La parabola dei partiti in Italia: da costruttori a problema della

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La parabola dei partiti in Italia: da costruttori a problema della
Il caso italiano
La parabola dei partiti in Italia:
da costruttori a problema della democrazia
di Oreste Massari
Premessa
Per comprendere e valutare i partiti e il sistema partitico dell’Italia
d’oggi, dell’Italia della cosiddetta Seconda Repubblica (post-1992), è forse
utile comparare la situazione attuale da un lato con il passato dei partiti
della Prima Repubblica, e dall’altro con la situazione dei partiti nelle altre
democrazie europee, comparabili per dimensioni di scala e appartenenza
geo-politica all’Italia. Senza questa duplice comparazione non avremmo,
infatti, criteri di valutazione utili, magari per stabilire se il caso italiano
odierno sia o meno anomalo e patologico. Solo l’individuazione delle differenze può permettere di analizzare prima e di giudicare poi il caso italiano.
Ma cominciamo con la prima comparazione, non fosse altro perché lo
stato attuale è figlio del crollo del sistema partitico del 1992-1994.
Intanto, quando si parla dei partiti della Prima Repubblica, occorre distinguere due fasi della loro evoluzione. Una prima fase coincide con
l’instaurazione e il consolidamento della rinata democrazia italiana (19431968 circa), la seconda con la degenerazione partitocratica della nostra
democrazia (1968-1992). È bene fissare questa distinzione, per evitare
inutili e improduttivi richiami nostalgici, e per capire perché si è prodotto
quel crollo.
1. I partiti fondatori della repubblica (1943-1968)
Nella prima fase i partiti sono stati attori centrali prima nella Resistenza
al nazi-fascismo (1943-1945), che infatti diressero attraverso i Comitati di
Liberazione nazionale, poi nel processo di transizione alla democrazia
(1945-1948). Essi si svilupparono, perciò, nel fuoco di vicende storiche
collettive drammatiche (fascismo, guerra, resistenza, ricostruzione), col-
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mando un vuoto istituzionale (il crollo non solo del regime fascista ma
delle istituzioni statali come tali, compresa la monarchia) e superando la
tradizionale debolezza – comparativamente alle altre democrazie occidentali – dell’associazionismo nella società civile (con l’eccezione delle regioni rosse). Rispetto alla società, i partiti si pongono come un elemento di
forte strutturazione dall’alto e dal centro, perché si pongono come partiti
nazionali d’integrazione e internamente fortemente strutturati. In questa loro caratteristica – di partiti d’integrazione sociale e di vocazione nazionale
–, essi ridefiniscono la loro rappresentatività sociale evitando e assorbendo
i cleavages sociali, pure esistenti, tra Nord e Sud, tra città e campagna, tra
industria e agricoltura, tra centro e periferia. Le linee di divisione che essi
rappresentano sono quasi tutte di natura politico-ideologica (divisione destra-sinistra, occidente-socialismo), a parte quella significativa, ma minore,
tra laici e cattolici1. I partiti di questa prima fase costruirono le istituzioni
della nuova democrazia repubblicana, evitarono la precipitazione del conflitto ideologico, grazie anche alla moderazione/mediazione delle élites dirigenti dei due principali partiti, la DC e il PCI, integrarono all’interno delle
loro strutture, non solo di quelle direttamente partitiche ma anche di quelle
fiancheggiatrici, masse estese (basti pensare al numero degli iscritti ai partiti in questa fase) della società italiana, costituivano insomma potenti
strutture di intermediazione tra società e stato2. In più – circostanza da non
trascurare –, la loro altissima legittimità proveniva anche dal fatto che le
classi dirigenti partitiche, e soprattutto i leader, si erano formate e selezionate attraverso esperienze storiche lunghe e intensissime. Molti leader avevano affrontato l’esilio, il carcere, la repressione, avevano fatto la Resistenza, si erano forgiati nel rapporto diretto con le masse, le battaglie civili e
sociali, la drammaticità dei problemi. Le loro primarie erano state la dura
selezione della storia stessa. La presenza poi di grandi personalità di leader,
persino una forte personalizzazione della loro leadership (si pensi a De Gasperi, a Togliatti, a Nenni, a Saragat ecc.) conviveva con strutture di partito
solide e strutturate, per cui le decisioni erano sempre frutto di un processo
partecipato e collegiale. Ma anche nei gradini più bassi, la selezione era vera e dura. I quadri intermedi (e questo valeva per tutti i partiti) erano selezionati in virtù della loro passione politica, del loro spirito di abnegazione,
delle loro capacità e dell’intera loro storia personale. La legittimità, anche
P. Farneti, Il sistema dei partiti in Italia 1946-1979, il Mulino, Bologna, 1983; G. Pasquino, Il sistema politico italiano. Autorità, istituzioni, società, Bonomia University Press,
Bologna, 2002.
2
L. Morlino (a cura di), Costruire la democrazia. Gruppi e partiti in Italia, il Mulino,
Bologna, 1991.
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morale, della classe politica non era in discussione. Quanto al modello organizzativo seguito, questo era quello classico del partito novecentesco di
massa, con delle differenze per quanto riguarda il regime interno di democrazia tra il PCI, fermo al centralismo democratico leninista che vietava le
correnti, e tutti gli altri, che le ammettevano. Ma tutti i partiti avevano o
tentavano di avere una diffusione capillare sul territorio, attraverso cellule
(per il PCI), sezioni, circoli e organizzazioni collaterali. I due più grandi
partiti di massa, la DC nella versione denominazionale (confessionale) e il
PCI nella versione del partito di massa d’integrazione sociale, concepiscono e vivono la propria organizzazione come un partito di massa “che è società che si fa stato”, secondo una definizione elaborata dal costituzionalista
cattolico Mortati e ripresa poi da Togliatti. Ma anche quelli che risulteranno
essere medi (PSI) e piccoli partiti (repubblicani, socialdemocratici, liberali,
missini) – pur rientrando questi ultimi nella categoria dei partiti di élite,
d’opinione o di notabili – aspiravano a organizzarsi secondo il modello
ideale del partito di massa, radicato territorialmente, fondato sugli iscritti,
attorniato da organizzazioni di interessi collaterali, sorretto da subculture,
gestito da una burocrazia di partito, diretto collegialmente da un ceto politico altamente professionalizzato.
Insomma possiamo ben riconoscere che i partiti di questa prima fase
assolsero con successo le funzioni cui erano stati delegati dalle vicende storiche di costruzione della nuova democrazia italiana.
2. La degenerazione partitocratica (1968-1992)
Tuttavia, c’è un ma. Il sistema partitico era certamente fortemente strutturato, condizione minima questa necessaria per avere una buona democrazia. Ma era pur sempre – a causa soprattutto del PCI, ma anche del MSI – un
sistema multipartitico polarizzato3, fatto che impediva il funzionamento
normale di una democrazia parlamentare, sia nella sua versione maggioritaria
(che implica l’alternanza), sia nella versione consensuale (che implica che
tutti i partiti possano partecipare al governo). Preclusi entrambi questi due
modelli di democrazia4 per la presenza di un forte partito comunista legato all’URSS, la via percorsa fu quella di una sorta di adattamento consociativo tra
maggioranza di governo e opposizione comunista nell’ambito di una demoG. Sartori, Parties and Party Systems. A Framework for Analysis, Cambridge University Press, Cambridge, 1976; G. Sartori, Teoria dei partiti e caso italiano, Sugarco, Milano,
1982.
4
A. Lijphart, Le democrazie contemporanee, il Mulino, Bologna, 2001.
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crazia proporzionale e conflittuale. Nella prima fase questo adattamento salvò il regime democratico. Fu una via percorsa con grande lungimiranza dalla
prima DC, quella di De Gaspari e poi di Moro, nell’obiettivo di governare i
conflitti all’interno del quadro repubblicano e di allargare i confini dell’area
democratica di governo (con l’apertura alla formula del centro-sinistra negli
anni Sessanta). La DC, su cui si reggevano tutte le possibili coalizioni di governo, perseguì questo obiettivo con una politica che possiamo definire di
“mediazione”. In un partito dominante composto di correnti, in governi di
coalizione, in un sistema partitico polarizzato e in una società fortemente
corporativa e squilibrata al suo interno (pensiamo alla questione meridionale), la mediazione elevata non solo ad arte politica, ma anche a strategia politica e comportamentale, fu una grande risorsa per la sopravvivenza e lo sviluppo economico e sociale del Paese. Il PCI sostanzialmente accettò e partecipò a questo accomodamento fondato sulla mediazione, che comunque implicava il rispetto delle regole e delle istituzioni della Costituzione. Possiamo
misurare oggi, in una fase di strappi istituzionali continui e di pericoli per il
quadro liberaldemocratico, la bontà di quell’attitudine alla mediazione e di
quel rispetto verso gli avversari e le istituzioni.
Ma il sistema non resse all’irruzione di nuove sfide nazionali e internazionali e non ressero quei partiti artefici della democrazia. Partiti e sistema
degenerarono attraverso una lunga incubazione che comincia negli anni
Settanta, si protrasse per tutti gli anni Ottanta e infine crollò nel 1992-1994.
Inutile riandare a tutti i passaggi di questa degenerazione, ben conosciuti e
comunque avvertiti dall’opinione pubblica. Sta di fatto che il sistema politico e istituzionale – a causa della mancanza di alternanza e di ricambio, di
una democrazia sostanzialmente bloccata, nonostante il tentativo corsaro di
Craxi di romperne gli equilibri fondati su DC e PCI – degenerò in partitocrazia. La partitocrazia non fu solo una formula ideologica o polemica, ma
fu una formula descrittiva esatta del funzionamento reale dei partiti e delle
istituzioni. Né bisogna confondere il governo di partito, come tale necessario al funzionamento della democrazia, con la partitocrazia, che è una forma, in negativo, inedita di regime democratico. Il governo di partito, tipico
delle democrazie parlamentari occidentali, vive in un regime democratico
normale, in cui c’è alternanza al governo, continuo ricambio della classe
politica, accountability verso l’elettorato e l’opinione pubblica, controllo di
quest’ultima verso i comportamenti della classe politica, c’è insomma esercizio della responsabilità politica (distinta da quella accertabile in sede giudiziaria) dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto5. Nella partitocrazia
5
E. E. Schattschneider, Party Government, Rinehart, New York, 1942; R. S. Katz
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tutto questo non c’è. In assenza di alternanza, ricambio, accountability, responsabilità politica, c’è il potere di una nomenklatura, o come poi sarà
chiamata di una casta. Si parla di nomenklatura quando lo status della classe politica è di assoluto privilegio, quando non c’è ricambio e c’è l’inamovibilità, quando c’è irresponsabilità (cioè non c’è esercizio di controllo né
ci si sottopone al controllo), quando c’è senso di impunità (specie per i partiti sempre al governo), e quando infine, per tutte queste caratteristiche, la
corruzione è diffusissima al di là dei limiti fisiologici inevitabili in qualsiasi
democrazia matura. La partitocrazia oltre a generare una nomenklatura, genera poi una forma di potere, di controllo e di dominio in tutti gli ambiti
della vita politica, sociale ed economica. Basti pensare all’alto numero di
cariche da distribuire sia nella sfera politico-amministrativa sia in quella
economica dell’ampio settore pubblico dello Stato, e all’incidenza della
politica, ossia della “raccomandazione” politica nel mercato del lavoro nel
settore pubblico (dalla Rai all’ultimo posto per bidello). Colonizzazione
della società, clientelismo, voto di scambio, arroganza del potere, torsione
della politica verso gli affari ne conseguono. Da questo punto di vista, il caso italiano è comparabile più con la situazione dei Paesi dell’est europeo, in
cui prima della democratizzazione esisteva una nomenklatura e in cui dopo
la democratizzazione si avrà un sistema partitico poco strutturato, che con
le democrazie mature dell’occidente. È una comparazione che pure è stata
fatta nell’ambito della politica comparata6.
Naturalmente, l’avvento e il predominio della partitocrazia fin dagli
anni Settanta e fino al crollo del sistema partitico tradizionale nei primi anni Novanta, non fu dovuta solo e tanto alla malvagità dei politici, ma a una
ragione storica – la democrazia bloccata –, su cui però si innestò una vera e
propria degenerazione dei partiti, sia pure in forme diverse tra quelli di governo e quelli di opposizione7. Mentre i primi si arroccarono nella loro fase
finale in una formula di governo completamente asfittica e chiusa, come
poi apparve con il puro patto di potere del CAF (Craxi-Andreotto-Forlani),
agli antipodi della strategia di apertura e di ricerca di vie nuove delineata da
Moro poco prima del suo assassinio nel 1978, il PCI, pur non essendo coin(a cura di), Party Governments: European and American Experiences, De Gruyter,
Berlin, 1987.
6
G. Pridham, P. G. Lewis (a cura di), Stabilising Fragile Democracies. Comparing New
Party Systems in Southern and Eastern Europe, Routledge, London and New York, 1996; O.
Massari, “Italy’s Postwar Transition in Contemporary Perspective”, in G. Pridham, P. G. Lewis (a cura di), Stabilising Fragile Democracies, cit., pp. 126-144.
7
G. Pasquino, Degenerazione dei partiti e riforme istituzionali, Laterza, RomaBari, 1982.
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volto nella corruzione nella stessa misura dei partiti di governo ma cominciandone a essere sfiorato, nondimeno registrò negli anni Ottanta un ritardo
culturale, e quindi poi politico, impressionante, chiuso anch’esso in una
sorta di fortilizio ideologico autoreferenziale (basti ricordare la “diversità
comunista”, l’antioccidentalismo, il pacifismo, la difesa del centralismo
democratico leninista, l’avversione al socialismo europeo ecc.). Il PCI ebbe
la sua parte rilevante nella degenerazione del sistema. Rifiutandosi di costruire un’alternanza di governo secondo gli schemi occidentali e normali, e
quindi rifiutandosi pervicacemente di trasformarsi in socialdemocrazia (che
aborriva e che disdegnò anche quando fu costretto a cambiare ragione sociale con il crollo del Muro nel 1989), fu responsabile anch’esso delle macerie che si abbatterono sull’Italia anche in seguito a quell’evento epocale.
Nessun partito si può tirare fuori dalla degenerazione.
Segno tangibile di questa degenerazione fu il fatto che nei partiti oramai, sia a livello nazionale che a livello locale, cominciavano ad annidarsi
veri e propri comitati d’affari, affari condotti sia a beneficio del partito sia a
beneficio della corrente sia a beneficio personale. Gli anni Ottanta – anni di
modernizzazione, di ottimismo, di affermazione del cosiddetto “edonismo
reaganiano”, in cui la parola d’ordine era “arricchitevi”, e comunque anni
di rampantismo – testimoniarono di questa vera e propria mutazione, come
si disse, antropologica. L’epicentro di questa mutazione fu naturalmente il
PSI di Craxi. Intendiamoci: sul piano delle proposte e della cultura politiche il partito socialista era certamente il partito più avanzato e più moderno,
ma la sua costituzione materiale era ben altro, intessuta com’era di affarismo, tangentismo e rampantismo. Lo “scambio occulto” tra tangenti e favori politici fu attuato dal PSI di Craxi in modo sistematico, scientifico, pianificato come non mai era avvenuto e come non si era verificato neppure
nella DC. Fu anche per questo che il PSI e lo stesso Craxi pagarono più di
tutti e più pesantemente di tutti. La forma-partito del PSI di Craxi mutò
drasticamente. Del partito a vocazione di massa e popolare, legato a una
gloriosa tradizione, era rimasto solo l’involucro formale. Aveva perso o si
era venduta l’anima. Quella di Craxi fu la prima personalizzazione della
politica in senso tipicamente italiano (nelle democrazie mature c’è la personalizzazione, ma ci sono strutture partitiche e istituzionali solide, e questo fa la differenza). La sua leadership personale e carismatica conquistò il
partito e lo rese dipendente dal suo stesso destino personale. Il partito sotto
Craxi e con Craxi divenne al centro una monarchia assoluta temperata in
periferia da un’anarchia feudale diffusa8. Ma come un fuscello fu spazzato
8
O. Massari, “La leadership di Craxi e gli effetti sul partito”, in L. Cavalli (a cura di),
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via dal terremoto del 1992-1994. La colpa non fu dei giudici, ma della sua
propria degenerazione. Quando i partiti sono vivi e veri resistono alle tempeste, quando sono oramai gusci vuoti vengono schiacciati. Insomma, non
fu per caso o per un “destino cieco e baro” che il sistema partitico tradizionale crollò.
Ma ciò che più importa è che le modalità del crollo segnarono e condizionarono il futuro del nuovo sistema partitico dal 1994 a oggi. Intanto
si aprì un enorme vuoto politico al centro del sistema che fu rapidamente
riempito da due soggetti nuovi, la Lega Nord, un partito regionale che riuscì nei suoi territori a intercettare il voto democristiano, e Forza Italia,
un partito messo in piedi in vista delle elezioni del 1994 da un imprenditore particolare come Silvio Berlusconi, particolare perché proprietario,
tra l’altro, di televisioni private e di giornali. Il crollo poi era avvenuto a
causa di un rigetto radicale da parte dell’opinione pubblica dei vecchi
partiti, della vecchia politica, dei vecchi personaggi (rigetto che si espresse nei referendum elettorali del 1991 e del 1993 e nel sostegno all’azione
dei giudici di “Mani pulite”). Si produsse così una divisione vecchionuovo che contò nell’incredibile affermazione di Forza Italia, riuscendo
Berlusconi nella grande operazione di marketing mediatico di presentarsi
come “nuovo”. L’operazione riuscì anche perché non trovò resistenze
adeguate nel campo del centro-sinistra, che avrebbe potuto sollevare il
problema del conflitto di interessi prima delle elezioni del 1994. Ma il
ceto politico della sinistra era disorientato, fiacco, pieno di sicumera verso un avversario che considerava “di plastica”, e probabilmente anche
sordo e non interessato ai delicati problemi degli equilibri costituzionali
(come è quello della separazione tra informazione e potere politico). E
anche dopo il 1994 – ma oramai i buoi erano usciti dalla stalla – non ebbe
la forza né probabilmente la volontà di affrontare il problema, anche
quando fu al governo. Si potrà anche chiamare e liquidare l’avversione al
vecchio sistema “antipolitica”, ma resta la sostanza di una delegittimazione della vecchia politica ampiamente meritata e comunque condivisa dalla
stragrande maggioranza dell’opinione pubblica. Inoltre, il crollo produsse
una scia di risentimenti, di rancori, di recriminazioni che non poteva non
condizionare il nuovo sistema partitico. Il caso più eclatante è quello del
partito socialista che si sentì ingiustamente colpito, laddove le sue ragioni
erano state premiate dagli eventi storici (crollo del comunismo). Molti
suoi dirigenti e quadri, e probabilmente buona parte del suo elettorato,
passarono nel campo berlusconiano, ritenendo un’ingiustizia storica la
Leadership e democrazia, Cedam, Padova, 1987, pp. 301-318.
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sopravvivenza politica invece degli ex comunisti, che peraltro, come già
accennato, non imboccarono la via maestra del socialismo europeo. Questa peculiare circostanza italiana legata al PSI peserà, credo, anche elettoralmente sullo schieramento di centro-sinistra, che non potrà contare sul
pieno dei voti dell’elettorato tradizionale dei partiti di sinistra. E, difatti,
nelle elezioni tenutesi tra il 1994 e il 2001 con il sistema elettorale maggioritario misto, il centro-sinistra risulterà sempre con meno voti nel canale proporzionale rispetto al centro-destra.
3. Partiti e sistema partitico della “Seconda Repubblica”
Con la crisi di regime del 1992-1994, tutti i vecchi partiti di governo
sono stati in brevissimo tempo o completamente spazzati via (PSI, PRI,
PSDI, PLI) o fortemente ridimensionati e ridotti a una presenza sempre più
residuale, anche per effetto delle continue scissioni (è il caso della DC, costretta peraltro a cambiare nome in quello di Partito Popolare Italiano)9.
Il sistema partitico che si manifesta con le elezioni politiche del 1994,
le prime a svolgersi con il nuovo sistema elettorale misto, è composto di
vecchi partiti che hanno cambiato simbolo, sigla, denominazione e che
hanno subito tutta una serie di scissioni e da nuovi partiti. Tra questi ultimi
bisogna distinguere quelli veramente nuovi, nati ex novo proprio in vista
delle elezioni del 1994 (come Forza Italia), o comunque quelli nati dalla
dissoluzione del vecchio e precedente sistema partitico (come la Lega
Nord), quelli frutto di scissione da precedenti partiti tradizionali e quelli
che si sono formati inizialmente a livello parlamentare per poi ricomporsi
variamente tramite fusioni e aggregazioni varie. Il conteggio risulta veramente complicato a causa della natura ancora fluida del nuovo sistema partitico, fluidità accentuata dal fatto che proprio il maggioritario a turno unico
in collegi uninominali, intervenendo in una fase di destrutturazione radicale
dei vecchi partiti e spingendo alla necessità di larghe alleanze elettorali per
la vittoria nei collegi uninominali, offre quindi anche a piccolissimi partiti
un potenziale di coalizione e di ricatto (nel momento della costituzione
delle alleanze elettorali per la conquista dei seggi nella parte maggioritaria)
che ne facilita la formazione e la riproduzione. Alla fluidità nel sistema
partitico corrisponde, infatti, una fluidità delle coalizioni elettorali10 e una
C. Baccetti, I postdemocristiani, il Mulino, Bologna, 2007.
D. Giannetti, M. Laver, “Party System Dynamics and the Making and Breaing of Italian Governments”, Electoral Studies, 20, 2001, pp. 529-553.
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fluidità all’interno degli stessi partiti che indica un’ancora mancata strutturazione, una dipendenza da fattori congiunturali (come le leadership e il
successo personali) e la persistenza di incentivi alla frammentazione e al
giocare in proprio anche da parte di piccolissime aggregazioni di parlamentari. Non c’è dubbio, infatti, che il sistema partitico nato con le elezioni
del 1994 e perdurante, con notevoli cambiamenti interni, fino alle elezioni
del 2008 presenta un numero di partiti assai maggiore del sistema partitico
precedente. Il nuovo sistema perde la polarizzazione ma acquista una
frammentazione sconosciuta nel passato, tanto da non assicurare la governabilità nel nuovo contesto di democrazia maggioritaria. Il bipolarismo di
coalizione che caratterizzerà il sistema politico italiano dal 1994 al 2008
sarà un bipolarismo fasullo, perché essendo fondato su larghe coalizioni
eterogenee sarà inadatto ad assicurare sia la governabilità sia il funzionamento di una normale democrazia dell’alternanza (maggioritaria)11. Del resto, non è un caso che proprio la fallimentare esperienza del governo Prodi
2006-2008, contrassegnato com’era dalla più eterogenea coalizione possibile, dall’indeterminatezza del programma, dalla litigiosità permanente, dal
distacco brutale tra le promesse elettorali e le politiche di governo, dall’insufficienza dei numeri della maggioranza, segnò la fine, riconosciuta da
tutti i leader politici, del cosiddetto bipolarismo di coalizione inteso come
bipolarismo “coatto” e aprì la strada verso il tentativo di costruzione di
“partiti a vocazione maggioritaria”.
Anche nel caso dei partiti post-1994, infatti, dobbiamo distinguere due
fasi. La prima, dal 1994 al 2008, si svolge all’insegna della frammentazione
del sistema partitico, del bipolarismo di coalizione altrettanto frammentato,
della debolezza organizzativa dei singoli partiti (a parte l’eccezione della
Lega Nord, che comunque rimane un partito regionale). La seconda, nata
nelle elezioni del 2008 e possibile anche grazie al nuovo sistema elettorale
proporzionale con premio di maggioranza e soglie di sbarramento introdotto nel 2005, si svolge all’insegna del tentativo di costruire partiti maggioritari, di formare un bipolarismo fondato su questi ultimi, riducendo la
molteplicità degli attori delle precedenti coalizione elettorali e di governo.
Ma, come vedremo più avanti, in nessuna delle due fasi si hanno partiti
strutturati e stabili.
Ma con un’avvertenza. Occorre, infatti, sottolineare un’asimmetria
netta tra i due schieramenti di centro-destra e di centro-sinistra. Frammentazione e debolezza organizzativa sembrano infatti colpire più quest’ultimo
che il primo. Mentre i principali partiti del centro destra – FI, AN, Lega
11
O. Massari, “La crisi di governo e il bipolarismo difettoso”, il Mulino, 3, 2005.
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Nord –, tra il 1994 e il 2008 (quando si passerà alla fase dei partiti maggioritari e alle fusioni, tanto a destra che a sinistra), conserveranno la stabilità
organizzativa data dalla stabilità delle rispettive leadership (Berlusconi, Fini, Bossi), dalla non problematicità del modello di partito da costruire o da
ricostruire (perché FI è solo lo strumento elettorale di Berlusconi, la Lega
non ha motivo di ricercare chissà quali modelli, in quanto il suo radicamento territoriale funziona, e AN dopo tutto cresce elettoralmente e organizzativamente), tutto questo non avviene nel centro-sinistra. Mentre i governi di centro-destra sono stati guidati sempre e solo da Berlusconi, i governi di centro-sinistra sono stati guidati da Prodi, D’Alema, Amato, senza
che nessuna di queste leadership si consolidasse. Bisogna aggiungere poi
che come candidato-premier il centro-sinistra ha proposto nel 2001 Rutelli
e nel 2008 (ma siamo nella fase dei “partiti maggioritari”) Veltroni. Insomma una girandola di premier e candidati premier. Se guardiamo poi al
principale partito del centro-sinistra – i post-comunisti – prima si chiamerà
PDS, poi DS, infine confluirà nel PD, assieme alla Margherita. I suoi segretari dal 1994 sono stati D’Alema, Veltroni, Fassino. Il PD nell’arco di
poco più di due anni ha avuto già ben tre segretari: Veltroni, Franceschini,
Bersani. Sono tutti questi indicatori che segnalano uno stato permanente di
provvisorietà e di mancato consolidamento organizzativo e di leadership
nel campo del centro-sinistra12.
Ma quale modello di partito si impone dopo il crollo del sistema partitico del 1992-1994? Scomparso il partito di massa come reale attore della
politica italiana e come modello di riferimento per tutti i partiti italiani, dopo il 1992 abbiamo la compresenza di una pluralità di modelli di partito che
convivono: dal residuo del partito di massa (post-comunisti e post-fascisti),
al nuovo partito elettoralistico (Forza Italia), al partito-patrimoniale o business-party (sempre Forza Italia), a partiti populistici (trasversalmente,
avendo caratteri populistici sia FI, sia la Lega, sia il partito di Di Pietro), ai
partiti territoriali (come la Lega Nord), ai partiti della nuova destra, al moderno partito di quadri come i vari partiti post-democristiani) ecc. La
frammentazione del sistema partitico si traduce anche in una pluralità
frammentata di modelli di partito, anche se il tratto comune sembra essere
quello di costruire “partiti del leader” o partiti fortemente personalizzati
(anche se a sinistra, nel PDS/DS/Margherita/PD in particolare, ciò non si
verificherà mai, perlomeno nella misura dei partiti di centro-destra)13.
A. Sardoni, A., Il fantasma del leader. D’Alema e gli altri capi del centrosinistra,
Marsilio, Venezia, 2009.
13
M. Calise, Il partito personale, Laterza, Roma-Bari, 2000.
12
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4. La fase della frammentazione (1994-2008)
Nella prima fase, quella della frammentazione (1994-2008), possiamo
valutare lo stadio di consolidamento o meno dell’organizzazione, esaminando le tre facce o i tre livelli del partito – ossia, il partito nel territorio
(iscritti), il partito al centro, e il partito nelle istituzioni (il partito degli eletti), rifacendoci alla classica tripartizione di Katz e Mair14 e richiamandoci a
uno studio recente di Bardi, Ignazi, Massari15.
Ma anche se poco consolidati – pur con le differenze già dette tra i due
schieramenti del bipolarismo italiano – i partiti italiani sotto il profilo dei
cambiamenti organizzativi rientrano, sia pure con specificità proprie, nei
trend più generali delle trasformazioni dei partiti occidentali.
Queste trasformazioni, in sintesi, indicano un distacco progressivo dalla
società, una penetrazione nello e una dipendenza dallo Stato, una centralizzazione, verticalizzazione e personalizzazione dei processi decisionali nelle
mani della leadership centrale a scapito degli organi collegiali, un ruolo più
pronunciato per il partito degli eletti. Ma queste linee di tendenza, pur riscontrabili un po’ dappertutto, si declinano nei vari contesti nazionali e nelle
varie organizzazioni partitiche in modo tale che possono produrre più o meno
effetti destabilizzanti16. E non c’è dubbio che l’Italia – per il modo come si è
operata la ricostruzione dei nuovi partiti dopo il crollo del 1992 – si collochi
verso il di più di destabilizzazione e di involuzione della funzione democratica dei partiti. Le tendenze riscontrabili in generale, in Italia hanno assunto
un’intensità sconosciuta negli altri Paesi occidentali17. Calate in un ambiente
R. Katz, P. Mair, “Changing Models of Party Organization and Party Democracy. The
Emergence of the Cartel Party”, Party Politics, vol. 1, 1995, pp. 5-28; L. Bardi, P. Ignazi, O.
Massari (a cura di), I partiti politici italiani. Iscritti, dirigenti, eletti, Università Bocconi,
Milano, 2007; L. Bardi, P. Ignazi, O. Massari, Party Organisational Change in Italy (19912006), Modern Italy, vol. 15, 2010, pp. 197-216.
15
L. Bardi, P. Ignazi, O. Massari (a cura di), I partiti politici italiani, cit.; L. Bardi, P.
Ignazi, O. Massari, Party organisational change in Italy (1991-2006), cit., pp. 197-216.
16
R. J. Dalton, M. P. Wattenberg (a cura di), Parties without Partisans. Political
Change in Advanced Industrial Democracies, Oxford University Press, Oxford, 2000; L.
Diamond, R. Gunther (a cura di), Political Parties and Democracy, The John Hopkins University Press, Baltimore and London, 2001; R. Gunther, J. R. Montero, J. J. Linz (a cura di),
Political Parties. Old Concepts and New Challenges, Oxford University Press, Oxford,
2002; P. Webb, D. Farrell, I. Holliday (a cura di), Political Parties in Advanced Industrial
Democracies, Oxford University Press, Oxford, 2002; O. Massari, I partiti politici nelle democrazie contemporanee, Laterza, Roma-Bari, 2004.
17
L. Morlino, “The Three Phases of Italian Parties”, in L. Diamond, R. Gunther (a cura
di), Political Parties and Democracy, cit., pp. 109-142; L. Bardi, “Italian Parties: Change
and Functionality”, in P. Webb, D. Farrell, I. Holliday (a cura di), Political Parties in Advanced Industrial Democracies, cit.
14
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istituzionale-politico che non ha saputo garantire le distinzioni tra potere mediatico ed economico da una parte e potere politico dall’altra hanno generato
una situazione che tocca direttamente la qualità della democrazia.
Ma esaminiamo più analiticamente queste trasformazioni in Italia.
4.1. Il partito nel territorio18
Per quanto riguarda il partito nel territorio – the party on the ground –
occorre ricordare che l’Italia fino alla crisi aveva registrato i più alti tassi di
membership tra i principali Paesi europei, dovuti principalmente all’espansione organizzativa sin dal dopoguerra della DC e del PCI (nei primi
anni Cinquanta quasi due milioni di iscritti ciascuno). Ma ancora nel 1980 i
partiti italiani avevano circa 4 milioni di tesserati, che rapportati all’elettorato facevano circa il 10% di questo19. Un indice (quello del rapporto
tra iscritti ed elettorato) più alto di quello presente in Francia, Germania,
Regno Unito e più basso solo di quello di piccoli Paesi come Austria, Finlandia, Norvegia e Svizzera.
Nei primi anni Novanta la membership si dimezza a circa 2 milioni complessivi, risalendo a circa 2,4 milioni nel 2003 (ultimo anno in cui si hanno
dati complessivi sicuri). Con una ratio di 4,7 sull’elettorato. Questo dato è
fortemente negativo rispetto alla fase precedente dei partiti in Italia, ma non
lo è rispetto ai trend europei dello stesso periodo, giacché l’Italia continua
pur sempre a registrare tassi di membership più alti degli altri grandi Paesi
europei20. Ciò significa che, nonostante il crollo del 1992, in Italia rimane relativamente alta, e comparativamente parlando, la propensione all’iscrizione
ai partiti. Del resto, basti pensare agli alti tassi di partecipazione alle primarie
di coalizione (Prodi 2005) o di partito (Veltroni 2007) nazionali e locali per
convenire che i problemi in Italia non stanno dalla parte del partito sul territorio o dalla parte della base. Da questo punto di vista la disponibilità alla partecipazione politica dal basso in Italia rimane sorprendentemente alta, come
ha notato rispetto alla Francia Marc Lazar21.
Devo i dati che utilizzo in “Il partito nel territorio” e “Il partito al centro” rispettivamente a L. Bardi e a P. Ignazi nell’articolo comune del 2010. Per i dati completi cfr. L. Bardi, P. Ignazi, O. Massari (a cura di), I partiti politici italiani, cit.; L. Bardi, P. Ignazi, O. Massari, Party organisational change in Italy (1991-2006), cit.
19
L. Bardi, “Italian Parties: Change and Functionality”, cit.; L. Morlino, “The Three
Phases of Italian Parties”, cit.
20
P. Mair, I. van Biezen, “Party Membership in Twenty European Democracies, 19802000”, Party Politics, n. 1, 2001, pp. 5-22.
21
M. Lazar, Democrazia alla prova. L’Italia dopo Berlusconi, Laterza, Roma-Bari, 2006.
18
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L’andamento del tasso di membership è, invece, largamente differenziato all’interno dei vari partiti italiani. Mentre i partiti eredi della DC e AN
hanno costantemente incrementato i loro iscritti, un andamento alterno,
fatto di alti e bassi, si registra per FI, LN, i radicali e i verdi, e una diminuzione per gli eredi del PCI. FI, il primo partito elettorale, oscilla tra un minimo di 139.546 nel 1997 a un massimo di 249.824 nel 2003, qualificandosi essenzialmente come un partito elettorale e non di membership22. Significativo poi il dato a sinistra. Nel 1991 il PDS registrava 989.708 tesserati e
RC 112.278, nel 2004 i DS avevano 561.193 e RC 97.300 (il PdCI circa
30.000), quindi con una calo netto dei DS. Nello stesso anno AN registra
593.951 iscritti, portandosi così come il primo partito per membership, superando il primato storico della sinistra (prima comunista, poi postcomunista). Questi dati indicano in particolare l’esistenza per i DS di un
problema questa volta dalla parte del radicamento territoriale.
Sul versante del partito nel territorio, è interessante notare come gli anni dopo il crollo siano stati anni di tentativi di innovazioni organizzative
nelle strutture di base. Un po’ tutti i partiti rigettano il modello della sezione territoriale, legata al modello del partito di massa, adottando la formula
assai più leggera dei club, dei circoli (persino RC!), delle aggregazioni tematiche o legate a gruppi di interesse. Ma non pare che questi tentativi siano stati soddisfacenti, basati com’erano sulla pura contingenza e talvolta
improvvisazione. Se i partiti al centro sono svuotati, non sono più strutture
di partecipazione effettiva, basata su una catena di organizzazioni collettive
e di organi collegiali, non sono più capaci di costituire i terminali di processi rappresentativi e decisionali che partono dal basso, anche alla base gli
effetti non possono che essere quelli di un attivismo velleitario e vuoto di
prospettiva. Insomma, il partito sul territorio cessa di essere negli anni della
transizione il fulcro dell’organizzazione partitica. Il centro di gravità dei
poteri interni appare ancorato da una parte al partito centrale e dall’altro al
partito degli eletti.
4.2. Il partito al centro
Per quanto concerne il partito centrale – the party in central office –, è
vero che questo appare dimagrito quanto a personale impiegato (i funzionari), ma non lo è per quanto riguarda il finanziamento pubblico e i poteri de-
E. Poli, Forza Italia. Strutture, leadership e radicamento territoriale, il Mulino, Bologna, 2001.
22
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cisionali. Quest’ultimi, anzi, appaiono cresciuti in maniera rilevante rispetto
al passato. Ma andiamo con ordine. I partiti eredi dei vecchi partiti pre1994, PDS-DS, AN e i partiti post-DC, mostrano una marcata riduzione nei
funzionari centrali. Basti pensare che nell’ultimo anno del PCI, il 1990, lo
staff che lavorava nella Direzione centrale era di 451 unità. Ma già l’anno
dopo il PDS aveva ridotto lo staff a 289 unità e ancor più nel 1996 con soli
91 funzionari, anche se il numero poi risalì negli anni seguenti attestandosi
tra i 150 e i 200 funzionari. Le nuove formazioni, come FI, LN e RC, non
avevano bisogno di tagliare e si attestarono sin dall’inizio su bassi numeri
(intorno ai 50 funzionari), mentre un partito come la Margherita si attesta
attorno alle 100 unità. Dunque, la forza del partito centrale non sta negli
staff impiegati. Sta, invece, nei poteri acquisiti, che sono tanto poteri di decisione politica in ordine al programma e alle politiche quanto ai poteri di
nomina. Sia pure in diversa misura tra i vari partiti, il processo decisionale
e di nomina appare concentrato in sempre meno mani, impoverendo così le
funzioni deliberative, di formazione delle politiche e di controllo degli organi collettivi come i comitati centrali, i consigli o le assemblee nazionali.
Lo spartiacque corre tra i partiti i cui organi centrali sono eletti dalle istanze
di partito più basse e che quindi conservano una qualche parvenza di democrazia rappresentativa interna e quei partiti i cui leader concentrano personalmente il potere decisionale e intervengono direttamente nel processo di
nomina. Tra i primi vanno annoverati i partiti che conservano una qualche
tradizione di democrazia interna che procede dal basso (come i partiti postcomunisti e post-democristiani), oppure che si collocano tra i fautori di una
democrazia di base (come i partiti dei verdi, i radicali ecc.), tra i secondi
vanno annoverati soprattutto i nuovi partiti come FI e la LN, ma anche AN,
che presentano una più marcata centralizzazione, un’assenza di controlli da
parte di organi collegiali e un ruolo decisionale preminente del leader. Nel
caso di FI il potere del leader/fondatore, Berlusconi, assomiglia assai a una
sorta di potere monarchico, ma in qualche misura lo stesso avviene con la
leadership di Bossi nella Lega e di Fini in AN. In questi partiti, il potere del
leader è preminente per esempio nella nomina dei membri degli organismi
centrali, tanto da ridurli a emanazione della sua volontà. Per fare qualche
esempio, nel Consiglio Nazionale di FI soltanto il 20% dei membri veniva
eletto dal Congresso, laddove il presidente ha il potere di nominare più
della metà dei membri, il resto sono membri ex officio. Lo stesso è per il
Comitato di Presidenza: dal 1998 in poi su circa 38 membri solo 6 sono
nominati dal congresso, mentre tutti gli altri o sono di nomina presidenziale
o ex officio. In AN, il presidente nominava direttamente 159 membri su 500
dell’Assemblea Nazionale e proponeva per la ratifica all’Assemblea i
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membri dell’esecutivo. Nella Lega il Consiglio Federale (l’organo esecutivo) è composto da circa 25/30 membri, nessuno dei quali eletto, essendo
tutti membri ex officio (e quindi in qualche modo riconducibili alla cooptazione da parte del leader).
L’apparenza di una democrazia interna che procede dal basso esiste
naturalmente per i partiti di sinistra e per i partiti post-democristiani (compresa la Margherita), ma o gli organismi sono talmente pletorici da risultare
svuotati delle loro funzioni deliberative e di controllo (è il caso del
PDS/DS), oppure sono attraversati da un forte fazionalismo interno (come
RC e PdCI).
Insomma, i partiti al centro hanno perso la forza degli apparati, ma
hanno, in misura diversa, centralizzato attorno al leader i poteri di decisione
e di nomina.
4.3. Il partito degli eletti
Ciò ha influito anche sul partito degli eletti – the party in public office –
limitandone il ruolo decisionale nella struttura di partito, nonostante il
maggior peso in termini di finanziamenti, di staff, di risorse varie e di competenze nel campo legislativo.
La centralità decisionale del partito degli eletti, in senso appropriato e
pregnante, nell’intera organizzazione non si è in Italia imposta come in altri
Paesi occidentali. Il peso degli eletti non ha, infatti, trasformato i partiti in
partiti a direzione parlamentare, come nei casi inglese e americano, né ha
imposto canali di accountability/responsabilità tra elettori ed eletti. Il collegio uninominale, esistito dal 1994 ala 2005, poteva creare un tale rapporto,
ma la gestione “partitocratica” o da ceto politico dei candidati e degli eletti
nei collegi ha vanificato una tale possibilità (si pensi ai candidati
“paracadutati”, al mancato radicamento degli eletti nel territorio ecc.).
E ciò per varie ragioni. Intanto, nel passaggio dal vecchio al nuovo sistema partitico, i nuovi partiti hanno mantenuto una certa forza d’inerzia,
che li ha portati a replicare, magari in dimensioni più ridotte, il ricordo del
partito di massa nel quale i gruppi parlamentari erano dipendenti dall’organizzazione extraparlamentare. A ben guardare, e a guardare tutte e tre le
facce dell’organizzazione, tutti i nuovi partiti conservano comunque l’impronta delle organizzazioni precedenti, nonostante i vari rifacimenti statutari. In secondo luogo, la velocità del cambiamento politico, la permanenza di
una transizione mai conclusasi, lo stato di fluidità delle coalizioni, e soprattutto l’alto tasso di ricambio dei parlamentari (come nel 1994 e 1996),
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l’esistenza per molti partiti della regola di due mandati per i parlamentari,
salvo eccezioni, non hanno permesso il consolidamento e la stabilizzazione
di un’élite parlamentare in grado di costituire il baricentro del potere in
quanto tale. Il che non significa che non ci sia un esteso overlapping tra i
parlamentari e i dirigenti del central office, riscontrabile in misura più o
meno maggiore in tutti i partiti. E se si considerano le altre cariche elettive,
come quelle locali, la quasi totalità risulterebbe di eletti
Nel valutare il peso della componente elettivo-parlamentare, non si
deve trascurare la dimensione delle risorse. Anche se non abbiamo dati
completi e omogenei, gli staff dei gruppi parlamentari sono un indicatore
importante del loro peso. Per un partito come AN, su cui abbiamo i dati
disaggregati, lo staff parlamentare è di gran lunga più grande dello staff
centrale (nel 2003 rispettivamente di 130 unità a fronte di 49). È ipotizzabile che anche per gli altri partiti valga qualcosa di simile. Anche per i DS
i numeri dello staff parlamentare, infatti, superano in alcuni anni, ma non
in tutti, i numeri dello staff centrale (dal 1993 al 1999 lo staff parlamentare è superiore di numero a quello centrale, dal 2000 invece quest’ultimo
risulta leggermente superiore al primo). Ma dove le risorse del party in
public office sono chiaramente individuabili è il finanziamento pubblico.
Qui, anche se i flussi vanno al partito centrale e gestiti da questo, è chiaro
che il finanziamento viene dato per le funzioni pubbliche (dal 2001 sotto
forma di rimborsi elettorali) svolte dai partiti, e quindi è da essere imputato al party in public office. La quota di finanziamento pubblico sul totale delle entrate è per tutti i partiti estremamente elevata, raggiungendo, a
seconda degli anni e dei partiti, sovente la soglia del 90%. Tra i partiti che
meno dipendono, proporzionalmente parlando, dal finanziamento pubblico spiccano i DS che si attestano, per esempio, nel 2002 e nel 2003 attorno al 36% (ma nel 1999 hanno toccato la soglia del 99%), segno forse
dell’incidenza ancora significativa del contributo proveniente dal tesseramento e da altre fonti volontarie. C’è da tenere conto, peraltro, che nella
voce finanziamento non pubblico, occorre mettere in conto il contributo
versato dai singoli parlamentari, e più in generale dagli eletti, nelle casse
del partito, che è un modo indiretto di trasferire denaro pubblico dal party
in public office al partito centrale e periferico.
Come indicatore delle risorse del party in public office va poi tenuto
conto dei finanziamenti diretti ai gruppi parlamentari, finanziamenti significativi che danno la possibilità ai gruppi di una relativa autonomia finanziaria e quindi politica.
Nel complesso si può affermare che anche nella situazione italiana il
party in public office è in crescita, tanto da giustificare oramai la configura-
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zione dei partiti come partiti degli eletti, anche se da un punto di vista del
tipo di partito che emerge, il quadro può essere ancora confuso e talvolta
contraddittorio. Ma non c’è dubbio che dal punto di vista finanziario sia
oramai il party in public office (sotto varie forme e voci) a finanziare il o a
reggere la grandissima parte delle spese sostenute dal partito centrale. Che
poi questo ruolo cruciale per la sopravvivenza dell’organizzazione si tramuti anche in ruolo politico nella struttura di potere del partito ciò dipende
dalle dinamiche di potere e dai vincoli organizzativi interni.
5. I partiti nelle e dopo le elezioni 2008: verso i partiti maggioritari?
L’ultimo stadio dell’evoluzione dei partiti italiani è quello verso i partiti
cosiddetti maggioritari e verso, conseguentemente, il bipartitismo23. Dietro
questa scelta perseguita dai leader dei partiti maggiori (Berlusconi e Veltroni) sta il fallimento degli assetti partitici che dal 1994 al 2008 avevano sorretto il bipolarismo coalizionale italiano. Si era scoperto, cioè, che non ci
può essere democrazia maggioritaria senza partiti maggioritari. Di qui la
spinta da entrambi gli schieramenti a superare la frantumazione partitica sia
con l’iniziativa politica verso le fusioni partitiche sia con la cogenza di una
legge elettorale proporzionale con premio di maggioranza e con relativamente alte soglie. Il punto di svolta o di discontinuità è stata certamente
l’esperienza del governo Prodi 2006-2008, il cui fallimento ha significato
anche il fallimento definitivo del bipolarismo fondato sulle ampie ed eterogenee coalizioni. Comunque sia, i due principali partiti – il Partito del Popolo delle Libertà (formatosi elettoralmente tra Forza Italia e Alleanza Nazionale per iniziativa improvvisa di Berlusconi nel novembre 2007) e il
Partito Democratico (frutto della fusione tra DS e Margherita) – in vista
della competizione del 2008 hanno puntato al rifiuto delle tradizionali coalizioni e all’ambizione di sostituire alle coalizioni il ruolo dei partiti maggioritari e di puntare esplicitamente a un’evoluzione bipartitica del sistema
politico italiano.
Le ragioni della scelta dei due maggiori partiti nascono dalla necessità
di non ripetere gli errori interpretativi della prima lunga fase della transizione italiana – quella che va dal 1993-1994 al 2008 –, quando si è pensato
di costruire una democrazia maggioritaria sulla base di larghe ed eterogenee
coalizioni multipartitiche. Adatte a vincere le elezioni, ma non a garantire
O. Massari, “Un partito moderno: liquido o strutturato?”, Italianieuropei, 2, 2009, pp.
103-110; O. Massari, “L’illusione maggioritaria”, il Mulino, 3, 2009, pp. 389-397.
23
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stabilità governativa. Errori che sono stati fatali, per esempio, a seguito
delle elezioni del 2006, quando a fronte di un risultato di sostanziale pareggio e in presenza al Senato di una ristrettissima maggioranza, gli stati maggiori del centro-sinistra hanno pensato di proseguire come se niente fosse
alla costituzione del governo Prodi, inevitabilmente votato al fallimento. È
qui, crediamo, l’origine della portata enorme della sconfitta del PD e della
sinistra tutta (che è stata cancellata), in una misura che non ha eguali (se
non risalendo al 1948) che si è verificata nelle elezioni del 2008. L’asimmetria tra i due schieramenti è diventata distanza quasi incolmabile.
In nessuna altra elezione dal 1994 in poi il divario tra le due coalizioni, in
termini di votanti, è stato così elevato. Si può spiegare questa asimmetria
come conseguenza della profonda frattura creatasi con il governo Prodi tra
elettorato e capacità di governo del centro-sinistra. In due anni la reputazione
– il capitale di credibilità – del centro-sinistra si è radicalmente dissolta.
Si fosse assunta nel 2006 la consapevolezza dell’inagibilità della coalizione guidata da Prodi, probabilmente l’evoluzione futura del sistema politico-istituzionale italiano sarebbe stata diversa da quella che oggi si prospetta. Errore, dunque, strategico quello del 2006, condiviso da tutti gli stati
maggiori del centro-sinistra, così come quello di non riuscire a valutare
pienamente l’impopolarità, a torto o ragione, diffusa del governo Prodi.
Ma errori di significativa portata sono stati compiuti anche nella gestione della crisi finale del governo Prodi: con l’incredibile appello ripetuto
come un mantra al ricorso alle elezioni in caso di crisi da parte di tutti i leader del centro-sinistra (dimenticando che il sistema è ancora parlamentare),
e con il ricorso al voto di fiducia da parte di Prodi anche al Senato
(“parlamentarizzazione della crisi”, ma il concetto andrebbe discusso criticamente24) anche quando era chiaro che questo non ci sarebbe stato in senso
La “parlamentarizzazione” della crisi di governo, operata da Romano Prodi, ha ignorato il fatto che un partito della coalizione al governo (l’UDEUR di Mastella) aveva abbandonato la maggioranza parlamentare. Si tratta, peraltro, di un partito con cui il centro-sinistra
si era presentato unito davanti agli elettori, e i cui voti erano stati determinanti per il raggiungimento del premio nazionale alla Camera e di diversi premi regionali al Senato. Coerenza democratica avrebbe comportato, perciò, che il presidente del Consiglio ne avesse preso atto, rassegnando le dimissioni, così come avevano fatto in precedenza, lungo tutta la storia repubblicana, i presidenti del Consiglio cui era venuto meno l’appoggio di un partito
della coalizione, piccolo o grande che fosse. Da questo punto di vista, le cosiddette “crisi
extraparlamentari”, lungi dall’essere scorrette sul piano del diritto costituzionale, erano essenzialmente in linea con la realtà di regimi democratici fondati sulle coalizioni di partiti e
quindi corrette anche sul piano costituzionale, non quello formale e astratto ma vivente e
operante. Del resto, in Gran Bretagna, quando si cambia un primo ministro (come nel caso
Blair-Brown), mica c’è un voto formale del parlamento! C’è invece una decisione interna al
partito di governo, di cui il parlamento prende semplicemente atto.
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positivo. Entrambi, appello al voto e ricorso al voto di fiducia, hanno tagliato tutti i ponti di una diversa soluzione, offrendo su un vassoio
d’argento il Paese a Berlusconi, come era prevedibilissimo.
Comunque sia, il fallimento del governo Prodi ha certamente significato la pietra tombale del bipolarismo di coalizioni/ammucchiate. E ciò è
un bene, o comunque un dato di realtà. Da questo punto di vista, nessuna
nostalgia, come si dice, per questo passato. La costruzione dei partiti maggioritari si poneva perciò come una necessità sistemica.
Tutto risolto dunque con questo doloroso passaggio dalle coalizioni/ammucchiate ai partiti maggioritari? Sì e no. Sì, perché questa via è una
via necessitata. No, per i modi con cui sono stati costruiti i partiti maggioritari e no per la cultura politica che ne stava alla base. La cultura politica
prevalente che ha ispirato molte fasi e passaggi della transizione italiana è
stata una cultura basata sulla torsione del concetto di democrazia maggioritaria in democrazia immediata e/o diretta, dimenticando che anche la democrazia maggioritaria è una democrazia pur sempre parlamentare (questa
dimenticanza è stato il cavallo di battaglia di Berlusconi per tutti gli anni
Novanta) e che il governo maggioritario non è solo il governo del premier,
ma è anche il governo di partito (cioè a struttura collegiale, e questa distorsione è presente in maniera trasversale ai due schieramenti). Detto in altri
termini, la presidenzializzazione dei sistemi parlamentari è una lettura discutibile dei processi di trasformazione in atto nelle maggiori democrazie.
Ora il guaio è che questa stessa cultura politica del “presidenzialismo”si è travasata nel modo di pensare e costruire i partiti maggioritari,
naturale nel PDL di Berlusconi (il cui potere quasi assoluto si scontrerà ben
presto con la dissidenza del co-fondatore Fini), ma evidente soprattutto nel
caso del PD di Veltroni. Il partito democratico, infatti, è stato pensato e costruito, nella fase veltroniana, come un “partito presidenziale” e a democrazia diretta. Bisogna ricordare che durante la discussione sullo statuto,
l’ispirazione dei consiglieri di Veltroni era quella di un partito senza iscritti
e senza congresso (“il congresso sono le primarie”, affermò Vassallo, presidente della Commissione Statuto), sostituito quest’ultimo dalle primarie per
l’elezione del leader. Per fortuna, molte delle proposte iniziali sono state
poi corrette. Ma restano ancora nello statuto i segni di un’impostazione
“direttista” o da democrazia immediata e di presidenzialismo (che è poi il
travaso nel modello di partito del modello del premierato elettivo), come
nella norma che prescrive che il segretario può essere sì sfiduciato, ma in
questo caso si scioglie anche l’Assemblea Nazionale e si va a primarie
(simmetrica all’idea che se un primo ministro viene sfiduciato si scioglie
anche il parlamento). È una norma e una pratica che non esistono in nessun
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partito democratico/socialdemocratico al mondo, prefigurando un ruolo del
leader inconsueto secondo gli standard in uso nei partiti politici. Consona a
questa filosofia, sono state anche alcune modalità decisionali all’interno del
partito, come quelle della nomina dall’alto, sostanzialmente dal leader e dai
capi-corrente, degli organismi dirigenti, senza una legittimazione dal basso
e comunque di organismi rappresentativi.
Ma segno di un’impostazione culturale sbagliata sono state anche alcune scelte nella campagna elettorale, come quelle sulle candidature (ma più
in generale il tema riguarda il reclutamento di una nuova classe dirigente),
all’insegna di un “nuovismo” mediatico o a effetto, senza alcun rispetto dei
rapporti territoriali e delle competenze. Le dimissioni di Veltroni del febbraio 2009 rappresentano se non ancora il fallimento del PD, certamente il
fallimento di quello che possiamo definire “veltronismo”.
Ma l’elezione a segretario con le primarie di Bersani, dopo l’interregno
di Franceschini, non ha portato a un cambiamento di rotta significativo, anche se si è teso a correggere i guasti più evidenti del veltronismo25. Ma al di
là della leadership personale, il PD non sembra nel periodo 2008-2010 in
grado di costituire un’alternativa credibile di governo. E non solo e tanto
per una questione di numeri, quanto per una questione di afasia politica. Il
suo ruolo di principale partito di opposizione sembra – e comunque tale appare all’opinione pubblica – insignificante. I suoi consensi non crescono,
fatto singolare in un periodo di crisi economica internazionale e in contesto
segnato dal susseguirsi d continui scandali che colpiscono il presidente del
consiglio e i suoi ministri. Il fatto è che il PD continua a non avere un’identità ben definita (socialdemocratica? liberal? o che cosa?), un programma
credibile (quale riflessione sulla globalizzazione neo-liberista?), frutto di
una vera elaborazione, una posizione comune sui mille problemi dell’agenda politica. Esso non può avere un profilo unitario in termini di identità, programma, comportamenti semplicemente perché è diviso tra le sue
componenti costitutive, e qualsiasi scelta sarebbe una scelta lacerante. Il
partito, perciò, per rimanere unito è costretto all’immobilismo e alla paralisi. Né sul piano organizzativo o su quello dei criteri del reclutamento e del
rinnovo della sua classe dirigente la leadership di Bersani ha segnato una
novità. Semmai dal movimentismo novista veltroniano si è passati a una
stanca gestione burocratica dell’esistente e all’accettazione di uno status
quo dominato dai vari notabili e da un ceto politico logoro, sfiancato e soprattutto privo oramai di freschezza, di energia e di capacità di suscitare
G. Pasquino (a cura di), Il partito democratico. Elezione del segretario, organizzazione e potere, Bononia University Press, Bologna, 2009.
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forti sentimenti di speranza per il futuro. Di fronte a questo quadro – se è
vero –, l’unica innovazione introdotta dal PD, e cioè le primarie, sembra
ben lontana dal risolverne i problemi. Il punto è che per innovare organizzativamente i partiti, soprattutto quelli di sinistra, non esistono trovate miracolose (come appunto erano state presentate le primarie), ma solo un lungo e tenace lavoro quotidiano, intessuto di analisi, di elaborazione, di largo,
esteso, diffuso coinvolgimento collettivo, di impegno a rappresentare (ma
non è neppure chiaro chi il PD voglia rappresentare, oscillando tra duri attacchi al suo bacino elettorale tradizionale e i velleitari propositi di rappresentare chi è già ben rappresentato) ecc. L’impressione è che il PD veda
erosi i consensi del suo mondo di riferimento elettorale tradizionale, ma
non riesca a conquistare un solo voto da altre aree sociali. E questo per
l’assenza di una strategia elettorale, assenza che rimanda a sua volta all’assenza di una strategia politica tout-court, che non sia l’attesa dell’esaurirsi della leadership di Berlusconi. Il PD, insomma, aspetta Godot
(che, come è noto, non comparirà mai).
Sia pure in termini diversi – perché ha pur vinto le elezioni del 2008 e
perché finora Berlusconi e il governo hanno sostanzialmente retto alla prova della governabilità fino al momento in cui scriviamo – il discorso riguarda il PDL come effettivo partito maggioritario.
È bene ricordare che il Partito del Popolo della Libertà è stato deciso
senza congressi costitutivi (il primo congresso costitutivo si terrà nel marzo
2009), ma con una proclamazione il 18 novembre 2007 dal predellino di
un’auto (il commento di Fini, allora, fu “siamo alle comiche finali”), è ancora
proprietà sostanziale del leader/proprietario, e ha messo in opera una qualche
parvenza di democrazia interna di partito, convocandone gli organi nazionali,
soltanto in seguito alla clamorosa dissidenza di Fini. La genialità di Berlusconi indubbia nella rapidità della decisione non deve nascondere il deficit
strutturale di democrazia ancora presente nella sua figura (il conflitto di interessi non è stato risolto) e nelle sue creature, prima FI e ora il PDL. In definitiva, la contestazione di Fini riguarda la natura “cesaristica” del potere all’interno del partito, che è un potere esclusivamente personale. E il rifiuto di
Berlusconi delle correnti e il richiamo incessante alla volontà degli elettori
non è altro che la riproposizione di un modello di partito plebiscitario in cui
non c’è spazio per le minoranze interne e per un normale funzionamento
della democrazia interna. E comunque vada a finire lo scontro interno tra Fini
e Berlusconi, difficilmente ricucibile, il PDL è destinato a non durare nella
sua forma attuale. Del resto, anche al di là della vicenda Fini e dei numeri che
questi rappresenta o può rappresentare, il partito appare, sotto l’apparenza del
comando indiscusso berlusconiano, un vulcano pronto all’eruzione, se solo si
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guarda al proliferare di correnti mascherate da Fondazioni culturali e ai giochi sotterranei di posizionamento/riposizionamento in vista dell’inevitabile,
prima o poi, dopo Berlusconi. La personalità di Berlusconi è la fonte di legittimità del partito, ma proprio questa circostanza può rivelarsi la sua fatale debolezza. I partiti personali o riescono a istituzionalizzarsi (come accadde al
partito gollista) oppure sono destinati a implodere o a scomparire quando
viene meno il leader fondatore. Ed è difficile immaginare l’istituzionalizzazione di un partito che finora non ha dato prova di avere, al di là degli slogan e della retorica, una visione condivisa della missione per l’Italia. Il successo di Berlusconi del 2008 e la sua permanenza in positivo dei sondaggi,
sono più dovuti alla catastrofe del governo Prodi e al vuoto permanente di
alternativa che a una forza propria del partito del presidente. Alla prova vera
della governabilità, Berlusconi, al di là dell’iniziale attivismo sui rifiuti di
Napoli e sul terremoto dell’Aquila e al di là del decisionismo sulle sue questioni giudiziarie, si sta dimostrando un premier tutt’altro che decisionista. Il
suo enorme potere personale convive con l’impotenza decisionale che egli
stesso dichiara quando lamenta che nell’attuale quadro costituzionale non ha
poteri e invoca una riforma presidenzialista. La verità è che riemerge la sindrome già verificatasi nel 2001-2006, ossia il fatto che Berlusconi è costretto
a governare in un governo di coalizione, di cui la Lega è il principale partner,
e un partner assai esigente e scomodo. Finora Berlusconi ha assecondato la
Lega, ma ha perso la sua capacità di iniziativa autonoma. Ha subito una manovra (quella del maggio 2010) sostanzialmente leghista (che colpisce solo il
mondo di riferimento della sinistra, come il pubblico impiego e il potere locale), costretto a confrontarsi con un altro centro decisionale costituito dal
ministro del Tesoro Tremonti. Insomma, anche l’estesa maggioranza di governo berlusconiana non sembra fare altro che galleggiare e vivere alla giornata, incapace di avere una visione di lungo periodo e di vasto respiro per
l’Italia (l’unica visione che emerge è quella leghista del federalismo fiscale e
della critica dello stato nazionale, con ciò entrando in conflitto con il bacino
elettorale meridionale del PDL).
Per vari e diversi motivi, i due partiti maggioritari sembrano essere dei
giganti con i piedi di argilla. È azzardato prevedere che prima o poi i due
giocattoli si romperanno?
6. Conclusione: i partiti maggioritari nelle democrazie maggioritarie
In Europa la democrazia maggioritaria si dispiega tanto con sistemi bipartitici (come in UK, e per certi versi la Spagna, ma dopo le elezioni del
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2010 anche nel Regno Unito il bipartitismo è momentaneamente e forse definitivamente finito), quanto in sistemi a pluralismo limitato e moderato
(Germania, e Francia, sebbene in quest’ultima bisogna tenere conto della
variante forma di governo). Per queste democrazie, i partiti maggioritari
sono indispensabili, ma possono sopravvivere ed esprimere il loro ruolo di
assi portanti della governabilità e della coerenza programmatica anche all’interno di un contesto di pluralismo moderato. Come accade oggi persino
nella patria del bipartitismo. Il punto vero – ed è il punto dolente oggi in
Italia – è di quali partiti maggioritari abbiamo bisogno. Pur con tutti i limiti,
le debolezze, i trend negativi che caratterizzano tutti i grandi partiti europei
(per esempio nel calo della membership), non c’è dubbio che comunque
questi continuano a essere realtà fortemente strutturate (come i partiti tedeschi, inglesi e spagnoli) o in cerca di strutturazione forte (come l’UMP
francese, anche se “presidenzializzato”) e collegiali (in cui gli organismi
della democrazia rappresentativa interna contano). Pur se tutti sono alla ricerca di innovazioni (un po’ tutti ricorrono alle primarie di iscritti), nessuno
di loro tende a diventare esclusivamente “un partito del leader” (con l’eccezione francese, ma per via del presidenzialismo, e che comunque oggi
sembra in declino) o a sostituire la democrazia immediata a quella mediata
dagli organismi interni, il plebiscito delle primarie degli elettori con la partecipazione degli iscritti e dei militanti/dirigenti ai vari livelli.
In generale, guardando all’esperienza delle democrazie competitive
(che includono il caso USA, presidenziale), i partiti maggioritari, cioè
quelli che aspirano al governo e che hanno effettive chances di raggiungerlo, sono strutture caratterizzate da: forte strutturazione interna; non sono
cioè partiti “leggeri”; certamente c’è la centralità del leader: ma non è onnipotente ed è intercambiabile; sono broad churches, grandi contenitori, ma
con forte identificazione partitica, per essere rappresentativi della larga
maggioranza dell’elettorato; usano largamente la comunicazione politica e
il marketing, ma per offrire proposte che sono state a lungo elaborate e discusse in organismi collegiali di politici, esperti, accademici. Cioè, nel
contenuto delle proposte sono “pesanti”, nella comunicazione “leggeri”. Le
proposte non s’improvvisano. Si usa il software, ma dietro c’è l’hardware
della struttura partitica; hanno strutture e processi decisionali democratici,
certi, trasparenti. Anche quando si usano le primarie, queste non sostituiscono la catena della democrazia interna di partito; le classi dirigenti di
partito sono veramente selezionate, non c’è né improvvisazione, né tantomeno nomina dall’alto; hanno una fitta rete di radicamento territoriale (militanti, attivisti, associazioni fiancheggiatrici, comitati, movimenti ecc.) che
non sostituisce la rete telematica, ma l’accompagna, proprio perché la com-
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petizione elettorale non si vince solo sui media ma anche nel territorio (come insegna la vicenda Obama negli USA, dove sono stati determinanti le
decine di migliaia di volontari sul territorio)26. Sono cioè strutture modernissime, che fanno ricorso a tutte le tecnologie, ma sono anche strutture che
conservano la rete dei rapporti umani diretti.
Solo questi tipi di partito sono adatti a competere e a governare nelle
democrazie maggioritarie/competitive. Partiti populisti e/o patrimoniali,
elettoralistici, leaderistici, leggeri o improvvisati o confusi o “liquidi”,
non sono adatti a una democrazia ben funzionante. Prima o poi le distorsioni si riversano nelle strutture e nel funzionamento della democrazia.
E queste distorsioni possono essere fatali soprattutto per un partito della
sinistra riformista.
S. Fabbrini, R. La Raja, I democratici americani nell’epoca di Barack Obama, Italianieuropei, Roma, 2010; G. Pasquino, Sistemi politici comparati. Francia, Germania, Gran
Bretagna, Italia, Stati Uniti, Bononia University Press, Bologna, 2003.
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