romena, gruppo Veneto Banca –. Oggi chi arriva ha medie o grandi dimensioni, una struttura solida, e una preparazione pianificata con cura». «La rilocalizzazione – dichiara Claudio Aldo Rigo, responsabile di Territorio Nord Est di UniCredit – è minoritaria rispetto all'interesse che il paese continua a riscuotere, anche se in questo momento la Romania è ancora in crisi e i consumi restano deboli». MODIFICHE DEI NETWORK LOGISTICI DERIVANTI DA INPUT ESTERNI. UN’ESEMPIO: LA NUOVA LEGGE SUL MADE IN ITALY (L.55/2010) Il fenomeno della delocalizzazione Il fenomeno della delocalizzazione delle attività all’estero ha assunto una rilevanza notevole anche per il nostro Paese. È stato evidenziato che tale fenomeno può essere visto come l’altra faccia del processo di evoluzione e riposizionamento internazionale dell’economia; un fenomeno che comporta, inoltre, la crescita e il cambiamento dei servizi di trasporto e logistica (traslog), che in questa chiave diventano sempre più funzioni strategiche per il governo e l’integrazione delle reti produttive internazionali. In particolare la delocalizzazione interessa massicciamente alcuni settori produttivi, quelli del made in Italy, in cui l’Italia ha, storicamente, una forte specializzazione. Questo significa che negli ultimi vent’anni le imprese italiane di questo settore hanno ristrutturato i propri network logistici per adattarsi ai mutamenti del mercato. Ma oggi, con l’entrata in vigore della L.55/2010, la nuova legge sul made in Italy, le stesse imprese dovranno ripensare alle proprie reti, modificando nuovamente le proprie scelte localizzative in funzione degli obblighi imposti dalla legge per poter mantenere i “vantaggi” del marchio Made in Italy. L’impatto di questi mutamenti si ripercuote in maniera forte sul sistema dei trasporti e della logistica. Come è stato analizzato nei paragrafi precedenti, l’importanza dei costi di trasporto sulle decisioni d’impresa è evidente: essi equivalgono, infatti a barriere tariffarie che limitano gli scambi. La loro riduzione ha contribuito, negli anni, ad aumentare la commerciabilità dei beni e dei servizi, spingendo i sistemi economici ad accrescere la divisione del lavoro basata sui rispettivi vantaggi comparati, dando un’importanza sempre maggiore al settore della logistica. Un aspetto importante del fenomeno della delocalizzazione è il cambiamento delle caratteristiche della domanda di trasporto in conseguenza proprio dei processi di frammentazione internazionale della produzione (IFP18). Il fenomeno dell’IFP è cresciuto in maniera considerevole negli ultimi anni sotto l’impulso di innovazioni che sono avanzate su più frontiere tecnologiche, in particolare nell’automazione, nell’Ict e nella Logistica. L’affermazione di veri e propri mercati internazionali delle tecnologie riduce l’esigenza di recuperare all’interno delle singole organizzazioni produttive le economie di scala connesse alla produzione di conoscenza, creando così uno spazio interessante per la diffusione dell’innovazione all’interno dei sistemi decentrati di divisione del lavoro. In questo modo la scomposizione in fasi distinte dei processi produttivi genera conseguenza anche sulle forme di mercato, favorendo lo sviluppo di reti di fornitura internazionale19. È evidente il ruolo strategico dei trasporti e della logistica in questa nuova organizzazione della produzione. È sempre maggiore la domanda di collegamenti internazionali specializzati, a livello di distretto, per integrare la produzione decentrata. I diversi modelli di integrazione stabiliti con le diverse aree geo18 Con tale concetto s’intende il fenomeno di scomposizione tecnica e organizzativa dei cicli produttivi e la conseguente differenziazione spaziale (internazionale) nella delocalizzazione delle distinte fasi del processo industriale. 19 Giancarlo Corò – Mario Volpe, Delocalizzazione internazionale e domanda di trasporto nei sistemi produttivi locali del Made in Italy, Dipartimento di scienza economiche, Università Ca’Foscari di Venezia. economiche, esprimono chiaramente anche una diversa tipologia di domanda: da un lato, flussi bilanciati e sincronizzati con la produzione industriale nell’integrazione verticale con l’Europa centro-orientale; dall’altro, collegamenti più squilibrati nella stessa direzione ma anche programmabili per gestire i flussi di «commercializzato» con l’Asia. In entrambi i casi, inoltre, sono da considerare le implicazioni logistiche relativamente a due fenomeni che stanno crescendo di importanza: da un lato, la crescita dei flussi di export di beni d’investimento verso le aree della delocalizzazione, i quali richiedono una logistica più complessa che riguarda, non solo il trasporto del bene, ma sempre più i ricambi, i servizi e le informazioni tecniche; dall’altro, la crescita dei mercati dell’output e lo sviluppo di operazioni estero-su-estero, che richiede una maggiore capacità di organizzazione di reti logistiche estese. In definitiva, la sostenibilità dei processi di riposizionamento che l’economia sta attraversando dipendono anche (in buona misura) dalla capacità del sistema dei trasposti e della logistica alle nuove domande di relazioni produttive internazionali che le imprese stanno esprimendo20. Il processo di delocalizzazione nei settori del “made in Italy”; uno sguardo di lungo periodo: l’importanza del fenomeno e la sua evoluzione storica Storicamente l’internazionalizzazione produttiva dell’industria italiana è stata modesta, se confrontata con i principali paesi europei21. Ancora oggi la quota di investimenti diretti esteri (IDE) in uscita sul PIL, in Italia, è limitata rispetto a quella di altri paesi industrializzati comparabili al nostro per dimensione e grado di sviluppo. A spiegare questa situazione sicuramente contribuiscono alcune caratteristiche strutturali dell’economia italiana22: • • 20 il primo fattore è la contenuta dimensione media delle imprese: vi è sicuramente una relazione diretta e positiva tra dimensione dell’impresa e capacità di organizzare la propria attività su scala internazionale. Questa richiede capacità finanziarie e cospicue risorse strategiche, manageriali, organizzative, logistiche e di controllo che normalmente sono relativamente meno disponibili nelle imprese di minore dimensione; un secondo importante fattore è collegato alla possibile maggiore rilevanza di economie esterne a carattere “distrettuale”. Esse renderebbero meno conveniente l’organizzazione della produzione su scala internazionale dato che proprio la compresenza in ambiti territoriali limitati di una pluralità di imprese specializzate, di fornitori, di servizi, può contribuire notevolmente a determinare la competitività della singola impresa. Ibidem, p.6. Viesti G., Gli investimenti diretti all’estero dell’italia: una ricostruzione statistica e alcune riflessioni, in L’Industria, 1985. 22 Federico S., L’internazionalizzazione produttiva italiana e i distretti industriali: un’analisi degli investimenti diretti all’estero, Banca d’Italia, Temi di discussione, n.592, 2006. 21 Quest’ultimo fattore s’incrocia con la ben nota specializzazione dell’industria italiana. In Italia sono meno rilevanti rispetto ad altri grandi paesi industriali i settori ad “elevate economie di scala”. Sono rilevanti, invece, i settori di “produttori specializzati”. Traendo essi parte importante della propria capacità competitiva dall’interazione frequente con fornitori specializzati di componenti, da stretti legami produttore-utilizzatore e da innovazione incrementale in una vasta gamma di beni fortemente disegnati dal cliente (“customizzati”), tendono ad internazionalizzarsi molto più attraverso il canale dell’export o con acquisizioni all’estero che non frammentando su scala internazionale i processi produttivi. Più complessa è la situazione dei settori produttivi di beni tradizionali di consumo, altro comparto in cui sono concentrati i vantaggi competitivi dell’Italia. Come spiegare il basso grado di internazionalizzazione, quantomeno fino a 15 anni fa, delle imprese italiane di questi settori, in cui la forte rilevanza dei costi diretti del lavoro e il basso tasso di innovazione di prodotto in senso stretto possono rendere particolarmente conveniente la produzione in paesi a basso costo del lavoro? La spiegazione chiama tradizionalmente in causa la bassa dimensione aziendale, le economie distrettuali, l’interazione stretta con i fornitori di macchinari (e cioè l’innovazione di processo) e la specializzazione in segmenti produttivi caratterizzati da lotti di produzione piccoli e in veloce cambiamento nel tempo: tutti elementi che tendono a rendere meno conveniente la frammentazione internazionale della produzione23. Vicinanza al cliente e rapidità dei tempi di risposta al mercato e di continua modificazione della gamma produttiva per seguire le mutevoli tendenze della domanda («effetto moda») rendono difficile e costoso produrre all’estero. La presenza di fornitori specializzati di componenti e di servizi, così come di aziende ad elevata professionalità specializzate in specifiche fasi, la necessità di un’interazione continua, spesso su aspetti tecnici difficili da codificare, rendono invece conveniente frammentare la produzione all’interno del distretto o quantomeno in Italia. Come largamente noto a partire dagli anni Settanta, le grandi aziende del made in Italy hanno velocemente e massicciamente frammentato la propria produzione, in particolare nel Nord Est e in Toscana e lungo la dorsale adriatica. Molti distretti sono nati e sono cresciuti grazie ad uno stock di conoscenze specialistiche che si riescono a trasmettere e ad accumulare solo attraverso l’interazione personale e di funzioni non di routine, sia manuali che analitiche, poco codificabili, che sono difficilmente standardizzabili e, quindi, difficilmente trasferibili a distanza oltre che difficilmente imitabili. Ma a partire dal periodo compreso tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta la situazione è cambiata: le imprese italiane hanno sperimentato un crescente e intenso processo di delocalizzazione di attività di produzione all’estero. Protagoniste di questa fase sono anche e soprattutto medie e piccole imprese localizzate all’interno dei distretti industriali. In questo periodo la situazione internazionale si modifica a causa di una serie di fattori che possono essere riassunti nella progressiva liberalizzazione dei mercati (soprattutto in Europa), che ha portato ad una altrettanto progressiva liberalizzazione del commercio, e ad un’accresciuta concorrenza da parte dei paesi emergenti. L’effetto combinato di questi due fattori spinge le imprese a ricercare nuove soluzioni per continuare a competere sui mercati internazionali. Per molte di queste, ma non per tutte, la delocalizzazione rappresenta l’unica risposta per fronteggiare i nuovi competitors internazionali, in quanto 23 Francesco Prota – Gianfranco Viesti, La delocalizzazione internazionale del Made in Italy, Università di Bari, CERPEM, 2008. permette di combinare l’elevata produttività e l’elevato livello tecnologico in patria con bassi costi del lavoro all’estero. Tutte le analisi disponibili indicano nella riduzione dei costi di produzione, attraverso la ricerca di aree con un basso costo del lavoro, la ragione alla base della decisione di delocalizzare la produzione (o parte di essa). Le aree di destinazione degli investimenti sono caratterizzate, infatti, da un basso costo del lavoro ed è proprio in questi paesi che le imprese trasferiscono le fasi della produzione maggiormente unskilled labour intensive24. Si tratta, dunque, principalmente di investimenti di natura “verticale” che generano forti flussi di commercio intra-industriale con le case madri. Alla riduzione dei costi di produzione, che è la motivazione principale della delocalizzazione che caratterizza anche il settore del made in Italy, si aggiunge la possibilità di effettuare economie di scala. È da evidenziare anche che, come recentemente sta accadendo, molte imprese iniziano a considerare i paesi nei quali hanno trasferito tutte o parte delle fasi del processo produttivo, come possibili mercati finali dei loro prodotti o, comunque, come possibili basi per raggiungere altri mercati. Rilevante è l’estrema rapidità con cui il fenomeno si è diffuso nei settori del made in Italy. Fino alla metà degli anni Ottanta la delocalizzazione internazionale nei settori tradizionali dell’economia italiana (soprattutto quelli del made in Italy) è quasi completamente assente. I dati di TPP25 per i settori tessile-abbigliamento e per quello calzaturiero mostrano chiaramente questa fase di espansione fino ed oltre il 1996. FIGURA 10: 24 Barba Navaretti G. - Falzoni A.M. - Turrini, The decision to invest to Low-Wage Country: Evidence from Italian textiles and clothing multinationals, in Journal of International Trade&Economic Development, vol.X, n.4, pp.451-470, 2001. 25 Traffico di Perfezionamento Passivo: misura, separatamente dai flussi di scambio definitivi, i movimenti di merci in uscita dall’UE e destinate ad essere perfezionate al di fuori del territorio economico dell’UE (esportazioni temporanee) e quelli relativi alle importazioni nel territorio comunitario di merci «a scarico di esportazioni temporanee» (reimportazioni). FIGURA 11: Come mostrano chiaramente i grafici precedenti, nel 2005 il valore dell’import di prodotti tessili e abbigliamento proveniente dai paesi dell’Europa centro-orientale è 11 volte quello del 1991 (Fig. 10). Una crescita ancora maggiore si registra nel caso delle calzature (Fig.11). Che il crescente flusso di import dai paesi emergenti sia un segnale anche di fenomeno di delocalizzazione in atto trova conferma nel fatto che le merci provenienti da questi paesi sono dirette principalmente verso provincie specializzate e forti esportatrici degli stessi beni che importano. Nei settori fin qui analizzati, utilizzando un indicatore che misura la capacità delle imprese manifatturiere italiane di controllare i flussi di importazione dei paesi emergenti, si evince come questo sia concentrato in misura significativa nelle provincie dove hanno sede i principali distretti produttivi italiani del made in Italy26. All’evoluzione quantitativa del fenomeno si può associare anche un’evoluzione di tipo qualitativo. Quest’ultima è naturalmente più difficile da documentare, ma vi è evidenza che molte imprese che inizialmente trasferiscono solo le fasi produttive più semplici, con il passar del tempo delocalizzano anche quelle più complesse e, in alcuni casi, finanche tutto il ciclo produttivo (ma non le fasi a monte e a valle della manifattura). Questo avviene di pari passo con la crescita della qualità media dei subfornitori esteri, attraverso processi di apprendimento simili (anche se forse non nella velocità) a quelli che hanno caratterizzato molti subfornitori italiani. Inoltre se, in un primo momento, ad essere delocalizzata è soprattutto la produzione di beni di qualità medio-bassa, successivamente si trasferisce anche la produzione di beni di fascia alta, proprio per i mutamenti a cui abbiamo appena fatto cenno. Come conseguenza la delocalizzazione, nata principalmente come risposta alle pressioni competitive, diviene parte di una più generale strategia di riorganizzazione su scala globale, e si associa in taluni casi al processo di riposizionamento competitivo verso produzioni di alta gamma che sta interessando molte imprese all’interno dei distretti industriali specializzati nei settori del made in Italy. I paesi con i quali l’Italia stabilisce stretti legami produttivo-commerciali sono, in primis, quelli dell’Europa dell’Est. La motivazione principale sta nel più basso costo del lavoro rispetto all’Italia e agli altri paesi occidentali. Le differenze nel costo del lavoro sono notevoli pur tenendo conto della più bassa produttività in questi paesi: si 26 Banca Intesa, Monitor dei distretti, 2006. stima che nella prima metà degli anni Novanta (vale a dire il periodo in cui la delocalizzazione si consolida) il costo del lavoro per unità di prodotto, in Italia, nel settore tessile-abbigliamento, fosse in media il triplo di quello nei paesi dell’Europa centro-orientale. Il fenomeno della delocalizzazione nei settori del made in Italy non interessa con la stessa intensità tutte le aree del paese: nel caso del settore tessile-abbigliamento una maggiore concentrazione del fenomeno la si può rilevare nel gruppo di regioni è composto da Veneto, Emilia-Romagna, Umbria, Marche, Abruzzo e Puglia; nel caso del settore cuoio-calzature, invece, le regioni interessate sono Veneto, Marche, Abruzzo e Puglia. Si tratta, dunque, di un fenomeno che interessa di più alcune aree del paese (le regioni nord-orientali e sud-orientali). È possibile, quindi, parlare di una «connessione adriatica». Effetti della delocalizzazione del made in Italy27 Riassumendo sinteticamente l’evidenza disponibile si può affermare che il trasferimento della produzione (o di fasi di essa) in paesi con un basso costo del lavoro non abbia generalmente un effetto negativo sulle imprese finali domestiche. Le imprese sono spinte a riorganizzare le loro attività e a sostituire mansioni che richiedono basse competenze con altre che ne richiedono di elevate, ad esempio spostando il proprio interesse verso il settore della logistica. Questo appare coerente con la teoria: dato che i moduli produttivi vengono svolti lì dove la convenienza è massima, e il costo unitario minore, la produttività complessiva dell’impresa aumenta28. L’assenza di effetti negativi (meglio, la presenza di effetti positivi) è ancora più evidente quando confrontata con lo scenario ipotetico di mantenimento di tutta la produzione nel paese di origine. Discutere degli effetti della delocalizzazione non è semplice. Infatti, innanzitutto, bisogna distinguere fra effetti sull’impresa che delocalizza e effetti sul sistema produttivo nel suo complesso; poi, fra effetti di breve e di lungo periodo. In più, un’accurata analisi degli effetti sulle imprese domestiche deve considerare un appropriato scenario controfattuale: cosa sarebbe successo in assenza di questi processi. Non è detto che senza la delocalizzazione la produzione e l’occupazione delle imprese che hanno scelto questa strategia sarebbe rimasta la stessa; è, al contrario, possibile ipotizzare che si sarebbe ridotta, per le difficoltà di fronteggiare l’accresciuta concorrenza internazionale senza ricorrere ai vantaggi derivanti dal trasferire parte delle attività in paesi con un più basso costo del lavoro. Mantenere tutta la produzione nei paesi d’origine, in questi casi, potrebbe semplicemente non essere più un’opzione percorribile a patto di non voler essere estromessi del tutto dal mercato. 27 Francesco Prota – Gianfranco Viesti, La delocalizzazione internazionale del Made in Italy, Università di Bari, CERPEM, 2008. 28 Baldwin R., Globalisation: The Great Unbundling, paper per il progetto «Globalisation Challenges for Europe and Finland», 2006, www.eu2006.fi. Un effetto particolarmente interessante quando si analizzano gli effetti della delocalizzazione sull’occupazione domestica è infatti verificare se si ha una variazione della composizione dell’occupazione domestica nel senso di uno skill upgrading29. Il trasferimento all’estero delle fasi del processo produttivo a più alta intensità di lavoro comporta una perdita di posti di lavoro «manifatturieri» ma, allo stesso tempo, crea nuove opportunità di lavoro che richiedono competenze superiori attinenti la gestione e il coordinamento di attività distintamente localizzate. Nel caso italiano vi è evidenza che esista un legame positivo e significativo fra la frammentazione internazionale e l’aumento del rapporto fra lavoratori ad alta e bassa qualifica nei settori tradizionali. La delocalizzazione è un fenomeno rilevante non solo perché introduce trasformazioni nell’impresa che trasferisce parte della produzione all’estero, ma anche perché trasforma la struttura dei sistemi produttivi locali, in particolare nel caso dei distretti del made in Italy. Colpisce, come nel caso della Romania, la contemporaneità temporale fra aumento degli occupati romeni «indotti» dalle imprese italiane del tessile-abbigliamentocalzature e il corrispondente calo dell’occupazione in Italia. Pare evidente un effetto di sostituzione. Anche lo skill upgrading può interessare non solo la singola azienda, ma anche il contesto economico in cui l’impresa che delocalizza è collocata. Savona e Schiattarella30 mostrano come la rilocalizzazione internazionale della produzione attuata dalle imprese del made in Italy abbia un effetto considerevole sulla crescita del settore dei servizi nelle aree (province) di origine; in particolare, a più alti livelli di internazionalizzazione produttiva corrisponde una più alta crescita dell’occupazione nel settore dei servizi. Producendo meno in Italia e controllando direttamente un numero minore di fasi produttive, le imprese saranno sempre in grado di innovare nei prodotti e mantenere il proprio vantaggio competitivo? Quanto è importante che il «made in» sia davvero prodotto in Italia?31 Certo il successo del made in Italy si è basato, nei passati decenni, sulle innovazioni derivanti dallo stretto contatto tra chi progettava e chi produceva. La divisione spaziale tra la progettazione e la produzione può in teoria creare problemi: una perdita di informazioni sul processo produttivo, la riduzione della capacità di innovazione incrementale. Delocalizzando c’è il rischio di perdere le competenze tecniche e la capacità innovativa che hanno costituito, fino ad oggi, il principale elemento di forza della produzione distrettuale italiana? Trasferendo l’attività produttiva all’estero le imprese distrettuali potrebbero non avere più interesse ad investire nella formazione professionale a livello locale32. Il processo di delocalizzazione internazionale potrebbe aumentare fortemente l’incertezza all’interno dei distretti, rendere poco attraente per i giovani intraprendere una carriera nei settori del made in Italy. 29 Francesco Prota – Gianfranco Viesti, La delocalizzazione internazionale del Made in Italy, Università di Bari, CERPEM, 2008. 30 Savona – Schiattarella, International Relocation of Production and the Growth of Services: The case of the «Made in Italy» Indutries, in «Transnational Corporations», vol.13 n.2, pp57-76, 2004. 31 Francesco Prota – Gianfranco Viesti, La delocalizzazione internazionale del Made in Italy, Università di Bari, CERPEM, 2008. 32 Mariotti, Le strategie di delocalizzazione delle imprese del Nord Est nei paesi dell’Europa sud orientale: reti lunghe o fabbriche con le ruote?, in «L’Italia nell’economia internazionale. Rapporto ICE 2002-2003», 2004. La delocalizzazione può causare una perdita di competitività dovuta al continuo trasferimento di conoscenze specializzate e competenze strategiche al di fuori del sistema produttivo locale?33 I sistemi produttivi locali sono depositari di risorse tangibili e intangibili, che risiedono all’interno delle imprese locali, e sulle quali sono costruite le cosiddette localized capabilities. Il trasferimento della produzione in luoghi geograficamente distanti può minacciare queste capabilities e, quindi, i fattori sui quali sono basati i vantaggi competitivi delle economie locali? La delocalizzazione porta le imprese a riorganizzare su scala internazionale le attività di produzione, distribuzione e logistica; esse riescono così a fronteggiare con maggiore successo le difficoltà legate ad una domanda sempre più flessibile e differenziata e ad una concorrenza internazionale sempre più vivace. Attraverso il decentramento internazionale della produzione, le imprese consolidano la loro presenza in mercati in cui erano già presenti e si ritagliano nuovi spazi su mercati in forte crescita. Hanno la possibilità di concentrarsi nelle attività legate al marketing ed alla distribuzione. La delocalizzazione può permettere alle imprese di attuare un «avanzamento funzionale» all’interno della catena del valore; di accumulare esperienza; di imparare. La delocalizzazione può, dunque, essere un’opportunità importante per le imprese italiane per continuare ad essere competitive in settori maturi. Non si dimentichi poi un dato di fondo: che si tratta, come si è visto, di un fenomeno crescente, ma che non riguarda certo tutte le imprese. Sono molte le imprese che continuano a conservare l’intera catena del valore in Italia, al proprio interno, o tramite sub-forniture «distrettuali»: imprese con prodotti molto differenziati o con gamme produttive molto ampie; con prodotti di fascia di mercato molto alta o che richiedono manodopera molto qualificata; con un «time to market» molto breve o con frequenti collezioni, riassortimenti. Si pensi all’importanza cruciale di trasporti e logistica, a medio e lungo raggio, sulla competitività di una parte importante dell’industria italiana, dato che per unità di prodotto venduta sul mercato i costi di trasferimento di parti e componenti, o dell’intero prodotto finito, aumentano. Una trasformazione strutturale dunque, da analizzare, comprendere e affrontare con grande attenzione. Legge 8 aprile 2010, n° 55: input esterno che modifica i network d’impresa La legge Reguzzoni - Versace, legge n.55 dell' 8 aprile 2010, reca "Disposizioni concernenti la commercializzazione di prodotti tessili, della pelletteria e della calzatura" ed è un provvedimento di tutela del "Made in Italy" nei settori del tessile, dell'abbigliamento e dell'arredo che interessa tutti i consumatori italiani. Tale legge prevede un sistema di etichettatura obbligatoria dei prodotti della pelletteria e del calzaturiero, nonché di quelli tessili, che mette in risalto il luogo di origine di ciascuna fase di lavorazione garantendone la tracciabilità. Il marchio "Made in Italy", quindi, potrà essere apposto solo sui prodotti finiti che abbiano avuto fasi di lavorazione "prevalentemente" nel territorio nazionale. La legge specifica che almeno due fasi della lavorazione devono essere effettuate in Italia. Le altre fasi, invece, dovranno portare l'indicazione dello Stato di provenienza. 33 Francesco Prota – Gianfranco Viesti, La delocalizzazione internazionale del Made in Italy, Università di Bari, CERPEM, 2008. Per quanto riguarda l'etichetta, essa dovrà indicare che le lavorazioni hanno rispettato le norme vigenti in materia di lavoro di sicurezza dei prodotti, l'esclusione dell'impiego di minori nella produzione, nonché il rispetto della normativa europea e degli accordi internazionali per l'ambiente. Le sanzioni previste per la mancata o scorretta etichettatura vanno da 10 a 50 mila euro. Se la violazione è reiterata sono previste anche pene detentive variabili da uno a sette anni. Da sempre Consiglio e Commissione Europea hanno bocciato ogni possibilità di etichettatura obbligatoria limitandola a prodotti extraeuropei. Unica eccezione concessa è quella che riguarda gli aspetti "sanitari", quelli a tutela della salute dei consumatori. Al comma 4 del art.1 viene stabilito che: «L’impiego dell’indicazione “Made in Italy” è permesso esclusivamente per prodotti finiti per i quali le fasi di lavorazione, come definite ai commi 5, 6, 7, 8 e 9, hanno avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e in particolare se almeno due delle fasi di lavorazione per ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi è verificata la tracciabilità». Questo comporterà, per le imprese del settore, una modifica delle proprie reti, dei propri network logistici; una radicale inversione di tendenza rispetto alla situazione evidenziata nei paragrafi precedenti: una delocalizzazione inversa caratterizzata dal rientro delle filiere. Ai commi 5, 6, 7 e 9 sempre dell’art.1, vengono definite per ogni settore considerato al comma 1, ossia quello tessile, quello della pelletteria e il calzaturiero, le rispettive fasi di produzione: al comma 5, infatti, si sancisce che «nel settore tessile, per fasi di lavorazione si intendono: la filatura, la tessitura, la nobilitazione e la confezione compiute nel territorio italiano anche utilizzando fibre naturali, artificiali o sintetiche di importazione»; al comma 6, invece, si stabilisce che «nel settore della pelletteria, per fasi di lavorazione si intendono: la concia, il taglio, la preparazione, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo di importazione»; al comma 7 è stabilito che «nel settore calzaturiero, per fasi di lavorazione si intendono: la concia, la lavorazione della tomaia, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo di importazione»; al comma 9, infine, è sancito che «nel settore dei divani, per fasi di lavorazione si intendono: la concia, la lavorazione del poliuretano, l’assemblaggio dei fusti, il taglio della pelle e del tessuto, il cucito della pelle e del tessuto, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando pellame grezzo d’importazione». Non è più possibile per le imprese italiane operanti nel settore del made in Italy sfruttare gli eventuali vantaggi di una delocalizzazione totale della produzione. Come analizzato in precedenza, non tutte le imprese del settore del made in Italy hanno optato per tale opportunità; è proprio questa la conferma del fatto che la spinta alla nuova iniziativa di legge che ha poi portato all’emanazione della L.55/2010 nasce dai c.d. “contadini del tessile”, i quali danno luogo ad «un movimento che ha ispirato l’iniziativa per un made in “fatto in casa”»34. I contadini del tessile, infatti, si sostanziano nella categoria imprenditoriale di coloro i quali non delocalizzano all’estero la produzione; di tale categoria sono parte anche le imprese – in tutto od in parte – terziste dei produttori tessili di maggiori dimensioni. La maggior parte delle imprese, però, si avvale, ad oggi, di un sistema di produzione frammentato. 34 Fatiguso, Made in tutelato per legge, Il Sole-24 Ore, 18 marzo 2010, p. 6. Questa analisi dimostra che le strutture dei network d’impresa sono soggette a mutamenti non solo a causa di variazioni dei fattori interni al sistema, come ad esempio l’aumento del costo del trasporto (vedi paragrafo 2.2.), ma anche a causa di variazioni di fattori esterni, quali, ad esempio, le decisioni istituzionali. Nel caso in esame, tali decisioni hanno un effetto diretto sui network logistici in quanto obbligano alcune categorie di imprese a trasferire le fasi produttive all’interno dei confini nazionali, comportando un radicale cambiamento rispetto alle attuali “abitudini” della maggior parte di esse. Le decisioni istituzionali, però, possono avere anche un’incidenza di tipo indiretto come, ad esempio, nel caso in cui lo Stato decidesse di diminuire la pressione fiscale sul costo del lavoro così da favorire un eventuale rientro in patria degli stabilimenti produttivi (come nel caso americano). IL FENOMENO ATTUALE DEL RESHORING: IL RIENTRO DELLE FILIERE E LE NUOVE TENDENZE DELLA LOGISTICA «Il paradigma economico attuale, in particolare nei mercati del trasporto e della logistica, è contraddistinto dalla continua innovazione di processo e di servizio che comporta la necessità di considerare sempre nuove condizioni tecnologiche ed economiche, evidentemente molto difficili da valutare in anticipo, con modificazioni continue dei posizionamenti e dei network di filiera alla ricerca del minore costo traslog (trasporti e logistica)»35. Ad esempio nel caso della Grimaldi Lines, armatore del Ro/Ro del Mediterraneo, che ha ampliato i propri network includendo dei nuovi approdi, nel caso specifico quello di Porto Torres, con l’obiettivo di captare una domanda di servizio di trasporto che prima non era nelle strategie aziendali, per combattere la crisi. Ancora, il caso della Swatch che cerca, in Svizzera, aree da destinare a nuovi stabilimenti produttivi per i suoi orologi, che verranno, quindi, prodotti ai maggiori costi locali del lavoro ma a costi traslog altamente competitivi nella corrispondenza ottimale tra filiera traslog e filiera merceologica, produttiva e transattiva36. Altro elemento che incide sulle modificazioni dei network di filiera, portando a riallocazioni e riposizionamenti, è il costante aumento del c.d. costo dell’ “ultimo miglio”. Per ultimo miglio viene identificata quella parte della filiera trasportistica volta al collegamento tra porti o aeroporti e lo stabilimento di produzione o il magazzino, che generalmente è un percorso stradale; l’aumento del costo di tale collegamento è fortemente collegato all’aumento del costo del carburante, nonché alla congestione delle vie di comunicazione, ossia al costo generalizzato (C.G.). Nel dettaglio, il C.G. comprende oltre al costo monetario dello spostamento, anche il costo in termini di tempo impiegato per lo stesso, tenendo conto del valore monetario ad esso attribuibile. La congestione può essere intesa come un’esternalità negativa di tempo, la cui principale caratteristica risulta quella di essere per gran parte interna al sistema dei trasporti, più precisamente, interna alla modalità di trasporto presa in considerazione. Essa è determinata dal numero di utenti che, in un determinato istante, decidono di utilizzare un’infrastruttura di capacità limitata che ha raggiunto già il suo livello di capacità massima. Ulteriore elemento che incide sulle scelte localizzative delle imprese dev’essere, pertanto, il livello di congestione della rete di trasporto che connette l’impresa alle principali vie di collegamento nazionali ed internazionali sia in ingresso, per il collegamento con i mercati di approvvigionamento, di materie prime o semilavorati, sia in uscita, per il collegamento ai mercati di sbocca relativi alla distribuzione dei prodotti finiti. Un recente evento che testimonia quanto precedentemente detto è l’ingorgo di 100 km durato quasi un mese, che si è verificato nell’Agosto 2010 sulla National Express Way 110, principale autostrada cinese che collega la capitale, Pechino, a Jinin, in Tibet, solitamente attraversata da mezzi pesanti per il trasporto di carbone (materia prima). Il fenomeno del “rientro delle filiere” si sta sviluppando in un contesto economico caratterizzato dall’attuale crisi che ha colpito l’Italia e l’intero mondo e che ha raggiunto il suo punto più basso nel corso del 2009. 35 Forte Ennio, Analisi economica, scenari emergenti e azioni strategiche per la revisione delle lineeguida del Piano Generale della Mobilità, 2010 - dal sito: www.logisticaeconomica.unina.it. 36 Forte Ennio, Analisi economica, scenari emergenti e azioni strategiche per la revisione delle lineeguida del Piano Generale della Mobilità, 2010 - dal sito: www.logisticaeconomica.unina.it. È rilevante notare che anche nell’economia statunitense si sta generando un fenomeno di questo tipo; esso è stato denominato dagli economisti americani onshoring (o reshoring). Tale termine sta ad identificare la tendenza, di alcune grandi imprese americane, a riportare la produzione in patria, avvicinando gli stabilimenti produttivi alle case-madri. A dimostrazione di tale tendenza è significativo il caso della General Elettric (G.E.) che sta riportando in patria la produzione dei propri water heater, abbandonando così, la produzione in Cina37. Decisioni simili sono state fatte o sono in procinto di essere fatte da colossi dell’economia americana quali NCR, Caterpillar e Ford. Tale fenomeno è stato definito da molti studiosi americani come un trickle, ossia una goccia, e non come un flood, alluvione, intendendo con ciò che si è in presenza di fenomeni sporadici che non riguardano ancora la totalità delle imprese americane. Ma, seppure è vero che le aziende che delocalizzano sono ancora numericamente superiori a quelle che seguono il percorso contrario, il fenomeno del reshoring (rientro delle filiere) sta assumendo una notevole rilevanza. Secondo il CEO di una divisione della G.E., Jim Cambell, infatti, questo fenomeno potrebbe portare, nel tempo, a ribilanciare, seppur parzialmente, un fenomeno inverso che ha portato negli USA, dal 1978 ad oggi, una contrazione della forza lavoro da 19,4 milioni a 11,6. Tra le principali motivazioni che hanno favorito lo sviluppo del fenomeno del reshoring è possibile identificare: la minore convenienza della produzione all’estero, rispetto agli anni precedenti. I salari nei paesi emergenti stanno crescendo (+15% rispetto allo scorso decennio, restano comunque una frazione di quelli americani e dei paesi industrializzati in genere); il costo dei trasporto dei beni è aumentato sensibilmente (+71% negli ultimi quattro anni). Uno studio mostra come un prodotto made in USA costi oggi il 22% in più rispetto al caso in cui venga prodotto in una delle tigri asiatiche, contro il 32% del 2006: segno che il divario si sta riducendo e che, quindi, diminuisce contemporaneamente la convenienza a spostare o lasciare localizzate le fasi produttive in paesi emergenti, dove il costo del lavoro è generalmente più basso; alcuni tra i paesi industrializzati stanno reagendo attraverso la regolamentazione interna: cercano di incentivare la produzione in patria con un mix di incentivi fiscali ed interventi regolamentari. In America, ad esempio, sono previsti incentivi fiscali per le imprese che riportano la produzione in patria, inoltre, grazie sempre ad incentivazioni statali, sono previsti contratti di lavoro più vantaggiosi (per le imprese) con lo scopo di attenuare il divario tra il costo del lavoro interno (produzione nazionale) e il costo del lavoro nei paesi emergenti (produzione estera). La General Elettric, in Luisiana, pagherà i propri dipendenti 13 dollari all’ora contro i 22 dollari stabiliti nel precedente contratto38; produrre in patria consente di ridurre (fisicamente) il magazzino, con una conseguente riduzione di capitale circolante. Delocalizzare la produzione 37 Onetti Alberto, Delocalizzazione? La produzione ritorna negli USA, Corriere della Sera, Sezione: Economia, 8 Agosto 2010. 38 Onetti Alberto, Delocalizzare, si può invertire la tendenza?, Corriere della Sera, Sezione: Economia, 13 Agosto 2010. comporta un aumento delle giacenze di magazzino a causa dei lunghi tempi di trasporto merce (un mese circa per beni prodotti nel Far East) e della necessità di accumulare merce per fare fronte a ritardi di produzione/consegna. L'impresa americana Diagnostic Devices, ad esempio, ha valutato come il costo del magazzino in caso di produzione in Cina/Taiwan ammonti a 6,5 milioni di dollari contro il milione di dollari in caso di produzione in patria. Per la Farouk Systems (che produce asciugacapelli), a seguito del trasferimento della produzione dalla Cina a Houston, il costo del magazzino è sceso da 120 a 50 milioni di dollari. La qualità in caso di produzione all'estero non è sempre garantita. Ciò porta ad un aumento dei costi per il controllo merce e comunque problemi nel rapporto con i clienti finali. Allungamento del time to market. E' spesso richiesto di fare ordini con ampio anticipo (in alcuni casi anche 9 mesi) per entrare nei batch di produzione dei contractors asiatici. Questo impedisce di poter dare risposta alle richieste dei clienti. Scarsa protezione della proprietà intellettuale. Le spese legali per contrastare la commercializzazione di copie del proprio prodotto sono spesso rilevanti. A margine di quanto detto, la produzione in patria resta più cara, ma i differenziali di costo si stanno attenuando. Alla loro attenuazione possono contribuire le politiche industriali dei diversi paesi volte ad incentivare il mantenimento in patria delle attività produttive attraverso incentivi fiscali e, soprattutto, attraverso contratti di lavoro maggiormente competitivi. Su questo fronte alcuni paesi, tra i quali si rilevano maggiormente Stati Uniti e Germania, si stanno muovendo. Questo contesto caratterizzato da un continuo mutamento degli equilibri delle reti d’impresa, dovuto alle conseguenze della recente crisi economica, sta confermando il ruolo centrale e strategico della logistica, sia a livello d’impresa che a livello istituzionale, facendo emergere alcune significative tendenza per una nuova visione e una nuova missione della logistica, anche e soprattutto a livello nazionale; da tali tendenze derivano nuovi assetti dei flussi. Esse sono39: - i sistemi produttivi locali cercano di trattenere le funzioni più avanzate e specializzate ed a maggiore valore aggiunto (qualità, design, progettazione, ICT, ecc.); - i vantaggi e le conoscenze, accumulate precedentemente, consentono un riorientamento del sistema locale verso nuovi prodotti, nuove specializzazioni e nuove tecnologie, con parziali “rientri” e filiere “più brevi”; - la ripresa è trainata dall’export (+6,6 - I° trimestre 2010, fonte Istat); - rallenta la delocalizzazione e si rafforzano le “filiere di prossimità” (+34% processi “in prossimità” e -4,2% fornitori esteri - FONTE: Unioncamere, medie imprese nord-est, 2010); - la “globalizzazione matura” accentua la specializzazione regionale e facilita la concentrazione di imprese in luoghi che offrono vantaggi 39 Forte Ennio, Analisi economica, scenari emergenti e azioni strategiche per la revisione delle lineeguida del Piano Generale della Mobilità, 2010 - dal sito: www.logisticaeconomica.unina.it. specifici (nel caso dei servizi logistici: poli e centri logistici, interporti, distripark, ecc.); - l’incremento dei costi energetici (carburante, bunker marittimo, ecc.) ed ambientali (congestione, limitazioni e tasse ambientali, ecc.) spingono in molti casi a riprogettare le catene logistiche verso una maggiore decentralizzazione (Fig. 12). FIGURA 12: Bunker Index 2010/2009 FONTE: Forte (2010) Dato il fenomeno del rientro delle filiere (reshoring), che sta coinvolgendo anche il sistema economico italiano e, date le nuove tendenze della logistica, sembra opportuno soffermare l’attenzione sul ruolo dell’efficienza di quest’ultima nel sistema economico italiano, in funzione proprio del “rientro”, anche potenziale, delle frazioni produttive a maggiore valore aggiunto delle filiere e delle reti d’imprese in parte e/o totalmente delocalizzate, supportate dall’efficienza logistica a livello locale, anche se pur sempre inserite ed integrate a livello globale . Un esempio è dato dalla situazione italiana in cui, nell’ultimo decennio, si è registrato un vero e proprio boom della Grande Distribuzione Organizzata (GDO) essendo sorti, ovunque sul territorio, supermercati, centri commerciali, ipermercati e discount (spesso senza alcuna pianificazione urbanistica e trasportistica); questo ha cambiato sensibilmente le abitudini di acquisto del consumatore italiano (che si è rivolto sempre più spesso alla GDO anche come strumento per fronteggiare la crisi). Nell’analizzare l’influenza che avrà il ritorno, seppur parziale, delle produzioni all’economia locale, è possibile immaginare che ci sarà solo un modesto impatto sull’occupazione se lo si confronta con una catena di diseconomie esterne e con i danni irreversibili al commercio al dettaglio che sembrano potersi presentare qualora si intensifichi tale fenomeno: date le “nuove” caratteristiche del consumatore italiano, sviluppatesi nell’ultimo decennio, riprenderanno le importazioni dei prodotti cinesi in quanto sfruttano, principalmente, proprio il bacino di vendita della GDO; al contempo, chiuderanno i piccoli esercizi commerciali nazionali, qualora non riusciranno a garantire un’offerta tale da poter competere sul mercato, in termini di prezzo, con i prodotti della GDO. Inoltre, le caratteristiche dei consumatori italiani combinate ad una scarsa coscienza logistica nazionale, portano al di fuori dei confini del Paese la maggior parte dei profitti e del valore aggiunto della GDO40 (questi vanno per il 90% ad economie straniere: tedesche, francesi, svedesi, ecc.). Sarebbe opportuno, pertanto, dato il fenomeno del reshoring, un maggiore interesse ed una maggiore sensibilità per la logistica, anche e soprattutto, da parte delle Istituzioni. Ad esempio, una delle modalità con cui sarebbe possibile aumentare gli investimenti per la costruzione e lo sviluppo delle infrastrutture logistiche nazionali, potrebbe essere quella di far pagare alle imprese estere della GDO presenti sul territorio nazionale, tramite un’imposizione del settore pubblico, una tassa di scopo del tipo “Versament Trasport” francese, in maniera proporzionale alle modalità/quantità di utilizzo delle infrastrutture logistiche in questione. Questo è un criterio di misura a carico delle imprese beneficiarie delle strutture e/o dei servizi di trasporto. La “Versament Transport” rappresenta, infatti, una forma di partecipazione delle imprese ai costi per la realizzazione delle infrastrutture di trasporto volte a generare valore. Diviene essenziale per un riorientamento strategico della logistica a livello nazionale, l’adozione di strumenti e di azioni di politica della logistica (logistics policy) adeguati alle dinamiche economiche globali ed alle configurazioni “a rete” delle imprese. A livello globale sono riscontrabili, tra gli assetti produttivi “a rete” caratterizzati da un elevato tasso traslog (inteso come rapporto tra costi logistici e valore finale del bene), due principali modelli organizzativi: di tipo sequenziale: più stabilimenti producono semilavorati che vengono completati in stabilimenti successivi fino alla distribuzione globale (catena produttiva e logistica sequenziale); di tipo confluente: più stabilimenti producono semilavorati e beni intermedi inviati in stabilimenti di assemblaggio finale e distribuzione globale. Il costo Traslog è una delle variabili fondamentali per la competizione di beni e prodotti sui mercati internazionali; esso incorpora costi di trasporto, costi legati alla movimentazione, alle transazioni, al deposito ed alle lavorazioni “accessorie a valore”. Le merci in movimento ed in attesa (stoccaggio ai terminali) danno vita a flussi fisici ed economici (in valore) che variano in funzione di tre variabili: - quantità (lotti di fornitura e consegna); - distanza (dal locale al globale, decentralizzazione e centralizzazione); - tempo di ciclo logistico (frequenza di spedizione). La minimizzazione del costo logistico totale (Traslog) dovrebbe essere l’obiettivo strategico di sistema, tenendo conto anche che le distanze tra i diversi stabilimenti di produzione e/o di assemblaggio possono essere molto diverse dal locale al globale, a seconda della progettazione e configurazione delle Supply Chain. 40 Ibidem. 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