Scarica un estratto - Fondazione Basaglia

Transcript

Scarica un estratto - Fondazione Basaglia
Domani non andremo a scuola.
L’odore leggero dei pini, questo strano brusio nell’aria,
il nervosismo di Marco -il nostro cavallo- noi li conosciamo.
E poi Alfredo, la trottola, gira su stesso sempre più in fretta.
I segni ci sono tutti: domani arriverà la bora.
La bora è un vento terribile che viene dalla Siberia
e si avventa sulla nostra Trieste, seminando paura.
Trieste diventa la città del vento.
Subito per le strade si tendono corde ai muri perché i passanti,
piegati dal vento, vi si aggrappino. Si direbbe trattengano anche le case.
Le palme sulla passeggiata del lungomare si curvano come poveri vecchi.
Le persone avanzano danzando come marionette, sbattute di qua
e di là, in balia del vento furioso che galoppa come un cavallo pazzo.
La bora fa paura perché provoca molte catastrofi. Rovescia i ciclisti,
strappa i cavi dell’elettricità e del telefono, stacca le tegole dai tetti,
si getta sui lungomari e sradica gli ormeggi che pure i marinai
avevano saldamente legati attorno ai pali.
Chi, malgrado tutto, voglia uscire, si metterà delle pietre in tasca
per non farsi trascinare via. E, quando rientrerà, avrà gli occhi rossi.
È un vento così furioso che può soffiare fino a 140 chilometri all’ora.
È freddo, violento.
Urla tutto il giorno. E la sera, sprofondato nel mio letto,
ben al caldo, io tremo un po’ nel sentire i suoi cupi ululati
d’uccello notturno.
Dicono anche che la bora può rendere pazzi.
Ed è per questo che la regina Maria Teresa d’Austria ha fatto
costruire qui, molto tempo fa, il grande ospedale San Giovanni.
Come molti ragazzi italiani, io mi chiamo Paolo.
Ma non ce ne sono molti che come me abitano in un ospedale.
Un ospedale che non è come gli altri.
Il San Giovanni ospita malati che non hanno male al corpo, ma all’anima.
Questi malati non sanno comportarsi come veri adulti.
Gridano troppo forte o restano a lungo muti.
Parlano da soli e ad alta voce.
Gesticolano come burattini infuriati o restano immobili come statue.
Corrono in tutte le direzioni o camminano molto lentamente,
scivolando tra noi come fantasmi.
Non hanno età.
Ci sono giovani che sembrano vecchi
e vecchi che sembrano bambini.
I loro occhi possono lanciare fiamme o rimanere
completamente spenti. Sono spesso dolcissimi e a volte
cattivissimi. E talvolta così brutti che fa paura guardarli.
Non sanno come ci si comporta a tavola, né per strada.
Né in nessun altro luogo.
Hanno strane idee e paure terribili.
Come Sandro che resta per ore fisso, immobile.
Crede di essere di vetro, quindi si muove molto poco e molto adagio,
perché ha paura di rompersi.
Come Alfredo, la trottola, che passa il suo tempo a ruotare.
Sempre nel senso delle lancette dell’orologio.
Si ferma solo per mangiare e dormire, perché crede che se smette di girare lui,
anche la terra smetterà di girare.
Possono essere molto buffi, come l’uomo dal cappello di neve.
Il suo cappello è un képi, alto come una torre e decorato con un mucchio
di cose che lui raccoglie dappertutto per attaccarcele sopra:
piccoli lembi di stoffa, pezzi di cuoio, pezzi di specchio, pezzi di legno.
Possono essere anche bellissimi, come la signora dalla bocca sempre
dipinta di rosso, ben vestita, e che cammina a piedi nudi, d’estate come
d’inverno. Tiene le scarpe in mano e le scuote senza posa per togliere
un fango immaginario.
I malati del San Giovanni vedono e sentono cose che nessuno vede e sente.
Sono matti.
Mio nonno Giuseppe, che vive con noi, dice che i matti non sanno chi sono.
Ma io, io lo so che sono Paolo, figlio di Lucia, la lavandaia dell’ospedale,
e di Marcello, il pescatore.
Io posso persino riconoscere i miei genitori dall’odore delle mani:
le mani di mia madre sanno di bucato e di biancheria fresca,
e quelle di mio padre di pesce e di mare.
Le mani di mia madre sono screpolate e arrossate, ma conservano
una dolcezza che, quando mi accarezzano gli occhi o i capelli, riconosco.
Come riconosco l’odore e il fiato caldo di Marco, il nostro cavallo,
che trasporta i fagotti di biancheria dell’ospedale e i sacchi dell’immondizia.
Marco va lentamente, al suo passo, perché è stanco.
Quando sono nato io, Marco era già qui
Io non ho né fratelli né sorelle.
A scuola, ho un solo amico: Ernesto Saba.
Gli altri dicono che io vivo con i suonati, i picchiati,
gli svitati che hanno la segatura in testa.
Mi evitano come se la pazzia fosse
una malattia contagiosa. E si attaccasse
come il morbillo o la varicella.
e io salivo sul carretto che lui trainava.
Ernesto è meno stupido.
Un giorno, diventerà poeta.
Ha già scritto dei bei versi sul porto di Trieste
e sul castello maledetto di Miramare che,
con le sue torri dentellate e i suoi leoni
di pietra che guardano il mare,
si direbbe costruito dalle fate.
Uscendo da scuola, con Ernesto, andiamo spesso al molo per guardare
le navi partire. E i loro nomi sono già un viaggio: Orione, Bressana, Borino…
Poi corriamo alla pasticceria di via San Nicolò. E qui compriamo
dei pasticcini, poco costosi, ripieni di crema gialla. Quando siamo
più ricchi, ci regaliamo cioccolatini al liquore, confezionati in belle scatole
di cartone, rosso e bianco, decorate con un ritratto di Mozart.
Conserviamo le scatole per il futuro. Quando saremo grandi
e conosceremo delle ragazze. Offriremo loro le scatole perché vi mettano
i loro segreti di ragazze. Nel frattempo ci godiamo i cioccolatini!
Quando ritorno da scuola, all’ospedale non ci sono amici con cui giocare.
Io sono l’unico bambino del San Giovanni.
Ma Marco mi aspetta.
I suoi grandi occhi, saggi, intelligenti e così dolci, mi attendono impazienti.
Posa il muso sulla mia mano e io lo accarezzo dolcemente.
Gli solletico la piccola macchia bianca a forma di stella che ha sulla fronte.
È come un portafortuna.
Gli racconto la mia giornata e so che mi ascolta perché abbassa la testa
e le palpebre per capire meglio.
Faccio con lui le ultime commissioni in ospedale. E sono io che alla fine
della giornata lo spazzolo e gli faccio brillare il pelo.
Qui, non ho bisogno di un altro amico.
E non voglio pensare al piccolo camioncino bianco che è arrivato
la settimana scorsa e che serve a fare le commissioni nella città vecchia.
Marco è vecchio, molto vecchio. Lo so.
Non voglio pensarci, ma non ci riesco: il piccolo camioncino bianco
è qui per rimpiazzare Marco?
L’ospedale San Giovanni sorge su una collina,
sopra la città vecchia, fra pini, pietraie
e ortensie.
È grande come
un villaggio, con una piazza, una
chiesa, un teatro, un macellaio, un barbiere
e grandi edifici per alloggiare i malati. Ma il parco
è recintato, le finestre sbarrate da grate e le porte chiuse a chiave.
I matti non hanno il diritto di uscire dall’ospedale, che sembra
un villaggio, ma dove sono rinchiusi come in una prigione.
La bora ha smesso di soffiare, ma tutti sono ancora molto nervosi.
Ieri è arrivato un nuovo medico, il dottor Franco Basaglia.
Dicono che sull’ospedale soffierà un vento dieci volte più terribile
della bora più scatenata.
Dicono che viene qui per demolire i muri dell’ospedale, i muri che
lo circondano e impediscono ai matti di uscire.
Dicono che getterà via tutte le medicine, le piccole pillole di tutti i colori,
le camicie di forza e gli apparecchi che mandano corrente elettrica
nel cervello dei malati. Li chiamano elettroshock.
Dicono che vuole guarirli in altro modo.
Nonno Giuseppe sospira:
“Si dicono un mucchio di cose, Paolo. Bisogna aspettare di conoscere
l’uomo, guardarlo fare e ascoltarlo”.
Gli infermieri parlano tra loro. Ci sono due gruppi.
A favore e contro il dottor Basaglia.
Silvio, arrivato da poco, discute con due vecchi infermieri.
“Ma che cosa vuole questo dottor Basaglia?” dice Ettore. “Crede che sia
facile, che i matti possano vivere come tutti gli altri, che basti lasciarli
uscire?”
“Non è facile, ma è semplice” risponde con foga Silvio. “Lui vuole
sostituire i medicinali, gli elettroshock e tutto ciò che abbrutisce i malati,
con le parole e la libertà.”
“Allora vuole soltanto parlargli?” dice prendendolo in giro la vecchia Elena.
“Sì, vuole parlargli e dargli un po’ di libertà.”
Mentre gli infermieri discutono, i matti sono un po’ lasciati a sé stessi.
Vagano per il parco.
L’uomo che crede di essere un albero, lui non lascia quasi mai il parco
perché è lì che c’è la sua famiglia. A furia di parlare agli alberi e di amarli,
ha finito per assomigliargli. Abbraccia i loro tronchi come un innamorato
la sua fidanzata. Nella bella stagione, vuole sempre vestirsi di verde.
SEGUE…