Introduzione

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Introduzione
Giovani alla ricerca di futuro
in un paese senza futuro per la ricerca.
RiÁessioni intorno al Forum Giovani AIS 2012
di Davide Borrelli
Rilette oggi a distanza di quasi un secolo, le pagine in cui Max Weber descriveva le difÀcoltà che i giovani del suo tempo incontravano nell’intraprendere la
carriera accademica, danno l’impressione di essere per certi aspetti ancora attuali. Per altri versi, invece, fotografano una realtà alla quale, nella drammatica situazione in cui ci troviamo oggi nel nostro paese, non possiamo che guardare con una certa rassegnazione oltre che, addirittura, con una punta di invidia.
Allora, argomentava un disincantato Weber, la vita accademica sembrava irrimediabilmente alla mercé del caso, al punto che ai giovani che gli chiedevano
consigli sulla carriera universitaria il padre della sociologia domandava innanzitutto se pensavano di poter accettare «di vedersi passare avanti, di anno in anno, una mediocrità dietro l’altra, senza amareggiarsi e corrompersi interiormente» (1917, p. 12). Oggi il caso e l’imponderabilità che a quei tempi gravavano sui
destini accademici dei giovani hanno lasciato il posto a inquietanti certezze: non
solo quella dell’estrema difÀcoltà di intraprendere una carriera universitaria, ma
perÀno quella del progressivo declino del sistema della formazione e della ricerca nel nostro paese.
Se, come si dice, l’Italia non è un paese per giovani, l’università italiana si rivela non di rado il luogo in cui le loro legittime aspirazioni di crescita umana e
sociale rischiano maggiormente di essere disattese e mortiÀcate. Il Forum Giovani che l’Associazione Italiana di Sociologia (AIS) organizza dal 2003 per valorizzare le nuove leve della ricerca sociologica nazionale rappresenta solo una goccia di ottimismo della volontà in quell’oceano di apatia, disinteresse e mancanza
di opportunità che sta ormai diventando il nostro sistema universitario. «I ricercatori non crescono sugli alberi» – recitava il titolo di un fortunato volume dedicato ai mali della ricerca italiana (Sylos Labini e Zapperi 2010). Eppure, qualcuno dovrà pur preoccuparsi di dissodare il terreno, piantare i semi e prendersi cura
dei germogli da cui si svilupperanno questi frutti – per proseguire nella metafora agricola. Si tratta evidentemente di un lavoro assiduo, faticoso, spesso oscuro e
misconosciuto. Un compito al quale l’AIS non è mai venuta meno e a cui neanche
in futuro intende far mancare il proprio sostegno e contributo.
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Il Forum Giovani è parte essenziale di questo impegno. Esso costituisce una
delle più importanti attività che l’AIS organizza, come da statuto, al Àne di «favorire lo sviluppo degli interessi scientiÀci, culturali e professionali dei Soci» (art. 3,
comma a), nel quadro del più ampio obiettivo di promuovere e valorizzare «in Italia e all’estero, la ricerca e l’insegnamento delle discipline sociologiche nelle Università come in ogni altro luogo, impresa o istituzione, nonché la professione del
sociologo» (art. 2, comma a). Naturalmente gli sforzi che associazioni scientiÀche
nazionali come l’AIS producono per contribuire alla valorizzazione, all’orientamento e alla promozione scientiÀca dei giovani ricercatori si scontrano con i limiti e le ristrettezze oggettive del contesto generale in cui si trova a operare il sistema universitario italiano.
Per essere bruscamente sintetici, ci troviamo dinanzi a uno scenario che non
sarebbe esagerato deÀnire di tendenziale dismissione dell’università da parte dello stato italiano. Un’associazione scientiÀca come l’AIS non può sottrarsi all’obbligo civico e culturale, prima ancora che istituzionale, di denunciare pubblicamente tale disastro nazionale né può rinunciare a tentare di aprire una discussione
su come e perché tutto questo sia potuto accadere, oltre che su che cosa si è fatto
(o, piuttosto, non si è fatto) negli ultimi anni per porvi rimedio.
Solo qualche dato per inquadrare obiettivamente i termini del problema di cui
stiamo parlando. Com’è noto, ogni anno l’Organizzazione per la Cooperazione
e lo Sviluppo Economico (OCSE) pubblica il rapporto Education at a Glance.
OECD Indicators, un accurato resoconto sullo stato dell’istruzione dei 34 stati
membri e di altri otto stati non membri che fanno parte del G20. Dall’edizione
2013 si ricavano dati tutt’altro che confortanti per il sistema formativo italiano nel
suo complesso. Per esempio, scorrendo tra le varie tabelle contenute nel rapporto,
ci si rende malinconicamente conto che il nostro paese è quello dove risulta minore la percentuale della spesa pubblica per l’istruzione universitaria in rapporto al totale della spesa pubblica (l’1,7% a fronte, per esempio, del 4,7% in Canada, del 4,5% in Norvegia, del 4,2% in Danimarca, ma anche del 2% in USA, dove
pure è prevalente una forma di Ànanziamento di tipo privato) (Tab. B4.1, p. 218).
Il discorso non cambia se rapportiamo la spesa per il Ànanziamento dell’università al prodotto interno lordo. Nel 2010 i paesi OECD hanno fatto registrare
in media una spesa complessiva pari all’1,7% del prodotto interno lordo per il sistema universitario, in Italia si raggiunge una percentuale dell’1% appena del PIL
(di cui lo 0,8% da stanziamenti pubblici e lo 0,2% da investimenti privati: si veda Tab. B2.3, p. 193), il che ci pone al ventisettesimo posto su ventotto paesi per i
quali è disponibile questo dato. Va detto poi che nel corso dei primi anni della crisi economica, dal 2008 al 2010, l’Italia, dopo l’Ungheria, è lo stato in cui le spese
complessive per il sistema educativo (dall’educazione primaria a quella universitaria) in relazione al PIL sono maggiormente diminuite: se si considera pari a 100
quanto nel 2008 si spendeva per l’istruzione in percentuale rispetto al PIL, si può
constatare che nel 2010 in Ungheria si è speso 95 e in Italia 96, mentre in quasi
tutti gli altri paesi OECD il saldo è positivo con punte Àno a 119 per l’Australia.
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Il quadro non migliora di molto, inÀne, neanche se si considera l’indicatore
della spesa per l’istruzione universitaria in relazione al numero degli studenti (in
questa graduatoria siamo ventiquattresimi su trenta paesi che hanno reso disponibili i dati). Sempre assumendo come anno di riferimento il 2010, per l’università i
paesi OECD spendevano in media 13.528 dollari all’anno per ogni studente, mentre l’Italia se la cavava appena con 9.580 dollari (Tab. B1.1a, p. 174), ossia quasi
il 30% in meno. Tanto per essere espliciti, negli Stati Uniti si investiva nello stesso anno quasi il triplo nel settore dell’università (25.576 dollari), in paesi come
la Danimarca, la Norvegia e la Finlandia il doppio, ma facevano registrare livelli di spesa superiori all’Italia anche paesi economicamente meno sviluppati come
la Slovenia (9.693), il Portogallo (10.578), la Spagna (13.373) e l’Irlanda (16.008).
Questi sono i dati che attestano quanto poco pesi l’università nel bilancio pubblico e nell’agenda delle priorità del nostro paese, e che registrano per di più il
progressivo disinvestimento di cui negli ultimi anni essa è stata fatta oggetto. Ciononostante, il problema dell’università italiana non sembra affatto essere questo a
giudicare dal dibattito pubblico e dal frenetico riformismo legislativo che in questi anni l’ha ripetutamente investita. I problemi su cui molti opinionisti preferiscono concentrarsi, giornalisti politici e intellettuali, sarebbero la scarsa qualità
del nostro sistema universitario, la mancanza di meritocrazia, la cosiddetta fuga
dei cervelli, il nepotismo dei baroni e così via. La circostanza fa venire in mente
una celebre scena del Àlm Johnny Stecchino, in cui il personaggio interpretato da
Paolo Bonacelli, un avvocato tossicodipendente che cura gli interessi di un boss
maÀoso, racconta a un disorientato Roberto Benigni, appena sbarcato per la prima volta a Palermo, delle terribili piaghe che afÁiggono la Sicilia. In particolare,
gli dice, quella più grave che diffama la Sicilia, e in particolare la città di Palermo, agli occhi del mondo è… il trafÀco automobilistico. Si tratta di un paradosso dall’effetto comico esilarante: tutti noi ci aspetteremmo di sentir parlare della
maÀa, e invece viene fuori che il vero grande problema della Sicilia è nientedimeno che il trafÀco!
Ebbene, da qualche anno a questa parte, qualcosa di simile e di altrettanto surreale ricorre anche nel discorso pubblico sulle disfunzioni dell’università italiana. A fronte del costante deÀnanziamento dell’università, nei dibattiti sulla crisi
dell’accademia italiana capita sempre più spesso di sentir dire che il vero grande problema di cui soffre il nostro sistema della ricerca è la mancanza di un serio sistema di valutazione che Ànalmente realizzi anche nel nostro paese la meritocrazia e la qualità. Dunque, il problema non è che chi ha governato l’Italia negli
ultimi decenni ha creduto poco e investito sempre meno nella ricerca e nella formazione, e non è nemmeno che il nostro paese sembra aver deÀnitivamente rinunciato a un modello di sviluppo fondato sul valore aggiunto della conoscenza.
Il vero problema sarebbe che manca la cultura della meritocrazia, il «trafÀco» appunto.
Detto, fatto. Da qualche anno è stata istituita l’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca (ANVUR) alla quale è stato afÀdato, non
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senza oneri peraltro per le casse dello stato, il compito di promuovere Ànalmente
la qualità del sistema universitario italiano.
E Àn qui tutto bene, promuovere la qualità suona davvero convincente e persuasivo. Chi potrebbe mai provare a dichiararsi contro la qualità? La formulazione è così generica da risultare di fatto autoevidente e ineccepibile. I problemi cominciano quando si passa alla fase successiva, cioè a enunciare in che cosa
consiste la qualità e a spiegare che cosa si intende per ricerca di qualità. Ma attenzione: posta in questi termini, la questione sembrerebbe consistere soltanto (si
fa per dire!) nel trovare una deÀnizione condivisa di qualità (magari ricavandola da consolidati benchmark internazionali) e nell’additarla come standard di riferimento per i ricercatori. Questione certamente complessa e controversa, ma non
più di quanto sia da sempre ogni questione che coinvolga una pluralità di soggetti,
punti di vista e interessi. Sennonché, a pensarci bene, il carattere problematico di
questa impresa non consiste tanto nella risposta che si dà alla richiesta di deÀnire la qualità. Esso si annida già nella formulazione della domanda, nella pretesa,
cioè, di dare una deÀnizione di qualità (quale che essa sia) e imporla come ideale
normativo per l’intera comunità degli studiosi. La qualità di un sistema, si potrebbe obiettare per esempio nella prospettiva dell’approccio delle capacità tematizzato da studiosi come Martha Nussbaum e Amartya Sen, non coincide con un funzionamento determinato (qualunque esso sia), ma è data dalla quantità di diversi
funzionamenti che esso è capace di coltivare e valorizzare, ovvero dalla «capacità
di fare e di essere» che è consentita a chi vive e opera al suo interno.
Si delinea così un paradosso: per migliorare il nostro sistema della ricerca occorre puntare sulla qualità; ma puntare sulla qualità (qualsiasi criterio adotteremo
per deÀnirla) signiÀca porre dei vincoli a una attività, quella della ricerca, che per
essere euristicamente davvero efÀcace, e quindi di qualità, dovrebbe essere messa
in condizione di potersi sviluppare in modo libero e incondizionato. Ne consegue
che, concepita come un fattore di promozione della conoscenza e di liberazione
delle intelligenze più vivide, la parola d’ordine della qualità rischia di risolversi di
fatto in un danno per la ricerca e per la cultura, oltre che diventare un fattore repressivo per la libertà gli individui. Come ha osservato l’epistemologo Paul Feyerabend, «il desiderio di accrescere la libertà, di condurre a una vita piena e gratiÀcante, e il corrispondente tentativo di scoprire i segreti della natura e dell’uomo,
comportano […] il riÀuto di ogni norma universale e di ogni tradizione rigida.
(Essi comportano, naturalmente, anche il riÀuto di gran parte della scienza contemporanea)» (1975, p. 18). E, aggiungiamo noi, comportano a maggior ragione il
riÀuto di qualunque principio d’ordine, magari sotto le mentite spoglie della qualità, che si voglia imporre al sistema della ricerca e dell’università.
Nelle intenzioni di chi invoca la meritocrazia e insegue il mito delle classiÀche
di qualità in ambito universitario, il merito dovrebbe essere un principio trasparente e oggettivo in grado di eliminare una volta per tutte quel fattore di casualità che secondo Weber incombe praticamente da sempre sul destino degli studiosi
e sulle condizioni della loro vita accademica. Sennonché, quando si ha a che fa10
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re con concetti così indeÀniti e plastici come merito o qualità, assume un’importanza tanto più determinante l’opinione di chi è chiamato a stabilire che cosa sia
un prodotto scientiÀco di qualità e quali siano i ricercatori meritevoli. Con la paradossale conseguenza che, mentre si sostiene di voler perseguire un principio oggettivo, di fatto ci si consegna senza riserve al giudizio soggettivo di un ente centralizzato, che si trova così a essere investito dei crismi dell’oggettività e al quale,
in quanto tale, viene riconosciuto il potere di condizionare, spesso irreversibilmente, la vita delle istituzioni accademiche, così come dei singoli ricercatori che
vi lavorano.
La recente legge di riforma dell’Università (la cosiddetta legge Gelmini) ha introdotto, infatti, il principio per cui si prevede di incentivare i soggetti ritenuti più
efÀcienti e meritevoli (docenti, strutture, atenei) mediante l’erogazione premiale di maggiori risorse Ànanziarie rispetto a quelli che faranno registrare un rendimento inferiore. In omaggio al conclamato principio della meritocrazia la legge
fa esplicito riferimento alla necessità della «valorizzazione della qualità e dell’efÀcienza delle Università e [della] conseguente introduzione di meccanismi premiali nella distribuzione delle risorse pubbliche sulla base di criteri deÀniti ex ante, anche mediante accreditamento periodico delle Università» (art 5, comma 1,
lettera a della Legge 240 del 30 dicembre 2010). Un nuovo linguaggio e un nuovo
sistema di valori ispirato alla logica del mercato cominciano a dettare le leggi e i
principi in base a cui regolare le pratiche della ricerca e della formazione. E così, un vero e proprio nuovo «regime di veridizione» si impossessa surrettiziamente del mondo dell’università e della conoscenza (Pinto 2012).
Diversamente dalla logica che ispira questo tipo di policy l’approccio dello
sviluppo umano (o delle capacità) teorizzato dai succitati Amartya Sen e Martha Nussbaum punta, al contrario, ad assicurare a ciascuno la possibilità di raggiungere una certa soglia di capacità: «l’atteggiamento nei confronti delle capacità basilari delle persone non è meritocratico – migliori sono le doti innate delle
persone e migliore sarà il trattamento – bensì l’opposto: coloro che hanno più bisogno di aiuto per raggiungere la soglia dovranno essere sostenuti» (Nussbaum
2011, p. 31).
Si dirà che il nostro legislatore ha legittimamente ritenuto di adottare un’impostazione diversa da quella suggerita nell’ambito dell’approccio delle capacità. Si
può essere in disaccordo con essa ma si tratta di una scelta politica legittima che
ha una sua logica e che trova dei sostenitori anche all’estero. Il fatto è che nella situazione di suicidio assistito in cui si trova il sistema della formazione universitaria in Italia, l’enfasi sulla meritocrazia e sull’eccellenza non appare solo un’opzione discutibile ma assume il senso di un vero e proprio depistaggio cognitivo:
quella che di fatto è una debolezza (il ridimensionamento dell’università) viene
presentata all’opinione pubblica come una strategia per rendere la nostra università più competitiva e qualiÀcata, oltre che più in grado di valorizzare i giovani meritevoli. Per essere chiari, porre al centro del dibattito sull’università la questione
del merito signiÀca tentare artiÀciosamente di sottrarsi al merito della questione,
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per come emerge in tutta la sua cruda e allarmante evidenza dai dati OECD che
abbiamo ricordato.
Ma c’è di più. C’è un altro subdolo obiettivo a cui si presta verosimilmente
questa astuta operazione di depistaggio cognitivo che ci obbliga, nostro malgrado, a concentrarci sul «trafÀco». Erigere il merito come criterio di Ànanziamento dell’università comporta l’impagabile vantaggio per il legislatore di presentare
come demerito delle singole strutture universitarie o dei singoli ricercatori la ristrettezza delle risorse che vengono loro destinate. In altri termini, il mantra della qualità sembra funzionare per il sistema della ricerca e della formazione esattamente nello stesso modo in cui secondo Nietzsche l’ideale ascetico funzionava
in rapporto alla morale: in entrambi i casi un modo per interpretare la sofferenza delle vittime, anzi propriamente per disporre «la [loro] sofferenza sotto la prospettiva della colpa» (1887, p. 157). Non si tratta, dunque, solo di un escamotage
con cui la politica allontana da sé la responsabilità di aver svilito e sacriÀcato l’università, bensì del tentativo di farne assumere la colpa all’università stessa. Del
resto, la retorica della colpevolizzazione delle parti lese è un motivo sempre più
ricorrente nel linguaggio di chi ha responsabilità di governo. Così, è capitato recentemente di sentire dichiarazioni di ministri che sottolineavano, per esempio,
come fosse una colpa da «sÀgati» laurearsi fuori corso, o che spiegavano che se
ai giovani manca un’occupazione è per via del fatto che hanno la colpa di essere
troppo «choosy», troppo schizzinosi per accettare lavori precari.
Non sta all’AIS contrastare e invertire la deriva in cui la politica ha negli anni
precipitato l’università. Ma sarebbe davvero la più gratiÀcante delle funzioni cui
la nostra comunità possa assolvere se, anche attraverso iniziative come il Forum
Giovani, riuscisse a mettere al riparo e a salvaguardare le soggettività dei giovani
ricercatori dal rischio di «amareggiarsi e corrompersi interiormente» (per usare
ancora le parole di Weber) assumendo come colpa propria il fatto che il sistema
universitario non offre adeguati spazi perché possano realizzare le proprie aspirazioni scientiÀche e il proprio progetto di vita.
Il presente volume raccoglie i lavori degli studiosi che hanno partecipato alla nona edizione del Forum Giovani AIS1. Dopo aver superato una selezione alla quale hanno concorso oltre cinquanta proposte di relazione, diciasette giovani studiosi provenienti da tutta Italia sono stati invitati a esporre i risultati delle ricerche
che stanno svolgendo nei più diversi campi delle scienze sociali. Le relazioni sono state analizzate, commentate e discusse dai rappresentanti del Consiglio Diret-
Il Forum si è tenuto il 17 e 18 dicembre 2012 presso “La Cittadella della Ricerca” di Mesagne (BR), promosso dall’Associazione Italiana di Sociologia (AIS) e ospitato dal Dipartimento di
«Storia, Società e Studi sull’Uomo» dell’Università degli Studi del Salento. Al direttore del Dipartimento, professor Vitantonio Gioia, il Consiglio Direttivo dell’AIS esprime particolare gratitudine per aver accolto con entusiasmo l’iniziativa e per essersi adoperato con abnegazione per renderla possibile.
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tivo dell’AIS presenti (il presidente Alessandro Bruschi, Maria Carmela Agodi,
Giovanni Boccia Artieri e Davide Borrelli) oltre che da alcuni docenti del Dipartimento ospite, che hanno generosamente accettato di svolgere il ruolo di discussant mostrandosi particolarmente prodighi di consigli e disponibili ad azioni di
orientamento formativo2.
Per la prima volta da quando si celebra, il Forum Giovani ha assegnato il premio di una borsa di studio del valore di mille euro, intitolata alla memoria del
compianto professor Franco Rizzo e generosamente Ànanziata dalla sua famiglia.
Franco Rizzo è stato un eminente studioso di sociologia della politica. Nato nel
1927 ha avuto tra i suoi maestri Benedetto Croce e sin da giovane è stato docente (insieme a intellettuali della levatura di Eugenio Scalfari e Vincenzo Arangio
Ruiz) nel primo corso di studio per i giovani liberali. Nel 1954 vinse il concorso
in Senato per funzionari (al tempo erano solo 16, fra cui Leopoldo Elia e Pietro
Scoppola) ed è stato Consigliere del Senato della Repubblica Àno al 1977, anno a
partire da cui si è dedicato a tempo pieno alla docenza universitaria. Ha fondato e
diretto la Rivista Trimestrale di Scienza Politica e dellÕAmministrazione e pubblicato numerosi studi e monograÀe di argomento politologico, fra cui Il disagio liberale (Berlusconi e i liberali) (1997), Da Einaudi a Gedda. La memoria liberale
di Forza Italia (2001), Quel che resta del vero (2009). Meno noti sono forse i suoi
interessi letterari: corrispondente di Thomas Mann, da giovane vinse un premio
letterario insieme con un altro giovane che avrebbe presto mostrato tutto il suo talento, Pier Paolo Pasolini. Non c’è che da augurarsi che la borsa di studio Ànanziata alla famiglia di Franco Rizzo possa servire a scoprire e a valorizzare i nuovi
Pasolini e i nuovi Rizzo delle scienze sociali di domani.
Si sono aggiudicati il premio che celebra la sua memoria due dottori di ricerca
dell’Università di Trento, Adriano Cataldo e Marco Tosi, con una relazione dal titolo «Atipicità lavorativa e scoraggiamento: analisi comparata tra nord e sud Italia». Il loro saggio non è compreso in questo volume in quanto si è ritenuto opportuno pubblicarlo sulla rivista Sociologia italiana. AIS Journal of Sociology (n.
2/2013) al Àne di assicurare all’iniziativa che ha celebrato la memoria di Franco
Rizzo una più ampia circolazione presso la comunità dei soci dell’AIS. Nella loro relazione i due giovani studiosi hanno analizzato il fenomeno dello scoraggiamento lavorativo tra le donne italiane. Ne è emersa l’idea che la carenza dei servizi all’infanzia tenda a tradursi in un adeguamento verso l’inattività tradizionale al
Sud e, viceversa, in scoraggiamento al Nord. Contrariamente all’ideologia che ha
dominato gli ultimi decenni per cui più Áessibilità signiÀcherebbe maggiore occupazione, i dati mostrano che il fenomeno dello scoraggiamento al lavoro è maggiore proprio tra le donne che hanno avuto esperienze di lavoro atipiche e Áessi-
Il Consiglio Direttivo dell’AIS ringrazia per la loro preziosa collaborazione i professori Emiliano Bevilacqua, Valentina Cremonesini, Stefano Cristante, Fabio De Nardis, Mariano Longo,
Angelo Salento, Ferdinando Spina, Marcello Strazzeri.
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bili. Nelle regioni meridionali, poi, il ripetersi di lavori atipici e disoccupazione
rischia di produrre una vera e propria trappola di precarietà, che sfocia in un senso d’inadeguatezza verso il mondo del lavoro.
Com’è ovvio, il presente volume non ha per oggetto un unico argomento perché diversi sono stati i temi dibattuti nel corso del Forum. Nessuno dei saggi qui
pubblicati si sottrae al compito di confrontarsi con le emergenze del presente, in
particolare con le conseguenze della crisi economica, sociale e culturale che stiamo vivendo in questi anni. A giudicare dal livello scientiÀco dei contributi, la ricerca italiana nel campo delle scienze sociali appare viva, qualiÀcata e tutt’altro che depressa. E già questo costituisce un incoraggiante segnale di resilienza e
di riscatto da parte delle giovani generazioni rispetto alla situazione di recessione culturale e formativa che abbiamo sinteticamente descritto. Ci teniamo a sottolineare che questo libro non rappresenta solo una occasione per dare la parola
ai più bravi tra i giovani studiosi italiani, ma costituisce a tutti gli effetti un valido contributo per interpretare la realtà contemporanea e mettere in luce alcuni dei
processi di cambiamento che in essa stanno prendendo forma.
Il volume3 si apre con il saggio che Antonietta Bisceglia, Rita Cimmino e
Giorgina Sommonte dedicano alle pratiche di collaborazione scientiÀca come
strategia per stimolare la produzione innovativa di conoscenza. Dal saggio emerge che i sociologi italiani appartengono a reti di collaborazione piuttosto ristrette.
Partendo da un’analisi delle pubblicazioni (2000-2010) dei docenti e dei ricercatori di alcuni atenei italiani si è cercato di stabilire se ci siano delle caratteristiche
che incidono sugli stili di collaborazione. L’ipotesi è che gli stili di collaborazione dipendano dai settori scientiÀci di afferenza, dalla posizione occupata nonché
dall’appartenenza accademica.
Il saggio di Carmelo Buscema e Stefano Lucarelli è una originale riÁessione
sulla crisi economica di questi anni, che viene letta come il risultato della tensione tra due paradigmi tecnologici: da una parte le tecnologie «dure» ed entropiche,
dall’altra le tecnologie «dolci» proprie della sfera informazionale. Gli autori propongono una ricostruzione delle determinanti economiche che sfociano nell’intreccio tra la Ànanziarizzazione e la digitalizzazione e che costituiscono una nuova grammatica del potere.
Mario Coscarello e Antonella Golino esplorano i valori simbolici e relazionali che si manifestano attraverso nuove pratiche di consumo critico e responsabile. Da due indagine empiriche condotte su un Gruppo di Acquisto Solidale in
Calabria e sui clienti dei farmer’s market molisani gli autori traggono elementi di riÁessione sulla posta in gioco di tali esperienze di alter-consumo: i principi di socialità, reciprocità, solidarietà ed equità che le caratterizzano, alimentano
le piccole produzioni locali e costituiscono un potenziale volano di sviluppo per il
sistema economico sociale nel suo complesso.
3 Desidero ringraziare, personalmente e a nome dei colleghi curatori, Silvia Doria, una degli
autori del libro, per il prezioso contributo prestato nella revisione del testo.
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giovani alla ricerca di futuro in un paese senza futuro per la ricerca
Nel contributo di Luca Daconto si ricostruisce il dibattito francofono sui temi della mobilità e del radicamento locale. Più che la contrapposizione tra questi modi di abitare, l’autore sottolinea le forme di integrazione che si vengono a
determinare nell’esperienza urbana contemporanea. Lo fa richiamandosi a studi
empirici che sottolineano l’importanza del quartiere in una società mobile, così
come le forme di spostamento e radicamento dei pendolari di lunga distanza. InÀne, discute il concetto di capitale di autoctonia, il cui recente utilizzo ha dimostrato di poter arricchire ulteriormente la riÁessione.
Lo studio di Joselle Dagnes ricostruisce il reticolo inter-organizzativo delle
società Blue Chips quotate nel mercato azionario italiano nel periodo 2006-2010,
attraverso una analisi dei legami di tipo interlocking directorates esistenti. Un
modello statistico actor-oriented permette di testare alcune ipotesi relative ai criteri che orientano la formazione dei legami nel tempo, che riguardano il ruolo di
alcune dimensioni endogene ed esogene al reticolo: la reputazione, lo status e l’omoÀlia. L’analisi condotta evidenzia che le società tendono a scegliere partner caratterizzati da un elevato status e da un macrosettore di attività complementare.
Il saggio di Silvia Doria illustra i principali risultati di una ricerca etnograÀca
condotta nei cantieri per la costruzione di una nuova linea metropolitana a Roma.
Il tema della sicurezza sul lavoro viene studiato integrando la prospettiva normativa a una sociale e culturale in cui la sicurezza è assunta come dimensione intrinseca alle pratiche lavorative. Lo shadowing dei responsabili di cantiere le ha permesso di osservare e annotare episodi su due sistemi di pratica basati uno sul loro
controllo e mediazione; l’altro sul sapere esperto degli operai. Il lavoro mette in
luce una pratica della sicurezza negoziata tra i diversi attori del campo e problematizza l’uso dei Dispositivi di Protezione Individuali (DPI) da parte degli operai
rispetto al loro essere «calati dall’alto».
Domenica Farinella affronta il tema dell’economia informale. All’interno del
paradigma teorico della modernità, l’economia informale è spesso considerata
come un fattore di arretratezza, destinato a comprimersi nelle economie avanzate.
A partire da un approccio di sociologia critica, il saggio mette in evidenza la circolarità tra informalità, illegalità e formalità, evidenziando mediante una ricerca
empirica su un gruppo di lavoratori manuali precari del settore pubblico (svolta
nel periodo 2008-2009 in Sicilia), in che modo le stesse politiche pubbliche producono l’informalità, quali sono le strategie che i lavoratori mettono in atto per
rendere la loro condizione di marginalità più sopportabile, in che modo i soggetti riescono a superare un frame individualistico e lottare collettivamente per il diritto alla stabilizzazione.
L’analisi del ruolo degli intellettuali all’interno delle comunità musulmane in
Europa è il tema del lavoro di Valentina Fedele. A partire dagli anni Ottanta, in
queste comunità gli intellettuali musulmani europei hanno cominciato ad afÀancare e spesso a sovrapporsi a Àgure più tradizionali, come gli imām. Nel saggio
l’autrice sostiene che l’utilizzo delle categorie gramsciane di intellettuali organici
e intellettuali tradizionali, alla luce dall’applicazione che esse hanno trovato ne15
emergenze dal presente, prospettive di futuro
gli studi sul rapporto tra intellettuali e comunità africana-americana, permette di
evidenziare le peculiarità e le evoluzioni della relazione tra la neo-etnia musulmana europea e gli intellettuali musulmani europei.
Il contributo di Emilio Gardini riguarda gli studi sociologici sullo spazio.
Questi studi sono parte di un territorio di conÀne tra la ricerca urbana e quella
sulle relazioni sociali. Il contributo della sociologia è quello di considerare lo spazio come un elemento «agente e agito» nei processi sociali. L’autore richiama alcune espressioni teoriche che nella tradizione sociologica fanno riferimento a nozioni «spazializzate», quali le «cerchie» di Georg Simmel o il «campo» di Pierre
Bourdieu. A partire da questi concetti propone di costruire una riÁessione sull’uso dell’immagine ambientale con l’intento di cogliere il senso delle relazioni sociali nello spazio.
Davide Girardi analizza le relazioni e le rappresentazioni di genere presso due
campioni per quote di giovani adulti d’origine marocchina e romena. Osservando
le pratiche domestico-familiari e gli universi simbolici, le dinamiche di genere si
rivelano come il portato dell’interazione tra persistenze (più sul piano delle pratiche) e mutamenti (più sul piano delle rappresentazioni). Da questo punto di vista, l’esperienza dei giovani adulti d’origine straniera testimonia inattesi elementi
di vicinanza con l’esperienza dei coetanei italiani, in particolare con le disuguaglianze di genere che riguardano la quotidianità delle donne italiane.
Nel suo saggio Fabio Marzella analizza il fenomeno del consumo dell’usato
nelle società post-industriali, ponendo particolare attenzione alla cultura materiale. L’autore propone un modello teorico di analisi dell’usato attraverso la comparazione con il consumo del nuovo. L’usato può essere letto come una dinamica di
consumo che implica dei processi di prossimità al corpo, puriÀcazione e decontaminazione e di relazionalità e reciprocità differenti rispetto al consumo del nuovo. Attraverso l’elaborazione di uno schema di analisi l’autore suggerisce un quadro teorico utile per successive ricerche empiriche.
Il contributo di Alessia Pozzi prende in esame il progetto denominato «Olimpiadi della Matematica». La ricerca si basa su di un’etnograÀa multisituata effettuata, nell’a.s. 2010/2011, all’interno dell’organizzazione olimpica e in alcuni
istituti secondari di secondo grado che hanno aderito all’iniziativa. Il risultato è
un’interpretazione descrittiva del processo di ingegneria dell’eterogeneo in cui si
producono delle eccellenze in matematica attraverso il settore olimpico. Utilizzando la metafora del networking, si sostiene che è con l’allineamento di materiali eterogenei, dei processi e delle pratiche che mettono in atto che si ha l’attivazione, la stabilizzazione e la chiusura del processo all’interno del network.
Barbara Sena muove dall’assunto che il concetto di responsabilità sociale è
molto utilizzato in campo economico e ÀlosoÀco, ma ha suscitato scarsa attenzione come oggetto di studio in sé della sociologia. Il suo lavoro tenta di deÀnire
questo concetto nella sua rilevanza sociologica, sviluppando l’idea che esiste una
distinzione tra l’agire socialmente responsabile e l’agire individualmente responsabile. Dopo aver analizzato il rapporto tra responsabilità, rischio e generatività
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