Abstarct tesi: Analisi della Logistica e dei

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Abstarct tesi: Analisi della Logistica e dei
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI FEDERICO II
FACOLTÀ DI ECONOMIA
CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN ECONOMIA E COMMERCIO
TESI DI LAUREA
IN
ECONOMIA DEI TRASPORTI
ANALISI DELLA LOGISTICA E DEI TRASPORTI QUALI
FATTORI DI RIENTRO DELLE FILIERE PRODUTTIVE
(ABSTRACT)
Relatore
Candidato
Ch.mo Prof.
Ennio Forte
Giuseppe Romanelli
Matr. N28/10
ANNO ACCADEMICO 2009/2010
Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una costante crescita del commercio
internazionale e dei trasporti. Le cause alla base di questa crescita sono da rilevare
nello sviluppo dell’economia che ha acquistato carattere sempre più globale grazie,
soprattutto, all’eliminazione delle barriere commerciali.
Un dato rilevante è che, a livello globale, la crescita del valore del commercio
internazionale, dal 1989 in poi, ha sostanzialmente superato quella della produzione.
La forza trainante di questa crescita, che non si è equamente distribuita nel mondo
probabilmente a causa delle differenze territoriali, sociali, politiche ed atmosferiche,
è individuata nello sviluppo della logistica.
Oggi le maggiori capacità delle comunicazioni, la migliore efficienza delle
operazioni di trasporto, così come la standardizzazione dei processi, rendono
possibile l’organizzazione su scala internazionale delle catene di fornitura, segnando
il passaggio da una dimensione “locale” ad una “globale”, dalla produzione
attraverso i fornitori, i consumatori e i dettaglianti, fino al consumatore finale.
Tali tendenze verso la globalizzazione, verso Supply Chain Management e lo
sviluppo dell’Information and Comunication Technology (ICT) hanno rimodellato
tutti gli schemi commerciali del mondo e conseguentemente tutti i flussi fisici di
commercio. Cambiamenti questi che favoriscono la crescita economica consentendo
una migliore allocazione di risorse nonché una maggiore libertà di scelta per i
consumatori.
La logistica è uno dei settori maggiormente influenzati dalle trasformazioni
dell’economia. Il continuo susseguirsi di mutamenti che hanno investito l’economia
globale ha, così, determinato un’evoluzione delle reti commerciali, dovuta
principalmente allo sfruttamento delle differenze del costo del lavoro, ad opportunità
di differenziazione del prodotto e alla maggiore disponibilità, in specifici paesi, di
materie prime a basso costo. Il loro sviluppo è stato consentito dalle principali
tendenze in ambito sia normativo che tecnologico: la liberalizzazione del commercio,
in particolare nell’ambito di blocchi commerciali come l’UE e il NAFTA, ha rimosso
i vincoli sulla circolazione di merci transfrontaliera e ha ridotto i relativi barrier
costs; i progressi nel campo delle telecomunicazioni e della tecnologia
dell’informazione hanno, invece, garantito alle aziende i mezzi per gestire il
movimento fisico dei prodotti sulle varie rotte, lunghe e spesso tortuose.
La combinazione di tutti questi fattori dà origine ad un gran numero di tendenze
individuali che si manifestano in diverso modo in funzione della portata geografica
in cui operano le imprese e i mercati, ma soprattutto in funzione dell’analisi relativa
al totale dei costi logistici, misura dell’accessibilità ad un determinato network.
Lo sviluppo del commercio internazionale è influenzato dalle differenze nei costi dei
fattori nelle rispettive regioni, dalle barriere agli scambi, dal grado di
regolamentazione e dalla distanza tra queste regioni, tutti elementi che incidono
direttamente sui costi del flusso logistico (Φ).
Al fine di massimizzare il network globale è opportuno utilizzare, come misura della
resistenza tra diverse regioni economiche e quindi come misura dell’accessibilità,
seguendo i principi della LE, il concetto di Costo Totale Logistico (CTL), piuttosto
che i soli costi di trasporto, dipendenti quasi esclusivamente dalla variabile distanza
(Dij). In un mondo divenuto “villaggio globale”, la funzione spazio diviene relativa,
mentre acquista fondamentale importanza la funzione tempo.
La possibilità di rispondere a una domanda tramite un’offerta generata in una
qualunque parte del mondo, impone una competizione basata sul fattore tempo: tra
due prodotti analoghi dal punto di vista del prezzo e degli standard qualitativi viene
premiato quello che per primo raggiunge il mercato.
Inoltre, è evidente come il processo produttivo maggiormente diffuso nell’epoca
globale, il just in time, sottolinei già nel nome l’importanza dell’elemento temporale
e di conseguenza l’impossibilità di far parte di questo processo per chi, produttore o
fornitore che sia, non si adegui a questo nuovo paradigma produttivo.
Con ciò non si vuol dire che la funzione spazio abbia perso importanza, ma soltanto
che la sua valenza competitiva si esalta quando viene coniugata con la funzione
tempo.
I CTL non solo riflettono elementi connessi ai trasporti, ma tutti i costi logistici che
comprendono anche lo stoccaggio, i costi di movimentazione delle merci e quelli di
magazzino, nonché i costi di tutte le attività di logisticizzazione del prodotto volte ad
incrementarne il valore.
Rispetto all’idea tradizionale che individuava nella logistica una funzione
esclusivamente interna alle aziende (trasporto, stoccaggio e movimentazione dei
prodotti, alimentazione delle linee produttive, gestione dei magazzini, pianificazione
e controllo delle scorte, etc.) si è affermato il concetto di supply chain inteso come un
sistema che gestisce in modo integrato le transazioni fisiche e informative di una
pluralità di imprese che partecipano ad una precisa catena del valore.
Obiettivo della logistica, quindi, è il raggiungimento della massima soddisfazione del
cliente finale e la minimizzazione dei costi logistici (problema di minimax)
dell’intero network globale.
Nella letteratura di gestione della logistica l’accento è solitamente posto sulla
possibilità di conseguire l’efficienza e l’efficacia simultaneamente. Efficienza,
ovvero la minimizzazione dei costi logistici; efficacia, nella misura in cui si
raggiunge la soddisfazione del cliente, quando cioè i fornitori di beni e servizi
riescono ad esaudire le crescenti esigenze dei consumatori, non solo rispetto alla
natura fisica dei prodotti richiesti, ma anche rispetto alla flessibilità, affidabilità e
puntualità della consegna.
Tuttavia i costi totali logistici sono correlati ad un altro fattore di costo determinante:
i costi di produzione. I manager delle Supply Chain, quindi, cercheranno, al fine di
massimizzare il network globale, di minimizzare la somma totale dei costi di
produzione, di logistica e di gestione, dato il servizio richiesto dal cliente.
I diversi costi di produzione tra le regioni sono dovuti all’incidenza di variabili di
carattere economico, come le differenze salariali e il tasso di cambio, ma anche del
grado di regolamentazione e delle condizioni atmosferiche.
Guardando alla realtà produttiva in questi anni, abbiamo assistito a rilevanti
trasformazioni nelle strategie delle imprese, legate ai processi di
internazionalizzazione delle economie.
Gli ultimi vent’anni sono stati, infatti, caratterizzati da un fenomeno che ha assunto
dimensioni considerevoli: la delocalizzazione dei siti produttivi, intera o in parte, sia
delle imprese multinazionali sia di quelle di più piccole dimensioni. Questa strategia
viene attuata per mantenere la competitività sui mercati, spostando le fasi a più alta
intensità di lavoro in paesi dove il costo del lavoro è minore rispetto a quello
d’origine. Tale fenomeno non è privo, però, di effetti negativi sulla partecipazione al
mercato del lavoro locale, in particolare sui livelli di occupazione ma anche sulle
condizioni di lavoro degli occupati.
La banalizzazione dei costi di trasporto, insieme ad una serie di altri fattori come
l’avvento di internet e delle tecnologie low cost di comunicazione, che hanno
portato, oltre ad una diminuzione dei costi aziendali relativi a flusso di informazioni,
ad un annullamento dei tempi di invio e ricezione delle stesse informazioni, sono
stati tra i motori della globalizzazione. L’idea di “fabbrica diffusa” ne è stata una
logica conseguenza.
Queste tendenze sono iniziate qualche secolo fa, ma recentemente si sono
intensificate (anni ’80 e ’90); paesi come la Cina vengono oggi “sfruttati” a causa
delle loro grande quantità di manodopera a basso costo disponibile.
In numerosi casi, però, lo spostamento verso queste aree non è permanente, in quanto
le attività economiche in esse svolte tendono ad avere un rapido adattamento verso
standard di vita occidentali modificando radicalmente le preferenze di consumo.
Questo porta ad un incremento dei salari e un conseguente aumento dei CTL,
rendendo così, probabilmente, non più conveniente la scelta dell’impresa di produrre
in quella determinata area economica.
Pertanto, nonostante l’importanza di fattori come le barriere agli scambi e il costo
delle materie prime, l’accessibilità (in termini di CTL) rimane il fattore chiave di
collegamento tra la logistica e l’economia del territorio.
La possibilità per un ambito territoriale locale di poter fornire infrastrutture di
collegamento e di accesso ai circuiti internazionali di comunicazione, servizi logistici
avanzati a supporto della catena produttiva e distributiva può essere considerata
come un vantaggio nella competizione territoriale e un fattore di innesco di processi
di sviluppo locale.
Quanto precedentemente analizzato è confermato dall’attuale tendenza di molte
imprese, sia multinazionali che di piccole e medie dimensioni, di far rientrare in
patria la produzione (Reshoring): la crisi economica che ha investito l’economia
mondiale negli ultimi anni ha modificato radicalmente il comportamento e le
decisioni strategiche di molte imprese; esse sono in continua lotta, non solo per
soddisfare le sempre crescenti esigenze dei consumatori, ma ormai, anche per
combattere e controllare i crescenti costi.
Le economie emergenti si stanno sviluppando nei mercati reali e non possono più
essere considerate semplici luoghi di procacciamento delle parti low cost e di
produzione esternalizzata (vedi i cosiddetti paesi BRIC – Brasile, Russia, India,
Cina). Molte imprese stanno ridisegnando le proprie Supply Chain, riportando in
patria la produzione, non potendo più godere di tutti quei vantaggi che hanno
caratterizzato le loro scelte negli anni della delocalizzazione.
Si assiste oggi ad un incremento dei costi di trasporto dovuti all’aumento dei costi
del carburante; ad un aumento del costo del lavoro in molti dei paesi finora a “bassi
salari” (Cina e Romania in particolare); ad agevolazioni fiscali concesse dagli Stati
alle imprese (in particolar modo Stati Uniti e Germania), con l’obiettivo di far
rientrare le fasi produttive all’interno dei confini nazionali così da favorire il livello
occupazionale, finora messo in crisi proprio dai processi di delocalizzazione.
Non è più possibile, quindi, parlare di banalizzazione di costi del trasporto né
tantomeno di salari bassi. Modifiche a questi due elementi portano a focalizzare
l’attenzione anche su altre voci di costo che, seppur sempre considerate, risultavano
avere un’incidenza minore rispetto alle scelte localizzative proprio in virtù della
maggiore convenienza derivante dai suddetti elementi: aumenta, rispetto alla scelta di
dove e come delocalizzare, il peso dei costi di magazzino, di quelli per il controllo di
qualità della produzione, che all’estero non è sempre garantita, dei costi derivanti
dall’allungamento del time to market e di quelli relativi alle spese legali per
contrastare la commercializzazione di copie del proprio prodotto.
Obiettivo della tesi è di evidenziare l’importanza nelle scelte strategiche aziendali del
tasso Traslog, inteso come misura dell’incidenza dei costi di trasporto e delle altre
attività logistiche sul prezzo dei prodotti finali.
Partendo dall’analisi economica delle reti ed identificando poi i fattori, esogeni ed
endogeni al sistema dei trasporti, che possono portare ad una variazione delle stesse e
quindi ad una modifica dei flussi logistici, si arriva a focalizzare l’attenzione sul
fenomeno del rientro delle filiere produttive, causato proprio dall’attuale congiuntura
economica che ha modificato le principali variabili prese in considerazione dalle
imprese in fase strutturazione dei propri network.
Variazioni dei Network logistici, il fenomeno del “rientro delle
filiere”
ANALISI DELLA FUNZIONE DI INVARIANZA
Il processo di globalizzazione, in cui le relazioni economiche politiche e sociali si
estendono in un ambito geografico sempre più vasto, sta modificando la
configurazione strutturale dell’intera catena di fornitura segnando il passaggio da una
dimensione “locale” ad una “globale”, dalla produzione, attraverso i fornitori, i
distributori e i dettaglianti, fino al consumatore finale.
Nelle ultime due decadi, infatti, una nuova modalità di divisione del lavoro fra le
imprese e i paesi si è affermata nell’economia mondiale. Questa divisione
internazionale del lavoro è caratterizzata principalmente da imprese che separano le
fasi della loro attività (lungo tutta la catena del valore: dall’ideazione alla
progettazione, alla realizzazione, alla distribuzione, alla vendita, ai servizi postvendita) in moduli (tasks) differenti; e localizzano in paesi differenti questi moduli
(ripartendo così fasi della produzione in un solo sito), al fine di sfruttare le differenti
condizioni localizzative. In primis, ma non solo, i differenziali nei costi di
produzione, in particolare, nel costo della manodopera, e le loro conseguenze – data
la produttività – sul costo unitario dei servizi.
Queste decisioni riguardano sia grandi multinazionali, sia imprese di medie
dimensioni. Non necessariamente implicano che tutti i moduli produttivi siano sotto
il controllo aziendale; alcuni possono, infatti, essere commissionati, con una vasta
gamma di relazioni, ad altre aziende. Nel momento in cui alcune attività
(prevalentemente, ma non necessariamente labour intensive) sono trasferite al di
fuori dei confini nazionali si parla di delocalizzazione internazionale. Le imprese
decidono contemporaneamente quali fasi esternalizzare e dove localizzarle; quali fasi
della catena del valore devono rimanere all’interno e quali devono essere affidate ad
altri, e dove. Il tutto attraverso una serie di valutazioni comparative tra le diverse
soluzioni possibili; sempre più spesso, per tali attività comparative, vengono
considerati i differenziali di costo per le diverse attività di logisticizzazione dei
prodotti.
Il processo di delocalizzazione può avvenire, sia all’interno dei confini aziendali, con
investimenti diretti all’estero (IDE) in proprie filiali (controllate o partnership con
altri), sia attraverso intese senza partecipazioni azionarie (non-equity) con imprese
indipendenti, tipicamente accordi di sub-fornitura con un ventaglio molto ampio di
possibili condizioni e clausole1.
Due sono i fattori che hanno fatto si che alle imprese si dischiudesse, più
semplicemente e più convenientemente che in passato, questa possibilità:
•
•
1
la caduta progressiva delle barriere al commercio internazionale;
il progresso tecnologico (in particolare le nuove tecnologie digitali) che ha
permesso un più agevole, nonché rapido ed economico coordinamento delle
fasi del processo produttivo, anche quando queste sono localizzate in vari
paesi del mondo.
Berger S., Mondializzazione, come fanno per competere?, Grazianti, Milano, 2006.
La globalizzazione dell’economia e le tecnologie consentono più di prima la
suddivisione in moduli; inoltre, il trasporto e lo scambio con modalità rapide e più
economiche spingono le imprese a riorganizzare le catene del valore su scala globale.
È da evidenziare, però, che non esiste una forma di organizzazione ottimale2; questo
vale sia per le imprese che competono in settori altamente tecnologici che per quelle
dei settori tradizionali. La forma organizzativa migliore dipende dalle diverse
capacità competitive nelle imprese nelle diverse fasi della catena del valore; dalla
convenienza delle diverse localizzazioni possibili dei diversi moduli (Invarianza);
dalla convenienza relativa della frammentazione rispetto allo svolgere
congiuntamente le diverse fasi.
Naturalmente la delocalizzazione è una delle possibili strade per competere sui
mercati mondiali, ma non è l’unica. Vi sono casi di successo sia di imprese
“frammentate” sia di imprese che mantengono al loro interno molte, o quasi tutte, le
fasi produttive.
Riprendendo la definizione elaborata dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), la
globalizzazione riguarda la crescente interdipendenza dei paesi del mondo attraverso
transazioni sempre più numerose, da un confine all’altro, di flussi di beni, servizi e
capitale internazionale, e riguarda anche una più rapida ed ampia diffusione della
tecnologia.
Il grado di interdipendenza tra le aree geografiche è stato rafforzato e incrementato
dallo sviluppo delle reti di comunicazione e del processo tecnologico. Come effetto
di tali sviluppi è aumentata la tendenza al decentramento della produzione che ha
favorito la nascita di insediamenti produttivi anche a grande distanza dalle casemadri.
Queste condizioni hanno portato a considerare il trasporto merci come una funzione
centrale del processo aziendale. Come si evince dall’analisi fatta nei paragrafi
precedenti, esso ormai è considerato un input di filiera; infatti, svolge una funzione
più complessa e strategica rispetto al passato in quanto non si limita più al mero
trasferimento di cose da un luogo ad un altro, dal produttore al consumatore, ma è
parte integrante del processo produttivo, un fattore strategico dell’economia della
filiera logistico-produttiva e distributiva nel suo complesso3.
I costi di trasporto hanno una funzione centrale nelle decisioni produttive e
distributive in quanto c’è un legame tra questi e i costi della distribuzione e della
produzione che insiste fino agli stessi ricavi delle imprese se il costo del trasporto
risulta a carico dei clienti.
I costi di distribuzione e produzione sono connessi a:
•
•
•
2
3
la scelta di concentrazione degli impianti produttivi e/o distributivi al fine di
ottenere economie di scala nella produzione e/o nelle attività di magazzino;
la scelta di integrazione verticale o di separazione verticale delle diverse fasi
del processo di produzione/distribuzione, che consente di sfruttare le attività
specializzate che hanno un effetto soprattutto sui costi di trasporto dei
semilavorati;
la scelta di lavorazione e/o stoccaggio/distribuzione di prodotti omogenei in
tutti gli impianti o di differenziare i prodotti dei singoli impianti, se esiste
l’opportunità di segmentare la domanda nei rispettivi mercati questo, però,
comporta maggiori costi di trasporto se i mercati risultano geograficamente
separati;
Ibidem.
F.Iannone, Trasporti e terziarizzazione logistica: evoluzione verso una logistica di sistema,
Dipartimento di scienze Economiche e Sociali, Università degli studi di Napoli Federico II.
•
la scelta di lavorazione e/o stoccaggio/distribuzione di diversi prodotti nello
stesso impianto, che peraltro implica maggiori costi di trasporto se i mercati
dei singoli prodotti sono tra loro diversi e distanti, o viceversa di produrre e/o
stoccare/distribuire i diversi prodotti in impianti diversi, soprattutto se la
rispettiva domanda è differenziata a scala geografia.
La funzione d’Invarianza, che ha lo scopo di evidenziare e misurare il differenziale
di costo tra diverse soluzioni ubicazionali dei fattori di produzione che scaturisce da
attività logistiche finalizzate ad aumentare la competitività dei beni, utilizza il tasso
traslog4 per confrontare la convenienza relativa al posizionamento produttivo in una
determinata area geografica, così da determinare il costo-opportunità della
localizzazione degli investimenti nello spazio a parità di altre condizioni5.
Una volta trovato il tasso traslog rispetto ad una determinata “decisione
ubicazionale”, è possibile confrontarlo con il tasso traslog di una decisione
alternativa così da valutare l’eventuale maggiore convenienza dell’una o dell’altra
decisione.
Risulterà indifferente per una determinata impresa, localizzare la produzione in una
specifica area geografica anziché in un’altra qualora il differenziale tra i due tassi
traslog precedentemente identificati sarà pari a zero; quando, cioè, sarà nullo il
fattore di “varianza”. È possibile dimostrarlo attraverso l’analisi di un modello di
Invarianza localizzativa basato sul tasso logistico6.
Consideriamo, ad esempio, il caso della scelta tra due localizzazioni alternative (K1 e
K2) per produrre un bene intermedio, che sarà poi trasportato verso una terza area
(K3), per essere lavorato ulteriormente e quindi trasformato in prodotto finito (Y3) per
la vendita finale. In questo caso si ipotizza che è possibile ottenere Y3 in maniera
alternativa da una logisticizzazione del prodotto intermedio X1 o X2, ottenuti
rispettivamente in K1 e K2.
Ipotesi del modello: C1 = C2; C.G.T.(K1 - K3)> C.G.T.(K2 - K3)
La prima ipotesi è relativa al fatto che, per semplicità, si assume che il costo di
produzione C1 (del prodotto intermedio X1) sarà uguale al costo di produzione C2 (del
prodotto intermedio X2).
Con la seconda ipotesi, inoltre, si assume che il costo generalizzato di trasporto da K1
a K3 è maggiore di quello che occorrerebbe sostenere per il trasporto del bene
intermedio da K2 a K3.
Date queste ipotesi risulta che:
C1 + C.G.T.(K1 - K3) > C2 + C.G.T.(K2 - K3)
Il principio di invarianza in termini di total cost (ossia, costi di produzione e di
logistica, compresi quelli di trasporto) tra le sue localizzazioni alternative entra in
4
Inteso come misura dell’incidenza del costo del trasporto e delle altre attività logistiche sul prezzo
dei prodotti.
5
Forte Ennio, Trasporti Logistica Economica, Cedam, 2008.
6
Forte Ennio, Logistica Economica e strumenti di analisi: obiettivi e condizioni per l’ottimo,
www.logisticaeconomica.unina.it
gioco qualora in una delle localizzazioni, ad esempio K2, venga effettuato non solo il
processo di produzione del bene intermedio X2, ma anche tutta una serie di altre
attività come ad esempio lo stoccaggio, il controllo di qualità e la distribuzione verso
K3 da parte di un fornitore di servizi logistici in conto terzi.
In una situazione di equilibrio dei costi totali tra le due localizzazioni, infatti, sarà il
tasso logistico (L), che esprime in questo caso la percentuale complessiva dei costi di
trasporto e delle altre attività logistiche sul costo totale dei prodotti intermedi, a far si
che in presenza di processi logistici possa risultare che:
C1 (1+L1-3) = C2 (1+L2-3)
In tal caso L risulta costante nella localizzazioni K1 e K2 con particolare riferimento
al loro rispettivo posizionamento economico nei confronti della localizzazione K3.
Formalizzando il concetto di tasso logistico, risulta che:
L1-3 = [C.G.A.(K1 - K3) / C1] + [C.G.T.(K1 - K3) / C1]
L2-3 = [C.G.A.(K2 - K3) / C2] + [C.G.T.(K2 - K3) / C2]
Dove C.G.A.(K1 - K3) e C.G.A.(K2 - K3) rappresentano il costo generalizzato delle altre
attività logistiche escluso il trasporto rispettivamente nelle localizzazioni K1 e K2.
Sulla base delle assunzioni fatte, per avere una situazione di invarianza, ossia una
situazione nella quale risulta indifferente per il decisore localizzare la produzione del
bene intermedio in K1 anziché in K2, dal punto di vista dei costi sostenuti nelle due
localizzazioni alternative, è necessario che:
C.G.A.(K2 - K3) = C.G.T.(K1 - K3) - C.G.T.(K2 - K3)
A questo punto, però, nella localizzazione K3 occorrerà svolgere un numero
maggiore di attività logistiche di quasi-manufacturing per il prodotto X1 rispetto,
invece, a quelle necessarie per il prodotto X2 al fine di completare il ciclo produttivo
ed ottenere il bene Y3 da vendere ai consumatori.
Rispetto, quindi, ad una invarianza di costo totale dei beni che arrivano da K1 e K3, il
prodotto maggiormente logisticizzato, ovvero X2, risulta competitivo nell’economia
complessiva della Supply Chain, provocando una “varianza” a favore di K2.
Il modello di analisi dell’invarianza basato sul tasso logistico va dunque sempre
interpretato considerando la possibilità di sostituire il costo dei servizi di trasporto
con il costo degli altri servizi logistici. Tale possibilità è confermata dalle tendenza
attuali legate alla metodologia produttivo-distributiva basata sul just in time7, nonché
alla banalizzazione dei costi di trasporto8.
7
Politica di gestione delle scorte a ripristino che utilizza metodologie tese a migliorare il processo
produttivo, cercando di ottimizzare non tanto la produzione quanto le fasi a monte, di alleggerire al
massimo le scorte di materie prime e di semilavorati necessari alla produzione. In pratica si tratta
di coordinare i tempi di effettiva necessità dei materiali sulla linea produttiva con la loro
acquisizione e disponibilità nel segmento del ciclo produttivo e nel momento in cui debbono essere
utilizzati.
8
Forte Ennio, Logistica economica ed equilibri spazio-territoriali in: Atti del seminario: I fondamenti
concettuali della Logistica Economica. Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Politecnico di
Ogni impresa, quindi, ha la possibilità di scegliere tra una più o meno ampia gamma
di scelte localizzative decidendo di sopportare più o meno costi di attività logistiche
rispetto a quelli di trasporto e viceversa. Tale discrezionalità dipende dalla
disponibilità di un’organizzazione a rete di servizi logistici che connetta aree di
approvvigionamento con quelle di produzione e di consumo e che sia progettata
accuratamente, in modo da poter sfruttare più vantaggiosamente le diverse modalità
di trasporto, garantendo la gestione ottimale dei prodotti lungo la Supply Chain e,
quindi, la flessibilità nelle scelte ubicazionali.
Milano, 29 Maggio 2003; e Fedele Iannone, Economia della logistica e dello spazio-territorio:
innovazioni organizzative ed approcci modellistici in: Riequilibrio ed integrazione modale nel
trasporto delle merci in Italia: attori e casi di studio (Borruso G., Polidori G.), Franco Angeli, Milano,
2005.
MODIFICHE DEI NETWORK LOGISTICI DERIVANTI DA INPUT
L’INCIDENZA DELL’AUMENTO DEL COSTO DEL TRASPORTO
INTERNI.
UN
ESEMPIO:
L’evidenza empirica dimostra che l’incidenza di determinati input, siano essi interni
o esterni alle reti, modificano i network logistici ogni qualvolta ci siano delle
variazioni nel sistema.
Di qui l’importanza dei concetti di “reattività” e “agilità”9. Per le aziende la rilevanza
della ricerca di network logistici flessibili ed agili è messa maggiormente in evidenza
dall’attuale congiuntura economica dove la competitività delle imprese operanti sui
mercati reali è inficiata dalla crisi che ha investito il mondo finanziario. Pertanto ogni
scelta connessa alla configurazione e alla gestione della catena logistica diviene un
fattore cruciale per assicurarsi vantaggio competitivo sostenibile. Per questa ragione
la definizione del corretto livello di centralizzazione della pianificazione della Supply
Chain e la scelta della configurazione ottimale della rete logistica ricoprono un
importanza di assoluto rilievo. Tali scelte impattano inoltre sull’orientamento
dell’azienda in termini di reattività e agilità della catena logistica. In funzione delle
caratteristiche di ogni specifico contesto aziendale e di quelli che sono i cambiamenti
della domanda, la creazione di nuove strutture (ad es. poli logistici), i mutamenti
continui dei costi delle strutture distributive nonché le variazioni in aumento dei costi
del trasporto, è necessario che ci sia un processo di “trasformazione” continuo che
porti le aziende a cambiamenti di configurazione dei propri network logistici.
Secondo Martin Christopher10, inoltre, l’agilità nel seguire le variazioni del mercato
diviene un elemento fondamentale per creare Supply Chain resilienti11, in grado di
reagire a mutamenti improvvisi, limitando gli impatti negativi sulle prestazioni di
servizio al cliente nonché sull’efficienza globale12.
Uno studio dell’IBM effettuato 200813, che si basa su interviste fatte a 400 manager
responsabili di aziende dell’ America del Nord, Europa Occidentale e Asia-Pacifico
che gestiscono le strategie e le operazioni delle Supply Chain per le loro società,
evidenzia proprio le difficoltà che stanno affrontando i manager, la loro continua
lotta per ottenere maggiore visibilità per la Supply Chain, dovendo soddisfare le
crescenti richieste dei clienti interni e il controllo dei costi - e come le economie
emergenti si stanno sviluppando nei mercati reali, non solo più semplici luoghi di
procacciamento delle parti low-cost e produzione esternalizzata. Più risparmio, più
velocità e migliore qualità, sono – e sono stati – il mantra tra i manager delle supply
chain.
Importante, nell’attuale congiuntura economica, è gestire la crisi, tanto quanto lo è
essere più economici, veloci e migliori.
Imprevedibile. Questo è forse il termine migliore per descrivere il mercato globale di
oggi. Al pari delle economie e dei mercati finanziari, anche le Supply Chain sono
cresciute in modo più interconnesso e globale, esposte al rischio di crisi e
sconvolgimenti. La velocità semplicemente aggrava il problema. Anche piccoli passi
9
Alessandro Creazza – Fabrizio Dallari, Reti logistiche Agilità globale, Centro di ricerca sulla logistica,
Università Cattaneo LIUC.
10
Martin Christopher è professore di Marketng e Supply Chain Management presso la Cranfield
School of Management, UK.
11
In psicologia, la resilienza è la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di
riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà. Nella fisica dei materiali, invece,
essa è la "proprietà di un materiale di riacquistare la propria forma in seguito ad una
sollecitazione".
12
Martin Christopher, Creating Supply Chain resilience through agile six sigma, 2004.
13
IBM, La Supply Chain più intelligente del futuro – Studio globale sui Responsabili delle Supply Chain,
2008.
falsi o errori di calcolo possono avere grosse conseguenze poiché i loro impatti si
diffondono come virus attraverso le complesse reti della Supply Chain.
Dallo studio IBM risulta che uno degli strumenti utilizzati per fronteggiare la crisi è
il contenimento dei costi, che rappresenta la responsabilità aziendale prioritaria per i
manager delle Supply Chain, ancor più importante della crescita e dell’innovazione
prodotto- servizio.
Ciononostante, quello che veniva utilizzato come un processo di miglioramento
continuo e metodico, è ora divenuto frenetico. Scossoni ai costi totali – rapida
inflazione dei salari nei mercati del lavoro precedentemente a basso costo, punte nei
prezzi all’ingrosso o improvvise restrizioni del credito – stanno diventando sempre
più diffusi.
I responsabili delle Supply Chain si trovano a dover reagire a qualunque sia
l’emissione di prezzo del giorno. I prezzi crescenti del carburante, per esempio,
portano i manager a battersi per rivalutare strategie di distribuzione, ingaggiare
provider di logistica esterni in maniera più estensiva e perfino condividere oneri con i
concorrenti.
Quando i prezzi del carburante crollano, i sistemi di distribuzione e trasporto
diventano più lenti giacché le aziende evidenziano l’alto costo del servizio, tornando
a spedizioni più piccole, frequenti e con modalità più veloci.
I cambiamenti nei costi ed in altri indicatori operativi si stanno verificando in modo
così veloce che le strategie convenzionali e le tecniche di design non riescono a
tenere il passo. I nuovi progetti sono superati prima ancora che i manager riescano ad
attuarli.
Lo studio dell’IBM riscontra che l’attenzione alla flessibilità e la strutturazione di
network logistici “agili” è uno degli strumenti che viene utilizzato per contrastare il
problema dell’innalzamento dei costi. Infatti, quando si tratta di dover gestire i costi,
le società con le maggiori Supply Chain – quelle riconosciute nella AMR Research’s
Top Supply Chains per il 2008 – guardano alle conseguenze future. Si muovono più
velocemente verso Supply Chain più snelle ed agili, che permettano rapide risposte
alle mutevoli condizioni dei mercati ed alle strutture variabili dei costi che
gradualmente aumentano e diminuiscono con i profitti. La flessibilità è il loro
antidoto alla volatilità dei costi.
La banalizzazione dei costi di trasporto, insieme ad una serie di altri fattori come
l’avvento di Internet e delle tecnologie low-cost di comunicazione, che hanno
portato, oltre ad una diminuzione dei costi aziendali relativi al flusso di informazioni,
ad un annullamento dei tempi di invio e ricezione delle stesse informazioni, sono
stati tra i motori della globalizzazione.
L’idea di “fabbrica diffusa” ne è stata una logica conseguenza. Ma ora l’espansione
dei costi di trasporto insieme (in realtà con un senso d’urgenza minore) a
considerazioni sul cambiamento climatico e sull’impatto ambientale delle produzioni
emission-intensive, spingono a ripensare a questo modello portando ad un “rientro
delle filiere”.
Un esempio di quanto detto è che nell’aprile del 2008 il costo della spedizione di un
container da Shanghai ad un porto americano ammontava a $ 8000 contro i $ 3000 di
qualche mese prima14. Questo maggior onere sostenuto dalle imprese è imputato ai
clienti finali in maniera direttamente proporzionale alla quantità di merce trasportata
nell’unita di carico (container): se, infatti, un costo per container quasi triplicato non
ha un’eccessiva incidenza su un carico di magliette cinesi, lo stesso produce effetti
14
Maurizio Ricci, Le merci non viaggiano più. La produzione torna locale, La Repubblica, 24 giugno
2008, p.35,sezione: ECONOMIA
diversi quando si fa riferimento alle movimentazioni oceaniche di beni pesanti e
voluminosi come motori, elettrodomestici, parti di macchinari, mobilia.
Inoltre i tempi di percorrenza, in quello stesso periodo, sono lievitati di quasi una
settimana: le grandi navi porta-container hanno ridotto del 20% la velocità di
crociera, per risparmiare sul carburante. Trasporti più cari e più lenti! Questo ha
comportato ulteriori effetti negativi sulla fluidità degli scambi internazionali e sulla
sostenibilità dei modelli industriali basati su delocalizzazione e sistemi just-in-time15.
L’aumento dei costi di trasporto cargo – secondo uno studio della banca canadese
degli investimenti CIBC – equivale ad una soprattassa del 9% sul commercio estero.
Il risultato è che le riduzioni tariffarie introdotte negli ultimi anni dalla
liberalizzazione degli scambi vengono azzerate o quasi.
Ulteriori esempi di “trasformazione” che hanno portato le aziende alla
riconfigurazione dei propri network logistici sono dati da IKEA che nel maggio
2008, per contenere l’incidenza dei costi di trasporto, ha aperto il primo impianto di
produzione negli Stati Uniti, a Danville in Virginia. Un’area questa caratterizzata da
una lunga tradizione distrettuale nella produzione di mobili che la globalizzazione (e
in particolare la concorrenza asiatica) aveva messo in ginocchio; ora è una zona in
pieno rilancio. IKEA non è l’unica casa ad aver modificato il proprio network
logistico avendo intuito che non è più una strategia conveniente quella di spedire in
Cina legname europeo (o americano) per essere trasformato in prodotto finito e poi
nuovamente importarlo in Europa (o negli Stati Uniti) per la commercializzazione.
Ancora, il caso della dream car Tesla, un coupé sportivo con motore interamente
elettrico, che era nato su un modello di Supply Chain che assegnava la produzione
delle batterie alla Thailandia, l’assemblaggio al Regno Unito, la finitura e la
commercializzazione agli Stati Unti. Ora, invece, tutta l’auto è realizzata e
assemblata nel raggio di un paio di chilometri dalla casa madre, in California.
Seguendo la tendenza generale delle imprese manifatturiere intenzionate a rendere
più corte (proprio in senso fisico) le catene di fornitura. Con la prevalenza di scelte di
insediamento che privilegiano la vicinanza a fornitori e clienti finali.
È possibile fare un ulteriore esempio, relativo all’acciaio brasiliano che veniva
trasportato in Cina per la produzione di elettrodomestici. Una scelta imprenditoriale
che conveniva quando il barile di petrolio costava $ 10, ma oggi assai meno
conveniente, per via dei prezzi del petrolio schizzati all’insù di dieci quindici volte.
È il modello di globalizzazione basato sull’idea di “fabbrica diffusa”
(delocalizzazione) che viene messo in discussione perché troppo dispendioso dal
punto di vista energetico. Questo però non significa una crisi generale del modello di
integrazione globale dell’economia mondiale, che vede nel costo dei trasporti solo
una delle componenti in gioco, ma certo un suo ripensamento. Specie per alcune
tipologie di beni e per alcuni modelli di fornitura.
BOX 1 – La disponibilità di petrolio a basso costo è in declino16
15
Gianluca Salvatori, Come il rincaro dei trasporti cambia la globalizzazione, Il sole 24 0re, Aprile
2008.
16
Aspo Italia, La crisi economica legata a diminuzione del petrolio.
Sussistono ragioni molto fondate per ritenere che la crisi finanziaria, partita nel
2007 in modo graduale ed evoluta nel 2008 in un vero e proprio
ridimensionamento dell’economia globale, tragga in gran parte la propria origine
nell’incapacità di estrarre petrolio greggio in quantità sufficienti, e a costi
sufficientemente bassi, tali da sostenere la crescita imposta dall’economia aperta
di mercato ormai affermata in tutto il mondo.
La medesima crisi e la conseguente diminuzione dei consumi ha senza dubbio
avuto l’effetto, molto temporaneo, di rallentare l’incipiente deficit di petrolio,
ovviamente al costo di un relativo impoverimento di molti Paesi e degli strati più
svantaggiati delle relative (e sempre crescenti) popolazioni; l’attuale
stabilizzazione dei prezzi del barile di petrolio, ben oltre gli 80 dollari, testimonia
tuttavia che i fondamentali scatenanti non si sono modificati.
La relativa e modesta ripresa in corso non potrà che accentuare e avvicinare il
momento in cui l’offerta di petrolio non potrà più fare fronte alla domanda
minima sufficiente a sostenere la crescita necessaria a uno sviluppo armonico e al
benessere diffuso.
La stessa Agenzia Internazionale per l’Energia e il Governo USA ha diffuso per la
prima volta un avvertimento che, se ben interpretato e seguito da azioni adeguate,
potrà aiutare almeno ad attenuare gli effetti del prossimo “crash” petrolifero la cui
collocazione nel tempo è estremamente ravvicinata (entro 2-3 anni) e che, di fatto,
rende difficilmente proponibili e praticabili programmi di riconversione a breve
termine del sistema energetico e tecnologico.
Emerge qualche positivo elemento di speranza, almeno per il nostro Paese,
rappresentato, a titolo d’esempio, dal vero e proprio “boom” del fotovoltaico,
passato in pochi anni da una nicchia trascurabile a oltre 1.200 MW di potenza
installata, e dell’eolico, la cui potenza installata presto raggiungerà i 5.000 MW,
contribuendo complessivamente per quasi il 5% al fabbisogno nazionale di
energia elettrica.
La via d’uscita necessita un forte sostegno da parte di tutti i livelli di governo e
amministrativi riguardo alla produzione di energia da fonti rinnovabili, al
risparmio e all’efficienza energetica e al trasporto sostenibile.
Qualche dato sul picco del petrolio
Il grafico sottostante è stato prodotto dal Dipartimento dell’Energia (DOE) del
Governo degli Stati Uniti d’America a partire dai dati dell’Agenzia Internazionale
per l’Energia (AIE), agenzia intergovernativa dei Paesi OCSE, dedicata allo
studio e alle previsioni sul futuro energetico mondiale.
Questa figura prospetta un futuro energetico molto preoccupante caratterizzato, a
breve, dal picco della produzione di combustibili liquidi.
Si tratta di un evento storico già in corso, il cui momento critico è collocabile,
secondo i dati AIE, tra circa 18 mesi, intorno al valore di 87 milioni di barili al
giorno.
La produzione di petrolio convenzionale, che è in pratica tutto il petrolio con cui è
stato alimentato il metabolismo sociale ed economico mondiale almeno negli
ultimi 50 anni, ha superato un picco di capacità nel 2008, ed è prevista declinare
con un tasso annuo del 4%.
L’apporto di petrolio non convenzionale, essenzialmente sabbie bituminose e altri
progetti simili, non coprirà che in minima parte il deficit che si sta aprendo tra
domanda e offerta.
Tale deficit è rappresentato, nella figura, dall’area bianca classificata come
l’insieme dei progetti produttivi ancora da identificare, che si trova tra la porzione
colorata della figura data dalla somma della produzione delle varie categorie di
liquidi combustibili e la curva in colore blu scuro, che rappresenta le previsioni
dell’AIE sulla domanda da oggi al 2030.
In altre parole, la parte colorata della figura rappresenta la realtà, la parte bianca
l’immaginazione. Questa quantità di petrolio “immaginario” ammonterebbe, nel
2030, alla cifra stratosferica di 60 milioni di barili al giorno, pari alla produzione
attuale di sei produttori che hanno una capacità produttiva pari a quella
dell’Arabia Saudita. I problemi, tuttavia, inizieranno molto prima, allorché la
domanda inizierà a superare definitivamente l’offerta.
Purtroppo le scoperte di nuovi giacimenti, lungi dal ripetere i fasti dei tempi in cui
furono individuati i grandi campi petroliferi che ci hanno generosamente servito
per diversi decenni, dopo un picco a metà degli anni sessanta del secolo scorso,
sono andate irregolarmente ma inesorabilmente calando e si attestano oggi intorno
ad 1/5 dei consumi. Tali scoperte sono inoltre principalmente costituite da progetti
petroliferi estremamente complessi dal punto di vista geologico e ingegneristico
(per esempio in alto mare, in zone perennemente coperte da ghiacci, a profondità
chilometriche, greggio di qualità scadente, contenente sostanze pericolose o da
eliminare, complicate lavorazioni di enormi quantità di sabbie o di rocce).
Tale complessità si riflette in prima istanza, ovviamente, in costi economici più
alti e ritorni energetici minori (minore estrazione di petrolio per unità di energia
spesa per estrarlo), aspetto, quest’ultimo, che, indipendentemente dalle quantità di
petrolio ancora esistenti, definisce il “vantaggio” tramite il quale la struttura
socio-economico-produttiva può continuare a svilupparsi.
Negli Anni Trenta del secolo scorso si utilizzava l’energia corrispondente a un
barile di petrolio per estrarne cento, oggi con un barile se ne estraggono da dieci a
quindici, e ciò pur tenendo conto degli enormi progressi tecnologici intervenuti
nel frattempo!
La stessa crescente complessità della ricerca ed estrazione di petrolio si riflette
anche, come purtroppo testimoniano le recenti cronache dal Golfo del Messico, in
un aumentato rischio di incidenti dalle conseguenze particolarmente gravi e
durature.
Il metabolismo sociale ed economico del nostro Paese, delle sue Regioni e città è
ancora totalmente dipendente dalla fruibilità di combustibili liquidi a buon
mercato.
Il panorama prevedibile nella fase di declino di disponibilità di tali combustibili è
caratterizzato da costi crescenti degli stessi che si trascineranno dietro costi
crescenti dell’energia in generale e delle materie prime (come si è visto nel
periodo 2004-2008).
Tutti i settori produttivi, dai trasporti all’agricoltura, così come l’intero assetto
economico e sociale soffriranno – in modo al momento imprevedibile – generando
una riduzione delle disponibilità di beni, servizi e lavoro così come oggi li
concepiamo.
Si rileva che l’attuale fase di sostituzione dei combustibili liquidi di origine
petrolifera con il gas naturale può alleviare solo in minima parte i problemi per il
settore dei trasporti.
È necessario, quindi, che l’azione politica e amministrativa si occupi nel più breve
tempo possibile di garantire alla società il mantenimento dei servizi essenziali
focalizzandosi verso la preparazione, sia materiale, sia culturale, di una comunità
informata e resiliente, chiamata ad affrontare un periodo di diminuzione del flusso
di beni e servizi senza per questo collassare o trasformarsi in qualcosa di diverso e
sicuramente meno gradevole.
Tali cambiamenti di rotta riguardano anche le imprese italiane, in particolare quelle
che, negli anni in cui la tendenza dell’economia globalizzata iniziava ad essere quella
di delocalizzare la produzione, hanno “conquistato” Timisoara (Romania); per tutti
ormai considerata «l'ottava provincia veneta», punta di diamante di una poderosa
delocalizzazione produttiva che ha riguardato tutta Italia17. Oggi, invece, i dati e i
numeri monitorati dagli uffici di commercialisti, banche e associazioni
imprenditoriali presenti in Romania mostrano defezioni e ridimensionamenti
d’impresa: il 35% delle aziende nordestine presenti nel paese ha deciso di chiudere il
proprio stabilimento o l'ufficio commerciale, su un totale di circa 11.200 aziende del
Triveneto, il 40% delle 28.000 società italiane presenti.
«Negli anni d'oro, tra la metà degli anni '90 e la metà degli anni 2000, si contava una
media di 50 registrazioni di società italiane all'anno – spiega Roberto Turchetto,
dello studio commercialista Boscolo e Partners, con sede principale a Trieste e
Treviso e svariate sedi tra Bucarest e Timosoara – nel 2008 e 2009 non abbiamo
costituito nessuna società».
Nel 2006, alla vigilia dell'entrata del paese nella Ue, i primi segnali di allarme fra gli
operatori: è sempre stato per le aziende più difficile trovare personale, vista la forte
emigrazione, soprattutto maschile, e vista anche la dinamica esplosiva degli stipendi
(+25%) che ha messo in crisi più di un'azienda. A tutto ciò si sono aggiunte altre
problematiche, in particolare quelle relative all’incapacità del paese – per mancanza
17
Katy Mundurino, Un’azienda su tre lascia la Romania, Il Sole 24 ore, 5 Dicembre 2010.
di organizzazione e per la forte corruzione – di utilizzare i fondi strutturali europei,
fermi al 4-5% (il 2013, l'anno di scadenza per l'accesso a 19 miliardi destinati a
infrastrutture, è alle porte) e burocrazia troppo macchinosa.
«Con l'allargamento della Ue sono iniziate le difficoltà: abbiamo usato delle corriere
anche fino a 80 chilometri dalle fabbriche per reclutare personale nelle campagne –
racconta Bruno Gonzato, titolare di India Spa di Malo, Vicenza, produzione e
distribuzione di ferro battuto. Ora la crisi ha fatto il resto, e abbiamo ridimensionato i
due stabilimenti di Braila e Aiud da 400 a 150 dipendenti il primo, da 250 a 55 il
secondo, preferendo mantenere il più possibile l'occupazione in Italia».
I primi settori in cui le aziende italiane hanno fatto un passo indietro sono il tessile e
il calzaturiero. È rilevante il caso Geox: l’addio della produzione in Romania è del
marzo 2009. L'azienda trevigiana comunicava che «nell'ambito di una strategia di
riorganizzazione produttiva, il gruppo ha ceduto le proprie attività manifatturiere in
Romania a imprenditori terzi». La produzioni della "scarpa che respira" a Timisoara
rappresentava nel 2008 il 5% del totale; oggi Geox basa tutto sull'outsourcing,
mentre chi aveva rilevato gli stabilimenti romeni ha poi chiuso.
Per l’economia romena, però, le opportunità restano grazie soprattutto ai programmi
europei: la Romania è area Obiettivo 1. I settori delle energie rinnovabili, come ad
esempio l'eolico, offrono opportunità di contributi a fondo perduto fino al 75%.
Secondo Luca Serena, presidente di Confindustria Romania, «la caduta del costo di
lavoro dovuta alla crisi, nonché l'incremento della disoccupazione ha portato il paese
a essere nuovamente competitivo: nel tessile-abbigliamento molte aziende spostano
lavorazioni dalla Cina in considerazione della buona qualità del manifatturiero
romeno».
«Sta cambiando la tipologia di imprenditori che sceglie di insediarsi qui – chiarisce
Marco Rondina, direttore generale di Unimpresa Romania, l'associazione fondata nel
2003 e riconosciuta dal governo di Bucarest che riunisce le aziende italiane operanti
nel paese.
Oggi
prevalgono
gli
operatori
delle
nuove
tecnologie».
Il cambiamento è frutto di una forte selezione: «La prima fase della delocalizzazione
aveva portato imprese piccole, attratte dal basso costo del lavoro – osserva Antonio
Bianchin, direttore generale di Banca Italo Romena, gruppo Veneto Banca –. Oggi
chi arriva ha medie o grandi dimensioni, una struttura solida, e una preparazione
pianificata con cura». «La rilocalizzazione – dichiara Claudio Aldo Rigo,
responsabile di Territorio Nord Est di UniCredit – è minoritaria rispetto all'interesse
che il paese continua a riscuotere, anche se in questo momento la Romania è ancora
in crisi e i consumi restano deboli».
MODIFICHE DEI NETWORK LOGISTICI DERIVANTI DA INPUT ESTERNI. UN’ESEMPIO: LA
NUOVA LEGGE SUL MADE IN ITALY (L.55/2010)
Il fenomeno della delocalizzazione
Il fenomeno della delocalizzazione delle attività all’estero ha assunto una rilevanza
notevole anche per il nostro Paese. È stato evidenziato che tale fenomeno può essere
visto come l’altra faccia del processo di evoluzione e riposizionamento
internazionale dell’economia; un fenomeno che comporta, inoltre, la crescita e il
cambiamento dei servizi di trasporto e logistica (traslog), che in questa chiave
diventano sempre più funzioni strategiche per il governo e l’integrazione delle reti
produttive internazionali.
In particolare la delocalizzazione interessa massicciamente alcuni settori produttivi,
quelli del made in Italy, in cui l’Italia ha, storicamente, una forte specializzazione.
Questo significa che negli ultimi vent’anni le imprese italiane di questo settore hanno
ristrutturato i propri network logistici per adattarsi ai mutamenti del mercato. Ma
oggi, con l’entrata in vigore della L.55/2010, la nuova legge sul made in Italy, le
stesse imprese dovranno ripensare alle proprie reti, modificando nuovamente le
proprie scelte localizzative in funzione degli obblighi imposti dalla legge per poter
mantenere i “vantaggi” del marchio Made in Italy.
L’impatto di questi mutamenti si ripercuote in maniera forte sul sistema dei trasporti
e della logistica. Come è stato analizzato nei paragrafi precedenti, l’importanza dei
costi di trasporto sulle decisioni d’impresa è evidente: essi equivalgono, infatti a
barriere tariffarie che limitano gli scambi. La loro riduzione ha contribuito, negli
anni, ad aumentare la commerciabilità dei beni e dei servizi, spingendo i sistemi
economici ad accrescere la divisione del lavoro basata sui rispettivi vantaggi
comparati, dando un’importanza sempre maggiore al settore della logistica.
Un aspetto importante del fenomeno della delocalizzazione è il cambiamento delle
caratteristiche della domanda di trasporto in conseguenza proprio dei processi di
frammentazione internazionale della produzione (IFP18). Il fenomeno dell’IFP è
cresciuto in maniera considerevole negli ultimi anni sotto l’impulso di innovazioni
che sono avanzate su più frontiere tecnologiche, in particolare nell’automazione,
nell’Ict e nella Logistica. L’affermazione di veri e propri mercati internazionali delle
tecnologie riduce l’esigenza di recuperare all’interno delle singole organizzazioni
produttive le economie di scala connesse alla produzione di conoscenza, creando così
uno spazio interessante per la diffusione dell’innovazione all’interno dei sistemi
decentrati di divisione del lavoro. In questo modo la scomposizione in fasi distinte
dei processi produttivi genera conseguenza anche sulle forme di mercato, favorendo
lo sviluppo di reti di fornitura internazionale19.
È evidente il ruolo strategico dei trasporti e della logistica in questa nuova
organizzazione della produzione. È sempre maggiore la domanda di collegamenti
internazionali specializzati, a livello di distretto, per integrare la produzione
decentrata. I diversi modelli di integrazione stabiliti con le diverse aree geo18
Con tale concetto s’intende il fenomeno di scomposizione tecnica e organizzativa dei cicli produttivi
e la conseguente differenziazione spaziale (internazionale) nella delocalizzazione delle distinte fasi
del processo industriale.
19
Giancarlo Corò – Mario Volpe, Delocalizzazione internazionale e domanda di trasporto nei sistemi
produttivi locali del Made in Italy, Dipartimento di scienza economiche, Università Ca’Foscari di
Venezia.
economiche, esprimono chiaramente anche una diversa tipologia di domanda: da un
lato, flussi bilanciati e sincronizzati con la produzione industriale nell’integrazione
verticale con l’Europa centro-orientale; dall’altro, collegamenti più squilibrati nella
stessa direzione ma anche programmabili per gestire i flussi di «commercializzato»
con l’Asia. In entrambi i casi, inoltre, sono da considerare le implicazioni logistiche
relativamente a due fenomeni che stanno crescendo di importanza: da un lato, la
crescita dei flussi di export di beni d’investimento verso le aree della
delocalizzazione, i quali richiedono una logistica più complessa che riguarda, non
solo il trasporto del bene, ma sempre più i ricambi, i servizi e le informazioni
tecniche; dall’altro, la crescita dei mercati dell’output e lo sviluppo di operazioni
estero-su-estero, che richiede una maggiore capacità di organizzazione di reti
logistiche estese. In definitiva, la sostenibilità dei processi di riposizionamento che
l’economia sta attraversando dipendono anche (in buona misura) dalla capacità del
sistema dei trasposti e della logistica alle nuove domande di relazioni produttive
internazionali che le imprese stanno esprimendo20.
Il processo di delocalizzazione nei settori del “made in Italy”; uno sguardo di lungo
periodo: l’importanza del fenomeno e la sua evoluzione storica
Storicamente l’internazionalizzazione produttiva dell’industria italiana è stata
modesta, se confrontata con i principali paesi europei21. Ancora oggi la quota di
investimenti diretti esteri (IDE) in uscita sul PIL, in Italia, è limitata rispetto a quella
di altri paesi industrializzati comparabili al nostro per dimensione e grado di
sviluppo.
A spiegare questa situazione sicuramente contribuiscono alcune caratteristiche
strutturali dell’economia italiana22:
•
•
20
il primo fattore è la contenuta dimensione media delle imprese: vi è
sicuramente una relazione diretta e positiva tra dimensione dell’impresa e
capacità di organizzare la propria attività su scala internazionale. Questa
richiede capacità finanziarie e cospicue risorse strategiche, manageriali,
organizzative, logistiche e di controllo che normalmente sono relativamente
meno disponibili nelle imprese di minore dimensione;
un secondo importante fattore è collegato alla possibile maggiore rilevanza
di economie esterne a carattere “distrettuale”. Esse renderebbero meno
conveniente l’organizzazione della produzione su scala internazionale dato
che proprio la compresenza in ambiti territoriali limitati di una pluralità di
imprese specializzate, di fornitori, di servizi, può contribuire notevolmente a
determinare la competitività della singola impresa.
Ibidem, p.6.
Viesti G., Gli investimenti diretti all’estero dell’italia: una ricostruzione statistica e alcune riflessioni,
in L’Industria, 1985.
22
Federico S., L’internazionalizzazione produttiva italiana e i distretti industriali: un’analisi degli
investimenti diretti all’estero, Banca d’Italia, Temi di discussione, n.592, 2006.
21
Quest’ultimo fattore s’incrocia con la ben nota specializzazione dell’industria
italiana. In Italia sono meno rilevanti rispetto ad altri grandi paesi industriali i settori
ad “elevate economie di scala”. Sono rilevanti, invece, i settori di “produttori
specializzati”. Traendo essi parte importante della propria capacità competitiva
dall’interazione frequente con fornitori specializzati di componenti, da stretti legami
produttore-utilizzatore e da innovazione incrementale in una vasta gamma di beni
fortemente disegnati dal cliente (“customizzati”), tendono ad internazionalizzarsi
molto più attraverso il canale dell’export o con acquisizioni all’estero che non
frammentando su scala internazionale i processi produttivi.
Più complessa è la situazione dei settori produttivi di beni tradizionali di consumo,
altro comparto in cui sono concentrati i vantaggi competitivi dell’Italia. Come
spiegare il basso grado di internazionalizzazione, quantomeno fino a 15 anni fa, delle
imprese italiane di questi settori, in cui la forte rilevanza dei costi diretti del lavoro e
il basso tasso di innovazione di prodotto in senso stretto possono rendere
particolarmente conveniente la produzione in paesi a basso costo del lavoro? La
spiegazione chiama tradizionalmente in causa la bassa dimensione aziendale, le
economie distrettuali, l’interazione stretta con i fornitori di macchinari (e cioè
l’innovazione di processo) e la specializzazione in segmenti produttivi caratterizzati
da lotti di produzione piccoli e in veloce cambiamento nel tempo: tutti elementi che
tendono a rendere meno conveniente la frammentazione internazionale della
produzione23.
Vicinanza al cliente e rapidità dei tempi di risposta al mercato e di continua
modificazione della gamma produttiva per seguire le mutevoli tendenze della
domanda («effetto moda») rendono difficile e costoso produrre all’estero.
La presenza di fornitori specializzati di componenti e di servizi, così come di aziende
ad elevata professionalità specializzate in specifiche fasi, la necessità di
un’interazione continua, spesso su aspetti tecnici difficili da codificare, rendono
invece conveniente frammentare la produzione all’interno del distretto o quantomeno
in Italia.
Come largamente noto a partire dagli anni Settanta, le grandi aziende del made in
Italy hanno velocemente e massicciamente frammentato la propria produzione, in
particolare nel Nord Est e in Toscana e lungo la dorsale adriatica. Molti distretti sono
nati e sono cresciuti grazie ad uno stock di conoscenze specialistiche che si riescono
a trasmettere e ad accumulare solo attraverso l’interazione personale e di funzioni
non di routine, sia manuali che analitiche, poco codificabili, che sono difficilmente
standardizzabili e, quindi, difficilmente trasferibili a distanza oltre che difficilmente
imitabili.
Ma a partire dal periodo compreso tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni
Novanta la situazione è cambiata: le imprese italiane hanno sperimentato un
crescente e intenso processo di delocalizzazione di attività di produzione all’estero.
Protagoniste di questa fase sono anche e soprattutto medie e piccole imprese
localizzate all’interno dei distretti industriali. In questo periodo la situazione
internazionale si modifica a causa di una serie di fattori che possono essere riassunti
nella progressiva liberalizzazione dei mercati (soprattutto in Europa), che ha portato
ad una altrettanto progressiva liberalizzazione del commercio, e ad un’accresciuta
concorrenza da parte dei paesi emergenti. L’effetto combinato di questi due fattori
spinge le imprese a ricercare nuove soluzioni per continuare a competere sui mercati
internazionali. Per molte di queste, ma non per tutte, la delocalizzazione rappresenta
l’unica risposta per fronteggiare i nuovi competitors internazionali, in quanto
23
Francesco Prota – Gianfranco Viesti, La delocalizzazione internazionale del Made in Italy, Università
di Bari, CERPEM, 2008.
permette di combinare l’elevata produttività e l’elevato livello tecnologico in patria
con bassi costi del lavoro all’estero.
Tutte le analisi disponibili indicano nella riduzione dei costi di produzione, attraverso
la ricerca di aree con un basso costo del lavoro, la ragione alla base della decisione di
delocalizzare la produzione (o parte di essa). Le aree di destinazione degli
investimenti sono caratterizzate, infatti, da un basso costo del lavoro ed è proprio in
questi paesi che le imprese trasferiscono le fasi della produzione maggiormente
unskilled labour intensive24.
Si tratta, dunque, principalmente di investimenti di natura “verticale” che generano
forti flussi di commercio intra-industriale con le case madri.
Alla riduzione dei costi di produzione, che è la motivazione principale della
delocalizzazione che caratterizza anche il settore del made in Italy, si aggiunge la
possibilità di effettuare economie di scala.
È da evidenziare anche che, come recentemente sta accadendo, molte imprese
iniziano a considerare i paesi nei quali hanno trasferito tutte o parte delle fasi del
processo produttivo, come possibili mercati finali dei loro prodotti o, comunque,
come possibili basi per raggiungere altri mercati.
Rilevante è l’estrema rapidità con cui il fenomeno si è diffuso nei settori del made in
Italy. Fino alla metà degli anni Ottanta la delocalizzazione internazionale nei settori
tradizionali dell’economia italiana (soprattutto quelli del made in Italy) è quasi
completamente assente. I dati di TPP25 per i settori tessile-abbigliamento e per quello
calzaturiero mostrano chiaramente questa fase di espansione fino ed oltre il 1996.
FIGURA 10:
24
Barba Navaretti G. - Falzoni A.M. - Turrini, The decision to invest to Low-Wage Country: Evidence
from Italian textiles and clothing multinationals, in Journal of International Trade&Economic
Development, vol.X, n.4, pp.451-470, 2001.
25
Traffico di Perfezionamento Passivo: misura, separatamente dai flussi di scambio definitivi, i
movimenti di merci in uscita dall’UE e destinate ad essere perfezionate al di fuori del territorio
economico dell’UE (esportazioni temporanee) e quelli relativi alle importazioni nel territorio
comunitario di merci «a scarico di esportazioni temporanee» (reimportazioni).
FIGURA 11:
Come mostrano chiaramente i grafici precedenti, nel 2005 il valore dell’import di
prodotti tessili e abbigliamento proveniente dai paesi dell’Europa centro-orientale è
11 volte quello del 1991 (Fig. 10). Una crescita ancora maggiore si registra nel caso
delle calzature (Fig.11).
Che il crescente flusso di import dai paesi emergenti sia un segnale anche di
fenomeno di delocalizzazione in atto trova conferma nel fatto che le merci
provenienti da questi paesi sono dirette principalmente verso provincie specializzate
e forti esportatrici degli stessi beni che importano. Nei settori fin qui analizzati,
utilizzando un indicatore che misura la capacità delle imprese manifatturiere italiane
di controllare i flussi di importazione dei paesi emergenti, si evince come questo sia
concentrato in misura significativa nelle provincie dove hanno sede i principali
distretti produttivi italiani del made in Italy26.
All’evoluzione quantitativa del fenomeno si può associare anche un’evoluzione di
tipo qualitativo. Quest’ultima è naturalmente più difficile da documentare, ma vi è
evidenza che molte imprese che inizialmente trasferiscono solo le fasi produttive più
semplici, con il passar del tempo delocalizzano anche quelle più complesse e, in
alcuni casi, finanche tutto il ciclo produttivo (ma non le fasi a monte e a valle della
manifattura). Questo avviene di pari passo con la crescita della qualità media dei
subfornitori esteri, attraverso processi di apprendimento simili (anche se forse non
nella velocità) a quelli che hanno caratterizzato molti subfornitori italiani. Inoltre se,
in un primo momento, ad essere delocalizzata è soprattutto la produzione di beni di
qualità medio-bassa, successivamente si trasferisce anche la produzione di beni di
fascia alta, proprio per i mutamenti a cui abbiamo appena fatto cenno.
Come conseguenza la delocalizzazione, nata principalmente come risposta alle
pressioni competitive, diviene parte di una più generale strategia di riorganizzazione
su scala globale, e si associa in taluni casi al processo di riposizionamento
competitivo verso produzioni di alta gamma che sta interessando molte imprese
all’interno dei distretti industriali specializzati nei settori del made in Italy.
I paesi con i quali l’Italia stabilisce stretti legami produttivo-commerciali sono, in
primis, quelli dell’Europa dell’Est. La motivazione principale sta nel più basso costo
del lavoro rispetto all’Italia e agli altri paesi occidentali. Le differenze nel costo del
lavoro sono notevoli pur tenendo conto della più bassa produttività in questi paesi: si
26
Banca Intesa, Monitor dei distretti, 2006.
stima che nella prima metà degli anni Novanta (vale a dire il periodo in cui la
delocalizzazione si consolida) il costo del lavoro per unità di prodotto, in Italia, nel
settore tessile-abbigliamento, fosse in media il triplo di quello nei paesi dell’Europa
centro-orientale.
Il fenomeno della delocalizzazione nei settori del made in Italy non interessa con la
stessa intensità tutte le aree del paese: nel caso del settore tessile-abbigliamento una
maggiore concentrazione del fenomeno la si può rilevare nel gruppo di regioni è
composto da Veneto, Emilia-Romagna, Umbria, Marche, Abruzzo e Puglia; nel caso
del settore cuoio-calzature, invece, le regioni interessate sono Veneto, Marche,
Abruzzo e Puglia.
Si tratta, dunque, di un fenomeno che interessa di più alcune aree del paese (le
regioni nord-orientali e sud-orientali). È possibile, quindi, parlare di una
«connessione adriatica».
Effetti della delocalizzazione del made in Italy27
Riassumendo sinteticamente l’evidenza disponibile si può affermare che il
trasferimento della produzione (o di fasi di essa) in paesi con un basso costo del
lavoro non abbia generalmente un effetto negativo sulle imprese finali domestiche.
Le imprese sono spinte a riorganizzare le loro attività e a sostituire mansioni che
richiedono basse competenze con altre che ne richiedono di elevate, ad esempio
spostando il proprio interesse verso il settore della logistica.
Questo appare coerente con la teoria: dato che i moduli produttivi vengono svolti lì
dove la convenienza è massima, e il costo unitario minore, la produttività
complessiva dell’impresa aumenta28.
L’assenza di effetti negativi (meglio, la presenza di effetti positivi) è ancora più
evidente quando confrontata con lo scenario ipotetico di mantenimento di tutta la
produzione nel paese di origine.
Discutere degli effetti della delocalizzazione non è semplice. Infatti, innanzitutto,
bisogna distinguere fra effetti sull’impresa che delocalizza e effetti sul sistema
produttivo nel suo complesso; poi, fra effetti di breve e di lungo periodo. In più,
un’accurata analisi degli effetti sulle imprese domestiche deve considerare un
appropriato scenario controfattuale: cosa sarebbe successo in assenza di questi
processi.
Non è detto che senza la delocalizzazione la produzione e l’occupazione delle
imprese che hanno scelto questa strategia sarebbe rimasta la stessa; è, al contrario,
possibile ipotizzare che si sarebbe ridotta, per le difficoltà di fronteggiare
l’accresciuta concorrenza internazionale senza ricorrere ai vantaggi derivanti dal
trasferire parte delle attività in paesi con un più basso costo del lavoro. Mantenere
tutta la produzione nei paesi d’origine, in questi casi, potrebbe semplicemente non
essere più un’opzione percorribile a patto di non voler essere estromessi del tutto dal
mercato.
27
Francesco Prota – Gianfranco Viesti, La delocalizzazione internazionale del Made in Italy, Università
di Bari, CERPEM, 2008.
28
Baldwin R., Globalisation: The Great Unbundling, paper per il progetto «Globalisation Challenges
for Europe and Finland», 2006, www.eu2006.fi.
Un effetto particolarmente interessante quando si analizzano gli effetti della
delocalizzazione sull’occupazione domestica è infatti verificare se si ha una
variazione della composizione dell’occupazione domestica nel senso di uno skill
upgrading29. Il trasferimento all’estero delle fasi del processo produttivo a più alta
intensità di lavoro comporta una perdita di posti di lavoro «manifatturieri» ma, allo
stesso tempo, crea nuove opportunità di lavoro che richiedono competenze superiori
attinenti la gestione e il coordinamento di attività distintamente localizzate.
Nel caso italiano vi è evidenza che esista un legame positivo e significativo fra la
frammentazione internazionale e l’aumento del rapporto fra lavoratori ad alta e bassa
qualifica nei settori tradizionali.
La delocalizzazione è un fenomeno rilevante non solo perché introduce
trasformazioni nell’impresa che trasferisce parte della produzione all’estero, ma
anche perché trasforma la struttura dei sistemi produttivi locali, in particolare nel
caso dei distretti del made in Italy.
Colpisce, come nel caso della Romania, la contemporaneità temporale fra aumento
degli occupati romeni «indotti» dalle imprese italiane del tessile-abbigliamentocalzature e il corrispondente calo dell’occupazione in Italia. Pare evidente un effetto
di sostituzione.
Anche lo skill upgrading può interessare non solo la singola azienda, ma anche il
contesto economico in cui l’impresa che delocalizza è collocata. Savona e
Schiattarella30 mostrano come la rilocalizzazione internazionale della produzione
attuata dalle imprese del made in Italy abbia un effetto considerevole sulla crescita
del settore dei servizi nelle aree (province) di origine; in particolare, a più alti livelli
di internazionalizzazione produttiva corrisponde una più alta crescita
dell’occupazione nel settore dei servizi.
Producendo meno in Italia e controllando direttamente un numero minore di fasi
produttive, le imprese saranno sempre in grado di innovare nei prodotti e mantenere
il proprio vantaggio competitivo? Quanto è importante che il «made in» sia davvero
prodotto in Italia?31
Certo il successo del made in Italy si è basato, nei passati decenni, sulle innovazioni
derivanti dallo stretto contatto tra chi progettava e chi produceva.
La divisione spaziale tra la progettazione e la produzione può in teoria creare
problemi: una perdita di informazioni sul processo produttivo, la riduzione della
capacità di innovazione incrementale.
Delocalizzando c’è il rischio di perdere le competenze tecniche e la capacità
innovativa che hanno costituito, fino ad oggi, il principale elemento di forza della
produzione distrettuale italiana? Trasferendo l’attività produttiva all’estero le
imprese distrettuali potrebbero non avere più interesse ad investire nella formazione
professionale a livello locale32. Il processo di delocalizzazione internazionale
potrebbe aumentare fortemente l’incertezza all’interno dei distretti, rendere poco
attraente per i giovani intraprendere una carriera nei settori del made in Italy.
29
Francesco Prota – Gianfranco Viesti, La delocalizzazione internazionale del Made in Italy, Università
di Bari, CERPEM, 2008.
30
Savona – Schiattarella, International Relocation of Production and the Growth of Services: The case
of the «Made in Italy» Indutries, in «Transnational Corporations», vol.13 n.2, pp57-76, 2004.
31
Francesco Prota – Gianfranco Viesti, La delocalizzazione internazionale del Made in Italy, Università
di Bari, CERPEM, 2008.
32
Mariotti, Le strategie di delocalizzazione delle imprese del Nord Est nei paesi dell’Europa sud
orientale: reti lunghe o fabbriche con le ruote?, in «L’Italia nell’economia internazionale. Rapporto
ICE 2002-2003», 2004.
La delocalizzazione può causare una perdita di competitività dovuta al continuo
trasferimento di conoscenze specializzate e competenze strategiche al di fuori del
sistema produttivo locale?33 I sistemi produttivi locali sono depositari di risorse
tangibili e intangibili, che risiedono all’interno delle imprese locali, e sulle quali sono
costruite le cosiddette localized capabilities. Il trasferimento della produzione in
luoghi geograficamente distanti può minacciare queste capabilities e, quindi, i fattori
sui quali sono basati i vantaggi competitivi delle economie locali?
La delocalizzazione porta le imprese a riorganizzare su scala internazionale le attività
di produzione, distribuzione e logistica; esse riescono così a fronteggiare con
maggiore successo le difficoltà legate ad una domanda sempre più flessibile e
differenziata e ad una concorrenza internazionale sempre più vivace. Attraverso il
decentramento internazionale della produzione, le imprese consolidano la loro
presenza in mercati in cui erano già presenti e si ritagliano nuovi spazi su mercati in
forte crescita. Hanno la possibilità di concentrarsi nelle attività legate al marketing ed
alla distribuzione.
La delocalizzazione può permettere alle imprese di attuare un «avanzamento
funzionale» all’interno della catena del valore; di accumulare esperienza; di
imparare.
La delocalizzazione può, dunque, essere un’opportunità importante per le imprese
italiane per continuare ad essere competitive in settori maturi.
Non si dimentichi poi un dato di fondo: che si tratta, come si è visto, di un fenomeno
crescente, ma che non riguarda certo tutte le imprese. Sono molte le imprese che
continuano a conservare l’intera catena del valore in Italia, al proprio interno, o
tramite sub-forniture «distrettuali»: imprese con prodotti molto differenziati o con
gamme produttive molto ampie; con prodotti di fascia di mercato molto alta o che
richiedono manodopera molto qualificata; con un «time to market» molto breve o
con frequenti collezioni, riassortimenti.
Si pensi all’importanza cruciale di trasporti e logistica, a medio e lungo raggio, sulla
competitività di una parte importante dell’industria italiana, dato che per unità di
prodotto venduta sul mercato i costi di trasferimento di parti e componenti, o
dell’intero prodotto finito, aumentano. Una trasformazione strutturale dunque, da
analizzare, comprendere e affrontare con grande attenzione.
Legge 8 aprile 2010, n° 55: input esterno che modifica i network d’impresa
La legge Reguzzoni - Versace, legge n.55 dell' 8 aprile 2010, reca "Disposizioni
concernenti la commercializzazione di prodotti tessili, della pelletteria e della
calzatura" ed è un provvedimento di tutela del "Made in Italy" nei settori del tessile,
dell'abbigliamento e dell'arredo che interessa tutti i consumatori italiani.
Tale legge prevede un sistema di etichettatura obbligatoria dei prodotti della
pelletteria e del calzaturiero, nonché di quelli tessili, che mette in risalto il luogo di
origine di ciascuna fase di lavorazione garantendone la tracciabilità. Il marchio
"Made in Italy", quindi, potrà essere apposto solo sui prodotti finiti che abbiano
avuto fasi di lavorazione "prevalentemente" nel territorio nazionale.
La legge specifica che almeno due fasi della lavorazione devono essere effettuate in
Italia. Le altre fasi, invece, dovranno portare l'indicazione dello Stato di provenienza.
33
Francesco Prota – Gianfranco Viesti, La delocalizzazione internazionale del Made in Italy, Università
di Bari, CERPEM, 2008.
Per quanto riguarda l'etichetta, essa dovrà indicare che le lavorazioni hanno rispettato
le norme vigenti in materia di lavoro di sicurezza dei prodotti, l'esclusione
dell'impiego di minori nella produzione, nonché il rispetto della normativa europea e
degli
accordi
internazionali
per
l'ambiente.
Le sanzioni previste per la mancata o scorretta etichettatura vanno da 10 a 50 mila
euro. Se la violazione è reiterata sono previste anche pene detentive variabili da uno
a sette anni. Da sempre Consiglio e Commissione Europea hanno bocciato ogni
possibilità di etichettatura obbligatoria limitandola a prodotti extraeuropei. Unica
eccezione concessa è quella che riguarda gli aspetti "sanitari", quelli a tutela della
salute dei consumatori.
Al comma 4 del art.1 viene stabilito che: «L’impiego dell’indicazione “Made in
Italy” è permesso esclusivamente per prodotti finiti per i quali le fasi di lavorazione,
come definite ai commi 5, 6, 7, 8 e 9, hanno avuto luogo prevalentemente nel
territorio nazionale e in particolare se almeno due delle fasi di lavorazione per
ciascun settore sono state eseguite nel territorio medesimo e se per le rimanenti fasi
è verificata la tracciabilità».
Questo comporterà, per le imprese del settore, una modifica delle proprie reti, dei
propri network logistici; una radicale inversione di tendenza rispetto alla situazione
evidenziata nei paragrafi precedenti: una delocalizzazione inversa caratterizzata dal
rientro delle filiere.
Ai commi 5, 6, 7 e 9 sempre dell’art.1, vengono definite per ogni settore considerato
al comma 1, ossia quello tessile, quello della pelletteria e il calzaturiero, le rispettive
fasi di produzione: al comma 5, infatti, si sancisce che «nel settore tessile, per fasi di
lavorazione si intendono: la filatura, la tessitura, la nobilitazione e la confezione
compiute nel territorio italiano anche utilizzando fibre naturali, artificiali o
sintetiche di importazione»; al comma 6, invece, si stabilisce che «nel settore della
pelletteria, per fasi di lavorazione si intendono: la concia, il taglio, la preparazione,
l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche utilizzando
pellame grezzo di importazione»; al comma 7 è stabilito che «nel settore
calzaturiero, per fasi di lavorazione si intendono: la concia, la lavorazione della
tomaia, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano anche
utilizzando pellame grezzo di importazione»; al comma 9, infine, è sancito che «nel
settore dei divani, per fasi di lavorazione si intendono: la concia, la lavorazione del
poliuretano, l’assemblaggio dei fusti, il taglio della pelle e del tessuto, il cucito della
pelle e del tessuto, l’assemblaggio e la rifinizione compiuti nel territorio italiano
anche utilizzando pellame grezzo d’importazione».
Non è più possibile per le imprese italiane operanti nel settore del made in Italy
sfruttare gli eventuali vantaggi di una delocalizzazione totale della produzione.
Come analizzato in precedenza, non tutte le imprese del settore del made in Italy
hanno optato per tale opportunità; è proprio questa la conferma del fatto che la spinta
alla nuova iniziativa di legge che ha poi portato all’emanazione della L.55/2010
nasce dai c.d. “contadini del tessile”, i quali danno luogo ad «un movimento che ha
ispirato l’iniziativa per un made in “fatto in casa”»34. I contadini del tessile, infatti, si
sostanziano nella categoria imprenditoriale di coloro i quali non delocalizzano
all’estero la produzione; di tale categoria sono parte anche le imprese – in tutto od in
parte – terziste dei produttori tessili di maggiori dimensioni.
La maggior parte delle imprese, però, si avvale, ad oggi, di un sistema di produzione
frammentato.
34
Fatiguso, Made in tutelato per legge, Il Sole-24 Ore, 18 marzo 2010, p. 6.
Questa analisi dimostra che le strutture dei network d’impresa sono soggette a
mutamenti non solo a causa di variazioni dei fattori interni al sistema, come ad
esempio l’aumento del costo del trasporto (vedi paragrafo 2.2.), ma anche a causa di
variazioni di fattori esterni, quali, ad esempio, le decisioni istituzionali. Nel caso in
esame, tali decisioni hanno un effetto diretto sui network logistici in quanto
obbligano alcune categorie di imprese a trasferire le fasi produttive all’interno dei
confini nazionali, comportando un radicale cambiamento rispetto alle attuali
“abitudini” della maggior parte di esse. Le decisioni istituzionali, però, possono
avere anche un’incidenza di tipo indiretto come, ad esempio, nel caso in cui lo Stato
decidesse di diminuire la pressione fiscale sul costo del lavoro così da favorire un
eventuale rientro in patria degli stabilimenti produttivi (come nel caso americano).
IL
FENOMENO ATTUALE DEL RESHORING: IL RIENTRO DELLE FILIERE E LE NUOVE
TENDENZE DELLA LOGISTICA
«Il paradigma economico attuale, in particolare nei mercati del trasporto e della
logistica, è contraddistinto dalla continua innovazione di processo e di servizio che
comporta la necessità di considerare sempre nuove condizioni tecnologiche ed
economiche, evidentemente molto difficili da valutare in anticipo, con modificazioni
continue dei posizionamenti e dei network di filiera alla ricerca del minore costo
traslog (trasporti e logistica)»35.
Ad esempio nel caso della Grimaldi Lines, armatore del Ro/Ro del Mediterraneo,
che ha ampliato i propri network includendo dei nuovi approdi, nel caso specifico
quello di Porto Torres, con l’obiettivo di captare una domanda di servizio di trasporto
che prima non era nelle strategie aziendali, per combattere la crisi.
Ancora, il caso della Swatch che cerca, in Svizzera, aree da destinare a nuovi
stabilimenti produttivi per i suoi orologi, che verranno, quindi, prodotti ai maggiori
costi locali del lavoro ma a costi traslog altamente competitivi nella corrispondenza
ottimale tra filiera traslog e filiera merceologica, produttiva e transattiva36.
Altro elemento che incide sulle modificazioni dei network di filiera, portando a
riallocazioni e riposizionamenti, è il costante aumento del c.d. costo dell’ “ultimo
miglio”. Per ultimo miglio viene identificata quella parte della filiera trasportistica
volta al collegamento tra porti o aeroporti e lo stabilimento di produzione o il
magazzino, che generalmente è un percorso stradale; l’aumento del costo di tale
collegamento è fortemente collegato all’aumento del costo del carburante, nonché
alla congestione delle vie di comunicazione, ossia al costo generalizzato (C.G.). Nel
dettaglio, il C.G. comprende oltre al costo monetario dello spostamento, anche il
costo in termini di tempo impiegato per lo stesso, tenendo conto del valore monetario
ad esso attribuibile.
La congestione può essere intesa come un’esternalità negativa di tempo, la cui
principale caratteristica risulta quella di essere per gran parte interna al sistema dei
trasporti, più precisamente, interna alla modalità di trasporto presa in considerazione.
Essa è determinata dal numero di utenti che, in un determinato istante, decidono di
utilizzare un’infrastruttura di capacità limitata che ha raggiunto già il suo livello di
capacità massima.
Ulteriore elemento che incide sulle scelte localizzative delle imprese dev’essere,
pertanto, il livello di congestione della rete di trasporto che connette l’impresa alle
principali vie di collegamento nazionali ed internazionali sia in ingresso, per il
collegamento con i mercati di approvvigionamento, di materie prime o semilavorati,
sia in uscita, per il collegamento ai mercati di sbocca relativi alla distribuzione dei
prodotti finiti.
Un recente evento che testimonia quanto precedentemente detto è l’ingorgo di 100
km durato quasi un mese, che si è verificato nell’Agosto 2010 sulla National Express
Way 110, principale autostrada cinese che collega la capitale, Pechino, a Jinin, in
Tibet, solitamente attraversata da mezzi pesanti per il trasporto di carbone (materia
prima).
Il fenomeno del “rientro delle filiere” si sta sviluppando in un contesto economico
caratterizzato dall’attuale crisi che ha colpito l’Italia e l’intero mondo e che ha
raggiunto il suo punto più basso nel corso del 2009.
35
Forte Ennio, Analisi economica, scenari emergenti e azioni strategiche per la revisione delle lineeguida del Piano Generale della Mobilità, 2010 - dal sito: www.logisticaeconomica.unina.it.
36
Forte Ennio, Analisi economica, scenari emergenti e azioni strategiche per la revisione delle lineeguida del Piano Generale della Mobilità, 2010 - dal sito: www.logisticaeconomica.unina.it.
È rilevante notare che anche nell’economia statunitense si sta generando un
fenomeno di questo tipo; esso è stato denominato dagli economisti americani
onshoring (o reshoring). Tale termine sta ad identificare la tendenza, di alcune
grandi imprese americane, a riportare la produzione in patria, avvicinando gli
stabilimenti produttivi alle case-madri.
A dimostrazione di tale tendenza è significativo il caso della General Elettric (G.E.)
che sta riportando in patria la produzione dei propri water heater, abbandonando
così, la produzione in Cina37. Decisioni simili sono state fatte o sono in procinto di
essere fatte da colossi dell’economia americana quali NCR, Caterpillar e Ford.
Tale fenomeno è stato definito da molti studiosi americani come un trickle, ossia una
goccia, e non come un flood, alluvione, intendendo con ciò che si è in presenza di
fenomeni sporadici che non riguardano ancora la totalità delle imprese americane.
Ma, seppure è vero che le aziende che delocalizzano sono ancora numericamente
superiori a quelle che seguono il percorso contrario, il fenomeno del reshoring
(rientro delle filiere) sta assumendo una notevole rilevanza. Secondo il CEO di una
divisione della G.E., Jim Cambell, infatti, questo fenomeno potrebbe portare, nel
tempo, a ribilanciare, seppur parzialmente, un fenomeno inverso che ha portato negli
USA, dal 1978 ad oggi, una contrazione della forza lavoro da 19,4 milioni a 11,6.
Tra le principali motivazioni che hanno favorito lo sviluppo del fenomeno del
reshoring è possibile identificare:
la minore convenienza della produzione all’estero, rispetto agli anni
precedenti. I salari nei paesi emergenti stanno crescendo (+15% rispetto allo
scorso decennio, restano comunque una frazione di quelli americani e dei
paesi industrializzati in genere); il costo dei trasporto dei beni è aumentato
sensibilmente (+71% negli ultimi quattro anni).
Uno studio mostra come un prodotto made in USA costi oggi il 22% in più
rispetto al caso in cui venga prodotto in una delle tigri asiatiche, contro il
32% del 2006: segno che il divario si sta riducendo e che, quindi, diminuisce
contemporaneamente la convenienza a spostare o lasciare localizzate le fasi
produttive in paesi emergenti, dove il costo del lavoro è generalmente più
basso;
alcuni tra i paesi industrializzati stanno reagendo attraverso la
regolamentazione interna: cercano di incentivare la produzione in patria con
un mix di incentivi fiscali ed interventi regolamentari.
In America, ad esempio, sono previsti incentivi fiscali per le imprese che
riportano la produzione in patria, inoltre, grazie sempre ad incentivazioni
statali, sono previsti contratti di lavoro più vantaggiosi (per le imprese) con lo
scopo di attenuare il divario tra il costo del lavoro interno (produzione
nazionale) e il costo del lavoro nei paesi emergenti (produzione estera). La
General Elettric, in Luisiana, pagherà i propri dipendenti 13 dollari all’ora
contro i 22 dollari stabiliti nel precedente contratto38;
produrre in patria consente di ridurre (fisicamente) il magazzino, con una
conseguente riduzione di capitale circolante. Delocalizzare la produzione
37
Onetti Alberto, Delocalizzazione? La produzione ritorna negli USA, Corriere della Sera, Sezione:
Economia, 8 Agosto 2010.
38
Onetti Alberto, Delocalizzare, si può invertire la tendenza?, Corriere della Sera, Sezione: Economia,
13 Agosto 2010.
comporta un aumento delle giacenze di magazzino a causa dei lunghi tempi
di trasporto merce (un mese circa per beni prodotti nel Far East) e della
necessità di accumulare merce per fare fronte a ritardi di
produzione/consegna.
L'impresa americana Diagnostic Devices, ad esempio, ha valutato come il
costo del magazzino in caso di produzione in Cina/Taiwan ammonti a 6,5
milioni di dollari contro il milione di dollari in caso di produzione in patria.
Per la Farouk Systems (che produce asciugacapelli), a seguito del
trasferimento della produzione dalla Cina a Houston, il costo del magazzino è
sceso da 120 a 50 milioni di dollari.
La qualità in caso di produzione all'estero non è sempre garantita. Ciò
porta ad un aumento dei costi per il controllo merce e comunque problemi nel
rapporto con i clienti finali.
Allungamento del time to market. E' spesso richiesto di fare ordini con
ampio anticipo (in alcuni casi anche 9 mesi) per entrare nei batch di
produzione dei contractors asiatici. Questo impedisce di poter dare risposta
alle richieste dei clienti.
Scarsa protezione della proprietà intellettuale. Le spese legali per
contrastare la commercializzazione di copie del proprio prodotto sono spesso
rilevanti.
A margine di quanto detto, la produzione in patria resta più cara, ma i differenziali di
costo si stanno attenuando. Alla loro attenuazione possono contribuire le politiche
industriali dei diversi paesi volte ad incentivare il mantenimento in patria delle
attività produttive attraverso incentivi fiscali e, soprattutto, attraverso contratti di
lavoro maggiormente competitivi. Su questo fronte alcuni paesi, tra i quali si rilevano
maggiormente Stati Uniti e Germania, si stanno muovendo.
Questo contesto caratterizzato da un continuo mutamento degli equilibri delle reti
d’impresa, dovuto alle conseguenze della recente crisi economica, sta confermando il
ruolo centrale e strategico della logistica, sia a livello d’impresa che a livello
istituzionale, facendo emergere alcune significative tendenza per una nuova visione e
una nuova missione della logistica, anche e soprattutto a livello nazionale; da tali
tendenze derivano nuovi assetti dei flussi. Esse sono39:
- i sistemi produttivi locali cercano di trattenere le funzioni più avanzate e
specializzate ed a maggiore valore aggiunto (qualità, design,
progettazione, ICT, ecc.);
- i vantaggi e le conoscenze, accumulate precedentemente, consentono un riorientamento del sistema locale verso nuovi prodotti, nuove
specializzazioni e nuove tecnologie, con parziali “rientri” e filiere “più
brevi”;
- la ripresa è trainata dall’export (+6,6 - I° trimestre 2010, fonte Istat);
- rallenta la delocalizzazione e si rafforzano le “filiere di prossimità” (+34%
processi “in prossimità” e -4,2% fornitori esteri - FONTE: Unioncamere,
medie imprese nord-est, 2010);
- la “globalizzazione matura” accentua la specializzazione regionale e
facilita la concentrazione di imprese in luoghi che offrono vantaggi
39
Forte Ennio, Analisi economica, scenari emergenti e azioni strategiche per la revisione delle lineeguida del Piano Generale della Mobilità, 2010 - dal sito: www.logisticaeconomica.unina.it.
specifici (nel caso dei servizi logistici: poli e centri logistici, interporti,
distripark, ecc.);
- l’incremento dei costi energetici (carburante, bunker marittimo, ecc.) ed
ambientali (congestione, limitazioni e tasse ambientali, ecc.) spingono in
molti casi a riprogettare le catene logistiche verso una maggiore
decentralizzazione (Fig. 12).
FIGURA 12: Bunker Index 2010/2009
FONTE: Forte (2010)
Dato il fenomeno del rientro delle filiere (reshoring), che sta coinvolgendo anche il
sistema economico italiano e, date le nuove tendenze della logistica, sembra
opportuno soffermare l’attenzione sul ruolo dell’efficienza di quest’ultima nel
sistema economico italiano, in funzione proprio del “rientro”, anche potenziale, delle
frazioni produttive a maggiore valore aggiunto delle filiere e delle reti d’imprese in
parte e/o totalmente delocalizzate, supportate dall’efficienza logistica a livello locale,
anche se pur sempre inserite ed integrate a livello globale .
Un esempio è dato dalla situazione italiana in cui, nell’ultimo decennio, si è
registrato un vero e proprio boom della Grande Distribuzione Organizzata (GDO)
essendo sorti, ovunque sul territorio, supermercati, centri commerciali, ipermercati e
discount (spesso senza alcuna pianificazione urbanistica e trasportistica); questo ha
cambiato sensibilmente le abitudini di acquisto del consumatore italiano (che si è
rivolto sempre più spesso alla GDO anche come strumento per fronteggiare la crisi).
Nell’analizzare l’influenza che avrà il ritorno, seppur parziale, delle produzioni
all’economia locale, è possibile immaginare che ci sarà solo un modesto impatto
sull’occupazione se lo si confronta con una catena di diseconomie esterne e con i
danni irreversibili al commercio al dettaglio che sembrano potersi presentare qualora
si intensifichi tale fenomeno: date le “nuove” caratteristiche del consumatore
italiano, sviluppatesi nell’ultimo decennio, riprenderanno le importazioni dei prodotti
cinesi in quanto sfruttano, principalmente, proprio il bacino di vendita della GDO; al
contempo, chiuderanno i piccoli esercizi commerciali nazionali, qualora non
riusciranno a garantire un’offerta tale da poter competere sul mercato, in termini di
prezzo, con i prodotti della GDO.
Inoltre, le caratteristiche dei consumatori italiani combinate ad una scarsa coscienza
logistica nazionale, portano al di fuori dei confini del Paese la maggior parte dei
profitti e del valore aggiunto della GDO40 (questi vanno per il 90% ad economie
straniere: tedesche, francesi, svedesi, ecc.).
Sarebbe opportuno, pertanto, dato il fenomeno del reshoring, un maggiore interesse
ed una maggiore sensibilità per la logistica, anche e soprattutto, da parte delle
Istituzioni. Ad esempio, una delle modalità con cui sarebbe possibile aumentare gli
investimenti per la costruzione e lo sviluppo delle infrastrutture logistiche nazionali,
potrebbe essere quella di far pagare alle imprese estere della GDO presenti sul
territorio nazionale, tramite un’imposizione del settore pubblico, una tassa di scopo
del tipo “Versament Trasport” francese, in maniera proporzionale alle
modalità/quantità di utilizzo delle infrastrutture logistiche in questione.
Questo è un criterio di misura a carico delle imprese beneficiarie delle strutture e/o
dei servizi di trasporto. La “Versament Transport” rappresenta, infatti, una forma di
partecipazione delle imprese ai costi per la realizzazione delle infrastrutture di
trasporto volte a generare valore.
Diviene essenziale per un riorientamento strategico della logistica a livello nazionale,
l’adozione di strumenti e di azioni di politica della logistica (logistics policy)
adeguati alle dinamiche economiche globali ed alle configurazioni “a rete” delle
imprese.
A livello globale sono riscontrabili, tra gli assetti produttivi “a rete” caratterizzati da
un elevato tasso traslog (inteso come rapporto tra costi logistici e valore finale del
bene), due principali modelli organizzativi:
di tipo sequenziale: più stabilimenti producono semilavorati che vengono
completati in stabilimenti successivi fino alla distribuzione globale (catena
produttiva e logistica sequenziale);
di tipo confluente: più stabilimenti producono semilavorati e beni intermedi
inviati in stabilimenti di assemblaggio finale e distribuzione globale.
Il costo Traslog è una delle variabili fondamentali per la competizione di beni e
prodotti sui mercati internazionali; esso incorpora costi di trasporto, costi legati alla
movimentazione, alle transazioni, al deposito ed alle lavorazioni “accessorie a
valore”. Le merci in movimento ed in attesa (stoccaggio ai terminali) danno vita a
flussi fisici ed economici (in valore) che variano in funzione di tre variabili:
- quantità (lotti di fornitura e consegna);
- distanza (dal locale al globale, decentralizzazione e centralizzazione);
- tempo di ciclo logistico (frequenza di spedizione).
La minimizzazione del costo logistico totale (Traslog) dovrebbe essere l’obiettivo
strategico di sistema, tenendo conto anche che le distanze tra i diversi stabilimenti di
produzione e/o di assemblaggio possono essere molto diverse dal locale al globale, a
seconda della progettazione e configurazione delle Supply Chain.
40
Ibidem.
Bibliografia e Sitografia
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