Bologna-letteratura come visione del mondo
Transcript
Bologna-letteratura come visione del mondo
Corrado Bologna La letteratura come visione del mondo (Napoli, 25-27 ottobre, Convegno sul tema: Insegnare Lingua e Letteratura italiana nei nuovi Licei e Istituti superiori) 1. Conserviamo tutti nella mente (e, spero, anche nel cuore) la pagina introduttiva delle Lezioni americane di Italo Calvino, scritta nel 1985 per trasmettere alle generazioni a venire, che sono quelle degli attuali studenti universitari e liceali, l’essenziale dei valori di civiltà da scegliere e comunicare al futuro, facendo pulizia dell’immenso materiale inerte in cui rischiano di affondare: «La mia fiducia nella letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare con i suoi mezzi specifici»1. Qualche anno prima, sulla stessa lunghezza d’onda, Calvino aveva richiamato alla forza etica e antropologica del Classico come operatore della selezione e trasmissione di questi valori fondativi di una cultura, quindi, proprio in senso antropologico, come eroe culturale della civiltà scelta, perpetuata, rinnovata nella storia dalla parola letteraria: «I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale. [...] I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio e nel costume). [...] D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima. [...] I classici servono a capire chi siamo e dove siamo arrivati e perciò gli italiani sono indispensabili proprio per confrontarli agli stranieri, e gli stranieri sono indispensabili per confrontarli agli italiani»2. Insegnare la letteratura italiana sui classici significa dunque aprirsi nei confronti di quella che Erich Auerbach, nel 1952, definì la Weltliteratur3. Si tratta di una scommessa civile, anzitutto etica e di conseguenza politica, che non si limita alla preparazione scolastica, perché coincide con la creazione di una consapevolezza antropologica delle metamorfosi culturali in atto. Essa scaturisce, infatti, dalla percezione critica dell'alterità del nostro passato, della sua irriducibile differenza, con la quale dobbiamo confrontarci con l'affinamento di tecniche lontane da qualsiasi inerte tecnicismo, di strumenti 1 I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Milano, Garzanti, 1988, p. 1; poi in Id., Saggi 1945-1985, a cura di M. Berenghi, 2 tomi, Milano, Mondadori, 1995, p. 629. 2 Id., Perché leggere i classici (1981), in Id., Perché leggere i classici, Milano, Mondadori, 1991, pp. 11-19 (alle pp. 1314, 15 e 19), poi in Id., Saggi 1945-1985 cit., pp. 1816-1824 (alle pp. 1818-1819, 1824). 3 Cfr. E. Auerbach, Philologie der Weltliteratur (1952), in Id., Gesammelte Aufsätze zur romanischen Philologie, Francke, Bern 1967, pp. 301-310; trad. it. Philologie der Weltliteratur - Filologia della letteratura mondiale, Book editore, Castel Maggiore (Bologna) 2006 (con il testo tedesco a fronte). filologici e linguistici (termini che considero sinonimi di storiografici ed ermeneutici) adeguati a conservare la memoria storica di una communitas, di un bene comune che è insieme lingua, tradizione culturale, universo letterario e artistico. «Scommettere sui classici» scrive ora Luca Serianni, con grande sensibilità scientifica, etica e storiografica, «significa pensare che abbiano ancora qualcosa da dirci; e che ce lo dicano, finché è ancora possibile comprenderla, nella lingua in cui sono stati scritti, ossia con la loro voce»4. C'è però un dilemma di fondo che mi sembra percorrere l'incontro a cui stiamo partecipando. Di fronte al bisogno crescente di preservare, formare, irrobustire le competenze linguistico-espressive e le capacità interpretative delle classi giovanili nate nell’universo “digitalizzato”, che si presentano sempre più sguarnite di strumenti conoscitivi e operativi, soprattutto nel settore della comprensione e analisi dei testi, ma in fondo nella organizzazione profonda, logicamente gerarchizzata, del pensiero argomentato, sorge la viva preoccupazione che il legittimo e necessario impegno su questo fronte, assorbendo tempo e strategie didattiche, e orientando su un orizzonte prevalentemente strumentale lo studio dei classici, soprattutto di quelli antichi, rischi di distogliere l’attenzione dalla più ampia finalità culturale e formativa che appartiene all’insegnamento della letteratura. E che dunque, impegnando il massimo delle energie nel tentativo di recuperare la crisi delle competenze linguistiche e metalinguistiche ormai palesi nelle generazioni giovani, si dislochi lo studio della letteratura, con la difficoltà e la complessità dei metodi che essa richiede, in una posizione non solo secondaria, ma servile e quindi deficitaria. 2. Le linee generali del Ministero dettano chiaramente: «La lingua italiana rappresenta un bene culturale nazionale, un elemento essenziale dell'identità di ogni studente e il preliminare mezzo di accesso alla conoscenza. [...] Al termine del percorso liceale lo studente padroneggia la lingua italiana»5. Quanto al secondo punto, la letteratura, peraltro dichiarato «l'obiettivo primario dell'intero percorso di istruzione» viene dichiarato «il gusto per la lettura». E nel delineare gli «obiettivi specifici di apprendimento» il Ministero decide ora di dislocare «alla fine del primo biennio [...] le prime espressioni della letteratura italiana: la poesia religiosa, i Siciliani, la poesia toscana prestilnovistica»: cosicché scompare definitivamente, nel successivo biennio di maggiore maturazione, qualsiasi riferimento alle metamorfosi complesse e fondamentali che legano l'antichità alla modernità, cioè il mezzo millennio che usiamo chiamare Medio Evo, che è storia d'Europa, dell'Italia come parte 4 L. Serianni, L'ora di italiano. Scuola e materie umanistiche, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 106. 5 Traggo la frase dal sito www.nuovilicei.indire.it (da qui anche le citazioni seguenti). dell'Europa: e il supremo ricapitolatore di un'intera civiltà, Dante, smarrisce, al pari di Cavalcanti e dello Stilnovo, nello sguardo critico delle prossime generazioni, l'orizzonte di riferimento senza il quale è difficile coglierne appieno l'assoluto primato fondativo della nostra letteratura e l'altezza culturale. Dante rischia, insomma, di esser presente nella scuola come un onesto capolavoro creatore di una base linguistica nazionale, anziché come l'immenso Libro dell'Universo che verrà letto e riletto da tutto il grande Novecento mondiale, Pound, Eliot, Mandel'štam, Borges, e in Italia da Montale, Levi, Pasolini, Caproni, Sanguineti, Giudici, Luzi. È invece da questo punto di vista, dallo sguardo della contemporaneità affondato nelle Origini, che si potrebbe insegnare a leggere l'antico, attraverso lo specchio di questi nostri grandi, dalla lingua chiara anche per gli studenti del primo biennio, assai più di quella di Jacopone, di Giacomo da Lentini, di Guittone d'Arezzo. È evidente che ci troviamo tutti, professori di liceo, di istituti tecnici, di università, nelle stesse condizioni, a confrontarci con i giovani ponendo sotto i loro occhi quelle categorie concettuali e quei mezzi ermeneutici che sempre più frequentemente vengono percepiti, non solo da loro ma spesso addirittura da parte nostra, come ferri vecchi del mestiere (libri, autori, testi, storia, analisi filologica, analisi delle strutture retorico-stilistiche), in alternativa e in antagonismo soprattutto con le sirene della pur preziosissima, ormai imprescindibile “rete” elettronica. Con sempre maggiore frequenza di rinuncia a tenere, e non certo per conservatorismo, il timone fermo sulla rotta del Testo e di un confronto attivo, raffinato, consapevole con le sue difficoltà, in primo luogo con la sua complessità: quasi che il “gioco elettronico”, con i rischi di dipendenza e di compulsività invasiva che si stanno palesando con crescente preoccupazione, fosse un valore alternativo (e presto, si immagina, sostitutivo). Eppure è di pochi giorni fa l'inquietante (a dir poco) dichiarazione del ministro Gelmini al «Corriere della sera» che «i videogiochi oggi rappresentano un'opportunità per introdurre nella scuola linguaggi digitali e nuove strategie di apprendimento. [...] La nuova generazione di videogiochi didattici offre molte opportunità e non è un caso che siano ormai utilizzati anche all'interno di percorsi universitari»6. Nulla da eccepire, ovviamente, sul ricorso ai «linguaggi digitali». Ma dal momento che la linea di tendenza delle generazioni “digitalizzate” sembra essere proprio l'abbandono dello strumento-libro, certo difficile, faticoso, ma proprio per questo utile a sviluppare e rafforzare la “muscolatura intellettuale”, non sarà il caso di preoccuparsi, piuttosto, che la forma-libro perda potere ed energia formativa, e che le generazioni future si ritrovino ben presto private di una competenza ancora fondamentale, quale l'uso agile e consapevole della parola scritta? Insomma, per inseguire la mitologia 6 F. Cella, Videogiochi in 7 case su 10. E la Gelmini li promuove. «Servono per le nuove strategie di apprendimento», in «Il Corriere della Sera», giovedì 21 ottobre 2010, p. 31. “digitale” ed accogliere facilitazioni e alleggerimenti “buonistici” rispetto alla fatica formativa, non rischiamo di incentivare proprio quello smarrimento di competenze che solo l'esercizio costante garantisce, come in ginnastica così nella formazione culturale? Riconoscere gli scarti fra i registri, le figure della retorica, i livelli e i dislivelli stilistici, e più ampiamente culturali, non è forse una competenza fondamentale, imprescindibile per un uomo colto, cioè per un buon cittadino? La via più sicura per formare competenze attive di questo genere saranno davvero il videogioco ripetitivo, basato su capacità elementari, la navigazione sulle rotte inerziali di internet, l'abitudine tragica al copia-e-incolla da un Nonautore all'altro, da un Nonluogo della “rete” al Nessunluogo dei testi senza capo né coda, con cui tutti noi dobbiamo confrontarci ogni mattina? Volendo maternamente “proteggere” i nostri giovani dalle fatiche e sofferenze formative, non rischiamo di far crescere una generazione incapace di confrontarsi con i loro coetanei europei ed extra-europei, molto più competenti nell'uso di lingue e linguaggi diversificati, di strumenti raffinati e complessi di comunicazione e di interpretazione, ad esempio le analisi delle strutture retorico-stilistiche o la filologia testuale esaminata nelle tappe della sua genesi e correzione, magari sugli autografi degli autori? Una competizione priva di competenze, affrontata con l'abitudine al “gioco” più che al saper “mettersi in gioco”, condurrà i nostri giovani alla sicura sconfitta. Intervistato da «la Repubblica» a proposito del suo ultimo libro, Devi cambiare la tua vita, il filosofo Peter Sloterdijk, celebre in Germania, Francia e Spagna, meno da noi, che di tante cose è accusabile ma non certo di conformismo reazionario, ha dichiarato: «Si è perduta la grande tensione dell'età classica. La generazione contemporanea ha dimenticato il concetto di antigravitazione e di tensione verticale. E se vi è un elemento pedagogico nel mio libro, consiste nella volontà di ricordare questa dimensione»7. 3. A me pare che ancora oggi nessuno strumento permetta di riconoscere e di affrontare la complessità e la difficoltà del reale quanto l'esercizio imperniato sulla tradizionale forma-libro, l'esegesi diretta dei testi, posti al centro di un universo mobile e ricco: esercizio ed esegesi ovviamente guidati e indirizzati attraverso opportuni strumenti di addestramento, magari con il sostegno di materiali on line e di esercitazioni interattive. Se mi si permette il richiamo a un'esperienza diretta dirò che è questa la forma prescelta nell'antologia della letteratura italiana da me curata per Loescher insieme con un'eccellente professoressa di liceo, Paola Rocchi, Rosa fresca aulentissima: ogni pagina, via via che nasceva, veniva sottoposta a “test” di prova nel vivo laboratorio delle aule liceali, sottoposta a immediata valutazione e, 7 M. Filoni, La filosofia è un personal trainer, in «La Repubblica», venerdì 22 ottobre 2010, p. 54. se necessario, al relativo ri-orientamento. Ma la chiarezza e l'esattezza che abbiamo posto a bussola del nostro lavoro non ha mai intaccato la dettagliata rappresentazione della complessità dell'universo letterario. Antidoto alla pesantezza delle “cose” e del “mondo”, la letteratura va colta nella sua natura più profonda, intimamente mìtica, e direi perfino rituale: come «funzione esistenziale», come «ricerca di conoscenza» (sono ancora le Lezioni americane)8. È nella parola della letteratura, leggera, rapida, esatta, molteplice, visibile, che si realizza «la ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere». Ma nel ventaglio di queste virtù è soprattutto l’ultima, la consistency non illustrata a causa della morte prematura di Calvino, a fare da pernio di tutte le altre. Secondo una bellissima, acuta proposta di Carlo Ossola, Calvino doveva intenderla, la consistency, nel senso della “consistenza”, ma della “coerenza” di una visione del mondo, della «coerenza di argomentazione che permette a un sistema di consistere nella legittimazione logica che esso offre di se stesso»9. Calvino trovava coerenza e compatibilità, nel suo universo letterario, tra cristallo e fiamma, tra forma esatta e ritmo molteplice: la consistency della letteratura ci porta «davvero al centro di una componente essenziale del nostro vivere, e del nostro conoscere, nell'unità profonda di scienza e poesia (Galileo e Schrödinger sono del resto eccellenti scrittori) e del vivere associato: Smoothness, politezza, educazione, calma tranquilla, di un ascolto senza asperità»10. La letteratura, certo, non riuscirà mai a rispondere a quell’esigenza radicale che un grande scrittore etico ed epico del nostro tempo, Carlo Emilio Gadda, definiva come urgenza di «mettere in ordine il mondo»11. Non metterà mai veramente “in ordine” il mondo, non ricondurrà mai al paese d’utopia. È anzi davvero utopico, donchisciottesco, anche solo immaginare che questo possa essere il suo scopo ultimo: in primo luogo perché «conoscere significa deformare»12. La letteratura si offre, invece, quale perfetto dispositivo di accoglienza, entro un sistema coerente di significato, dell'infinita molteplicità di dettagli irrilevanti che si disseminano nella “liquida” vita quotidiana. Essa riesce a dare parola al bisogno di ordine nella visione della realtà proprio portando alla luce la grande disarmonia che vi domina, offrendo una voce consistente, coerente, all’incoerenza e al caos della vita, mostrando 8 9 10 11 I. Calvino, Lezioni americane, cit., p. 28; in Saggi 1945-1985, cit., p. 653 (da qui anche la frase virgolettata che segue). C. Ossola, Molteplicità e Coerenza, Torino, Giappichelli, 2010, p. 31. Ibid., p. 36. C. E. Gadda, Meditazione milanese, a cura di G. C. Roscioni, Torino, Einaudi, 1974, p. 172, I stesura, cap. XIII, La categoria, rr. 157-158; poi in Id., Scritti vari e postumi, a cura di A. Silvestri, C. Vela, D. Isella, P. Italia, G. Pinotti (“Opere di Carlo Emilio Gadda” ed. diretta da D. Isella), V*, Milano, Garzanti 1993, p. 735. 12 Ibid., p. 99, cap. VII, I sensi, r. 265; in Scritti vari e postumi, cit., p. 668. come cose infinitamente diverse possono convivere ed entrare in contatto senza mai rinunciare alla propria specificità, nella complessità del sistema. Mai come in un’età della globalizzazione e dell’appiattimento degli scarti storici e culturali è necessario restituire parola alle differenze, per non dimenticarle. La democrazia è la difficile, delicata armonia dei diversi, non la semplificante e falsa omologazione identitaria, dichiarava il saggio presocratico Filolao, ricordato da Leo Spitzer nell'Armonia del mondo13. Non è, dunque, che la letteratura codifichi l’armonia del mondo, la concordia universale. È vero, al contrario, che la letteratura grande, la sola che merita d'essere salvata, rammemorata, consegnata al futuro, porta sempre con sé una lacerazione, una ferita, un disinganno. Vale in questo senso l'intuizione di Alberto Asor Rosa, che ribadisce la centralità pedagogica, iniziatica, dei grandi classici come operatori di identità e di metamorfosi culturale di una civiltà: «I grandi classici», scriveva Asor Rosa nel 1992, concludendo il discorso preliminare sul canone delle opere della Letteratura italiana da lui diretta, «sono sempre degli scrittori “radicali”, nel senso proprio del termine, in quanto, appunto, “vanno alla radice delle cose”, esplorano, sommuovono le profondità dell'essere, come un aratro che rovescia le zolle e ne mostra il lato a lungo nascosto. […] I grandi classici […] sono esperti, più che della regolarità e della sistemazione, del “caos” e del “disordine”. Sono degli specialisti di “situazioni originarie”. Siccome l'“essere in sé”, cioè l'“origine”, si presenta come un caos e un indistinto, i grandi classici trovano le “parole”, cioè la “forma comunicabile”, per “dire” questo stato di caos e di disordine. Non v'è dubbio che “forma” abbia qualcosa a che fare con “ordine”: da questo punto di vista, e alla fine, i grandi classici sono dei grandi costruttori di ordine»14. Insegnare letteratura imperniandone la trasmissione sulla funzione centralizzante dei classici come specialisti del disordine fondativo di civiltà e come costruttori non imitabili ma memorabili di un nuovo ordine di significati collettivi, non significa dunque esaltare la nostalgia di un'identità “collettiva”, “universale” o “nazionale”, o di un “fondamento” ontologico. Né significa soltanto trasmettere “competenze” tecniche e pragmatiche, capacità applicative di metodi di lettura e di esegesi, trasferibili all'occorrenza nella produzione di testi. Insegnare ad esplorare la parola letteraria, ha scritto recentemente Ezio Raimondi, «è la premessa necessaria per recuperare al presente quella profondità e quella distanza interiore che è lo spazio stesso di ciò che un tempo si tempo si diceva spirito critico. 13 Cfr. L. Spitzer, L'Armonia del mondo, con Introduzione di C. Bologna (Storia semantica di un titolo), Bologna, Il Mulino, Bologna 2007, pp. 17 ss. Il passo più significativo (non ricordato esplicitamente da Spitzer) si legge in H. Diels, Fragmente der Vorsokratiker, sechste verbesserte Auflage hrsg. von W. Kranz, I, Berlin-Grunewald, Weidmann, 1951, p. 409, n° 44 [32], Philolaos, B, Fragmente, fr. 6. 14 A. Asor Rosa, Il canone delle opere (1992), in Id., Genus italicum. Saggi sulla identità letteraria nel corso del tempo, Torino, Einaudi, 1997, pp. 3-31 (a p. 27). […] La lettura dei testi non può che partire dall'esercizio di un artigianato umile che conduca il giovane a sentire il proprio tempo attraverso l'acutezza e la disponibilità della parola della letteratura, una parola sempre tesa al massimo del significato, carica della memoria di altre pronunce che risuonano al suo interno»15. 4. Insegnare letteratura non può voler dire addestrare principalmente a leggere la lingua dei classici per imparare a riprodurla. Insegnare letteratura, e in Italia soprattutto la letteratura italiana, significa formare negli allievi, ragionando sui testi dei grandi classici, un'avvertita capacità di elaborazione intorno ai procedimenti logico-argomentativi del pensiero umano nella sua forma più alta e limpida. Significa esercitare a sentire nella pagina del grande classico la perturbante originalità di un punto di vista che guarda alle radici dell'esistenza, a riconoscervi la forza innovativa che il classsico conserva e può ancora trasmettere grazie alla “radicalità”, appunto, della sua visione del mondo rivoluzionaria. Significa plasmare una consapevolezza della necessità, ma al contempo della parzialità, di ogni “competenza” tecnica, creando invece uno spirito critico, cioè una distanza interiore capace di riscattare la profondità dello sguardo, del punto di vista ermeneutico, nel senso più completo del termine. Significa far maturare nei giovani la capacità di commisurare l'infinita, imprendibile varietà delle cose e delle esperienze con l'irriducibilità dei limiti umani, far cogliere la fatica, il travaglio della lingua dei classici mentre “cerca la parola” per dire l'umanità come progetto di futuro e nel contempo come limite irriducibile. Questa fatica, questo esercizio di complessità, imprime uno slancio antigravitazionale verso una visione del mondo diversa, molteplice, innovativa, scandita nel senso della storia e del recupero delle radici di una civiltà con la leggerezza con cui Calvino apre le Lezioni americane e con l'esattezza rigorosa della consistency con cui avrebbe voluto concluderle, destinandole proprio alle “generazioni digitalizzate” dei nostri giorni. «L'umanesimo», ha scritto il grande critico palestinese-americano Edward W. Said, «ha a che fare con la lettura, con l'individuazione di una prospettiva, e, come ci mostra il nostro lavoro, con i passaggi da un campo o un'area dell'esperienza umana all'altra. L'aspetto più interessante di una grande opera d'arte è la sua capacità di dar vita a una sempre maggiore complessità»16. 15 E. Raimondi, Come insegnare ai giovani ad amare la letteratura, in «La Repubblica», mercoledì 17 marzo 2010, p. 58. 16 E. W. Said, Humanism and Democratic Criticism (2004), trad. it. Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioni, Il Saggiatore, Milano 2007, in particolare il saggio Il ritorno alla filologia, pp. 83-108; le due frasi citate si leggono rispettivamente alle pp. 105 e 89. Credo che il cuore dell'insegnamento della letteratura pulsi proprio in quel difficile paradosso che ne fa, senza retorica, un esercizio spirituale, della stessa natura che Carlo Ossola rinviene negli esercizi mentali del Signor Palomar di Calvino: «Il paradosso del non già “io guardo, ordino, metto in prospettiva, sono il centro, quidam deus di un mondo a mia misura”; ma, al contrario, del trovare una Consistency compatibile con la reversibilità, la pluralità molteplice dei punti di vista, la discontinuità del vissuto»17. La parola letteraria combatte quelle che Harold Bloom chiamava «le parole fatte», le formule stereotipate, e così restituisce energia fondativa alle cose. Come un grande storico delle religioni quale Angelo Brelich ha fatto per il mito18, così per la letteratura dobbiamo parlare di “atto fondativo” che non spiega né interpreta, ma dà coerenza e fondamento di significato al mondo. La grande letteratura fonda il mondo, non lo “spiega” né lo “ordina”, ma gli offre un senso permettendo di leggerlo, infine, come un libro. È sulla base dell’antica «metafora assoluta» del libro del mondo, di cui Curtius e Blumenberg19 hanno mostrato la potenza mitografica prima ancora che culturale, artistica, retorica, che dobbiamo insegnare a leggere un grande libro per insegnare a leggere il mondo, e, in armonia di reciprocità, dobbiamo insegnare a leggere il mondo per insegnare a leggere i grandi libri. Alla radice di questa formazione alla lettura sta la trasmissione di un’emozione ancora più necessaria per l’esistenza, che è l’amore per la letteratura. 5. Insegnare la letteratura, in questa luce, non significa solo addestrare filologicamente alle tecniche, esercitarsi alla comprensione della realtà attraverso quella filologia, che Nietzsche definiva «un’arte da orafi della parola»20. L’insegnamento della letteratura, non di “una letteratura”, ma proprio dell’universo-letteratura, del cosmo-letteratura, svolge così un ruolo iniziatico assoluto: apre lo spazio che garantisce l’essere umano contro l’appiattimento e l'omologazione. Assumendo (e sdrammatizzando un poco) una splendida formula che Ernesto de Martino applicò agli operatori di iniziazione rituale dei giovani nell'universo non alfabetizzato, mi azzarderò a dire, senza alcuna enfasi 17 C. Ossola, Molteplicità e Coerenza, cit., p. 43. 18 Cfr. A. Brelich, Gli eroi greci (1958), nuova ed. Milano, Adelphi, 2010, con un saggio di C. Bologna, «Mitsingen ist verboten». Cinquant'anni dopo Gli eroi greci di Angelo Brelich, pp. 433-455. 19 Cfr. E. R. Curtius, Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern, Francke, 1948; trad. it. Letteratura europea e Medioevo latino, a cura di R. Antonelli, Firenze, La Nuova Italia, 1992 e H. Blumenberg, Die Lesbarkeit der Welt, Frankfurt, Suhrkamp, 1981; trad. it. La leggibilità del mondo. Il libro come metafora della natura, Bologna, Il Mulino, 1984 (che a Curtius si richiama esplicitamente). 20 F. Nietzsche, Morgenröthe (1886), trad. it. Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, in Opere di Friedrich Nietzsche, ed. it. diretta da G. Colli e M. Montinari, vol. V, t. I, Adelphi, Milano 1964; cito dall'ed. nella «Piccola Biblioteca Adelphi», Milano 1978, pp. 3-9 (a p. 8; i corsivi sono dell'autore). retorica, che gli insegnanti nelle scuole, oggi, e soprattutto gli insegnanti di letteratura, sono «i signori del limite, gli esploratori dell'oltre, gli eroi della presenza»21. Attraverso lo studio della letteratura e dell'arte essi invitano ad approfondire quello che Erich Auerbach, nel celebre saggio sulla Filologia della Weltliteratur (1952) definì «lo studio della realtà del mondo»22. Nell’insegnamento della letteratura italiana, ripensata criticamente proprio nella dimensione auerbachiana, di una «filologia della letteratura mondiale», contro quello di cui Auerbach stesso parlava come dello «stato di impoverimento che ci minaccia, […] intrecciato con una formazione che esclude la storia», dovrà additarsi sempre «la storia interna degli ultimi millenni, oggetto della filologia in quanto disciplina storicistica». Questo sarà dunque «il cómpito degli attuali filologi del mondo e nel mondo»: ricostruire e insegnare ad amare, con gli strumenti propri della letteratura, «la storia dell'umanità giunta a un’espressione propria. […] Ciò che noi siamo, lo siamo diventati nella nostra storia, e solo in essa possiamo rimanere tali e svilupparci». Nella prospettiva fin qui tratteggiata il primo problema da affrontare è: come far interagire la realtà culturale dell’universo digitalizzato con la parola secolare e stratificata della letteratura, della grande parola dei classici? Per le generazioni “digitalizzate”, nate e formate nello spazio-Google, l’universo testuale non coincide più di necessità con la bimillenaria forma-libro, e galleggia invece in un oceano di parole e di immagini segnato da uno scarsissimo gradiente di autorialità e di autorevolezza. Credo che unicamente attraverso il godimento profondo del piacere del testo, dell'avventura conoscitiva ed esistenziale dell'incontro con l'universo perturbante dei grandi classici, si potrà riuscire nuovamente a far amare la letteratura dalle generazioni “digitalizzate”. Ma ciò avverrà solo a condizione che si riesca a non asservire lo slancio ermeneutico nei confronti dei testi classici a mera acquisizione delle pur importantissime e necessarie competenze linguistico-espressive, analiticoargomentative. Al di là di qualsiasi basilare acquisizione di competenze linguistiche e tecnico-esegetiche occorre sempre di nuovo far sentire con profondità e autenticità a queste generazioni, per le quali il testo è liquidità sradicata dalla storia, la carica etica di memoria, di energia, di piacere, di stupore, che fa della letteratura un pernio dell'iniziazione rituale alla vita adulta, in un mondo che le strutture iniziatico-formative ormai le ha perdute tutte. Ernst Robert Curtius, chiudendo Letteratura europea e Medio Evo latino, definiva la cultura «una Memoria iniziatrice» capace di restituire al movimento lo 21 E. de Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo (1948), Torino, Boringhieri, 1967 p. 129.l 22 E. Auerbach, Philologie der Weltliteratur. Filologia della letteratura mondiale cit., p. 37 (la formula originale è: «Erforschung der Weltwirklichkeit»). spirito paralizzato nella palude della stasi culturale, e aggiungeva che «il dimenticare è, in taluni casi, altrettanto necessario del ricordare. Occorre saper dimenticare molte cose, se si vuole custodire ciò che è essenziale»23. In un mondo di computer, di internet e di links, nel quale le idee di Storia, di Testualità, di Autorialità, di Autorevolezza, stanno subendo una deriva anche civilmente e politicamente pericolosa, alla quale si sostituisce la percezione di un flusso informativo inerte, “liquido” (per dirla con Zygmunt Bauman), se vogliamo offrire ai giovani la percezione della vitalità dei nostri giorni, non si dovrà insistere tanto sul contemporaneo, quanto sul suo radicamento nella storia. Per “fare spazio” al Novecento non servirà ridurre lo “spazio culturale” delle Origini, dislocandone lo studio nel secondo anno di liceo, e di fatto eliminando dal quadro letterario, riducendolo a prevalente attenzione storicolinguistica, l’universo medioevale e l’insorgenza della civiltà volgare. 6. A un’idea della letteratura come forza dirompente rispetto agli schematismi dell’esistenza e alle convenzioni della storia pensava Dostojevskij quando, nelle Memorie dal sottosuolo, scriveva (la traduzione è di Tommaso Landolfi) che «forse lo scopo a cui tende l'umanità consiste unicamente nel mantenere ininterrotto questo raggiungimento [dello scopo], in altre parole è la vita medesima, e non propriamente la meta da raggiungere, la quale, si capisce, non può esser altro che il due più due quattro, ossia una formula, ma questo due più due quattro non è la vita, signori, bensì il principio della morte. [...] Ma malgrado tutto il due più due quattro è sempre una cosa assolutamente insopportabile. Due più due quattro a mio parere non è che impudenza. [...] Ma allora [...] vi dirò che anche due più due cinque è talvolta una cosuccia graziosissima»24. Per riscattare il nostro contemporaneo non possiamo perdere l’alterità feconda di quell’universo che Dante ricapitola e supera, ma la cui presenza viva è necessaria sia per poter comprendere a fondo Dante stesso, sia per cogliere l’interesse vivissimo per quel Medio Evo agostiniano, allegorico, multiculturale, privandoci del quale non capiremo fino in fondo le radici della modernità. Senza la rivoluzione della soggettività e dell'interiorità dell'individuo di Agostino, senza la sua meditazione sul tempo e sulla memoria, sull'inquietudine umana, mi pare difficile concepire perfino Freud o Proust, Pessoa o Ungaretti. Ma per restare alla letteratura italiana, credo che piuttosto che “aumentare lo spazio del contemporaneo” riducendo il tempo dedicato all'“antico” potrebbe essere più fruttuoso osservare le 23 E. R. Curtius, Letteratura europea e Medioevo latino cit., pp. 438-439. 24 F. M. Dostoevskij, Zapiski iz podpol'ja, trad. it. Ricordi dal sottosuolo, Firenze, Vallecchi, 1961, pp. 52-53 (alla fine del cap. IX; la traduzione di Tommaso Landolfi, magnifica, è molto idiosincra.tica). Origini dal punto di vista del nostro tempo, guardare il Medio Evo con gli occhi del Novecento, per cogliervi ciò che esso ha ancora da dire alla contemporaneità. Pochissimi esempi: le traduzioni cinematografiche di Boccaccio e di Chaucer, dovute al genio di Pier Paolo Pasolini, i cui Ragazzi di vita e Una vita violenta pullulano della memoria dell’Inferno, e le cui Ceneri di Gramsci rimeditano la creaturalità di San Francesco e di Dante attraverso la riflessione di Auerbach; la palus putredinis dantesca e post-dantesca del Laborintus di Edoardo Sanguineti, libro “medioevale” quanto altri mai nel cuore delle neoavanguardie novecentesche; le Biciclette di Giorgio Caproni, che riconducono in via diretta alle tecniche dei motz tornatz e alle serie rimiche (viso: diviso) dei Siciliani e di Cavalcanti, e poi del lamento di Francesca nel V canto dell’Inferno; la lettura geniale del canto d’Ulisse di Primo Levi, che nel deserto di morte di Auschwitz porta speranza di vita, al di là della sopravvivenza del corpo, proprio come qualche anno prima (Levi non lo seppe forse mai) nel gulag siberiano faceva Osip Mandel’štam, grande poeta russo e autore di uno dei saggi sulla Commedia più acuti e commoventi che io conosca: Mandel’štam morì (lo ricorda nelle sue altissime liriche Paul Celan, traduttore anche di Ungaretti e di Valéry) traducendo in russo Dante, Petrarca, l’Ariosto per i suoi compagni di sventura. Né Mandel’štam né Levi (nonostante le sue dichiarazioni) intendevano “trasmettere competenze linguistiche”, “insegnare l’italiano”. Non solo “la lingua”, né solo “la letteratura”, ma l'intera “civiltà italiana”, tutta la civiltà che dal nostro Medio Evo è ancora tangibile nelle piazze dei nostri comuni, nei nostri modi d'essere e di agire, di vivere, di pensare, entrambi vogliono donarla all’anonimo Altro che sopravvive e muore accanto a loro. Questo valeva nella più atroce derelizione esistenziale del Lager, ma vale ancora, sia pure in scala minore, nell'attuale cinica indifferenza di una terra totalmente desolata, che sta perdendo il senso delle proporzioni e la misura dell'umano. Quella civiltà, attraverso quella lingua, attraverso quella letteratura, deve continuare ad essere anche per noi orizzonte e bussola, consolazione e riscatto dell'umano, di fronte a chi «cerca di ridurci a bestie», se non portandoci alla morte fisica, di certo soffocando lo spirito di comunità, la democrazia, la condivisione dei progetti e dei sogni, cioè del futuro. E se «noi bestie non dobbiamo diventare», «per vivere è importante sforzarci di salvare almeno lo scheletro, l'impalcatura, la forma della civiltà»25. 7. Richiamandosi proprio ai Ricordi del sottosuolo, Andrea Battistini ha acutamente riflettuto sulla forza che ha la letteratura di «esercita[re] un processo conoscitivo centrifugo, a differenza della scienza, che invece conosce secondo un movimento centripeto»: proprio perché cerca l’impossibile e il non25 P. Levi, Se questo è un uomo (1958), in Id., Opere complete, a cura di M. Belpoliti, con Introduzione di D. Del Giudice, 2 voll., Torino, Einaudi, 1997, I, p. 35. ancora reale la letteratura riesce a «mettere in luce aspetti dell’esistenza che altrimenti rimarrebbero sotto la soglia dell’attenzione»26. La letteratura è senza dubbio il luogo culturale-formativo fondamentale per la trasmissione ai giovani e la plasmazione imitativa-riflessiva in loro di molte “competenze” (linguistiche, analitiche, di lettura, di scrittura). Tuttavia insegnare ad amare la letteratura significa molto di più: significa insegnare che ci sono cose che non si “imparano”, che ci sono “competenze” rispetto alle quali saremo sempre “incompetenti”, perché non si “acquistano”, non si “comprano”, ma si gustano, si vedono, si ascoltano, si fiutano, si assaporano. La letteratura fa sì che due più due dia cinque, un passo più a nord del confine della realtà che impone il quattro, «cosa assolutamente insopportabile». Essa esercita ad attraversare confini, offrendo al lettore la forza per riportare nello spazio dell'identità, individuale o collettiva, il progetto utopico ma non irrealizzabile di un futuro diverso. Non più legislatore e invece nuovo interprete, ha scritto una volta Romano Luperini, l'intellettuale (io preciso: in modo particolare l'insegnante di letteratura) mostrando come leggere la letteratura, con l'accuratezza del filologo, lo sguardo dell'antropologo, l'attenzione alla complessità dell'ermeneuta, trasforma il suo ruolo in quello di uno specialista della liminarità, che agli allievi insegna la sua rischiosa, necessaria ipercompetenza: «operare sui confini, compiendo un'opera ininterrotta di contrabbando da una frontiera a un'altra, e cioè di traduzione, di trasposizione, di trapianto fra campi di sapere fra loro remoti e fra realtà storiche e sociali sinora prive di reciproca comunicazione. La marginalità dell'insegnante può allora diventare significativa: rappresentando il destino di tutti i marginali può diventare una forza e, insieme, una ragione di nuova identità»27. L'insegnante di letteratura è davvero, nel più ampio significato antropologico, «il signore del limite, l'esploratore dell'oltre, l'eroe della presenza». Proprio in quanto operatore “sui margini culturali”, lavoratore del simbolico sui bordi fra gli spazi incommensurabili dell'episteme, ha la competenza per insegnare a mettere in contatto mondo differenti (presente e passato, vicino e lontano, Europa e Nuovi Mondi, lingue e civiltà incommensurabili), creando sinapsi e reti di inedite connessioni, che diventeranno necessarie mediazioni del senso di nuove comunità: categoria della quale mai come nell'attualità nostra si percepisce ferocemente la nostalgia. Solo la letteratura possiede questa energia ermeneutica. Immergendo i giovani «nel significato di una parola, o in una forma retorica, o in una tournure sintattica, o nell'interpretazione di una frase, o 26 A. Battistini, Due più due uguale cinque. Le plusvalenze conoscitive della letteratura, in «Seicento e Settecento», I (2006), pp. 13-21 (a p. 14). 27 R. Luperini, Insegnare la letteratura oggi, in «Griseldaonline» (www.griseldaonline.it), 23 novembre 2007 (sono le frasi conclusive del saggio). in una serie di espressioni, coniate in qualche momento e in qualche luogo», scriveva Auerbach chiudendo il saggio sulla Filologia della letteratura mondiale, compiremo un esercizio sui dettagli, che ai nostri giorni rischia di apparire inutile: ma se il dettaglio sarà scelto con intelligenza e con passione, la sua interpretazione «deve irradiare tanta forza da fornire un impulso alla storia del mondo»28. 28 E. Auerbach, Philologie der Weltliteratur. Filologia della letteratura mondiale, cit., p. 67.