Tiziana Abate • Massimo Bertarelli • Enrico Beruschi Fabio

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Tiziana Abate • Massimo Bertarelli • Enrico Beruschi Fabio
Tiziana Abate • Massimo Bertarelli • Enrico Beruschi
Fabio Bombaglio • Livio Caputo • Alfio Caruso
Cesare Cavalleri • Mario Cervi • Italo Cucci
Mauro della Porta Raffo • Antonio Di Bella
Irene Affede Di Paola • Gianfranco Fabi
Emanuele Farruggia • Marcello Foa • Giandomenico Fraschini
Oscar Giannino • Luca Goldoni • Paolo Granzotto
Ludovica Manusardi • Carlo Meazza
Fernando Mezzetti • Francois Nicoullaud
Alberto Pasolini Zanelli • Silvio Raffo • Fabio Sartorelli
Maurizio Serra • Giovanni Maria Staffieri
Marcello Veneziani • Giuliano Zincone (in memoria)
Anno I
N1
novembre 2013
1
Pubblicazione
indicativamente semestrale
ideata, diretta, edita
da Mauro della Porta Raffo
Maximum Wellbeing
St. Moritz | Engadina | Svizzera
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Vittore Frattini
Globi in Vetro di Murano, (diam. 30 cm.)
Dell’impossibilità oggi
di essere normale
MAURO DELLA PORTA RAFFO
Nero (ma basta non essere bianco).
Gay.
Ateo o al più mussulmano.
Naturalmente, almeno nella percezione delle dominanti anime belle, di sinistra.
Per definizione e senza che si faccia verifica alcuna, perseguitato.
Traumatizzato e per conseguenza con qualche vena di violenza, della quale, per carità, non lo si può certo incolpare.
Meglio, se drogato e/o alcolista.
Più ancora, se autore di un qualche reato.
Ecco il ritratto della persona per la quale oggi il mondo si
spende con grande trasporto.
Certo, difficile - ma possibile - che qualcuno possieda tutte
insieme le elencate 'qualità'.
Ma basta poterne vantare due o tre e si è a posto.
Sei bianco, etero, tranquillo, credente, non sinistrorso, non
crei e non poni problemi, non ti droghi e addirittura non
bevi?
Non conti niente, lo Stato, la società ti trascurano, anzi, ti
disprezzano.
Faranno di tutto per spezzarti le gambe: come ti permetti
d'essere una persona normale?
Qualsiasi cosa sia,
io sono contro.
Groucho Marx
DISSENSI & DISCORDANZE
Pubblicazione indicativamente semestrale
ideata, diretta, edita
da MAURO DELLA PORTA RAFFO
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Numero 1 | novembre 2013
Design grafico e impaginazione
PAOLO MARCHETTI
www.paolomarchetti.net
Webmaster
MICHELE CASTELLETTI
www.uptimevarese.it
www.dissensiediscordanze.it
Anno I N1
ottobre 2013
Pubblicazione
indicativamente semestrale
ideata, diretta, edita
da Mauro della Porta Raffo
1
Vittore Frattini
In copertina:
Vittore Frattini, Lineare Blu (Particolare),
Lumen, 1976, 80x256 cm
INDICE DEGLI ARTICOLI
—DISSENSI&DISCORDANZE—
MAURO DELLA PORTA RAFFO
9
TIZIANA ABATE
13
Il 'vero' John Kennedy
Guardami!
IRENE AFFEDE DI PAOLA
Ridere alla cinese
MASSIMO BERTARELLI
Il western americano
FABIO BOMBAGLIO
Magistrati, responsabilità
civile e referendum
15
19
21
ALFIO CARUSO
23
CESARE CAVALLERI
25
Il congiuntivo
Genitore 1, Genitore 2
MARIO CERVI
Agnus Dei qui tollis peccata mundi
ANTONIO DI BELLA
Un americano a Parigi
GIANFRANCO FABI
Pesare sull'inerzia e alleviare
l'industria
27
29
31
FABIO SARTORELLI
57
MAURIZIO SERRA
61
LETTERA-MANIFESTO DELLA
GEMELLA DI MARCELLO VENEZIANI
63
La musica del dissenso
Chi ci salverà dalle emozioni?
Otto marzo: le donne a casa
—PRE-VISIONI—
LIVIO CAPUTO
71
MAURO DELLA PORTA RAFFO
73
FRANÇOIS NICOULLAUD
75
ALBERTO PASOLINI ZANELLI
79
2063
Usa 2016, John Roberts in corsa
per la Casa Bianca?
Iran nucléaire: le pire n'est pas toujours sûr
Usa 2016: i possibili candidati
—MEMORIE—
ENRICO BERUSCHI
93
ITALO CUCCI
94
Tempi duri per i più buoni
La voce
EMANUELE FARRUGGIA
33
MAURO DELLA PORTA RAFFO
95
MARCELLO FOA
35
MAURO DELLA PORTA RAFFO
97
SILVIO RAFFO
37
MAURO DELLA PORTA RAFFO
100
GIANDOMENICO FRASCHINI
43
DON BACKY
102
OSCAR GIANNINO
45
GIOVANNI MARIA STAFFIERI
108
LUCA GOLDONI
47
GIULIANO ZINCONE (IN MEMORIA DI)
110
Cavour, il patriota liberale
Media e servizi segreti
Vedersi o non vedersi
Taiwan oggi
Un delirio continuo
Esegesi
PAOLO GRANZOTTO
Dissenso, pensiero unico
e verità di Stato
LUDOVICA MANUSARDI CARLESI
Il dissenso nella Scienza e nella Ricerca
FERNANDO MEZZETTI
Mao Zde Dong in privato
49
51
53
Peccato mortale
Un amico, un certo Bruno Lauzi
Rudolf Nureyev come l'ho visto io
Una canzone per Mina
Manoscritti e autografi di
d'Annunzio nel 150° della nascita
Parte lesa
—INTERVISTE—
MAURO DELLA PORTA RAFFO
116
MAURO DELLA PORTA RAFFO
120
Valentina Cortese
Sandro Mazzinghi
4
6
Dissensi & Discordanze
Ogni volta che si fa una cosa
profondamente stupida è per
il più nobile dei motivi.
Oscar Wilde
7
GLI ARTICOLI SONO STATI REDATTI
NEL MESE DI AGOSTO DEL 2013
8
Dissensi & Discordanze
Il ‘vero’ John Kennedy
MAURO DELLA PORTA RAFFO
Nel cinquantesimo anniversario della morte,
Dallas, 22 novembre 1963,
del presidente della ‘nuova frontiera’.
Quanti i film, i libri, i saggi, gli articoli, le ricerche, i documenti sfornati
nel tempo su John Fitzgerald Kennedy, a proposito della sua avventura
umana e politica, riguardo al ‘complotto’ che avrebbe portato al suo
assassinio in quel di Dallas cinquant’anni fa, su Lee Harvey Oswald, sulle
contestatissime conclusioni della ‘Commissione Warren’ e via elencando?
Le poche righe che seguono, nell’intento di uscire
per quanto possibile dalla leggenda
‘L
o strangolatore di Boston’, intenso dramma portato nel 1968 sul grande schermo da Richard Fleischer, vede un ottimo e coinvolgente Tony Curtis
– come poche altre volte, splendidamente lontano
dall’amata commedia – impersonare un operaio schizofrenico di
origini italiane (si chiama Albert Di Salvo) che, in stato di semi
incoscienza, uccide l’una dopo l’altra dodici donne.
Interrogato, non riesce a ricordare quasi nulla del proprio passato ed è talmente assente da non rammentare cosa stesse facendo
il 22 novembre del 1963!
Tutti, in America, infatti, se appena all’epoca avevano capacità di
intendere, hanno bene in mente a quali faccende attendessero nel
giorno (appunto il 22 novembre di cinquant’anni fa) dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, tanto l’accadimento si è impresso indelebilmente nella memoria dell’intera nazione.
Ultima vittima della cosiddetta ‘maledizione dell’anno zero’ (a
partire dal 1840, i presidenti eletti o confermati in un anno con
finale zero sono morti in carica, a seguito di un attentato o per
cause naturali), l’uomo della ‘Nuova Frontiera’ resta nel mito al
punto tale che ogni qual volta la lunga corsa verso la Casa Bianca
prende il via i media immancabilmente si chiedono se sia in vista
un ‘nuovo Kennedy’. ››
9
È proprio dalla mitizzazione del primo ed unico presidente cattolico espresso dagli USA che non si riesce ad uscire, cosicché ben
poche sono le voci – peraltro tutte di seri studiosi – che hanno
cercato in questi cinquant’anni di fornirci un quadro veritiero
dell’attività politica kennediana e dell’eredità politico culturale
che ci ha lasciato.
Alla costruzione della sua leggenda, comunque, John Kennedy
aveva pervicacemente lavorato fin dalla più giovane età, a ciò
indirizzato dal padre Joseph le cui immense fortune economiche
– molto chiacchierate per le sue poco eleganti relazioni con la
mafia che gli avevano consentito di arricchirsi con il commercio degli alcolici durante il proibizionismo – erano state messe
totalmente al servizio della scalata che doveva inevitabilmente
condurlo alla Casa Bianca.
Mai, in tutta la sua non breve permanenza al Senato come rappresentante del Massachusetts, John aveva preso posizioni precise, cercando, invece, su ogni questione di barcamenarsi per non
inimicarsi nessuno.
Basti qui ricordare che nell’oscuro e tristissimo periodo maccartista della ‘caccia alle streghe’ neanche per un attimo il giovane
senatore si era levato a parlare contro le persecuzioni che colpivano gran parte degli intellettuali americani e, massimamente,
quelli di sinistra.
Ancora, quando nel 1956 si era parlato di una sua possibile
presentazione quale candidato alla vice presidenza per i democratici con Adlai Stevenson per cercare di scalzare dalla carica
presidenziale il generale Eisenhower, Kennedy aveva manovrato
abilmente per evitare quella che considerava una iattura (vista
l’estrema difficoltà dell’impresa) e si era, invece, riservato per
momenti migliori.
La sua famiglia fu la prima ad intuire l’enorme potere che già in
quegli anni andava assumendo il mezzo televisivo ed ingenti capitali furono utilizzati per costruire un personaggio – puntando
sulla sua telegenicità – che i media in generale e la TV in particolare trovassero attraente e ‘spendibile’.
Un’attenta campagna di stampa fu condotta, poi, a partire dai
primi mesi del 1959 per presentare il nuovo ‘profeta’ agli americani e al mondo intero.
Si fece in tal modo leva sul suo passato di soldato, sulla moglie
(facendo intendere che Jacqueline Bouvier discendesse da una
nobile famiglia francese, cosa assolutamente non vera), sul suo
aspetto da bravo ragazzo ‘tutto casa e famiglia’ (il che era talmente falso da far ridere chiunque lo conoscesse davvero visto
il suo passato e presente da impenitente sottaniere), sulla sua
prorompente giovinezza.
Anche a quest’ultimo riguardo molte falsità trovarono ampio
credito considerato che non era assolutamente vero che fosse
(come veniva scritto e detto) il più giovane candidato mai proposto da un grande partito per la White House (nel 1896, William
Jennings Bryan, democratico, al momento delle elezioni, aveva
solo trentasei anni) e che, comunque, se eletto, non avrebbe potuto essere il più giovane presidente in carica posto che Theodore
Roosevelt era entrato alla Casa Bianca a soli quarantadue anni.
Nella campagna del 1960 Kennedy trovò l’appoggio – molto
ben compensato – della sinistra intellettuale americana (le cosiddette ‘teste d’uovo’) cui seppe aggiungere il frenetico attivismo
di tantissimi giovani che cercavano in lui qualcosa di nuovo, al
passo con quei tempi ormai pre rivoluzionari (il Sessantotto non
10
era poi molto lontano!). Il famoso discorso della ‘Nuova Frontiera’ che così fortemente condizionò l’andamento dei risultati
elettorali sia nelle primarie che al voto di novembre non era assolutamente farina del suo sacco e fu interamente scritto da un
collaboratore (un ‘ghost writer’ poi allontanato con poca grazia)
sulla base dei sondaggi popolari, effettuati per la prima volta su
larga scala, tesi a conoscere cosa il popolo elettore si attendesse
da un candidato.
Anche questa fu, in fondo, una ben riuscita operazione di marketing così come tutta la costruzione e presentazione del ‘personaggio’.
Una volta eletto – e non dimentichiamo che Richard Nixon, il
suo rivale, fu sconfitto per soli centomila voti popolari in tutto il
grande Paese e che molto ci sarebbe da dire sull’appoggio ricevuto dallo schieramento kennediano da parte della mafia e sui voti
‘fantasma’ (per lui, votarono migliaia di morti!) ottenuti in Illinois
per ‘merito’ del sindaco di Chicago Daily – l’azione politica di
Kennedy fu quanto di più maldestro si potesse immaginare.
È lui che dette inizio alla guerra del Vietnam (anche se nessuno
vuol sentirselo dire) inviando oltre diecimila ‘osservatori militari’
– incredibile eufemismo – a sostenere il corrotto regime del Sud
di quello Stato.
A Kennedy si deve il definitivo allontanamento di Fidel Castro
(che all’epoca non era ancora comunista) e di Cuba dall’Occidente e l’abbraccio all’isola caraibica da parte dell’URSS e del comunismo visto che, invece di riconoscere il buono che pure c’era
nell’azione castrista contro il dittatore Batista, pensò di scalzare
il ‘lider’ cubano autorizzando la cosiddetta spedizione della Baia
dei Porci, finita tanto male che peggio non si potrebbe.
È sotto John Kennedy che si fu ad un passo dalla Terza Guerra
Mondiale, quando, sempre per Cuba e in conseguenza dei suoi
errori, inviò l’ultimatum a Krushev ed il mondo corse davvero un
pericolo mortale.
È contro la sua politica e disprezzando le sue posizioni che, lui
presidente, fu costruito il Muro di Berlino che fino alla sua caduta ha voluto significare il profondo distacco esistente tra i due
blocchi planetari.
È con la presidenza Kennedy che gli USA riprendono la corsa
agli armamenti attraverso un deciso e massiccio riarmo che li
porterà ad affermare vieppiù il loro ruolo di super potenza.
Se questi sono i ‘successi’ del giovane presidente (che arrivò
al punto di nominare ministro suo fratello, cosa mai accaduta in tutta la storia americana!) in politica estera e sul piano
internazionale, che si deve dire del suo operato all’interno del
Paese?
Per quanto avesse promesso di “rimettere ancora in moto l’America”, molti dei suoi punti programmatici furono bocciati od
eliminati visto che i suoi rapporti con il Congresso non si potevano certo definire brillanti e che, in verità, la sua determinazione
veniva spesso a mancare.
Per quel che riguarda i diritti civili (all’epoca, il problema interno
più scottante per gli Stati Uniti alle prese ancora con forme di
violento razzismo nei confronti delle minoranze e in specie dei
neri) la sua opera, in seguito esaltata, fu assai lenta e pochissimo
convinta.
Ancora nel marzo 1963, un Martin Luther King profondamente
deluso lo accusava “di essersi accontentato di un progresso fittizio nelle questioni razziali”. ››
Dissensi & Discordanze
11
Alla vigilia di Dallas tutta la sua politica era ad un punto morto
e neppure la grande abilità e dimestichezza con i media sembravano poterlo salvare (d’altra parte, i democratici avevano perso
le elezioni di ‘medio termine’ del 1962 principalmente a causa
delle già evidenti manchevolezze del loro uomo a White House) tanto che una conferma nella tornata elettorale del 1964
appariva decisamente problematica.
La sua morte improvvisa colpì profondamente il Paese che la
rivisse infinite volte alla TV, la qual cosa rese certamente più
reale che in passato un accadimento non nuovo per gli Stati
Uniti, visto che altri presidenti lo avevano purtroppo preceduto
su quella strada.
Fu così che un uomo sull’orlo della disfatta politica e con un
passato tutto da discutere, improvvisamente, come un martire,
venne da tutti idealizzato e che il suo discutibilissimo operato
venne rivalutato oltre ogni dire. Come afferma Maldwyn Jones
12
nella sua ‘Storia degli Stati Uniti’, a voler essere gentili, “gli anni
della presidenza Kennedy furono molto più ricchi di promesse
che di fatti”.
Si può aggiungere che ben pochi di questi fatti furono veramente
positivi per l’America e per il mondo.
Un’ultima considerazione va poi fatta a proposito dell’atteggiamento di John Kennedy nei confronti delle donne, della moglie
e delle sue numerose e disprezzate amanti tra le quali la povera
Marilyn Monroe.
La puritana America (complice la stampa dell’epoca) che tutti
conosciamo e che ha distrutto la promettente carriera di molti
aspiranti alla presidenza per i loro rapporti extraconiugali,
solo a lui (e, in parte, a Bill Clinton) ha perdonato ogni scappatella, arrivando, addirittura, a glorificarlo per il suo gallismo.
È proprio vero che quando si nasce con la camicia... —
Dissensi & Discordanze
Guardami!
TIZIANA ABATE
G
uardami.
No, non ho detto “dammi un’occhiata”.
Ho detto “guardami”.
Come, dove?
Nell’insieme, no?
Come, perché?
Perché voglio sapere che cosa vedi.
Certo che vedi me, scemo, non c’è nessun altro nella stanza.
Ma possibile che non ci sia niente che ti colpisce?
No, gli orecchini non sono nuovi, me li ha regalati tua sorella per
il compleanno sei mesi fa.
No, guarda bene, provaci almeno.
E dimmi: come mi vedi?
Allora?
Cosa significa “normale”?
Non ti ho chiesto se mi vedi “normale”.
Ti pare che per sentirmi dire che sono “normale” farei tutta questa pantomima?
Appunto, perché la faccio, dici.
E non prendere subito quell’aria rassegnata, da vittima sacrificale sull’altare dell’isteria femminile.
Voglio sapere se mi trovi cambiata.
Come da quando?
Se non sai da quando, vuol dire che non mi guardi mai, è chiaro.
Okay, adesso ti impegni.
Riguardami, allora.
Quanti anni mi dai?
Cosa c’entra che lo sai, lo so che lo sai, ma fai uno sforzo, prova
ad immaginare quanti anni mi daresti se mi vedessi per la prima
volta.
E non sparare a caso, perché se inventi me ne accorgo.
No, non è inutile perché tanto ho già in mente quello che voglio
sentirmi dire: voglio che sia tu a dirlo.
E non sbuffare, cosa ti costa, fai un piccolo sforzo di immaginazione, sei così bravo a trovare scuse quando la sera io voglio le coccole
e tu stai lì come un toner esausto davanti al televisore.
Come sarebbe a dire che per l’appunto adesso mi ci sono messa
proprio davanti e che dopo una giornata d’inferno in ufficio vorresti almeno vedere la partita di Champions?
Invece stasera guardi me.
Ecco, adesso mi metto di profilo.
Secondo te ho la pancia?
No, dici?
Però se mi piego un po’, ecco, così, si vedono subito i rotolini.
Specie con un golfino aderente come questo, lo so.
Con quello rosso che avevo ieri non si vedeva niente?
Ma sei impazzito? ››
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Con quello lì sembro una balena.
Non alzare gli occhi al cielo, non è vero che è tutto inutile perché
tanto qualsiasi cosa tu dica non mi va bene.
Voglio sapere cosa pensi tu.
Sì, la scollatura tiene botta, ma è facile dirlo, questo lo vedo anch’io.
E non fare battute da osteria, non è il momento, è una cosa seria,
lo vuoi capire o no?
Adesso mi giro.
Ecco.
Ti sembra che abbia il culo basso?
Lo so che ce l’hanno anche mia madre e mia sorella, voglio sapere
se lo trovi più basso del solito.
Insomma, mi trovi inflaccidita?
Diciamolo: invecchiata?
Come sarebbe a dire che non si invecchia dietro?
Mica si invecchia solo davanti, ma dove vivi.
Per esempio, uno dei punti peggiori sono le braccia.
Guarda qui, proprio sotto l’attaccatura.
Se le agito sembrano due ali di pipistrello?
14
Come cosa c’entrano i pipistrelli, è la pelle che si rilascia con l’età.
E non dire cosa mi importa delle braccia, mi importa eccome.
Anzi, le braccia invecchiano prima della faccia e quando te ne
accorgi non c’è più niente da fare.
E poi le braccia nude quest’anno sono di gran moda, guarda le
foto sui giornali di Michelle Obama, cosa c’entra che tu non
guardi mai le braccia.
Tanto non ci credo, quest’estate quelle della nostra vicina di
ombrellone le guardavi eccome, mi hai anche detto: quella
deve fare ginnastica dal mattino alla sera, guarda che belle
braccia toniche che ha.
No, non è lì che volevo arrivare, e non sono nemmeno pazza,
comodo cavarsela sempre così.
Sei tu che non capisci, non ti impegni e come al solito hai
voglia solo di chiudere la diatriba alla svelta per guardare la
tivù.
E a proposito: non sei né inglese né catalano.
Mi vuoi spiegare una volta per tutte che cosa te ne importa di
Manchester-Barcellona? —
Dissensi & Discordanze
Ridere
alla cinese
IRENE AFFEDE DI PAOLA
D
ice il sinologo Lin Yu Tang, nato in Cina, ma vissuto in America, che tra una dolce sonnolenza e il
leggere al solo scopo di nutrire lo spirito, c’è una
somiglianza incredibile.
In ambedue i casi il cuore rallenta i suoi battiti, il corpo si distende e la tensione si allenta.
La migliore lettura si fa a letto, quando le membra si rilassano e
la mente si separa dal resto della realtà.
Anche se si legge una storia cruenta, il nostro spirito rimane
rilassato e il fisico allentato perché nel nostro io, prevale la sensazione di non essere parte della storia e di non temere alcun
danno.
Tra le letterature del mondo, quella cinese è, senza ombra di
smentita, la più ricca e affascinante.
Nei suoi cinquemila anni di storia, si dipana su quattro temi ricorrenti di ispirazione: l’ironia, la nostalgia, la natura, la ricerca
del bene e della felicità.
Anche quando gli scritti si rifanno a fatti dolorosi, a vicende erotiche o a storie di fantasmi, i quattro filoni di ispirazione reggono
le trame.
L’ironia è spesso presente persino negli aforismi del Maestro
Confucio e nei versi del massimo poeta Li Bau, ma definirla non
è semplice, di certo sappiamo che ha che fare con la facilità della
lettura e con il riso, dato che , di solito, una lettura ironica è anche divertente.
L’etimologia di ‘ironia’, come tante altre espressioni della nostra
lingua, viene dal greco ‘éiron’ .
Questa parola che con lettura scientifica, dovrebbe essere letta
‘iron’, significa ‘apparire diverso’.
L’ironia, infatti, mostra sotto l’apparenza minima, un significato
importante. Confucio visse nel sesto secolo avanti Cristo.
I suoi pensieri sono espressi in aforismi, cioè in brevi frasi ricche
di senso compiuto, che invitano alla riflessione, molto spesso ironiche, come quando, rispondendo al suo allievo più anziano, che
aveva già i capelli bianchi, disse:
“Tu sei uno sciagurato: da giovane eri sfaticato, da uomo sei stato
inconcludente e da vecchio non ti decidi a morire” ma, ridendo,
gli toccò la gamba con il suo bastone.
In un altro caso, due suoi allievi erano in competizione tra
loro per bravura, ma uno morì, allora quello rimasto chiese
al Maestro:
“Chi è ora il più bravo dei tuoi discepoli?” ››
15
“Nessuno”, rispose il Maestro con nostalgia.
Ci sono poi altri aforismi che seguono il filo ironico, ma di ignota
attribuzione.
A proposito del matrimonio si dice:
“Scegli, scegli e sposi un’oca”.
Molti parlano della rettitudine:
“Il ladro di galline si dà aria da integerrimo, sono tre giorni che non
ruba”.
“Ruba un pezzo di legno e ti chiamano ladro, ruba un regno e ti
chiamano Duca”.
Sul denaro, poi, se ne trovano un bel po’:
“Il denaro parla a Dio, ma dà ordini anche al diavolo”.
“Se il denaro potesse comprare la strada dell’inferno, in casa dei ricchi non ci sarebbero più funerali”.
“Facile vivere da povero, difficile è fingersi
ricco”.
Veri e divertenti quelli sulla vita umana:
“Un nano in mezzo ad altri nani, ha una statura dignitosa”.
“La vita può durare cento anni, ma i suoi
guai sono sufficienti per mille”.
E poi sul bere:
“Se vuoi smettere di bere, guarda da sobrio,
il comportamento di un ubriaco”.
“Bevi solo con gli amici e recita poesie solo
con i poeti (perché gli altri si annoiano)”.
Li Bau, il Dante per importanza della letteratura cinese, vissuto nel VII secolo dopo
Cristo, scrive spesso sul bere, essendo lui
stesso taoista e bevitore.
In una poesia dedicata alla luna e alla sua
brocchetta di vino, dice che nella solitudine
si ritrovano in tre: lui con la brocchetta, la
sua ombra e la luna.
Da sobri, ognuno di loro segue la propria via, ma da ebbri, si disperdono nello spazio fino alla via lattea, mentre la sua ombra ondeggia
divertita dietro al suo passo traballante.
Ancora di Li Bau è l’epitaffio per il suo venditore di vino, chiamato
‘nonno Chi’, che da morto, ebbe l’omaggio nostalgico e divertito del
grande poeta.
RIMPIANTO DI NONNO CHI
Nonno Chi, giù all'altro mondo,
certamente distilla ancora il suo vecchio vino.
Ma, laggiù al buio, se manca Li Bau,
a chi lo venderà?
Il professor Hu Shi, rettore dell’Università di Pechino nella prima
parte del Novecento, amava scrivere versi.
Compose una poesia per il compleanno suo e di sua moglie, che cadevano nello stesso giorno.
Può essere letta anche in prosa.
“Lei interveniva se io durante la mia malattia leggevo.
Diceva sempre: ‘Tu non vivrai!’
Anche io mi arrabbiavo per il fatto che lei si immischiava e le dicevo sempre:
‘Se tu ti arrabbi, io mi ammalerò di più!’
16
Ogni volta che litigavamo però, solo allora era veramente bello.
Oggi è il nostro doppio compleanno, abbiamo stabilito un patto: oggi non
litigheremo.
Ma io non ho potuto trattenermi dal comporre una poesia di compleanno e lei
ha esclamato:
‘Oh no! Ancora scrivi poesie!’
Se non l’avessi nascosta rapidamente, questa poesia, già da tempo, lei l’avrebbe strappata...”
Il componimento, però, più divertente, vero e attuale nel contenuto,
è una poesia di Su Shi, dal nome quasi uguale al precedente poeta,
ma vissuto intorno all’anno mille.
Di lui si tramanda la grande intelligenza e la profonda cultura, unita
alla sagacia politica, tanto che l’imperatore lo volle a corte come
alto funzionario, ma, come spesso succede in
questi casi, l’invidia dei cortigiani e la stupidità dei suoi pari, lo misero in disgrazia
agli occhi imperiali, tanto che fu esiliato più
volte, poi graziato e infine ancora allontanato da corte per la dimora coatta nell’isola di
Hai Nan.
Oggi questo posto è un paradiso tropicale,
pieno di insediamenti turistici, porti, aeroporti e centri-congresso, ma al tempo di Su
Shi, sicuramente era una terra isolata nel
mar cinese meridionale, abitata da una minoranza etnica, detta Miao, che non parlava altro che il proprio dialetto, vivendo in
modo primitivo.
Non c’era bisogno di catene, ci pensava la
natura del luogo con le sue foreste, la lontananza, inoltre, faceva la sua parte.
Là il poeta scrisse la sua più famosa poesia
ironica. In essa immagina di lavare suo figlio e di meditare sul suo
futuro.
Si intitola, appunto,
LAVANDO IL FIGLIO
Tutti vogliono che il proprio figlio sia intelligente.
Io, a causa dell’intelligenza , mi sono rovinato la vita.
Perciò, desidero che mio figlio cresca stupido e lento.
Coronerà una vita beata e diventerà ministro.
Anche oggi, nei discorsi ufficiali dei politici cinesi, talvolta riappare
l’ironia, persino Deng Xiao Ping con la sua famosa frase “non importa che il gatto sia bianco o nero, l’importante è che prenda i topi”
sembra rifarsi all’antico uso dell’aforisma ironico.
Lo ‘humor’ cinese assomiglia un po’ a quello inglese, sottile nell’iperbole, basato su situazioni veritiere, ma improbabili che fanno sorridere e spesso meditare.
Divertenti e dissacratori sono i racconti sugli spiriti, di cui la letteratura fa un filone specifico.
Gli uomini sono spesso alle prese con spiritelli ingenui che non si
accorgono della furbizia umana, oppure, a volte, al contrario, si incontrano fantasmi malandrini che approfittano dell’insipienza degli uomini ignoranti. Più che ironici, questi scritti sono comici e
suscitano una vera risata. —
Dissensi & Discordanze
Se davvero votare contasse
qualcosa non ce lo
lascerebbero fare.
Mark Twain
17
John Wayne in “Sentieri Selvaggi” (The Searchers), 1956
18
Dissensi & Discordanze
Il western
americano
MASSIMO BERTARELLI
C
hiedo sommessamente scusa a Chaplin, Hitchcock,
Billy Wilder e Otto Preminger, che poi a guardar
bene erano inglesi (i primi due) o austriaci (gli altri
due), ma per il me il cinema americano vuol dire
John Ford.
Ebbene sì, vado pazzo per il western, quello vero, meglio se girato nella Monument Valley, mica quello cotto, e troppo spesso stracotto, degli spaghetti.
Per carità, Sergio Leone è un grande e il Clint Eastwood attore ha dimostrato con il tempo di avere ben più delle due sole
espressioni (col sigaro e senza) che gli attribuivano agli esordi
i critici più perfidi.
Ma basta la scena iniziale, bissata anche alla fine, di ‘Sentieri
selvaggi’ per mangiarsi in un boccone tutti i pugni e i dollari
che fecero la fortuna di Leone.
Siamo nel Texas del 1868 e, subito dopo i titoli di testa, una
stanza buia si spalanca di colpo sul paesaggio illuminato dal
sole: roba da restare a bocca aperta per lo stupore, anche se si
rivede il film per la centesima volta.
Per fortuna mia moglie, quando mi scopre in flagranza di replica, non mi chiede più, come faceva tanto e tanto tempo fa:
"ma non l'hai già visto?", la domanda più irritante che si possa
fare a un appassionato di cinema.
Ma questa, come diceva il saggio barista di ‘Irma la dolce’ è
un'altra storia.
Dunque, la scena d'apertura di ‘Sentieri selvaggi’ evidentemente piacque tanto a John Ford, che la piazzò anche alla fine
di quelle due meravigliose ore di grande cinema.
Con una variante: il paesaggio non è più vuoto, ma dominato
dall'ombra gigantesca di John Wayne, che caracollando alla
sua irripetibile maniera, se ne va spavaldo verso un'altra avventura.
Uno spettacolo da far venire le lacrime agli occhi.
E in mezzo c’ è un capolavoro, anche se la trama sembra banale.
Con la quercia umana JW, coraggioso veterano di guerra, deciso a strappare ai Comanches la nipote Debbie.
Un’impresa che lo terrà impegnato cinque anni.
Epico.
Ma la mia passione per il western era cominciata prima di quel
magico 1956.
La scintilla, per l'esattezza, scoccò nel 1953. ››
19
Avevo dieci anni, sufficienti per distinguere il bello dal brutto.
Al cinema Corso di Milano, davano ‘Il cavaliere della valle solitaria’, che papà e mamma avevano giudicato, non so in base
a quali imperscrutabili elementi, adatti alla ma età.
Beh, dire che ne restai affascinato è poco, tanto che credo sia il
film, che ho visto più spesso.
Alan Ladd non è un grande attore, né per statura, né per talento, ma qui è perfetto nel ruolo del pistolero Shane, che s'inventa giustiziere degli oppressi soltanto per amore di giustizia.
Altri tempi, si capisce.
E, oltre all’elettrizzante duello finale con il sadico killer nerovestito Jack Palance, imbattuto cattivo della prateria, c'è
anche una tenera e incredibilmente pudica love story con la
bionda Jean Arthur, fedelissima moglie del candido bovaro
Van Heflin.
Sessant'anni fa bastava uno scambio di sguardi per dire: "Ci
amiamo, ma non possiamo", fantascienza pura per i cineasti
d'oggidì, avvinghiati a lenzuola sfatte.
Quei brevi sospiri allora probabilmente mi fecero sbuffare
d'impazienza.
In seguito li ho ampiamente rivalutati.
Come dire che a volte rivedere un film può servire a comprendere quel che era sfuggito.
Lo ammetto, il western con la W maiuscola mi piace tutto,
anche se non è targato Ford.
Così vado matto per ‘Mezzogiorno di fuoco’, un bianco e nero
del ’52, diretto da Fred Zinnemann, uno dei tanti genii austriaci alla corte di Hollywood.
Vedere il cinquantenne, già tuttorughe, Gary Cooper che ad
Hadleyville, Wisconsin, anno di grazia 1870, va incontro da
solo al treno di mezzogiorno ripieno di banditi, dunque, vederlo in azione e balzare sulla poltrona è quasi un obbligo morale.
Senza dimenticare la radiosa, e fattiva, partecipazione alla resa
dei conti finale della principesca, anche se non ancora principessa, Grace Kelly.
E a proposito di ferrovie, resta indimenticabile ‘Quel treno
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per Yuma’ (Delmer Daves, 1957), un altro splendido bianco e
nero, con Van Heflin ancora bovaro, sempre placido, ma promosso protagonista, che trova il fegato, unico ardimentoso tra
i compaesani fifoni, per scortare sul convoglio delle 3 e 10 il
burbanzoso bandito Glenn Ford, fino al posto che il lestofante
si merita: il carcere di Yuma.
Quanti brividi, ragazzi, conditi dalla voce possente di Frankie
Lane, che intona il melodioso motivo conduttore.
Ma ho divagato.
Mi scuso e finisco da dove ero partito: Ford.
Bastano altri due titoli per dirne la grandezza, uno sempreverde e l’altro, ahimé, ingiustamente dimenticato.
‘Ombre Rosse’ lo ricordano tutti, anche settanta e passa anni
dopo.
E vorrei vedere.
Fu girato nel ’39, l’anno, tra parentesi, che sfornò ‘Via col
vento’.
In nove sulla diligenza assalita dagli Apaches.
Piovono le frecce e i cavalli corrono a perdifiato.
Un film che resta insuperato per tensione e scavo dei caratteri.
Cartellino giallo a chi ancora oggi non freme per quel disperato manipolo, guidato da un giovanissimo John Wayne.
È invece finito nel reparto archeologia un altro bianco e nero
con le stimmate del capolavoro: ‘Sfida infernale’, del ’46.
L’azione si trasferisce dal Texas a Tombstone, Arizona, fermo,
o quasi, restando il periodo di ambientazione: là 1880, qui
1882.
Sullo schermo svettano Henry Fonda e Victor Mature, nei panni rispettivamente dell’intrepido sceriffo Wyatt Earp e dell’ex
medico alcolizzato Doc Holliday.
Appuntamento all’Ok Corral con la gang dei malvagi Clanton.
Un film esemplare per sobrietà, oltre che per suspense.
E che struggimento sulle note di “My Darling Clementine“
dedicate alla bellissima maestrina del villaggio Linda Darnel.
Chi non piange con me peste lo colga direbbe Amedeo Nazzari
buonanima. —
Dissensi & Discordanze
Magistrati,
responsabilità civile e
referendum
FABIO BOMBAGLIO
C
ome noto vengono proposti alcuni referendum sulla Giustizia tra i quali spicca quello sulla responsabilità civile
dei magistrati, sostanziale riproposizione dell’iniziativa del
1987.
I quesiti referendari (due) riguardano la Legge 13 aprile 1988, n. 117
(Risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati) che fu promulgata sull’onda
dei risultati del referendum ricordato sopra in cui l’ottanta virgola venti per cento (80,20 %) dei votanti aveva manifestato opinione
abolizionista.
I nuovi quesiti, in particolare, riguardano
L’abrogazione del secondo comma dell’art 2 (“Nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle
prove”.)
L’ abrogazione dell’ art 5 (Ammissibilità della domanda) chiedendosi,
in sostanza, l’abolizione dei ‘filtri’ che la norma ha previsto per le azioni di responsabilità civile nei confronti dei magistrati.
Per doverosa informazione, l’azione spetta a chi ritiene di avere subito un torto derivante dall’ attività di un magistrato per dolo o
colpa grave (integrano la colpa grave: a - la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; b - l'affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è
incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; c - la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui
esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
d - l'emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione).
Chi si ritenga danneggiato può agire contro lo Stato per ottenere il
risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali
che derivino da privazione della libertà personale. ››
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Il giudizio ha una fase preliminare obbligatoria in cui il Tribunale – entro quaranta giorni da quando il giudice istruttore
gli ha rimesso gli atti – in camera di consiglio provvede a delibare sull'ammissibilità della domanda. Contro il decreto di
inammissibilità sussistono mezzi di impugnazione ordinari che
non è il caso di ricordare in questa sede.
I proponenti i referendum spiegano lo scopo dei quesiti affermando “Con questi due quesiti si intende rendere più agevole
per il cittadino l’esercizio dell’azione civile risarcitoria (indiretta) nei confronti dei magistrati e cioè anche per i danni da
questi cagionati nell’attività di interpretazione delle norme di
diritto o nella valutazione dei fatti e delle prove.”
Scusandomi per la dimensione della premessa (peraltro necessitata dal fatto che se si voterà sulle parole occorre
riportare le parole) in caso di successo dei referendum abrogativi potrebbe invocarsi la responsabilità del magistrato anche per l’interpretazione
delle norme di diritto e per la valutazione del
fatto e delle prove.
Il giudizio non conoscerebbe più alcuna fase preliminare di valutazione di ammissibilità dell’
azione.
Credo che le mie considerazioni siano naturalmente minoritarie perché, allo stato,
la questione si pone come contrapposizione di tifoserie (PM contro Berlusconi) e
pure convinto che veniamo da anni in
cui norme ad personam hanno cercato,
impropriamente, di arginare inchieste e processi ad
personam, credo doveroso uno sforzo di esame critico – e
se necessario autocritico - anche in relazione ai danni irreversibili che possono prodursi in uno dei momenti più
delicati del rapporto di cittadinanza.
A titolo personale – che è l’unico che mi compete –
sono contrario all’ampliamento della responsabilità civile
dei magistrati.
Si può parlare di responsabilità in due accezioni diverse: come attitudine a dare risposte e come dovere di
farsi carico delle conseguenze negative di atti o di
decisioni.
I tempi e l’ambito giuridico privilegiano il secondo significato vagheggiandosi diffusamente un mondo
in cui tutti si sentano garantiti da qualcuno o da qualcosa.
'LFHYD$OHNVDQGU6ROçHQLF\QQHO'LVFRUVRGL+DUYDUG
che “la società occidentale ha scelto la forma dell'esistenza che
le era più comoda e che definirei giuridica” e, a riprova dell’
affermazione che “Se un uomo si trova giuridicamente nel proprio diritto, non si può chiedergli niente di più. Provatevi a
dirgli, dopo la suprema sanzione giuridica, che non ha completamente ragione, provatevi a consigliargli di limitare da sé
stesso le sue esigenze e a rinunciare a quello che gli spetta di
diritto, provatevi a chiedergli di affrontare un sacrificio o di
correre un rischio gratuito… vi guarderà come si guarda un
idiota. L'autolimitazione liberamente accettata è una cosa che
non si vede quasi mai: tutti praticano per contro l'autoespansione, condotta fino all'estrema capienza delle leggi, fino a che
le cornici giuridiche cominciano a scricchiolare”.
In questa catena di garanzie il ruolo del giudice è diventato
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sempre più scomodo perché non è più soltanto interprete della
legge ma è il soggetto tecnico a cui un legislatore fatalmente
in ritardo rispetto al mutamento della realtà (il ‘legislatore
motorizzato’ di Carl Schmitt) affida norme sostanzialmente
non finite perché “le completi” nell’interpretazione applicativa.
In questa situazione di difficoltà oggettiva, la responsabilità
che si pretende di attribuire al magistrato (non dimentichiamo
la richiesta di abolizione del comma “Nell'esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l'attività di
interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del
fatto e delle prove”) credo equivalga a chiedere all’interprete
di assumere in prima persona la responsabilità della norma.
In secondo luogo l’Europa (e l’Italia in maniera speciale) pullula di esperti di doveri altrui (ad esempio, quando si parla di
evasione fiscale tutti gridano allo scandalo ma poi, a sommaria
lettura delle statistiche e a rigore di cifre, molti indignati devono essere anche grandissimi impostori) e il tanto invocato principio “chi paga ci sta attento” è valido fino
a un certo punto, per certe funzioni e molto meno per
altre. Guardate cos’è accaduto in ambito sanitario
a seguito della crescente pressione giudiziaria per
veri o presunti errori diagnostico – terapeutici:
si è fatta strada una sorta di ‘medicina difensiva’ che privilegia la tutelabilità giudiziaria del
personale medico e paramedico rispetto alle
esigenze sanitarie vere e proprie con una serie di comportamenti (per tutti l’ipertrofica produzione di documenti liberatori)
che poco hanno a che fare con la diagnosi
e con la terapia e che sottraggono impegno
e risorse. Un’“amministrazione difensiva della
giustizia” sarebbe ancora più disastrosa perché
il giudicante che volesse tenersi lontano dall’ipotesi di censure finirebbe per accodarsi, preferibilmente, alle opinioni prevalenti nel momento della
decisione.
Siccome credo che la giustizia sia cosa diversa
dalla statistica – e mi fa molta paura una giustizia che le sia asservita (la maggioranza avrebbe
sempre ragione in forza dell’ irresistibile argomento “non saranno mica tutti cretini...”) - credo che il
rispetto dovuto al giudice sia quello dovuto ad un uomo
(che può, come tale, sbagliare) che mantiene la sua individualità, che decide perché crede nella sua decisione e non per
evitare guai di natura civilistica.
Sono opinioni personali e basta, ma pensare che il giudice decida tra tesi contrapposte scegliendo quella “che gli evita grane”
mi sembra ipotesi da rifuggire. Non solo perché aumenterebbe
a dismisura la forza di chi ha poteri di indirizzo di opinione
pubblica, ma anche perché sarebbe insolente nei confronti di
chi ha pagato prezzi estremi per decisioni prese sulla base del
diritto e della coscienza individuale.
Per secoli hanno fatto passare per giudice pessimo, per uno
che se ne lavava le mani, per uno che non aveva il coraggio
di decidere, Ponzio Pilato, in realtà garantista nei confronti
dell’imputato e dell’ordinamento giuridico della Giudea.
Non disseminiamo di bacinelle d’acqua i nostri tribunali. —
Dissensi & Discordanze
Il congiuntivo
ALFIO CARUSO
I
n fondo avremmo potuto intuire che il crollo del congiuntivo nella lingua parlata anticipava il crollo delle piccole
regole del nostro vivere quotidiano così come il crollo del
muro di Berlino anticipò il crollo del comunismo.
Il congiuntivo, infatti, rappresenta un rispetto puntiglioso della
sintassi mal digerito da generazioni di studenti attratti dalla comodità dell’indicativo e convinti di non commettere una grave
infrazione nell’usare il secondo al posto del primo.
Lo stesso sentimento coltivato dai ciclisti che scorrazzano con
la bici sui marciapiedi, dagli automobilisti che parcheggiano la
vettura dinanzi agli scivoli per i disabili, dai passanti che con il
semaforo sul giallo si lanciano nell’attraversamento di strisce pedonali lunghe venti metri, si trovano con il rosso a metà dell’attraversamento e inveiscono contro le macchine che vorrebbero
passare.
Nessuno è sfiorato dal dubbio di commettere una trasgressione
capace, per quanto lieve, d’intaccare il combinato disposto del
nostro stare insieme.
Poi ci meravigliamo di una classe politica, colpevole di ripetere
sul palcoscenico i comportamenti che teniamo dietro le quinte.
I milleduecento probi cittadini di Rosolini, pronti a sottoscrivere false autocertificazioni per risparmiare il ticket sanitario, costituiscono la migliore spiegazione del perché in Italia abbiamo
inventato il costo della politica, cioè consentire a seicentomila di
noi di vivere a sbafo.
Alzi la mano chi ha mai capito l’importanza dei consigli di zona,
fatta eccezione dei consiglieri medesimi e dei presidenti, destinatari di pingui gettoni di presenza, e poi, salendo per li rami, del
Tar e del Consiglio di Stato, lobbies micidiali messe lì a complicare la vita di tantissimi di noi e a procurare prebende agli adepti.
Per acquisire la fluidità necessaria a onorare il congiuntivo da
mattina a sera servivano la pazienza, la tenacia di schiere d’insegnanti e il rigore dei genitori.
Finché la famiglia e la scuola hanno retto, finché ci sono stati padri e
madri persuasi che l’insufficienza o la bocciatura del figlio non fosse
addebitabile al malanimo dei professori e finché questi hanno creduto di esercitare una missione, non di svolgere un lavoro salariato, ››
il congiuntivo è rimasto sulla breccia a ricordarci l’importanza
della forma, la prevalenza del dovere sulla comodità.
Il congiuntivo valeva la soddisfazione di un lavoro ben fatto, ma
non procurava attestati di benemerenza, men che meno buoni
acquisti, biglietti gratuiti, riduzioni di tasse, tariffe scontate.
D’altronde il disattenderlo non procurava gravi sanzioni: al massimo un po’ di esecrazione mista a ironia.
Ma chi sa più che cosa sia l’esecrazione scevra da pene, da multe,
da afflizioni? ››
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Il Paese, anzi, comincia a riservare agli sperti e malandrini la
stessa attenzione mista ad apprezzamento fin qui prerogativa
della Sicilia.
Di conseguenza appare normale che sui giornali e in televisione
Pomicino disquisisca di legalità nella politica e Moggi di legalità
nel calcio.
Dalla politica al calcio l’indulto è la regola costante.
Abbiamo tutti sotto gli occhi l’osceno perdonismo che continua
a benedire lo scandalo pedatorio.
Diventeremo mai come gli Stati Uniti, dove i Suns Phoenix persero un probabilissimo titolo nella Nba del basket per un’eliminazione nei quarti di finale a causa della squalifica di due fondamentali
giocatori, colpevoli di aver oltrepassato di tre centimetri - misurazione effettuata in tv - la zona off limits fuori dal parquet? —
Ma mi facc
i il piacere!!
!
24
Dissensi & Discordanze
Genitore 1,
Genitore 2
CESARE CAVALLERI
M
a, insomma, vogliamo finirla con questa storia del
‘Genitore 1’, ‘Genitore 2’?
Con deprimente provincialismo (l’hanno fatto in
Francia, dunque facciamolo anche noi) ci si è messo
dapprima un assessore (un’assessrice) veneziana, poi il comune di
Bologna, poi si è fatta avanti anche la ministra Cécile Kyenge, alla
quale è garantita l’immunità dalla critica perché è nata nella Repubblica Democratica del Congo.
Ci si può anche ridere su: ‘Genitore 1’ sarebbe l’uomo o la donna?
E in presenza di coppie omosessuali, come si fa?
In ogni caso, 1 o 2 è pur sempre una gerarchia, tutt’altro che una
parità.
E siccome la proposta è rivolta soprattutto alla legalizzazione paritaria di unioni omosessuali e biotecnologiche, sarebbe difficilissimo scegliere fra i ‘soggetti genitoriali’ che possono arrivare perfino
a cinque: il donatore e la donatrice di gameti, l’ospitante in utero,
il genitore/genitori ‘adottivi’, con quali conseguenze sull’identità
dei figli così prodotti non è difficile immaginare.
Linguisticamente, poi, ‘genitore’ richiama più esplicitamente che
non ‘padre’ o ‘madre’, l’atto generativo che in molte delle fantasiose combinazioni ipotizzate non sarebbe stato compiuto dal
‘Genitore 1’ o dal ‘Genitore 2’, o da entrambi.
Sì può anche scherzarci sopra, ma la questione è estremamente
seria, perché è antropologica e metafisica.
Antropologicamente, si deve prendere atto che l’uomo nasce maschio o femmina, e che la maschilità e la femminilità non si riducono all’apparato generativo, ma sono iscritte in tutte le cellule
dell’uomo e della donna.
Questa ‘differenza’ (non ‘diversità’) è rivolta alla complementarità
affettiva e procreativa.
Quando è nato il ‘royal baby’, i giornali inglesi hanno titolato “It’s
a boy”, è un bambino, un maschietto.
Non hanno scritto: “È nato l’erede al trono! Aspettiamo qualche
anno per vedere se sceglierà di essere uomo o donna”.
La teoria del gender, secondo la quale l’identità sessuale è un accessorio culturale, con opzione a piacere, metafisicamente e logicamente nega il principio di realtà, e propone un’etica fondata sul
desiderio, con le pericolose conseguenze sociali evidenti per chi,
appunto, non rinuncia al principio di realtà.
Siccome, infine, la questione del gender sconfina in quella dell’omosessualità, trascrivo le parole definitive del Catechismo della
Chiesa cattolica, ai nn. 2357-2379: ››
25
2357, L'omosessualità designa le relazioni tra uomini o donne che provano un'attrattiva sessuale, esclusiva o predominante, verso persone del
medesimo sesso. Si manifesta in forme molto varie lungo i secoli e
nelle differenti culture.
La sua genesi psichica rimane in gran parte inspiegabile.
Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omosessuali come gravi depravazioni, la Tradizione ha sempre dichiarato che
“gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati”.
Sono contrari alla legge naturale.
Precludono all'atto sessuale il dono della vita.
Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessuale.
In nessun caso possono essere approvati.
2358, Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta ten-
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denze omosessuali profondamente radicate. Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una
prova.
Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza.
A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione.
Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita,
e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione.
2359, Le persone omosessuali sono chiamate alla castità.
Attraverso le virtù della padronanza di sé, educatrici della libertà interiore, mediante il sostegno, talvolta, di un'amicizia disinteressata, con
la preghiera e la grazia sacramentale, possono e devono, gradatamente
e risolutamente, avvicinarsi alla perfezione cristiana. —
Dissensi & Discordanze
Agnus Dei
qui tollis
peccata mundi
MARIO CERVI
N
ella mia ‘stanza’ sul Giornale dialogo con i lettori.
Mi sono annotate le loro preferenze e – capita - le
loro intemperanze.
Tralascio qui i temi di stretta attualità politica, che
sono insieme incalzanti e transeunti, e faccio una piccola rivelazione.
La questione cui si sono più appassionati gli amici che mi scrivono
non era politica, non era ideologica e nemmeno storica (anche se
nella ‘stanza’ la storia la fa un po' da padrona).
Era una questione linguistica.
Vi spiego.
In una risposta avevo accennato al fatto che la traduzione italiana
dei testi della Messa pecca di sciatteria.
A riprova della mia affermazione avevo citato la frase "agnello
di Dio che togli i peccati del mondo", versione italiana del latino
"agnus Dei qui tollis peccata mundi".
Ma il "tollis peccata mundi" non significava togliere i peccati..
Significava invece che l'Agnello di Dio sopportava, portava sulle
sue spalle, i peccati del mondo.
Il pubblico del Giornale ha mediamente una buona cultura di
stampo umanistico.
Su quel problema linguistico i lettori si sono avventati impetuosamente.
Alcuni giustificavano la colloquialità disinvolta della versione italiana.
Altri rimpiangevano la solennità del latinorum.
Un bello scambio di idee durante il quale ebbi modo di ricordare
che della Messa nelle lingue nazionali s'era occupato,prima che la
riforma venisse attuata, Luigi Einaudi.
E aveva spiegato di capire l'opportunità pratica del cambiamento,
la liturgia celebrata con la parola di tutti. Ma aggiungeva che quel
latino chiesastico era entrato, in un lungo susseguirsi di generazioni, nell'intimo dei credenti.
Le parole misteriose del rito avevano assunto una comprensibilità
più alta di quella letterale.
Erano capite pur non essendolo.
Voglio accennare qui solo a un altro argomento che ho dovuto ››
27
affrontare e per il quale ho ricevuto qualche approvazione ma soprattutto critiche e insulti.
L'argomento era il regno del sud, borbonico e prerisorgimentale.
Sono, personalmente, un risorgimentalista antileghista.
Credo che il Risorgimento, anche se attuato - nessuno può negarlo - grazie alle tre vittorie straniere di Soloferino, di Sadowa e di
Sedan, sia stato un grande miracolo.
Questi sentimenti li ho espressi scontrandomi con l'ostilità di una
folta pattuglia di nostalgici dell'ancién régime.
Ferratissimi nel citare dati dai quali risulta evidente la prosperità
e ricchezza del regno borbonico, in contrasto con lo squallore sabaudo.
Ribattevo osservando che se un Regno non costruisce strade e non
si interessa delle scuole tollerando un novanta per cento di analfabeti può mettere da parte un bel po' di soldini.
Ma i borbonici - alcuni dei quali sono molto simpatici e intelligenti
- non demordono.
Volano anche male parole.
Ma che bellezza queste battaglie culturali in confronto alla miseria
di certe polemiche odierne. —
Matthias Grünewald, Agnello di Dio, particolare della Crocefissione
28
Dissensi & Discordanze
Un americano
a Parigi
ANTONIO DI BELLA
C
ondivido con Mauro della Porta Raffo uno sviscerato amore per l'America, la sua cultura, la sua storia, i suoi valori.
Amore rafforzato dai miei anni da corrispondente per la
Rai a New York.
Così quando sono sbarcato in Europa per il mio nuovo incarico di
corrispondente, a Parigi, il mio atteggiamento è stato inizialmente
‘yankee’. ‘Noi’ americani chiamiamo con ironia i francesi ‘frogs’, li riteniamo incapaci di vincere alcuna guerra (da Napoleone in poi) ci
irritiamo di fronte alla loro ‘grandeur’, non ci va giù che in Francia si
celebri non la liberazione, come in Italia, ma la Vittoria.
E ancora ci brucia che De Gaulle sia riuscito a farsi dare una fetta della
Berlino occupata, quasi fosse un vincitore, non un perdente liberato
dai nostri marines.
Così, quando il governo francese ha battuto i pugni sul tavolo chiedendo che tutta la produzione culturale (audiovisiva e non) sia extrapolata
dal nuovo accordo commerciale Europa/Usa ho inizialmente provato
irritazione. Ma come, mi dicevo, nel momento in cui dobbiamo fare
fronte comune, americani ed europei, contro le minacce commerciali
emergenti di Cina, India e Brasile, voi francesi cominciate a spaccare
il capello in quattro sull'intangibilità della cultura?
Poi ho incontrato il ministro della cultura francese.
È una donna giovane e affascinante, Aurelie Filippetti, figlia di immigrati italiani. Suo padre, umbro, faceva il minatore.
Mi ha spiegato con calma che se l'Europa ha qualche chance di salvarsi nell'economia del futuro deve puntare tutto sulla specificità della
propria cultura.
I cinesi potranno copiarci tutto ma non potranno clonare Federico
Fellini e René Clair. Ma i Fellini e i René Clair di domani verranno
strozzati nella culla se l'Europa non li proteggerà dalle ‘portaerei’ del
cinema americano che conquistano il pubblico a suon di miliardi.
In un pomeriggio, complice madame Filippetti, le mie certezze yankee hanno cominciato a vacillare.
È vero che se penso ai film italiani promossi dallo Stato mi viene da
invocare Rambo o Callaghan forever.
Ma cattive singole scelte non inficiano il principio di fondo.
Amo i McDonald ma voglio che nella mia città sopravvivano le trattorie e per ottenerlo sono pronto a rinunciare (in parte) al mio credo
liberista.
Così per il cibo, così per la cultura.
Mi perdonerà il mio fratello maggiore americano Mauro?
Non lo so, ma se penso alla sua Luino e alle osterie dove andava Piero
Chiara spero di sì. —
29
Carlo Cattaneo, scultura presente alla Camera dei Deputati, Roma. Autori: Fratelli Poletti e Ghio, Carrara
30
Dissensi & Discordanze
Pesare
sull’inerzia
e alleviare
l’industria
GIANFRANCO FABI
Attenzione.
Questo è un articolo politicamente scorretto e di trasgressiva incostituzionalità.
Se ne consiglia la lettura quindi solo a un pubblico privo di pregiudizi ideologici e di schemi mentali rigidi.
“A
nche i ricchi piangano” così nel 2007 un manifesto
di Rifondazione comunista sintetizzava, con l’immagine di uno yacht, una palese volontà di vendetta sociale ribaltando completamente quello che avrebbe
dovuto essere il vero slogan di una forza sociale di sinistra “anche i
poveri sorridano”.
Il partito delle tasse, soprattutto sui ricchi, non ha mai smesso di avere
proseliti nella convinzione, tutta ideologica, che la ricchezza debba essere considerata in ogni caso conseguita come un furto verso i poveri,
come un’appropriazione indebita di un patrimonio creato da altri.
Tutto deriva da un’applicazione acritica e strumentale della teoria
del plusvalore, uno dei capisaldi del pensiero di Karl Marx secondo
cui il capitalista sempre e comunque si appropria almeno di una
parte del valore creato con il lavoro dagli operai.
Seguendo questo filo logico lo Stato si sente legittimato ››
a recuperare attraverso le tasse una parte di questo plusvalore ed è
in fondo da questo che deriva la progressività dell’imposta.
Ci si deve allora chiedere quali sono, al di là delle ideologie, i compiti di uno Stato realmente efficiente ed efficace.
Creare le condizioni per lo sviluppo dell’attività economica
innanzitutto.
Quindi regole semplici e chiare, di rapida e non discrezionale applicazione.
Ma anche sostenere le motivazioni giuste per chi vuole e può ‘fare
impresa’. ››
31
Certo, lo Stato ha anche un compito fondamentale di giustizia sociale, di aiuto ai più deboli, di sostegno ai poveri: ma questo obiettivi
possono essere tanto più facilmente raggiunti quanto più forte è la
crescita economica, e quindi la creazione di ricchezza, e quanto più è
efficiente la macchina amministrativa nel fornire i servizi che i cittadini giustamente aspettano dal sistema pubblico, come l’assistenza
e la sanità.
Allora può sorgere un dubbio.
Non sarebbe più efficiente un sistema dove la creazione di ricchezza
e di valore venga premiata (e non punita con aliquote fiscali sempre
più alte)?
Non sarebbe più giusto che la capacità non solo imprenditoriale, ma
anche artigianale, professionale, manageriale, venga sostenuta perché la creazione di valore, di posti di lavoro, di occasioni produttive
è in fondo una crescita per tutta la società?
È su questi presupposti che qualche giovane economista, immediatamente messo a tacere, ha avanzato negli anni scorsi la proposta
della flat tax, cioè di una aliquota unica che avrebbe il vantaggio di
semplificare il sistema fiscale, di permettere una più efficace lotta
all’evasione, di stimolare la crescita economica.
E se la flat tax venisse accompagnata da una ‘no tax area’, cioè da
un’esenzione dalle imposte per i redditi più bassi, sarebbe salvaguardato, non solo formalmente, il principio di progressività.
Come recita l’art.53 della Costituzione il sistema tributario deve essere infatti “informato a criteri di progressività”.
Ma l’ipotesi di flat tax viene considerata praticamente eversiva.
Eppure basterebbe rileggere alcune pagine di Carlo Cattaneo, citate
peraltro anche come esempio illuminante da Luigi Einaudi nel suo
libro ‘La terra e l’imposta’, per riflettere in maniera del tutto nuova
sul sistema fiscale.
Siamo nel Settecento e – racconta Cattaneo – “il nuovo Governo
chiamò successivamente a cooperare alla grande rinnovazione della
Lombardia le belle e generose intelligenze di Pompeo Neri, di Gianrinaldo Carli, di Cesare Beccaria, di Pietro Verri.
Si stabilì un nuovo censimento che mirava a collocare l’imposta sul
32
valore fondamentale del terreno, anziché sul variabile annuo reddito
e sulla personale condizione dei possessori.”
Quindi un’imposta basata sul valore del terreno, quasi come l’Imu,
che era destinata a rimanere invariata senza tener conto dell’eventuale incremento di valore o del reddito che da questo terreno poteva derivare.
Ma riprendiamo il racconto di Cattaneo:
“Il suo principale effetto fu di pesare sull’inerzia e di alleviare l’industria perché, ferma stante la proporzione della tassa sull’estimo
una volta pronunciato, le migliorie successive rimangono esenti; e
il fondo tanto meglio è coltivato, viene a pagare una tanto miglior
quota del frutto.
Non passarono dieci anni che vasti tratti sterili si videro coperti da
ubertose messi”.
È fantastico quel “pesare sull’inerzia e alleviare l’industria”, in pratica punire i fannulloni e aiutare chi invece chi si “industria”, chi
usa la propria passione, la propria volontà, il proprio ingegno per
migliorare.
Commenta ancora Cattaneo “qual sapienza e fecondità in questo
principio al paragone di quelle barbare tasse che presso colte nazioni
si commisurano ai frutti della terra e agli affitti delle case, epperò
riescono vere multe proporzionali inflitte all’attività del possessore”.
Pur nella prosa aulica del Settecento si coglie tuttavia un’indicazione
di fondo: il sistema fiscale può essere un elemento per valorizzare il
lavoro, per incentivare la creatività da una parte e la produttività
dall’altra.
Ma deve essere un sistema capace di affiancare l’attività economica
senza ostacolarla, capace di creare incentivi (e non punizioni) per chi
fa il proprio dovere di cittadino utilizzando le proprie capacità per
creare valore per la società.
Certo, è politicamente scorretto dire che il fisco deve premiare i ricchi. Ma forse è anche il momento di chiedersi se sia giusto continuare le politiche che negli ultimi vent’anni hanno portato la pressione
fiscale a livelli record e insieme alla stagnazione economica, al declino industriale, al crescente disagio giovanile. —
Dissensi & Discordanze
Cavour,
il patriota
liberale
EMANUELE FARRUGGIA
H
o rinvenuto casualmente presso una libreria
antiquaria di Vienna una biografia di Camillo Benso
conte di Cavour della nobildonna di origine britannica Evelyn Lilian Hazeldine Carrington, contessa
Martinengo Cesaresco, pubblicata a Londra nel 1898.
Evelyn Cesaresco Martinengo, il cui suocero aveva preso parte alle
Dieci Giornate di Brescia, scrisse alcune opere di divulgazione sul
Risorgimento italiano, tra cui ‘Italian Characters in the Epoch of
Unification – Patriotti Italiani’ e ‘The Liberation of Italy (18151870)’, oltre alla biografia di Cavour, tutte, più o meno, apologetiche e smaccatamente filo-italiane.
Non si tratta certo di un’opera inedita (è reperibile in e-book su Gutenberg) né fondamentale per gli studi cavouriani, ma si tratta pur
sempre di uno spunto interessante per alcune riflessioni.
In particolare, da questa appassionata biografia, emerge la simpatia
con cui da oltremanica si guardava al nostro Risorgimento ed allo
stesso Cavour.
Cosa resta dell’eredità di Cavour?
Sembrerebbe il titolo di un convegno di storici o di vecchi liberali se
non fosse che, per l’assoluta identificazione dello statista piemontese
con la causa nazionale, l’eredità di Cavour è costituita dallo stesso
Stato italiano.
Dopo gli eccessi di retorica delle celebrazioni per i centocinquant’anni dell’unità d’Italia, sul finire dello stesso anno, il 2011,
lo Stato italiano ha dovuto accettare diktat esterni, cambiare governo sotto la pressione di Stati stranieri e, perfino, della stessa
stampa britannica che aveva plaudito, nel 1861, alla sua nascita.
Le limitazioni alla sovranità nazionale, una delle conseguenze
dell’abdicazione alla sovranità monetaria, ricordano molto quelle
imposte dal vincitore dopo una guerra perduta.
“ Je suis italien avant tout, et c’ést pour faire jouir à mon pays du
‘self government’ à l’intérieur comme à l’extérieur, que j’ai entrepris la rude tâche de chasser l’Autriche de l’Italie sans y substituer
la domination d’aucune autre Puissance “. Cosí scriveva Cavour a
Massimo d’Azeglio nel 1860.
Nel ‘self government à l’intérieur comme à l’extérieur’ risiede tutta l’eredità di Cavour, ovvero l’indipendenza nazionale come ››
33
condizione imprescindibile di un governo liberale all’interno che
Si deve tuttavia ricordare che, durante il dibattito in seno alla
consentisse agli italiani, di affrancarsi da secoli di dominazione
Costituente, le argomentazioni più consistenti e fondate contro
straniera e di oppressione domestica.
l’istituzione delle regioni vennero avanzate dagli eredi storici
La rimozione delle influenze straniere dalla penisola, che per sedella tradizione risorgimentale, come Benedetto Croce e Francoli ne avevano garantito la frammentazione e mantenuto l’Italia
cesco Saverio Nitti, i cui moniti circa le conseguenze dell’ordiin uno stato di arretratezza economica, era la condizione necesnamento regionale sulle finanze dello Stato suonano oggi prosaria per il ‘Risorgimento’, senza la quale non sarebbe mai stato
fetiche.
possibile lanciare quel profondo processo di trasformazione che
L’opposizione ai “venti stivaletti”, come li definì efficacemente
ha gettato le basi del moderno Stato italiano.
Giovannino Guareschi, venne curiosamente condivisa (ma neLa ‘cacciata’ dell’Austria non portò, come ai tempi del primo Naanche tanto, data la struttura centralista del PCI), anche da Topoleone, ad una rinnovata egemonia francese ma, grazie all’efficagliatti, che temeva il formarsi di microstati.
ce e spesso spregiudicata diplomazia cavouriana, volta a sfruttare
In seguito, tuttavia, il partito del ‘migliore’ risultò uno dei prinabilmente i timori britannici di un rafforzamento della Francia nel
cipali beneficiari - nel corso della ‘lunga marcia’ di avvicinamenMediterraneo, alla creazione di uno Stato italiano indipendente
to al potere - della creazione delle Regioni.
anche se perfettamente integrato nel concerto europeo.
Nella stessa nazione spesso presa a modello da Cavour e dai
Il ‘Self Government’ all’interno, nel disegno cavouriano, avrebbe
suoi seguaci, la Gran Bretagna, la recente ‘devolution’, che ha
dovuto liberare le energie imprenditoriali attraverso la rimozioportato all’istituzione dei parlamenti e dei governi regionali, ha
ne delle barriere agli scambi ed all’integrazione economica della
comportato un significativo incremento delle spese statali olpenisola rappresentata dagli Stati preunitari.
tre ad aver fatto balenare la minaccia dell’insensata ‘secessione
Per conseguire tale obiettivo, Cavour, lungi dal porre le basi di
scozzese’, che finirebbe per ulteriormente declassare il Regno
un’egemonia piemontese, sacrificò gli interessi dello Stato sardo,
Unito in Europa. ‘Self Government’ all’interno, tuttavia, nel contead esempio accettando il sacrificio di Nizza e della Savoia, come
sto attuale, può essere visto anche come la permanente indicazione
prezzo da pagare per l’annessione di Emilia e Toscana: Cavor,
per una società nella quale il ruolo dello Stato - lo stato centrale
inoltre, pur non avendola mai visitata, fissò chiaramente l’obietovvero la costellazione di enti locali, a cominciare dalle Regioni - sia
tivo di fare di Roma la capitale del nuovo Stato, al posto di Toriridimensionato, a vantaggio dell’iniziativa privata e del mercato.
no, forse più allora attrezzata a svolgere tale ruolo.
Sotto questo aspetto, la storiografia ha sempre sottolineato il ruoIl termine ‘Self Government’ utilizzato da Cavour, si riferisce anlo importante attribuito da Cavour all’intervento pubblico, specie
che all’organizzazione dello Stato che egli auspicava più ispirato al
nel settore delle infrastrutture e dell’istruzione, dimenticando, tut‘local government’ britannico che al centralismo napoleonico.
tavia, la sua strenua battaglia a favore del libero scambio.
L’appoggio di Cavour alla proposta avanzata di Minghetti – poi
Il successo del Cavour statista ha poi messo in secondo piano le
respinta dalla Camera – volta ad introdurre forme di autonomia
fortune dell’imprenditore agricolo, che ne fecero uno degli uomiregionale, è stata interpretata, col senno di poi, come una prefeni più ricchi del Piemonte.
renza dello statista piemontese per un
Nella tenuta modello di Leri, di cui Caordinamento simile a quello istituito
vour si occupò sino agli ultimi giorni, egli
in età repubblicana se non, addirittuintrodusse alcune moderne tecniche di
ra, per il federalismo.
coltivazioni apprese in Inghilterra e l’eIn realtà sembra che Cavour si rendeslevata redditività da essa raggiunta testise ben presto conto che l’introduzione
monia dello spirito imprenditoriale e deldi elementi di autonomia regionale nel
la propensione al rischio di impresa che
nuovo Stato ne avrebbe probabilmencaratterizzano la figura di Cavour e che
te minacciato l’esistenza, reintroduritroviamo nella sua azione di governo.
cendo i particolarismi e le inefficienze
Italiano, anzi, arcitaliano, e liberale, statiche l’annessione degli Stati preunitari
sta ed imprenditore, uno dei pochi uomiaveva consentito di superare.
ni politici italiani che non provenisse dalA ciò si aggiunge la sua stessa esperienla professione forense e con una spiccata
za di amministratore quale sindaco di
propensione per la matematica, amante
Grinzane, che gli aveva fatto apprezdel rischio ma totalmente dedicato alla
zare i vantaggi, per le caratteristiche
causa nazionale ed al servizio dello Staitaliane, del decentramento a livello
to, un uomo perfettamente a suo agio
comunale e, al massimo, provinciale.
all’estero quanto a disagio entro i confini
L’ordinamento articolato su comuni
angusti (fisici ma soprattutto culturali)
e province ed incentrato sulla figura
della sua nazione, insomma, una figura
del Prefetto, che Ricasoli estese al
talmente distante dal paradigma ricorresto d’Italia dopo la morte di Carente sulla nostra scena politica da farci
vour, venne duramente contestato
seriamente dubitare della sua esistenza.
dai fautori del regionalismo, che alla
Eppure è esistito e, nonostante tutto e
fine riuscirono, con la Costituzione
nonostante Garibaldi, l’Italia l’ha fatta
del 1948, a far prevalere le loro tesi.
sul serio. —
Camillo Benso conte di Cavour
34
Dissensi & Discordanze
Media e
servizi segreti
MARCELLO FOA
È
molto improbabile che i servizi segreti di una
democrazia occidentale intervengano direttamente su un
giornalista.
Per intenderci: è inverosimile che qualcuno telefoni a un
cronista o addirittura al direttore di una testata intimandogli di non
pubblicare un articolo.
In trent’anni di carriera non mi è mai capitata una circostanza del
genere, né mi è stata raccontata da colleghi.
Ciò nonostante è innegabile che i servizi segreti di una grande potenza come gli Stati Uniti abbiano la possibilità di condizionare i
media in una maniera così sofisticata da sfuggire alla consapevolezza
degli stessi giornalisti.
Come fanno?
Non certo – o non solo – con gli agenti dei servizi segreti infiltrati
nei giornali.
Lo 007 che dissimula la propria identità assumendo quella del reporter è un classico dello spionaggio ed è una copertura che viene
usata non solo in Paesi lontani per permettere all’agente di muoversi
avendo un alibi molto forte (l’inviato speciale per sua natura è un
ficcanaso), bensì anche all’interno delle redazioni.
Per quanto utili, queste operazioni però hanno un’efficacia limitata.
Il vero condizionamento avviene a un livello più alto quando si riesce
a orientare l’insieme dei media, a impiantare ad arte convinzioni o
paure o ideali, a screditare interlocutori scomodi, a stabilire – senza
costrizione – cos’è e cosa non è politicamente corretto.
Come fanno?
Ricorrendo a degli specialisti della comunicazione che sfuggono a
qualunque categorizzazione.
Non sono dei comunicatori classici in quanto usano anche tecniche
di manipolazione.
Non sono dei giornalisti ma sanno tutto del giornalismo, non
sono degli psicologi ma usano tecniche psicologiche elaborate per influenzare sia gli opinion maker (i giornalisti) sia la massa.
Non sono dei sociologi, ma sono consapevoli di come funzionino le
nostre società e di come la persona si comporti nell’ambito della propria cellula sociale.
A questa tematica dedicai un libro nel 2006, un libro ‘Gli stregoni della notizia. Da Kennedy alla Guerra in Irak, come si fabbrica
informazione al servizio dei governi’ (Guerini editore), in cui spiego
le tecniche usate dagli spin doctor e dalle agenzie private di PR, dimostrando come alcuni fatti storici impressi come veri e dimostrati
nel nostro immaginario collettivo, fossero tutt’altro che spontanei, ››
35
bensì provocati ad arte con l’involontaria complicità dei giornalisti che
nemmeno immaginavano di essere usati come strumento e megafono
di operazioni di alta ingegneria comunicativa.
L’elenco è lungo: dalla finta strage di Timisoara alle frottole sulle armi
di distruzione di massa in Iraq, dall’abbattimento della statua di Saddam Hussein (progettato da spin doctor dell’esercito) alla modifica
delle circostanze della cattura dello stesso Saddam (non ha mai vissuto
“chiuso come un topo” nella botola mostrataci dalle tv).
Quel libro resta ancora oggi valido, ma grazie ai miei studi e alle rivelazioni dell’ex agente della Cia Snowden oggi, purtroppo, posso affermare che il quadro delle tecniche adoperate dai grandi governi come
quello americano o grandi istituzioni, d’intesa con i servizi segreti, è
ancora più sofisticato di quanto immaginassi.
Tutto nasce dalla Guerra Fredda, come dimostrato dal bellissimo
saggio ‘Gli intellettuali e la Cia’ (Fazi editore) in cui la giornalista
inglese Frances Stonor Saunders svela le tecniche che furono usate
nel Dopoguerra dalla Cia per alimentare nei media e nel mondo
della cultura correnti capaci di contrastare l’influenza, allora enorme, del Kgb.
L’Unione Sovietica non esiste più e lo sviluppo tecnologico – dalla tv a
internet ha trasformato profondamente il panorama mediatico mondiale - ma quel patrimonio di conoscenze non è certo andato perso,
si è semplicemente evoluto e, paradossalmente, l’avvento di internet,
della telefonia mobile e soprattutto di Apple, di Facebook e di Google
consente capacità di condizionamento angoscianti.
Oggi siamo tutti controllati, partecipiamo gioiosamente a una schedatura di massa, inviando mail con Gmail, postando foto e facendo
amicizia su Facebook, usando l’I Phone.
E’ il sogno dei vecchi servizi segreti totalitari che si realizza.
Snowden ha rivelato allo Spiegel che in una presentazione interna, la NSA ha presentato delle slide in merito all'infiltrazione negli
smartphone: le slide facevano riferimento al film '1984' basato sul libro di George Orwell, riportandone alcune immagini insieme a quelle
di Steve Jobs con un iPhone in mano e con la scritta: “chi sapeva nel
1984 che questo sarebbe stato il grande fratello?”.
Uno scenario che nemmeno Orwell avrebbe potuto immaginare e ad
opera del Paese che da sempre dichiara di volersi battere contro
i totalitarismi.
Quella a cui assistiamo è la congiunzione fra due mondi.
Oggi la National Security Agency - ovvero la superagenzia di spionaggio americano - riesce a monitorare
tutto quel che viene pubblicato nel mondo digitale,
schedando opinioni gusti, tendenze di ognuno di noi, di
tutti noi, non solo di sospetti terroristi!
Parallelamente le ‘vecchie’ tecniche degli Stregoni
della Notizia restano valide e sono continuamente aggiornate.
L’influenza suina come quella aviaria
altro non erano che normali influenze tutt’altro che pericolose ma sono
state trasformate in angoscianti epidemie per ragioni che non sono mai
state dichiarate ma che si possono facilmente comprendere, ragioni sia politiche che commerciali.
Trattasi di procurato allarme su scala
mondiale, dai costi enormi per i quali
nessuno pagherà.
36
Le ‘Primavere arabe’ in Tunisia ed Egitto erano molto meno
spontanee di quanto apparivano e sono state in larga misura telecomandate dall’estero, con una capacità di dissimulazione straordinaria e, ancora una volta, l’entusiastica partecipazione dei
grandi media che hanno dipinto come una straordinaria rivolta
democratica ciò che in realtà era un colpo di stato che, purtroppo, ha aperto la strada alla guerra civile e a un’ormai endemica
instabilità nella regione.
Anche la vicenda di Wikileaks e degli OffShoreLeaks dovrebbe
essere più attentamente scrutinata. Le prime fughe di notizie,
quelle per le quali il soldato Bradley Manning è stato condannato, erano autentiche, ma le altre?
Chi ha diffuso e perché decine di migliaia di dispacci diplomatici
presentati segretissimi e imbarazzanti, e risultati poi del tutto
innocui?
Chi ha passato a The International Consortium of Investigative
Journalists (Icij), il Consozio che promuove il giornalismo investigativo nel mondo, migliaia di file con le transazioni nei paradisi offshore, transazioni peraltro tutt’altro che illegali?
La mano dei servizi segreti è evidente, ancora una volta con finalità
oscure, e ancora una volta usando i media in maniera sofisticata:
decine di giornalisti di testate molto prestigiose – dalla Bbc a Le
Monde, dalla Washington Post all’Espresso - hanno scandagliato
per settimane una mole immensa di dati per poi annunciare al mondo la lista dei potenti che aprono società nei paradisi fiscali.
Uno scandalo rimasto senza conseguenze legali ma che ha generato
un senso di insicurezza e di intimidazione tutt’altro che casuale, in
un’epoca in cui gli Usa e alcune grandi organizzazioni internazionali
si adoperano per eliminare i cosiddetti lidi OffShore.
C’è da preoccuparsi, con qualche motivo di speranza.
La libertà d’opinione esiste, è innegabile.
Su internet si moltiplicano siti di informazione che sfuggono alle
logiche tradizionali e danno la possibilità di informarsi in modo alternativo.
Nelle redazioni continuano ad esserci giornalisti indipendenti e molto preparati che con coraggio e autorevolezza continuano a fare il
proprio lavoro.
Tra gli intellettuali spiccano saggisti e pensatori controcorrente,
come Mauro della Porta Raffo, autenticamente liberi che antepongono il desiderio di sapere e di capire a qualunque altra
considerazione.
La riflessione è più alta e riguarda soprattutto gli Stati Uniti.
Morto Bin Laden e passata l’emergenza dell’11 settembre,
oggi l’America è di fronte a un dilemma esistenziale: tornare
alle origini e agli straordinari valori dei Padri Fondatori oppure rassegnarsi alle deviazioni che le circostanze storiche
– Guerra Fredda e poi guerra al terrorismo – hanno facilitato e talvolta imposto.
Oggi gli Usa devono decidere se continuare ad essere in
modo credibile il Faro della Libertà e il Garante dei
Diritti Individuali, quali hanno tentato di essere per
quasi due secoli oppure se adagiarsi sulle circostanze
storiche e trasformarsi in un Paese che troppo facilmente deroga a quei valori che la sua Carta fondamentale proclama come immutabili e che dunque
abusa delle impressionanti capacità tecnologiche e
di condizionamento accumulate in questi anni.
Quale sia il mio auspicio è fin troppo evidente. —
Dissensi & Discordanze
Vedersi o non vedersi non altera l’amore
se si è raggi di un unico splendore
Mai la quercia vedrà la sua radice
ma è quella linfa a renderla felice
da ‘Maternale’, 2007
Silvio Raffo
37
Carlo Meazza
Lago Maggiore, Cannobio
38
Dissensi & Discordanze
Lago
Maggiore
CARLO MEAZZA
Carlo Meazza
Lago Maggiore, Vele
39
Carlo Meazza
Lago Maggiore, Luino,
il viale del Carmine
prima del taglio degli alberi
40
Dissensi & Discordanze
Carlo Meazza
Lago Maggiore, Il Ticino
a Sesto Calende
41
Carlo Meazza
Lago Maggiore,
foce del Tresa
42
Dissensi & Discordanze
Taiwan oggi
Pro Cina o contro la Cina,
ma il comunismo non c’entra...
GIANDOMENICO FRASCHINI
Ho chiesto a Giandomenico Fraschini, di questi tempi
a Taiwan per ragioni di studio,
di intervistare i locali a proposito dei rapporti odierni
con la Cina e della loro memoria storica.
Quella che segue è l'interessante risposta
Caro Mauro,
con un po’ di ritardo ti riscrivo da Taiwan.
Ho parlato con un discreto numero di persone, sia tra i venti e i
trent’anni, sia tra i trenta e i quarantacinque anni e devo dire che
le risposte e i commenti sono stati unanimi.
Probabilmente l’esito di queste mie piccole interviste ti deluderà un po’.
In ogni caso mi auguro che possa costituire un interessante spunto
di riflessione.
Innanzitutto le generazioni più giovani non si interessano molto
di politica. Leggono poco i giornali e al limite guardano quando
capita le news in tv.
Ma, da quello che ho capito, l’informazione locale è sovente ‘strumentalizzata’ dal governo (uhm, mi pare di averla già sentita
questa!): la tendenza è quella di nascondere il più a lungo possibile
le eventuali nefandezze oppure di distogliere l’attenzione dai temi
davvero importanti con altri fatti di cronaca.
Scritta questa premessa, direi che gli schieramenti, se così li vogliamo definire, che rappresentano il ‘sentiment’ della gente sono due:
pro Cina e contro la Cina.
Il comunismo non c’entra.
Anzi, mi è stato detto che in pratica oggi a Taiwan non conoscono
davvero il comunismo.
Forse le generazioni degli attuali ‘nonni’ ne hanno un’idea ma
tutte quelle successive hanno avuto un’esperienza di relativa libertà
dalla cultura comunista, fin dagli anni Cinquanta.
I giovani sanno bene chi sia Chiang Kai-shek e quanto accadde
sessanta e più anni fa ma non mi pare di aver percepito in loro una
qualsivoglia forma di devozione o di particolare venerazione.
Gli isolani sono molto fieri della loro condizione e molto protettivi
rispetto alla loro terra, per cui la maggior preoccupazione è quella
di non venir riassorbiti dalla Cina continentale.
C’è un certo astio verso i Cinesi, non solo perché – a detta ››
43
dei taiwanesi – sono più
rozzi, volgari e prepotenti oltre che arretrati dal
punto di vista igienico,
ma anche perché, grazie
ad alcune leggi speciali
concesse dal Presidente e
Governo attuali, i Cinesi
possono viaggiare per turismo con meno problemi
burocratici verso Taiwan
e gli studenti Cinesi più
meritevoli possono accedere a speciali borse di studio il cui valore
è più alto degli stipendi medi locali; borse di studio a cui invece i
Taiwanesi non posso ambire, dovendosi accontentare di scolarships
più ‘normali’.
Insomma c’è un po’ di fastidio misto a invidia.
Anche comprensibile, direi.
Pertanto, c’è una larga fetta di popolazione che ha un ‘sentiment’
assolutamente avverso alla Cina ma non come simbolo del comunismo
quanto, piuttosto, come ‘pericolo’ latente per la condizione di vita
44
attuale. Mentre ad altri,
forse intravedendo possibili vantaggi presenti e
futuri, non dà particolarmente fastidio il fatto che
il Presidente e il Governo
concedano qualcosa ai Cinesi.
Concessioni che probabilmente – ma questa è una
mia interpretazione –
sono il prezzo da pagare
per mantenere l’indipendenza.
Curioso notare, dunque, che l’anti-comunismo che certamente ha
animato la rivoluzione nazionalista di Chiang si sia in sostanza
‘dissolto’ nei decenni.
Visto che i Taiwanesi mi piacciono, mi concederai di adottare
una lettura positiva... prendendo tutto ciò come un buon esempio di ‘evoluzione sociale illuminata’: non vivere costantemente
nella 'bolla' di un'ideologia ma pensare piuttosto a godere della
libertà conquistata e, quindi - semplicemente - a vivere. —
Dissensi & Discordanze
Un delirio
continuo
OSCAR GIANNINO
E
ccoci qua.
Come sempre da qualche decennio, continuiamo indefettibilmente a percorrere nuove tappe sulla via dell'aumento della pretesa fiscale.
A parole, persino la sinistra in politica, e la parte maggioritaria degli accademici in cattedra che la sostengono, è convinta che siano
troppe, troppo pesanti e troppo bizantine, le imposte e tasse e oneri
contributivi del nostro Paese.
Di fatto, i duecentoquaranta miliardi di entrate pubbliche in più
rispetto al 2000 salgono sempre, chiunque abbia governato, destra
e sinistra, tecnici e politici.
L'ultima specialità è abrogare una tassa a fini elettorali per sostituirla
però con altre, come avviene per l'IMU rimpiazzata da una Service
Tax a cui tutti inneggiano, ma che nessuno ha ancora capito come
funzionerà, mettendo insieme fischi e fiaschi, visto che dovrà colpire
valori patrimoniali – vuoi per rendita catastale vuoi a metri quadri,
liberi i Comuni di decidere - cespiti reddituali – se l'immobile sia
sfitto o no e che cosa renda – servizi indivisibili – che tutti devono
pagare allo stesso modo, esempio l'illuminazione pubblica – e servizi
divisibili – che ciascuno deve pagare invece a seconda di quanto ne
fruisca, vedi lo smaltimento dei rifiuti.
Ed è tutto un delirio continuo di innalzamento di accise, di innovazioni fantasiose come l'aumento degli acconti d'imposta IRES e
IRAP oltre il cento per cento del dovuto, di violazioni costituzionali
in materia di retroattività dell'imposta – ultimo, il taglio delle detrazioni alle polizze vita e infortunistiche sull'anno in corso – di assente
terzietà del giudice tributario nel contenzioso fiscale.
E di fantasmagorici annunci sulle prodigiose nuove escogitazioni in
materia di lotta all'evasione, tipo il nuovo redditometro varato tra
nacchere e timballi quale ideale vendicatore di chi è soggetto a sostituto d'imposta.
Dimenticando però di ricordare che dal redditometro lo Stato assetato attendeva settecentoottanta milioni nel 2012 e ne ha invece
incassati trenta, cioè molto ma molto meno di quanto sia costato – a
noi contribuenti – vederlo entrare a regime.
Quando ci si ritrova sempre dannatamente in pochi, a protestare
come i rituali quattro gatti, alla mente che ribolle di rabbiavengon
su idee sinistre, sull'antropologia media degli italiani, come di intellettuali e professori.
I politici lasciamoli perdere, le promesse di meno tasse servono per
le elezioni, e governare è notoriamente altra cosa.
Ed è allora, quando si rischia la sbandata pubblica per effetto ››
45
dell'odio montante contro lo ‘Stato-ladro’, come lo chiamo io, che
occorre invece mettersi una pezza fredda sulla fronte.
E riflettere.
In realtà, l'estesa propensione alla sudditanza è figlia di una lunga,
lunghissima storia.
Convive con l'indignazione di massa, che sbagliamo ad attribuire ai
social network o a Grillo, perché è anch'essa un tratto costante di
secoli di storia italiana: intrisa di lazzaronismo e sanfedismo, Savonarola e Masanielli, insorgenze armate circoscritte e vastamente diffuse
utopie alla Gioacchino da Fiore.
Ma la protesta cieca è puntualmente sconfitta perché, nella storia nostra, lo Stato non è affatto nato e cresciuto come invece crebbe altrove.
Per dire: i monarchi francesi restarono sempre liberi di imporre tasse
non potendo alienare il patrimonio regio, e gli Stati Generali non
vennero riuniti dal 1484 al 1560, ripresero nel 1614 e da allora furono cassati fino al 1789.
In Inghilterra, al re fin dal tempo normanno era riconosciuto il
poundage e tonnage, cioè il dazio sui commerci d'oltremare, ma per
il resto per spesare la Corte era libero di – cioè costretto a - vendere
le proprietà reali, come avvenne massicciamente sotto Enrico VIII
ed Elisabetta I, oppure i titoli, come iniziarono a fare gli Stuart.
Era il Parlamento - non nobiliare, composto dalla gentry cioè da
piccoli e medi possidenti terrieri - ad essere fieramente custode dei
limiti alla facoltà d'imposizione reale.
Costringere il re a vendere ville e terreni era un modo per tenerlo alla
corda, e impedirgli di armare eserciti.
Quando Carlo I tentò la sterzata verso l'assolutismo fiscale, il parlamento gli tagliò ulteriormente i cordoni della borsa.
E quando assettato di entrate s'inventò nel 1637 che
lo ship money – la tassa per finanziare la flotta – andava pagata non solo nelle Contee rivierasche come
avveniva da secoli ma in tutto il Paese, allora un piccolo possidente come John Hampden, che in tutto
doveva pagare venti scellini, preferì dichiarare che
disconosceva al re il diritto d'imposizione arbitraria.
Si fece un anno di carcere.
Ma alla fine il parlamento obbligò il sovrano a un
regolare processo.
E Hampden ebbe pieno diritto al contraddittorio pubblico, e solo a costo di elargizioni personali il re ottenne
che sette dei dodici giudici gli dessero ragione.
Ma il processo e il verdetto in tutto il Paese furono
glorificazione eterna di Hampden, e acquisizione del
principio che ai re andava disconosciuto il potere di
imporre tasse.
Carlo ci rimise la testa, nel 1649, essenzialmente per
questa ragione.
Ed è allora che nacque l'idea moderna per la quale
The King in Parliament significa che occorre un governo che agisca solo forte della fiducia parlamentare.
Tanto che nel 1688 il parlamento si scelse un'altra
dinastia, chiamando Guglielmo di Orange, lo Statolder delle Province Unite olandesi.
Quando la rivolta delle Colonie americane deflaQuentin Massys, Gli esattori delle
tasse (Die Steuereintreiber), fine del
primo quarto del XVI Secolo
46
grò sul principio del no taxation without representation, a venir brandita a Filadelfia era la Petition of Rights che il giurista
Edward Coke, membro del parlamento inglese, aveva imposto
nel 1628 al re Carlo I.
Lì, il divieto di imposizione reale era scritto nero su bianco.
La famosa ‘riserva assoluta di legge’, prescritta all'articolo ventitre
della nostra attuale Costituzione, quella per la quale nessuna obbligazione personale o patrimoniale può essere richiesta se non in forza
di una legge e solo di una legge, nasce da questi precedenti plurisecolari. Precedenti che però furono importati nei nostro ordinamento
senza aver MAI rappresentato conquiste ottenute dai sudditi degli
Stati italiani.
E la Repubblica intesa come Stato-persona questo lo sa bene.
Perciò impone obblighi fiscali per via di decreti legge, regolamenti e
circolari, altro che la riserva di legge assoluta.
Per questo lo fa retroattivamente.
Per questo ancora oggi veniamo giudicati in Italia in un processo
tributario rispetto al quale quello riservato a John Hampden è un
miraggio, mentre noi siamo all'età della pietra.
Ecco, fatta tutta questa pensata, occorre ricordare a se stessi una cosa.
Non bisogna cessare di protestare per il fisco predatorio.
Ma non bisogna scoraggiarsi se ci vorrà tempo, prima che la storia
faccia il suo corso.
E bisogna evitare jacquerie violente e iperminoritarie, perché lo Stato ladro ci campa, col consenso strappato in nome di una legalità che
a suo insindacabile giudizio solo i suoi sudditi inadempienti violano.
Mentre lui è il primo a farlo, certo dell'impunità e cioè del fatto che
nessuno oserà tagliargli la testa come avvenne a Carlo I. —
Dissensi & Discordanze
Esegesi
LUCA GOLDONI
L
a ragazzina è convinta di amare la poesia, la capisce, le
piace, ma non sa o non vuole fare l’esegesi.
In altre parole non riesce a scomporre una poesia nelle
sue parti e poi a rimetterla insieme, senza rovinare il
magico effetto che la semplice lettura ha su di lei.
Credo di capire i suoi dubbi se leggo il testo scolastico che si propone, ad esempio, di facilitare l’approccio al poeta Giuseppe Ungaretti.
Si sono scelti i suoi versi più folgoranti e famosi:
“Mattina. Mi illumino / d’immenso”.
Ed ecco la ‘radiografia’ dell’esegesi: (…) “Mattina è composta da
sole quattro parole, fra cui due monosillabi, disposte in due trisillabi che a loro volta determinano il ritmo di un settenario con la
seconda e la sesta sillaba accentata”.
L’analisi prosegue sempre più rarefatta : “I versi diventano evocativi anche grazie alle simmetrie visive e foniche: la ‘m’ iniziale
del titolo e del primo verso; la ‘i’ iniziale dei due versi; i due inizi
apostrofati (m’- d’); l’allitterazione della ‘m’ e della ‘n’; la ‘o’ finale
di entrambi i versi”.
Commenta, fra risentita e sconsolata, la nostra adolescente: “Se
ho la fortuna di provare le stesse sensazioni del poeta, perché devo
usare tante parole per spiegare quelle quattro che già mi dicono
tutto?”
Una volta, a sostegno della sua logica, le dissi: “Le parole in prosa
sviluppano un concetto, mentre quelle in poesia catturano un’intui-zione, comunicano un’emozione e le emozioni non si sviscerano.
“Sì sì”, ripeteva lei battendo le mani come a un Settimo cavalleggeri accorso in suo aiuto.
In effetti questa vivisezione della poesia non esisteva, al tempo del
mio liceo.
La popolarità di tanti poeti passava attraverso la fortunata intesa
fra insegnante e scolaresca: noi avevamo un prof che, con una voce
appassionata da Arnoldo Foà, ci recitava Leopardi come Emily Dickinson, gli ‘Ossi di seppia’ di Montale, come ‘Spoon River’ di Lee
Master.
Ho ancora nelle orecchie l’applauso della classe in piedi che accolse
‘La sposa infedele’ di García Lorca (“toccai i suoi seni addormentati
/ e mi si aprirono subito / come rami di giacinto”).
L’entusiasmo di quel prof era più contagioso di ogni analisi critica.
Torniamo al test di esegesi che fa disperare la nostra fanciulla.
Proseguendo nel nobile intento di accompagnare l’alunno nei segreti meandri da cui scaturisce la poesia, gli esegeti propongono
un'altra lirica di Ungaretti, ‘Stelle’:
“Tornano in alto ad ardere le favole / cadranno con le foglie al primo
vento / ma venga un altro soffio / ritornerà scintillamento nuovo”. ››
47
Dopo la consueta disintegrazione dei versi in sillabe, simmetrie,
analogie ecc. gli autori propongono un inquietante esperimento:
“Seguendo un procedimento analo-gico simile a quello utilizzato
da Ungaretti, scrivi una poesia in quattro versi.
Ti forniamo un modello: ‘Iniziano a sognare le bambole./ Si romperanno con un no al primo amore / (…)”
Mi sembra di sprofondare in una soave allucinazione: dunque ciascuno di noi, smontando significati e ritmo di una poesia e ricomponendoli con parole proprie, può replicare Saffo e Catullo, forse
anche Bach e Chopin?
Siamo quasi alla clonazione.
E qui mi arresto per non incappare in una forma di eresia didattica.
Lo confesso a una amica che ha esercitato l’insegnamento come
vocazione, prospettandole la mia tesi difensiva: se è vero che la
musica, come la poesia sfiorano l’enigma dell’universo, perche non
rispettiamo questo sortilegio?
“Ok, mi dice, ma ricapitoliamo. Di certo sai che esegesi deriva
dal greco, ‘spiegare, commentare’ e che questo vocabolo fu inizialmente usato per le interpretazioni della Bibbia.
Forse non sai che, dalla fine dell’800, l’esegesi o, se preferisci, la
lettura in controluce di un testo letterario, si innesta sullo strutturalismo concepito dallo svizzero De Saussure…”
“La disintegrazione della poesia – azzardo – mi richiama quella
dell’atomo… presagi funesti…”
“Battuta d’effetto,ma impropria”, mi liquida.
E aggiunge che questa analisi del linguaggio rientra nella scienza
universale dei segni e di come essi creino un significato (semaforo
rosso uguale a stop), una scienza che ha nome semiotica e dovrebbe essere una vecchia conoscenza, giacchè uno dei suoi esponenti è
il mio illustre concittadino Umberto Eco...
Ascolto con rispetto l’insegnamento, ma ogni tanto il pensiero
corre all’origine delle mie peripezie di Alice nel paese dell’esegesi.
Avevo semplicemente risposto a una sorta di telefono azzurro: una
fanciulla in crisi perché le avevano rubato la poesia. —
Giuseppe Ungaretti
Federico García Lorca
Ferdinand de Saussure
48
Dissensi & Discordanze
Dissenso,
pensiero unico
e verità di Stato
PAOLO GRANZOTTO
A
h, mio caro MdPR, presto il dissenso - la mancanza
di consenso, di accordo; la diversità di parere, di sentimento; la critica per profonde divergenze circa le
posizioni teoriche e ideologiche, le linee d’azione sia
in generale sia riguardo a problemi particolari – sarà argomento di
studio archeologico.
Tra il disinteresse generale – che poi come vedremo è una pantofolaia convenienza – sta avendo il sopravvento il pensiero unico e
la verità di Stato.
Due principi che, è chiaro come il sole, sterilizzano il dissenso e
azzoppano la discordanza, la mancanza di accordo.
Figli, l’uno e l’altra, di quel lievito intellettuale e culturale che
risiede nella razionale pratica del dubbio.
Nel non dare nulla per certo e per scontato.
E qui si capisce perché nessuno o comunque pochi, pochissimi, si
ribellano all’avanzare tumultuoso del pensiero unico e della verità
di Stato: perché adeguandovisi, si fa meno fatica.
Non si è obbligati a riflettere, a studiare, ad approfondire: a cercarsela, la verità.
Che è poi quello che predicavano – pensiamo noi per tutti voi –
quelle lenze dei giacobini, quel cattivissimo maestro che risponde
al nome di Giangiacomo Rousseau.
Noi, gli eletti, gli Illuminati, vi diciamo ciò che è vero e ciò che è falso,
ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, ciò che è bello e ciò che è brutto.
Se vi sta bene, bene.
Se non vi sta bene e dissentite, e discordate, c’è la galera.
Perché così è: a voler negare una verità di Stato – per ora ne
hanno rubricate tre o quattro, ma si fa presto ad aggiungerne
altre cento o duecento – si commette reato, caro MdPR.
A voler dissentire dal pensiero unico, idem.
Prendi la legge sull’omofobia: non si potrà più scrivere o pubblicamente dichiarare non dico che l’omosessualità è per la Chiesa e
dunque per il credente un peccato (San Paolo: Romani 1,26-27, 1
Corinzi 6,9-10, 1 Timoteo 1,9-10), tant’è che lo stesso Papa Francesco – “Come posso io giudicare...” - evita di farlo.
Ma nemmeno scrivere o pubblicamente manifestare la propria discordanza sul matrimonio gay. ››
49
È atroce sostenere che l’Olocausto non
raggiunse le dimensioni che sappiamo, o
addirittura negare che sia mai stato.
Però è altrettanto spaventoso punire a
norma di legge i negazionisti: le idee si
combattono con le idee, non con la galera.
Senza aggiungere che in tutte le Costituzioni - anche in quella “più bella del
mondo”, la nostra – è sancita come diritto inalienabile & non negoziabile la libertà di pensiero e della sua espressione.
Cosa ne sarà, caro MdPR, degli eretici
Leo Longanesi
che divergono dalle opinioni e dalle ideologie comuni?
Degli insofferenti al luogo e pensiero
za poi dire delle simpatie individuali.
comune, ai concetti pre elaborati, alle
Nella polemica ci sto come un topo nel
mode culturali, agli entusiasmi di masformaggio e non mi dispiace esser detto
sa, alle balle istituzionali?
polemista, ch’io considero un titolo di
Vedi, fedele alla lezione di Leo Longamerito e un esercizio aristocraticamente
nesi (“Fidatevi più dei vostri disgusti
intellettuale. Ma la polemica deve esJean-Jacques
Rousseau
che dei vostri gusti perché solo così i
sere polemica: il greco polemikòs, da
vostri articoli avranno quel tanto di catcui la parola trae, sta per bellicoso, per
tiveria necessaria alla buona riuscita”),
guerriero. Non per mammola accondiscendente.
ho sempre mantenuto tonica la mia diversità di vedute e vigile la
Certo, non siamo alla canna del gas, c’è ancora spazio per guerregpredisposizione al dissenso.
giare, per dissentire e discordare.
Ottima per rubricare ciò che contrasta con i miei, di gusti, col mio
Ma lo spazio si fa sempre più ristretto e ho paura che anche muovenmodo di vedere, giudicare, apprezzare le cose materiali e non, sendo battaglia al giacobinismo censorio, sarà battaglia perduta. —
50
Dissensi & Discordanze
Il dissenso
nella Scienza
e nella Ricerca
LUDOVICA MANUSARDI CARLESI
S
e ci sono ambiti dell’attività umana soggetti a consensi e
dissensi, sorprese e delusioni, questi sono sicuramente la
scienza e la ricerca.
La scienza è terreno fertile per accesi dibattiti in tutte le
diverse discipline e sono all’ordine del giorno discussioni e contrapposizioni anche aspre che investono ampi settori della fisica,
della chimica, della medicina.
Anzi sono sicura testimonianza di vivacità e produttività.
Basti pensare alla più famosa e nota delle diatribe: quella tra i sostenitori del sistema tolemaico e i fautori del sistema copernicano,
che sfociò nell’accesissimo scontro tra Galileo Galilei e la Chiesa,
con tutte le gravi conseguenze non ancora del tutto sopite.
Dal 1632, con la pubblicazione del suo ‘Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo’, Galileo ha innescato una delle la più grandi
rivoluzioni della storia umana e da allora il dubbio e la vulnerabilità di certezze acquisite ha prodotto da un lato i fautori della
scienza, - sostenitori entusiasti dei suoi successi -, dall’altro coloro
che cercavano di contrastare quasi con ostilità i suoi risultati nel
timore di perdere quei valori tradizionali che la scienza aveva messo in crisi.
Atteggiamento giunto, nel nostro Paese, fino all’assurda separazione tra le due culture, quella umanistica e quella scientifica, di
cui portiamo ancora in parte il segno nella formazione dei giovani.
Da allora è stato un susseguirsi di stop and go in tutte le discipline
scientifiche.
Solo giganti come Newton, e prima di lui Galileo, potevano intuire contro ogni dottrina accreditata che le leggi che tengono insieme la Luna e la Terra, e l’intero sistema solare sono le stesse che
governano la caduta dei gravi; così come geni della levatura di
Franklin, Volta e Galvani hanno potuto sbarazzarsi della teoria
del fluido elettrico giungendo, a seguito di osservazioni ed esperienze condivise, a capire che l’elettricità è fenomeno legato alla
struttura particellare della materia.
Senza dimenticare gli esperimenti di Torricelli sulla pressione atmosferica; e ancora con Kelvin e Carnot arrivare a demolire la teoria
del calorico e stabilire che calore è energia e che gli scambi tra calore
e lavoro sono regolati dalle ferree leggi della termodinamica. ››
51
Insomma, dai fondamenti di Cartesio e Bacone e dall’acquisizione
del metodo scientifico fondato da Galileo, dal quale possiamo far
partire quella che chiamiamo la scienza moderna, la ricerca scientifica, in tutte le sue fasi e discipline, è stata un susseguirsi di consensi
e dissensi, di messe al bando e riabilitazioni, di ostracismi ed entusiasmi, atteggiamenti che costituiscono il sale della scienza e la base
del metodo che guida la ricerca partendo dall’osservazione.
Del resto, la competitività della scienza sta proprio nella validità
limitata delle sue teorie: una teoria viene rimpiazzata da un’altra più
attendibile e verificata dai fatti.
Quando un modello non è più in grado di produrre previsioni corrispondenti a quanto osserviamo, viene corretto oppure se ne cerca
uno migliore.
La scienza è un processo di retroazione: impara dai suoi stessi errori e
si comporta in modo darwiniano; solo le teorie efficaci sopravvivono.
La ricerca scientifica mette in luce continuamente fenomeni nuovi
e inattesi e teorie nuove sono state e sono tuttora escogitate dagli
scienziati per trovare spiegazioni adeguate.
Questo continuo processo comporta l’assimilazione di nuove regole
e un inevitabile cambiamento di paradigma che tenga conto delle
novità e gli scontri più accesi tra scienziati sono avvenuti e avvengono proprio su questo terreno.
Tra le più esaltanti questioni del passato che hanno diviso il mondo tra favorevoli e contrari la teoria dell’evoluzione, ancora recentemente contrastata, fonte inesauribile di accese dispute; l’esistenza
dell’etere, cancellato quasi per decreto a seguito degli studi di Einstein sulla luce; la superconduttività, scoperta nel 1911 dall’olandese Onnes, ma che ha dovuto attendere quasi cinquant’anni per
essere accompagnata da una teoria esauriente.
E poi la meccanica quantistica e la teoria della relatività, che hanno
segnato in maniera indelebile tutto il ‘900 con esperimenti e teorie che hanno ribaltato gran parte delle conoscenze consolidate nel
campo della fisica e non solo.
Con ricadute importanti anche in campo filosofico e cognitivo, e in
discipline diverse dalla fisica come la biologia: basti pensare al principio di indeterminazione di Heisenberg che regola anche i meccanismi più intimi e il comportamento di molecole essenziali per la vita.
Per venire a fatti più recenti, come non citare la fissione nucleare e la
grande contrapposizione tra i favorevoli e contrari a utilizzare l’immensa riserva di energia racchiusa nel nucleo per rifornire il mondo
di tutta l’energia di cui ha bisogno.
Ma qui il discorso si sposta dalla scienza alla tecnologia e le contrapposizioni si misurano su un piano più squisitamente politico dove la
scienza resta a fare da sfondo, mantenendo, per fortuna, immutati il
suo rigore e la sua autorevolezza.
Discorso analogo vale per la fusione termonucleare controllata.
Anche qui, compreso il fenomeno e condivisa la teoria, il dissenso
e il consenso si sfidano sul terreno applicativo come in parte accade
anche in un settore assai delicato, quello delle cellule staminali permeato però da una forte componente etica che ne esalta i contrasti
e le conseguenze.
Squisitamente scientifiche sono invece le contrapposizioni e il dissenso su quella che è la più recente e forse conclamata delle dispute:
quella sulla fusione fredda.
Fenomeno venuto alla ribalta nel 1989 che sembrò anche qui mettere in discussione in parte le teorie note e offrire al mondo energia
in grandi quantità a basso costo e senza controindicazioni.
Oggi questo fenomeno è stato chiarito e in parte accettato, ma
52
non c’è ancora accordo nella comunità scientifica su una teoria
completa e condivisa in grado di fornire una spiegazione soddisfacente per tutti.
Tuttavia in diverse centri di ricerca del mondo si continua a lavorare
su questo e su temi a questo vicini – fisica della materia condensata per cercare di arrivare a risultati concreti che permettano di iniziare
una fase applicativa seria e duratura.
Anche sull’evoluzione e le origini dell’universo esistono se non
proprio posizioni contrapposte di sicuro atteggiamenti di attesa
ragionata.
Le recenti scoperte sui costituenti ultimi della materia se da un lato
confermano le teorie accreditate, dall’altro lasciano spazio a interrogativi e margini di incertezza e a possibili scenari diversi.
Ma si tratta di speculazioni squisitamente teoriche che non incidono
sulla quotidianità delle nostre vite né pongono quesiti stringenti sul
futuro della vita sulla Terra.
Non altrettanto si verifica invece quando teorie e previsioni incidono sul nostro presente e sulle future generazioni.
Temi scottanti sono senza dubbio quelli del clima e dell’energia,
fortemente intrecciati tra loro, dove si fronteggiano da sempre
opinioni che vedono la gente comune divisa su posizioni spesso
ascientifiche e superficiali perché frutto di cattiva informazione
e demagogia dovuta a coloro che dovrebbero fare informazione
onesta e corretta e che speculano invece sul tornaconto personale
o quello di lobbies note.
Da anni ci vengono proposti scenari allarmanti sui mutamenti climatici, sull’effetto serra, sulle responsabilità dell’attività dell’uomo
in questi cambiamenti, sull’esaurimento delle fonti fossili, suffragati
da dati molto spesso errati o non sufficientemente documentati.
Come quello del Club di Roma che aveva previsto l’esaurimento del
petrolio entro il 1999!
Purtroppo, quando la politica si insinua a gamba tesa nella scienza
e nella ricerca e pretende da questa conferme alla propria visione
del mondo, i dissensi si accentuano e i punti di riferimento possono
vacillare.
L’attività degli scienziati è quella di formulare ipotesi sulla natura
del mondo per poi sottoporle a un controllo sperimentale rigoroso e
discuterne i risultati.
E qui non si può non ricordare Popper e la sua teoria della falsificazione secondo la quale i controlli non sono tentativi di dimostrare
una particolare teoria, ma di confutarla.
Concezione che ha dominato l’epistemologia per quasi mezzo secolo,
ma oggi abbandonata perché porterebbe alla paralisi della scienza e
della ricerca il cui obiettivo non è solo tentare di dimostrare la validità o l’erroneità di alcune teorie, ma definire i limiti di applicazione
di alcune ipotesi.
Il principio popperiano di falsificazione, basato sull’assunzione che
nelle relazioni causali del mondo reale si abbia un rapporto da uno a
uno - una causa un effetto -, è stato messo in discussione da un altro
filosofo della scienza, Thomas Kuhn.
Dal momento che in realtà tutti i fenomeni sono variamenti correlati e influenzati da numerose variabili, la scienza procede in modo
discontinuo e le idee nuove danno origine a rivoluzioni scientifiche
che determinano nuovi paradigmi che sostituiscono o meglio aggiornano e migliorano i modelli precedenti.
In ogni caso dissensi e contrasti, rivoluzioni e contestazioni continueranno ad avere quel ruolo importante di cui la scienza non può
e non deve fare a meno. —
Dissensi & Discordanze
Mao Zde Dong
in privato
FERNANDO MEZZETTI
U
n nume a capo di un miliardo di esseri umani, potentissimo e inaccessibile a tutti.
Perennemente chiuso nella sua grande stanza da letto che gli fa anche da studio e sala da pranzo, comunicante con una piscina nella quale raramente si tuffa.
Sempre in stazzonato pigiama o in logora vestaglia, circondato di
giovani donne che gli fanno da amanti, inservienti, infermiere.
Sofferente di insonnia, ossessionato dall’incubo di impotenza, trascorre in giochi erotici, su un letto costruito apposta per lui con
bordi rialzati per favorire certe posizioni sessuali, notti e giornate
con ragazze che si danno il cambio in turni organizzati dalla favorita: una donna autoritaria e dispotica non solo verso le temporanee
ospiti in ognuna delle quali teme una concorrente, ma anche con
lui e i più alti dirigenti dell’immenso paese, che per comunicare
debbono passare attraverso di lei.
Non è il ritratto di un corrotto e inetto antico imperatore cinese e
della sua corte, con intrighi di concubine, favorite arroganti e lotta
tra loro e dignitari.
E’ uno squarcio dall’interno su Mao Zedong in privato, che da
leader della rivoluzione proletaria si insediò a Pechino nel 1949
nella Città Proibita come imperatore rosso, iniziatore di una
nuova dinastia.
La porta sul proibito mondo della Città Proibita di Mao si spalanca grazie a un libro uscito nel 1994 prima negli Stati Uniti
e poi in mezzo mondo, meno che in Italia, dove vari editori,
inclusi i maggiori, ne hanno rifiutato la pubblicazione: ‘La vita
privata del presidente Mao’, di Zhisui Li, pubblicato da Random House a cura di Anne F. Thurston.
L’autore Zhisui Li, che nel 1988 ha avuto il permesso di andare negli —› Stati Uniti e vi è rimasto, morendo alcuni anni fa, è stato
per oltre vent’anni medico personale di Mao.
Questi era il suo unico paziente.
Per vent’anni è dovuto vivere ventiquattro ore su ventiquattro accanto
a lui, in una stanzetta della sua residenza, seguendolo ovunque.
Il libro ha suscitato controversie sulla questione etica di un medico
che rivela tanti segreti del suo paziente.
In molti hanno obiettato che il paziente era troppo importante, e
appartenendo alla storia, non ha più diritto alla riservatezza.
E ciò che il medico racconta non è pettegolezzo: dandoci il Mao
privato in critiche fasi politiche, aiuta a comprendere passaggi cruciali della Cina Popolare. ››
53
Il Mao privato che il dottore consegna alla
storia è complesso, ricco di elementi che confermano le tesi degli studiosi più seri, cioè che
le tragedie della Cina sono derivate dalle incessanti lotte del Timoniere contro chiunque
tra i suoi compagni osasse contrastarlo.
Il culmine lo raggiunse quando nel 1966 lanciò la ‘rivoluzione culturale’ contro il partito
che lo aveva di fatto esautorato dopo i disastri da lui stesso causati quando con il ‘grande balzo in avanti’ provocò trenta milioni di
morti di fame tra il 1958 e il 1960.
Per lo storico, si hanno sul personaggio dati
psicologici e intimi di grande rilevanza: in lui,
incubo di impotenza sessuale, che ne stimolava l’appetito per giochi erotici plurimi nei
momenti di più alta tensione politica; ammirazione per l’America; senilità in balia di
amanti giovani, primitive, ricattatrici; grande capacità di menzogna nel fingersi, con visitatori stranieri, rassegnato a una fine imminente, solo per vedere come reagivano il mondo e i dirigenti di
cui si circondava senza fidarsene.
La figura umana di Mao Zedong si rivela sdoppiata tra ascetismo
pubblico e dissolutezza privata, tra futuribili visioni rivoluzionarie
e intimo primitivismo, con aspetti grotteschi, se non ripugnanti.
Non potrebbe essere più grande il contrasto tra quest’uomo nato
il 26 dicembre 1893, un giorno dopo Dio, e la sua figura politica,
l’immagine che per decenni, con la sua opera e il suo celebrato
‘Pensiero’, egli ha consegnato alla storia.
La sua morte, il 9 settembre 1976, avviene tra due eventi straordinari.
E’ preceduta il 28 luglio 1976 da uno spaventoso terremoto che
distrugge la città di Tangshan, a nord-est di Pechino, facendo oltre
trecentomila morti; ed è seguita, il 23 ottobre 1976, da un’eclissi
di sole su larga parte della Cina.
La terra impazzita e il cielo oscurato.
Nell’impero dei segni, due segni che nel profondo della mentalità
collettiva annunciano la fine di una dinastia.
Così fu.
Mao Zedong muore da vero imperatore, ma da primo e ultimo
della sua dinastia.
Un mese dopo, sono arrestati sua moglie e i tre maggiori esponenti
della rivoluzione culturale che aveva lanciato nel 1966, uno dei
fenomeni più devastanti del secolo, con un centinaio di milioni di
vittime.
Torna al potere Deng Xiaoping, che lui poco prima di morire aveva
per la seconda volta liquidato, e che a sua volta ne liquida l’intera
eredità, estromette dal potere l’erede da lui nominato, avvia la politica di riforme e apertura grazie alla quale la Cina è oggi grande
potenza economica, senza più nulla a che vedere con quella di Mao.
Politicamente il sistema rimane autoritario, ma è diventato economicamente pluralista, col settore non statale che conta per circa il
settanta per cento del Prodotto Interno Lordo.
Al vertice del partito e dello stato non ci sono più imperatori a vita,
ma si succedono abili politici con normali ricambi generazionali,
mentre la figura di Mao è stata condannata in termini politici con
un documento pubblico del partito nel giugno 1981.
In esso, il Timoniere è omaggiato per la vittoria nel ‘49, ma è con-
54
dannato per tutto ciò che ha fatto da allora: la
lotta agli intellettuali nel ‘57, il fallimentare
‘Grande balzo in avanti’ del ‘58 e soprattutto
la rivoluzione culturale, con la quale “provocò
un immane disastro al popolo, alla nazione, al
partito”.
Mao è svelato in tutte le sue debolezze dal
medico.
L’esistenza quotidiana del Grande Timoniere
è quella di un uomo che, totalmente isolato
dal Paese di cui è dominatore assoluto, trascorre il tempo a letto, alla deriva tra sonno
e insonnia.
Legge e rilegge i classici della letteratura e
della storia, in edizioni stampate solo per lui,
a grandi caratteri per la sua debole vista, su
carta leggerissima e copertina floscia in modo
che possa piegarle tenendole in mano coricato
su un fianco, tuffandosi in un passato che è il suo presente: la stessa vita di imperatori attorniati da concubine e servi infidi; senza
eunuchi, ora, ma con alte mura fisiche e mentali a tener fuori il
mondo.
Si trova a suo agio solo con donne giovani e ignoranti, raramente
riceve i membri del Politburo, supremo organo del potere, e nessuno di loro è ammesso nel suo santuario, la stanza da letto in cui
vive, separato dalla moglie.
Il dottor Zhisui fu scelto per il Timoniere perché era uno dei pochi
medici di formazione occidentale rimasti nella Cina popolare.
“Malgrado io affermi che dobbiamo promuovere la medicina tradizionale cinese”, gli disse sarcastico Mao in uno dei primi incontri,
“personalmente non credo in essa. Le sembrerà strano, ma io non
prendo alcun medicamento cinese tradizionale”.
A corte, domina un clima di veleni, di lotte brigantesche.
Mao più che protetto si sente controllato, e a sua volta vuol sapere
tutto di tutti.
Col medico, ha lunghe chiacchierate notturne che dietro l’apparente, affabile casualità, sono dirette a farsi dire ciò che i servizi
gli chiedono; scoprire quel che gli altri volevano sapere su di lui, e
capire quanto potersi fidare del medico.
Un’atmosfera di perenne angoscia per il dottore, sempre sul filo del
rasoio, anche perché a loro volta i servizi volevano avere notizie da
lui sullo stato fisico di Mao e su quel che Mao era curioso di sapere.
Ogni parola, in quel clima, poteva essere pericolosa.
Anche Mao era oppresso da angoscia e ansia, come milioni di cinesi,
sofferenti di nevrastenia, di cui il dottore dice: “Specifica malattia
comunista, risultato di intrappolamento in un sistema senza uscita”.
Ma in Mao la malattia affondava le radici nel sospetto che gli altri
non gli fossero fedeli, a lui “che era la Cina”.
Di qui insonnia, odi, paure, diffidenze, stitichezza.
Un suo peto era motivo di gioia per tutto il Palazzo; se si metteva
sul pitale - gli avevano installato gabinetti occidentali ma li ha
sempre ignorati - partivano esultanti rapporti.
In lui crisi di impotenza sessuale da depressione nei momenti di
difficoltà politica si alternavano nelle fasi di tensione a inesauribile
voracità.
Anche di tipo omosessuale.
Esigeva infatti massaggi particolari dalle muscolose guardie del
corpo che lo massaggiavano.
Dissensi & Discordanze
Andy Warhol , Mao, 1973,
acrilico e serigrafia su tela,
Metropolitain Museum of Art, New York
Se il massaggiatore era nuovo, finito il massaggio alla schiena, gli
si rivolgeva indicando una parte del proprio corpo: “E questo, lo
lasci senza un massaggino?”.
Una notte, insonne sul proprio treno speciale, abbrancò in corridoio e trascinò nella cabina letto un giovinotto dei servizi speciali,
che ne uscì piangendo.
Negli anni di vigore si alzava dal letto per una nuotata e per mettersi a leggere, a un tavolino rotondo e basso, dal ripiano di marmo
che gli faceva da leggio e tavolo da pranzo, voluminosi rapporti
confidenziali.
Già allora non aveva più contatto col paese reale, lo conosceva
solo tramite documenti. A sera arrivavano i plotoni di ragazze della
troupe di intrattenimento della guarnigione centrale - addetta ››
alla sicurezza dei dirigenti - o dell’aeronautica o dell’esercito, di
questa o quella divisione corazzata, dei reparti speciali.
Tutte ragazze selezionate dai servizi segreti per bellezza, ignoranza
e rigore politico e di classe.
A Shanghai, ignari, gli fecero trovare la prima volta sofisticate attrici e intellettuali.
Furibondo abbandonò la serata organizzata nel lussuoso ex Club
Francese dell’età coloniale, sempre riservato a lui, tornando al treno speciale dotato del letto speciale e delle ruspanti inservienti di
cui lo fornivano per ogni viaggio. Quelli di Shanghai sapranno poi
farsi perdonare, provvedendolo di battaglioni di incolte adolescenti e rozze proletarie.
La sua bramosia sessuale era dettata dall’incubo di diventare impotente.
Era convinto che l’attività sessuale fosse confinata tra i dodici e i
sessant’anni di età e collegava la salute alla virilità.
Come il primo imperatore del 200 avanti Cristo, Qin Shihuangdi, ››
55
che egli molto ammirava
perché sterminò gli intellettuali, inseguiva l’elisir
di giovinezza.
Secondo il mito, quel sovrano aveva conservato
la giovinezza possedendo
mille vergini, e i suoi successori lo avevano imitato
con migliaia di concubine.
L’imperatore rosso seguiva la tradizione aumentando il numero delle
possedute, di età sempre
minore mentre la sua saliva.
Benché contrario alla
medicina cinese, cedeva
a suggestioni per conservare la virilità assumendo
estratti di corna di cervo
tritate, considerati potente afrodisiaco.
Il dottore riuscì a convincerlo a rinunciarvi, ma in compenso dovette dargli iniezioni di vitamine H3, che non servivano a nulla ma
non erano dannose; finché Mao stesso rinunciò, essendosi convertito, passati i sessant’anni, alla dottrina taoista.
Secondo questa teoria, il ‘yin’ delle secrezioni vaginali compensa il
declino dello ‘yang’, essenza virile, fonte di salute e longevità.
Poiché è essenziale accumulare ‘yang’, per non dissiparlo, il Timoniere eiaculava raramente, ricavando forza dal ‘yin’ delle secrezioni
della partner.
Quindi al fine di restar forte per il bene del Paese e della rivoluzione, sempre più coiti, con più ragazze nello stesso letto, meglio se
sorelle tra loro, e anche madre e figlie, se la prima ancor giovane.
Quella che diverrà la favorita, Zhang Yufeng, era stata una delle
inservienti del suo treno.
Si era conquistata la sua fiducia quando scoprì per caso, che i servizi segreti avevano messo microfoni e registratori sotto il suo letto
nel treno e lo avvertì.
A nulla valsero le giustificazioni su cui si arrampicarono i servizi:
“E’ perché nessuna parola del Presidente vada perduta, tutte siano
registrate e consegnate alla storia”.
Assatanato, ma non scemo: conosceva bene il covo di briganti che
lui stesso aveva costituito.
La sospettosità e il clima da nido di vipere alimentava in Mao nevrastenia e paranoia.
Dal medico voleva soffiate sulla salute degli altri esponenti politici
curati da altri.
A lungo proibì che il premier Zhou Enlai, minato dal cancro, fosse
operato.
Dette l’assenso solo quando non c’era più nulla da fare.
Vivendo auto-segregato tra piscina e stanza da letto, Mao non si
vestiva neanche, restando in camicione da notte o in mutande.
Pur diventato ‘Figlio del cielo’, era rimasto il cavernicolo di Yanan,
che si toglieva le piattole mentre spiegava la sua concezione del
mondo a Edgar Snow.
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Il grande esaltatore
dell’educazione
fisica,
(celebratissimo un suo
saggio sul tema) e del
lavarsi con acqua gelida,
da imperatore, salvo le
nuotate, non ha mai fatto
un bagno o una doccia:
le guardie gli strofinavano il corpo con pannicelli
caldi.
Mai usato spazzolino e
dentifricio.
Per tutta la vita si è
sempre solo sciacquato
la bocca con tè verde,
masticando le foglioline, che gli annerivano i
denti in sfacelo.
“La tigre non si lava mai
i denti, ma li ha sempre
taglienti”, sentenziava.
Il medico verificò una
volta che il Grande Timoniere aveva un contagio da trichonomas vaginalis, una forma di micosi, e che non si lavava mai i
genitali.
Neanche pannicelli caldi su questi.
Gli suggerì di lavarsi bene, lui e le fanciulle, chiese il permesso
di far sterilizzare tutto, letto e asciugamani.
Mao si rifiutò: “Mi lavo nel corpo delle donne”.
Per lo storico che voglia ricorrere alla psicanalisi, il dottore riferisce che Mao aveva solo il testicolo sinistro, e più piccolo del
normale; quello destro non era disceso.
Il che, naturalmente, non gli aveva impedito di far figli.
Quando ebbe sessantadue anni, un test seminale eseguito per
altre ragioni accertò che aveva perduto la fertilità.
Il filosofo e ideologo, condottiero e pedagogo, non aveva idea
dei meccanismi riproduttivi: “Sono diventato eunuco?”, domandò smarrito.
Le rivelazioni di questo libro corroborate da elementi concreti
erano state precedute da testimonianze attendibili, di fonte
cinese, raccolte da Harrison Salisbury sugli appetiti sessuali di
Mao in una biografia parallela di lui e di Deng Xiaoping.
Si aggiungevano a voci già sussurrate all’inizio degli anni Ottanta a Pechino, dove allora vivevo.
Restava però il mistero.
Non tanto sul letto del Timoniere, benché stuzzicante per il cicaleccio collettivo, e relativamente al quale il medico aggiunge
molto; quanto sulla sua personalità d’insieme, sul Mao privato
in relazione al Mao politico.
Un gigante del Novecento restava umanamente un enigma.
Il dottor Zhisui fornisce agli storici un Mao totale, con la messa
a nudo di una personalità primitiva, pre-moderna, che tenendo
presenti i suoi precetti, sermoni, direttive, lavori ideologici, lo
Stato e la società casta e spartana che aveva modellato, si rivela
come uno dei maggiori inganni della storia.
Il grande inganno del Novecento.
Sotto il carisma, niente. —
Dissensi & Discordanze
La musica
del dissenso
FABIO SARTORELLI
C
i sono stati momenti nella storia in cui l’espressione
del dissenso è rientrata fra i diritti ovvi e normali
dell’esistenza, e altri in cui essa è stata fermamente
negata.
Ci sono stati luoghi che hanno ammesso la libertà di pensiero,
altri dove le parole era bene sussurrarle, e altri ancora dove
nemmeno il bisbiglio era concesso, luoghi dove il silenzio rappresentava la via maestra verso il diritto alla vecchiaia.
Momenti e luoghi che esistono ancora, nel bene e nel male.
La storia della musica, come del resto tutte le storie, è la somma di questi momenti e luoghi e, a guardarla dall’alto, ne costituisce il loro e più ingombrante riflesso.
Quelli che seguono sono solo alcuni fra i tanti esempi possibili…
Che un musicista del XIX secolo fosse anche un rivoluzionario,
e quindi avesse facoltà di esprimere tutto il proprio dissenso,
per esempio nei riguardi delle tradizioni più radicate, rientrava
nell’ordine del pensiero romantico.
Beethoven e Wagner esistono non solo in quanto geni assoluti della musica, ma anche perché hanno potuto esprimersi in
un’epoca che era letteralmente alla ricerca del nuovo, dell’inaudito e, perché no, dell’effetto.
Entrambi, a loro modo, dissentivano: Beethoven nei riguardi
della figura del compositore, intesa come quella del servitore al
servizio di corti, nobili e nobilastri poco o nulla consapevoli del
loro talento; Wagner nei confronti dell’opera italiana.
Fatto sta che Beethoven è stato uno dei primi musicisti a leggere e a meditare Kant (la superiorità individuale, in fondo,
deriva anche da ciò che si frequenta nel corso dell’esistenza),
mentre Wagner ha dato vita all’opera tedesca: tedesca perché
in tedesco e perché fondata su miti e leggende proprie della
cultura tedesca (c’è anche molto altro, naturalmente, ma fermiamoci qui).
In Germania aleggiava grande rispetto nei confronti del genio, che proprio in quanto tale tende per sua natura verso il
dissenso.
Anzi, lo si incoraggiava in tutti i modi possibili.
A Beethoven, proprio per evitargli di vestire i panni del servitore, fu corrisposta una somma con carattere di vitalizio, mentre
a Wagner fu concesso di progettare e costruire il suo avveniristico Teatro con la folle complicità di Ludwig II di Baviera. ››
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58
Giuseppe Verdi
Richard Wagner
Insomma, ci sono luoghi dove il ‘dissenso’ è stato in certa misura addirittura finanziato.
Contemporaneamente, in Italia, il dissenso era invece tenuto a
freno dalla censura, ossia da un manipolo di burocrati-bacchettoni ben felici di poter ostacolare la corsa del nostro Beethoven
nazionale: Giuseppe Verdi.
Ogni parola, ogni virgola dei sui libretti, finiva così sul bilancino
della censura, non facilitando certo il compito al nostro eroe.
Certo, Wagner si esprimeva con un linguaggio oscuro, e usava i
miti come metafore del mondo moderno.
Quale censura avrebbe mai potuto capire che dietro al nano Alberich, che maledice l’amore pur di afferrare l’oro alle Ondine del
Reno, si nascondeva l’ebreo, pronto a tutto pur di soddisfare la
propria avidità e brama di potere?
Wagner, del resto, era troppo scaltro per pensare di ridicolizzare la
figura dell’ebreo in quanto tale, e perciò ha usato una maschera.
Il linguaggio di Verdi, invece, è sempre stato molto diretto: da
buon contadino, da ‘uomo delle Roncole’, come amava definirsi, le
cose le diceva in faccia, senza giri di parole.
D’altra parte, se il teatro di Verdi è diventato popolare, e quello
di Wagner no, lo si deve anche a questo, ma è certamente per la
stessa ragione che con Verdi la censura ha avuto gioco facile.
Entrando nella locanda di Sparafucile il Duca del Rigoletto chiede,
senza mezzi termini, e per precisa volontà di Verdi, “Tua sorella e
del vino”.
La censura s’offese, ovvio!, e sostituì la “sorella” con “una stanza”,
con buona pace di santa madre chiesa, intollerante nei confronti
di un uomo che manifestava così apertamente i suoi pruriti verso
una femmina.
Non-si–può!
Verdi dovette perciò ingoiare il rospo, ma in molte altre occasioni
ebbe una maggiore libertà d’azione, specie quando il proprio dissenso lo esprimeva non tanto nell’uso di un linguaggio ruspante ma
proibito, quanto piuttosto nei confronti delle ‘convenienze’, vale a
dire delle convenzioni vigenti nell’opera italiana dell’Ottocento.
Per la censura, queste erano faccende che riguardavano esclusivamente gli artisti e il loro mondo, e il più delle volte non infilava
becco.
Sicché, quando Verdi compose Macbeth chiese all’impresario della
Pergola che si adoperasse in prima persona affinché il cantante che
aveva interpretato la parte di Banquo da vivo, continuasse a farlo
anche dopo la sua morte.
Insomma, chiese che facesse anche la parte del fantasma di Banquo e si evitasse così di ricorrere a una controfigura, il cui fisico
non sarebbe mai stato identico a quello del protagonista.
Niente da fare.
Il cantante in questione si rifiutò, sostenendo che i cantanti sono
pagati per cantare e non per fare gli spettri.
Insomma, quando non aveva contro la censura, aveva contro la
stessa macchina teatrale.
Del resto egli era un innovatore, e lo era a tal punto che nessuna
delle sue ventisei opere poté essere rappresentata senza che ci fossero discussioni, ora con gli impresari, ora con i cantanti, ora con
la censura.
Alla fine, però, l’ha spuntata, direi che ha vinto su quasi tutti i
fronti, anche su quello più difficile dei burocrati.
I quali, per esempio, vista l’ambientazione (la Spagna) e l’epoca
(il 1560), lasciarono passare nel Don Carlo una triste verità tutta
italiana.
Eccola: “Dunque il Trono piegar dovrà sempre all'Altare”, un chia-
Dissensi & Discordanze
ro riferimento alla supremazia della chiesa nei riguardi del potere
temporale.
Verdi non si lasciò certo sfuggire l’occasione e fece sì che questa
verità emergesse al termine di una lunga scena musicalmente infernale; una delle scene più fosche, nere, anzi nerissime, mai uscita
dalla sua penna.
Come se ha parlare non fossero Filippo e il Grande Inquisitore, ma
Satana e le forze del male al gran completo, in presa diretta dall’inferno. Verdi finiva così col puntare il dito contro una realtà che,
tramite questa musica tremenda e sinistra, assumeva i connotati
mitologici del peccato originale, del male assoluto reso manifesto.
Che Verdi a volte la spuntasse nei confronti della censura italiana,
non fa impressione.
Come del resto non fa impressione assistere, in tutt’altro luogo e
contesto storico, alla sconfitta di un genio ad opera di un regime.
Unione Sovietica, 1934.
Va in scena uno dei più grandi capolavori di tutti i tempi: la Lady
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L’opera ha un successo straordinario, divenendo ben presto popolare nonostante una musica di non sempre facile ascolto.
Incuriosito da tanto successo il compagno Stalin decise di assistervi
di persona.
Era il 1935, era dicembre e faceva un freddo cane.
Questo però non gli impedì di uscire scocciato di Teatro prima
dell’inizio del terzo atto.
Nel gennaio del 1936 la Pravda pubblicò un articolo tristemente
passato alla storia, ‘Caos anziché musica’, una denuncia contro la
cacofonia musicale, contro ogni forma di modernismo, contro l’originalità a tutti i costi, difetti che l’anonimo giornalista rinveniva
con preoccupante concentrazione proprio nella Lady del giovane
compositore.
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Era una denuncia di partito, una presa di posizione dietro alla quale, oggi sappiamo, c’era Stalin in persona.
Era, insomma, il ‘sistema’ che si coalizzava contro l’artista, reo di
aver raccontato un pezzo di società russa con imbarazzante realismo, in un modo, cioè, che se da un lato toccava le corde della
tristezza, della violenza, dell’ignoranza, del sarcasmo, della crudeltà, dall’altra lasciava “incomprensibilmente” inoperose quelle del
sorridente ottimismo dei coloratissimi manifesti di partito.
Ancora una volta: non-si-può!
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dell’artista che prima ancora di esprimere il proprio dissenso, si
ritrova oggetto del dissenso di regime.
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dolorosa esperienza, affiancherà alla sua pur copiosa produzione
strumentale, un’altra opera in musica.
La Lady sarebbe stata la sua ultima esperienza nel genere.
L’Unione Sovietica aveva messo a tacere quello che per genio e
talento sarebbe potuto diventare il grande Verdi russo del XX
secolo.
Ma sì, facciamoci del male.
Luoghi e momenti, si diceva.
C’è un caso eclatante, nella storia musicale, di un dissenso che nasce dall’indifferenza collettiva nei confronti di chi comanda.
E’ un episodio che vede addirittura protagonista il Papa.
Siamo nella Francia del XIV secolo, e per la precisione a Parigi.
Qui c’è l’università dove la musica è materia di studio in quanto
appartenente alle discipline del Quadrivium (matematica, astronomia, geometria e musica).
Proprio qui, perciò, si compiono i più grandi progressi in materia,
specie per quanto riguarda la misura del tempo: il ritmo.
Nei due secoli precedenti, l’unica divisione ritmica ammessa era su
base ternaria.
Tre è il numero perfetto, è la Trinità, sembrava perciò del tutto
naturale che anche la musica si piegasse alle simbologie bibliche.
Nel XIV secolo, però, alcuni studiosi si resero conto che ciò che
va bene per la Bibbia, non è detto che vada bene anche per l’arte.
Sicché costoro introdussero anche la divisione binaria.
Naturalmente quella ternaria si meritò il titolo di ‘perfetta’ mentre quella binaria fu bollata come ‘imperfetta’, anche se questo non
fu sufficiente a occultare le reali intenzioni di questi dissidenti che,
in definitiva, stavano sdoganando la divisione binaria legittimandone l’uso accanto a quella ternaria.
Il Papa, Giovanni XXII, intervenne di persona, con un documento
ufficiale attraverso il quale dissentiva nei riguardi della nuova trovata.
Ma nonostante l’autorevolezza del dissenziente, i musicisti continuarono a ritenere che la notazione binaria fosse “cosa buona e giusta” e
che accanto alla ternaria, essa contribuisse a dare varietà alla musica.
Sicché fecero spallucce.
Anzi, uno di loro, uno dei più grandi, Guillaume de Machaut, si
premurò di rispondere indirettamente al Papa componendo una
grande Messa polifonica, molte parti della quale erano scritte in
tempo binario.
Fra queste, anche quella teologicamente più ‘delicata’, il Credo, che
egli provocatoriamente disseminò di ritmi imperfetti.
Ne uscì un capolavoro passato alla storia.
Il Papa aveva dissentito dal progresso musicale, i musicisti dissentiranno dal Papa.
“Io Credo...”, sembrava dirgli Machaut, “…ma su base due”. —
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Dissensi & Discordanze
Chi ci salverà
dalle emozioni?
MAURIZIO SERRA
S
e è vero che la madre dei luoghi comuni è sempre incinta, nessuno riesce a battere il record delle emozioni
nella vita dell’italica gente, almeno
a giudicare dai resoconti, interviste e gazzette da cui siamo inondati quotidianamente.
Il primo incontro con il nuovo Papa?
Un’emozione fortissima…
La lettura delle pagine che il grande
scrittore ottantenne ha dedicato al ricordo del suo primo giorno di scuola?
Un’emozione sconvolgente...
Il sushi di tonno al marsala del nuovo
chef rivelazione dell’anno?
Un’emozione impagabile…
Il parlamentare ci ammonisce che la politica è impegno, ma soprattutto emozione.
Il provveditore agli studi invita i docenti a risvegliare nei ragazzi curiosità ed emozioni.
L’allenatore di calcio confessa che non si vince,
senza regalare al pubblico un’emozione grandissima.
E così via.
Inversamente, l’indagato di un delitto è additato a pubblico ludibrio se, durante un sopralluogo o il confronto con i
parenti delle vittime, “non ha mostrato la minima emozione.”
Non per nulla, lo straniero di Camus fu accusato di non aver pianto al funerale della madre e finì sulla ghigliottina.
Quando una società si nutre di emozioni più che di ragioni, il patibolo non è mai lontano.
Si comincia con le feste, si prosegue (quando c’è) con la farina, e si
finisce spesso sulla forca.
Una rivista dal promettente titolo di Dissensi e Discordanze dovrebbe promuovere la costituzione del CSPCE, o Comitato di Salute Pubblica Contro le Emozioni, incaricato di vegliare e denunciare alla magistratura chi diffonda questi pericolosi gas tossici.
Il CSPCE dovrebbe ricordare alla popolazione che le emozioni
sono, prima ancora della violenza, l’arma preferita di dittatori e
demagoghi di ogni specie, razza, religione, colore.
Il totalitarismo punta a scatenare le emozioni, la democrazia
ad arginarle. ››
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Una società civile, liberale, equa si regge sul confronto d’idee, d’iniziative concrete, di provvedimenti trasparenti ed efficaci, non sul
vapore acqueo delle emozioni.
Giornali e televisioni degni del loro compito non dovrebbero produrre emozione bensì informazione.
La letteratura, il cinema, la pittura, lo spettacolo non sono mai
scesi così in basso come da quando lusingano le emozioni e gli
istinti peggiori del pubblico, gabbandoli per “libertà artistica”.
Non dimentichiamo, infine, che tra due individui che si amano le
emozioni migliori si provano ancora in camera da letto, e così per
fortuna sempre sarà.
Ma chiudendo prima la porta e tappando il buco della serratura. —
Francesco Hayez, Il Bacio, Pinacoteca di Brera, Milano
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Dissensi & Discordanze
Otto marzo:
le donne a casa
LETTERA-MANIFESTO DALLA GEMELLA DI MARCELLO VENEZIANI
U
omini tremate, le donne son tornate, a casa.
Dopo decenni di femminismo e di donne che lavorano, che escono, che vivono più fuori che dentro,
di lesbiche in piazza e di cubiste in esposizione, facciamo uno spietato bilancio.
Ci sentiamo più realizzate, siamo più felici o siamo più alienate,
più dipendenti, più frustrate?
È necessaria una rivoluzione copernicana per riconquistare la
casa perduta e la dignità femminile che vi abitava.
Il presente manifesto deflora la stupida festa della donna ed elogia la femmina matriarca e donnuta.
1) NOI REGINE DELLA CASA, LORO SUDDITI.
Come la storia del matriarcato insegna, dalla civiltà mediterranea al passato più vicino, e come insegnavano anche le nostre
nonne, se non le nostre madri, le donne erano le sovrane e non
le domestiche dei loro figli e mariti, come poi sono diventate,
dimezzandosi tra casa e lavoro; e col passare degli anni lo statuto
di madri e di custodi delle tradizioni domestiche, dei beni di casa
e dell'estremo rifugio dell'uomo, dava loro un potere e perfino un
carisma negato ai maschi.
E da vecchie diventavano quasi ieratiche, venerate come sagge
tirannosaure, sante e veggenti, grembi atavici da cui discendeva
la famiglia, sedute su troni regali a tessere il passato e il futuro
dei loro maschi.
2) NOI MANDANTI, LORO GARZONI.
L'importanza strategica di telecomandare mariti, compagni e figli da casa.
Chi l'ha detto che chi sta a casa o nelle retrovie conti meno di chi
sta fuori e si agita?
È in casa che si decidono le strategie, è in casa che si hanno le
chiavi della propria vita e dei famigliari, e chi comanda a casa,
comanda fuori.
La casa come fortezza inespugnabile e come quartier generale in
cui studiare guerre, assalti e conquiste, o in cui preparare ritirate,
fughe e rifugi ascetici.
E poi chi domina la casa ha sempre due possibilità, di restare o di
uscire; mentre chi non ha casa ne ha una sola.
3) NOI PILASTRI, LORO PASSEGGERI.
Contrariamente a quel che si pensa, la nuova società nomade
restituisce un ruolo decisivo al focolare.
Nella società della mobilità e del lavoro flessibile e precario, ››
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Edgar Degas, Giovane donna con Ibis, 1860-62, Metropolitain Museum of Art, New York
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Dissensi & Discordanze
acquista straordinaria importanza la casa, che sembrava invece
destinata ad essere disertata per via dello statuto di nomadi
della società globale.
Invece a casa oggi c'è il computer che ci apre al mondo, c'è il
lavoro a distanza, c'è la tecnologia e la santissima trinità del
moderno: telefono, internet e tv.
Si comunica da casa più che per strada.
Chi domina la casa, domina la comunicazione.
Il focolare domestico ha bisogno non di un angelo ma di più,
quasi di un Madreterno...
4) NOI MULTIPLE, LORO MONOCORDI.
La donna ha, rispetto all'uomo, innegabili risorse biologiche in più.
Oltre a vivere più a lungo e a resistere di più a molte malattie,
dispone di un patrimonio erotico e biologico molto più ricco.
Può avere molteplici orgasmi e coltivare multipli rapporti, anche paralleli e consecutivi, mentre un uomo ha risorse sessuali
più limitate; può fingere orgasmi mentre l'uomo è vincolato a
esibire l'erezione.
Insomma la donna può giocare su più tavoli e perfino alternarsi
nel ruolo di donna e di uomo, mentre all'uomo a malapena gli
riesce uno.
5) NOI CORDOMBELICOSE, VOI CORDLESS.
La donna ha una carta genetica in più: la maternità, di cui la
paternità è solo una pallida e lontana imitazione.
L'abissale differenza tra inseminazione e gravidanza, tra pater e
parto, tra ruolo paterno e allattamento.
La dipendenza dei figli dalle donne è fisica e metafisica, carnale
e biologica, alimentare e nutriente; quella dai padri può essere
al più intellettuale e morale, o economica.
Un padre è wireless, mentre una madre detiene un cordone
ombelicale invisibile e perenne.
6) VOI FEMMINISTE, NOI FEMMINE.
Il femminismo ha portato si, alcune conquiste innegabili ma nel
complesso si è concluso in un'abdicazione del regno femminile.
La donna è diventata l'imitazione isterica e scadente del maschio.
È necessario riprendersi la femminilità in tutta la sua gagliarda
pienezza.
Aboliamo l'8 marzo e lasciamo le mimose nei campi: sono più
belle e non danno il mal di testa, come nelle fioriere di casa.
La nostra festa è capodanno, precedenza alle donne.
7) VOI VELINE, NOI MATRIARCHE.
La donna disinibita, anzi esibizionista, in tv e nella pubblicità,
nella vita e nel lavoro, è diventata ancora più donna oggetto
della donna sottomessa del passato; il suo sex appeal è usato
per vendere merci e sedurre in nuove forme commerciali di prostituzione.
La donna diventa strumento e intervallo di ricreazione, geisha
per trattative industriali e commerciali, perfino surrogato della
masturbazione.
Se le donne velate dell'Islam sono sottomesse, le donne veline
dell'occidente sono solo pruriti e non persone, icone e non caratteri.
Dietro un velo si può celare un volto vero e un'intelligenza
viva; dietro due labbra siliconate e un viso liftato, il volto diventa fiction e l'intelligenza è emigrata clandestinamente.
Conclusione: La donna è immobile.
Liberiamoci dal falso pregiudizio da opera lirica che la donna è
mobile, qual piuma al vento.
La donna è l'asse che non vacilla, il punto fermo negli assetti
famigliari e sociali, se è donna vera, con gli attributi.
Il suo punto di forza era l'unità della famiglia; oggi guadagna
di più, anche dalle separazioni, ma vale di meno.
Lo dice anche lo sport: chi gioca in casa è favorito.
Non dimentichiamo che donna deriva da domina e da domus,
signora e casa; riprendiamoci la signoria e il suo castello. —
Marcella Veneziana
Loving Couple (Mithuna), India, XIII Secolo,
Metropolitain Museum of Art, New York
65
66
68
Pre-Visioni
Il migliore argomento
contro la democrazia è una
conversazione di cinque
minuti con un elettore medio.
Winston Churchill
69
GLI ARTICOLI SONO STATI REDATTI
NEL MESE DI AGOSTO DEL 2013
70
Pre-Visioni
2063
LIVIO CAPUTO
O
gni tanto mi capita di avere un incubo: essere ‘ibernato’, risvegliarmi nell’Europa del 2063 e ritrovarmi in un mondo completamente diverso.
Un mondo in cui noi europei ‘indigeni’ siamo diventati minoranza, in cui i costumi sono cambiati, in cui molte
chiese sono diventate moschee e il presidente della Commissione
(ma è possibile che tra cinquanta anni esista ancora?) è un signore nato sì in Germania, ma da genitori magrebini.
Un mondo che, dopo essere stato il centro del globo per quasi due millenni, è diventato una specie di colonia afro-asiatica,
un po’ come accadde all’antica Grecia in seguito alla conquista
romana o, se preferite, alla stessa Roma dopo le invasioni barbariche.
Si tratta solo di un incubo o di una anticipazione della realtà?
Se dimentichiamo per un momento il nostro innato (e per molto
tempo anche giustificato) senso di superiorità, dobbiamo prendere atto che oggi quasi tutto congiura contro di noi.
Con qualche eccezione (Francia, Paesi scandinavi), abbiamo il
tasso di natalità più basso del mondo e la prospettiva non solo di
un rapido invecchiamento, con conseguente inflazione di pensionati, ma anche di una drastica riduzione della popolazione.
Abbiamo, metaforicamente, cessato di avere fame, nel senso che
i nostri giovani non hanno più voglia di svolgere molti lavori,
anche remunerativi, ma troppo faticosi e impegnativi per i loro
gusti e siamo perciò costretti ad importare mano d’opera pur in
presenza di forti tassi di disoccupazione.
Stiamo, gradualmente e anche qui con qualche eccezione, perdendo la leadership industriale su cui abbiamo costruito la nostra
fortuna, perché la concorrenza corre più veloce, la ricerca spesso
langue e il nostro clima – come dice Marchionne dell’Italia, ma
come vale anche per altri Paesi europei – è sempre meno adatto
a “fare industria”.
I nostri popoli hanno, parafrasando Berlinguer sulla rivoluzione d’ottobre, “perduto la loro spinta propulsiva”, e neppure la
crisi che stiamo attraversando sembra in grado di restituirgliela,
tant’è vero che invece di fare da avanguardia allo sviluppo, come
è accaduto per tanti secoli, siamo ormai quasi sempre al traino
degli altri.
Alcune settimane fa, la International Herald Tribune aveva in
prima pagina una inchiesta sulla Germania (la Germania, locomotiva della UE, non la Grecia o il Portogallo!) il cui titolo faceva accapponare la pelle: “Un gigante economico affronta una
tendenza fatale”.
La tendenza fatale è quello della perdita di popolazione, che ha
cominciato a manifestarsi nel decennio scorso ma che nel 2060
(tre anni prima del mio ipotetico risveglio) dovrebbe tradursi in
un calo del diciannove per cento (19%), dagli attuali ottanta ››
71
a sessantasei milioni, concentrato soprattutto nella fascia lavorativa compresa tra i quindici e i sessantaquattro anni.
Tutti gli sforzi compiuti dai vari governi, democristiani e socialdemocratici, per incrementare la natalità, ridotta a uno punto
quattro bimbi per donna fertile, sono naufragati, per ragioni di
costume, di soldi, o – come sostengono certi pessimisti – per una
sorta di involuzione della specie.
E quel che è peggio, i sociologi sono persuasi che invertire la
tendenza in tempi utili sia impossibile.
Il rimedio a questo processo, che interessa la maggior parte degli
Stati europei è - ci dicono - l’immigrazione: non più dall’Europa
dell’Est, che dopo la caduta del comunismo se la cava ormai da
sola, ma dai Paesi sottosviluppati, dove le miserande condizioni
economiche, il proliferare dei conflitti, l’eccesso di popolazione e
una fertilità tuttora altissima spingono masse sempre più consistenti di giovani a cercare fortuna nella UE.
A Ferragosto 2013, il ministro Alfano ci ha rivelato che nell’ultimo anno i soli sbarchi di clandestini sulle nostre coste ci hanno
portato ventiquattromila nuovi abitanti.
Visto il gran numero di stranieri privi di permesso di soggiorno,
è difficile calcolare quanta sia ormai la percentuale di extracomunitari, ma dovrebbe aggirarsi sul sette per cento, rispetto allo
zero-virgola di venti anni fa.
Molti sono diventati indispensabili e se ne andassero tutti insieme metterebbero in crisi la società.
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Ma proprio qui sta il pericolo.
Più abbiamo bisogno di baristi cinesi, pizzaioli egiziani, contadini pakistani e via dicendo, che poi spesso salgono, per la gran
voglia di fare, la scala sociale, più ne faremo entrare, e le nostre
città cambieranno sempre più faccia.
Già oggi, in certe ore, sulla metropolitana di Milano sembra di
essere a Londra o a New York.
Ma, con la nazionalità dei negozi, cambia anche l’aspetto delle
strade, con la formazione di quartieri abitati quasi esclusivamente da non italiani si modifica la struttura delle città.
Si tratta di trasformazioni rapide quanto inarrestabili, che magari ci faranno somigliare di più a certe grandi metropoli che ci
piace visitare, ma che sono un passo importante verso quell’Europa non tanto multietnica, quanto ‘colonizzata’ che visito nei
miei incubi.
Forse sono uno xenofobo inguaribile, un nazionalista vecchia maniera, un parruccone da ignorare.
Ma voglio egualmente mettere in guardia chi, oggi in culla o
poco più, sarà sulla breccia nel ’63.
Scegliere tra un sindaco milanese e uno musulmano, come potrà
benissimo capitare, sarà magari divertente, vedere in giro migliaia di ragazze con il velo non sarà una tragedia.
Ma sarà la sconfitta, definitiva, dell’Europa che la nostra generazione ha costruito ed amato e che a quel punto diventerà solo un
pezzo di storia. —
Pre-Visioni
Usa 2016,
John Roberts
in corsa per la Casa Bianca?
MAURO DELLA PORTA RAFFO
C
ome più volte scritto e
sottolineato, il partito
repubblicano USA, in
prospettiva elettorale
e limitatamente a White House
(altra cosa, il congresso), si trova
e maggiormente si troverà in notevoli difficoltà.
Gli aventi diritto al voto non appartenenti al tradizionale ‘zoccolo duro’
GOP (Grand Old Party), già oggi in
gran numero, sono destinati a diventare larga
maggioranza nel Paese.
Così stando le cose, indispensabile una nuova collocazione
che tenga conto della realtà in movimento e consenta un approccio
politico e sociale in qualche modo nuovo e in prospettiva vincente.
Dappoiché, alla fine, in un sistema quale quello presidenziale USA
è nel candidato alla presidenza quasi più che nel programma che
si incentrano e si identificano idee e istanze, sarà necessario nel
2016, allorquando, Obama fuori gioco, anche i democratici saranno impegnati in una scelta non facile, trovare un pretendente
di alto profilo, capace e, dal punto di vista delle riforme in genere
nonché in specie delle politiche sociali nei confronti delle nuove
etnie oramai assai più che emergenti, inattaccabile.
L’ipotesi Jeb Bush sullo sfondo (l’ex governatore della Florida è,
anche per ragioni familiari, da sempre aperto al nuovo), congelata
l’affascinante ipotesi Condoleezza Rice (il segretario di Stato del
secondo mandato di George Walker Bush si sottrae per ragioni
personali), incerta l’ipotesi Chris Christie (non carismatico certamente il governatore del New Jersey), perché non pensare al presidente della Corte Suprema John Roberts? ››
73
Repubblicano di reale spessore, il ‘chief’ si è grandemente segnalato per le posizioni equidistanti assunte in occasione di
sentenze di estrema delicatezza risultando determinante, vero
e proprio ‘ago della bilancia’, in senso ‘liberal’ peraltro non
tradendo affatto – e lo si evince dal contenuto della motivazioni relative alle decisioni assunte – le origini ideali e ideologiche.
È vero, mai nella lunga storia dei confronti per la conquista di
White House si è visto in competizione il presidente della Corte Suprema ma uno dei suoi membri sì.
Nel 1916, infatti – e stranamente, essendo le prossime consul-
74
tazioni fissate al 2016, esattamente un secolo prima – il giudice
appunto della predetta Corte Charles Evans Hughes, rassegnate le dimissioni dall’incarico (cosa che dovrebbe nel caso fare
anche Roberts), corse in opposizione all’uscente Woodrow Wilson perdendo di stretta misura.
Il precedente, quanto al risultato, non conta perché allora si
trattava di defenestrare il presidente in carica e nel 2016 così
non potrà essere.
Roberts – i repubblicani ci pensino – è il candidato ‘giusto’ per
tornare ad occupare lo scranno presidenziale: è l’uomo ‘sopra le
parti’ del quale hanno assoluta necessità. —
Pre-Visioni
Iran nucléaire: le pire n’est pas toujours sûr
FRANÇOIS NICOULLAUD
ANALYSTE DE POLITIQUE
INTERNATIONALE,
ANCIEN AMBASSADEUR
DE FRANCE EN IRAN
D
ans la tourmente actuelle où se trouve le MoyenOrient, l’Iran apparaît comme un espace plutôt
préservé.
Les élections présidentielles de juin dernier se sont
déroulées dans un climat apaisé.
Bien entendu, le régime avait sélectionné les candidats, mais en
laissant un minimum de choix aux électeurs, et c’est vers le candidat le plus ouvert à la démocratie et aux réformes que ceux-ci se
sont tournés.
Hassan Rouhani est certes un homme du système, donc parfaitement loyal à la République islamique et à son leader suprême, Ali
Khamenei, mais il a emporté l’élection en faisant campagne pour
une évolution du régime, et surtout pour un redressement de la
situation économique au travers d’une normalisation des relations
de l’Iran avec le monde extérieur, donc d’une levée des sanctions,
et pour cela d’un règlement de la question nucléaire.
On se souvient de sa phrase selon laquelle c’était très bien d’avoir
des centrifugeuses qui tournent pour produire de l’uranium enrichi, mais à condition que la vie des gens puisse aussi normalement
tourner.
Dans le passé, avant l’arrivée d’Ahmadinejad, Rouhani, quand il
conduisait la négociation nucléaire avec les Européens, a démontré
qu’il était un excellent négociateur, mais aussi un homme de bonne volonté, capable de concessions et de compromis.
C’est lui qui avait convaincu, fin 2003, le Guide suprême d’autoriser la suspension des opérations d’enrichissement d’uranium,
activité en effet hautement sensible, le temps de trouver un accord
définitif avec la communauté internationale.
Il l’avait aussi convaincu que l’Iran devait signer le protocole additionnel de l’Agence internationale de l’énergie atomique,
autorisant des inspections non seulement sur les installations ››
75
nucléaires préalablement déclarées, mais sur l’ensemble du territoire.
Et l’Iran avait accepté que ce protocole soit immédiatement appliqué, sans attendre son approbation par son Parlement.
Mais au fil de la négociation, les Iraniens ont peu à peu découvert
que les Européens cherchaient à obtenir d’eux l’abandon définitif
de leurs activités d’enrichissement, ce qui leur était inacceptable.
En 2005, à l’époque où Ahmadinejad s’installait à la présidence
de la république, la négociation apparaissait clairement dans l’impasse, l’activité d’enrichissement se préparait à redémarrer, et le
Protocole additionnel n’était plus appliqué.
Rouhani, alors, démissionnait.
Le voilà donc à présent président, et pressé de donner du corps à
ses promesses de campagne.
Car les sanctions internationales font mal à la population, créent
de la pénurie, du chômage et de l’inflation.
Tant qu’elles seront là, l’Iran ne peut espérer voir redémarrer son
économie, et le gouvernement a besoin de ce redémarrage pour
asseoir son autorité, se bâtir une popularité durable, garantir en
somme sa survie.
76
Car les conservateurs du régime, frustrés d’une victoire électorale
qui leur semblait acquise, puisqu’ils tenaient tous les leviers du
pays, restent en embuscade, prêts à tirer parti de tout échec des
nouvelles équipes.
Ce sont donc les Américains et les Européens qui tiennent le sort
de Rouhani et de son gouvernement entre leurs mains, puisqu’ils
sont libres de desserrer ou non l’étau du système des sanctions
dont ils sont les maîtres.
Pour le moment, ils ont accueilli plutôt favorablement l’arrivée de
Rouhani, ont pris note avec intérêt de son intention déclarée de
débloquer le dossier nucléaire, ainsi que de la nomination de personnalités pragmatiques et ouvertes à un certain nombre de postes-clés, notamment à la tête du ministère des affaires étrangères.
Ils ont fait cependant comprendre que ceci n’était pas suffisant
à leurs yeux, et qu’ils attendaient du nouveau gouvernement,
précisément sur la question nucléaire, « des gestes concrets, destinés à rétablir la confiance ». En somme, ils demandent à Rouhani de « faire le premier pas ».
Mais dans la mesure où ils n’abattent pas eux-mêmes leurs cartes,
Pre-Visioni
ils le placent en position
difficile. Il est en effet illusoire d’attendre d’un
responsable
politique,
dans n’importe quel pays
du monde, qu’il fasse des
concessions s’il ne peut
simultanément afficher
pour son opinion publique les bénéfices qui en
sont tirés.
A l’heure actuelle, tout
geste de Rouhani non
immédiatement
suivi
d’un geste de réciprocité de l’Occident serait
aussitôt dénoncé en Iran
par des durs du régime, notamment par la majorité parlementaire conservatrice, comme un geste inacceptable de soumission aux
adversaires de l’Iran : États-Unis, Europe, Israël… et l’on reprendrait l’accusation lancée contre Rouhani d’avoir déjà fait preuve de
trop de faiblesse lorsqu’il était il y a dix ans en charge du dossier
nucléaire.
Rouhani se trouve donc dès le début de sa présidence placé dans
la position inconfortable qu’avait connu son lointain prédécesseur,
le président réformateur Mohammad Khatami, durant ses deux
mandats, de 1997 à 2005.
Khatami aussi avait été considéré comme plutôt sympathique par
les Américains et les Européens, qui avaient salué ses efforts d’ouverture et de coopération.
Mais ce n’était pas assez pour faire tomber la barrière de méfiance
à l’égard de la République islamique.
Certains jugeaient que Khatami était trop faible à l’intérieur du
système pour être pris au sérieux.
Et c’est vrai que beaucoup de décisions lui échappaient : en matière de droits de l’homme, en matière d’interventions extérieures
sur le théâtre du Proche-Orient –Liban, Syrie, Israël…-, confiées
au Pasdaran, cette armée d’élite rendant compte directement au
Guide suprême.
D’autres considéraient qu’il y avait là une répartition des rôles,
Khatami jouant celui du leader ouvert et modéré, mais pour mieux
faire accepter la réalité du régime, qui n’avait pas changé.
Et donc, malgré les gestes faits sur le dossier nucléaire, malgré l’aide importante apportée aux Américains dans leur intervention en
Afghanistan, rien n’avait bougé, et l’Iran avait même été classé par
George W.Bush parmi les
pays de « l’axe du mal ».
Faute de résultats, la
politique
d’ouverture
de Khatami a peu à peu
perdu de sa crédibilité
aux yeux de l’opinion
iranienne, et la déception installée a grandement facilité en 2005
l’élection, en la personne d’Ahmadinejad, d’un
président partisan d’une
politique de défi à l’égard
de l’Occident.
Évidemment, cette politique a été parfaitement
stérile, et huit ans ont été à nouveau perdus.
Voilà donc le scénario catastrophique auquel il s’agit maintenant
d’échapper.
Et là, Américains et Européens ont une importante responsabilité
à exercer.
S’ils restent crispés sur leurs positions antérieures, s’ils refusent
d’accomplir les gestes d’ouverture qui permettraient d’amorcer
une sortie de crise, rien ne bougera.
Sauront-ils le faire ?
C’est vrai qu’ils sont en ce moment empêtrés dans d’autres dossiers difficiles, voire dramatiques comme le dossier syrien.
C’est vrai que les États-Unis sont sous la pression de pays tels
qu’Israël ou l’Arabie saoudite, qui ne voient pas forcément d’un
bon œil une normalisation des relations de l’Iran avec le monde
extérieur, car cela rendrait à ce pays le rôle important qui lui revient naturellement au sein de sa région.
Mais d’un autre côté, le dossier nucléaire iranien offre à Obama la
possibilité d’un important succès diplomatique qui laisserait une
trace dans l’Histoire.
C’est un dossier sur le plan technique plutôt facile à régler, puisque
chacun a en fait une idée assez claire des contrôles supplémentaires à
installer pour garantir que l’Iran ne puisse accéder à l’arme nucléaire.
C’est enfin un dossier dont le règlement pourrait créer une atmosphère positive dans une région qui en a tant besoin, et faire naître
un effet d’entraînement pour le règlement d’autres dossiers difficiles en attente d’une solution.
Peut-être donc que cette fois-ci, le pire, auquel la région du Moyen-Orient est tellement habituée, ne va pas se produire. —
Iran nucleare: non diamo il peggio per scontato
Le elezioni dello scorso giugno si sono svolte in un clima disteso.
Beninteso i candidati erano passati al vaglio del regime che pure ha lasciato un leggero margine di scelta agli elettori i quali si sono rivolti al più
aperto alla democrazia e alle riforme.
Hassan Rouhani è certamente espressione del sistema e perciò perfettamente
leale alla Repubblica Islamica e al suo leader supremo, Alì Khamenei,
ma ha intascato la vittoria impostando la sua campagna elettorale sulla
possibile evoluzione del regime e soprattutto sull’innalzamento del livello economico, impegnandosi per una normalizzazione dei rapporti tra ››
FRANÇOIS NICOULLAUD
traduzione di Chiara Del Nero
Nell’attuale bufera che sconvolge il Medio Oriente, l’Iran appare come uno
spazio abbastanza protetto.
77
l’Iran e il mondo esterno, lasciando intravedere la possibilità di una
rimozione delle sanzioni e, a seguire, di una risoluzione della questione
nucleare.
Tutti ricordano la sua battuta secondo la quale è certamente una bella cosa
possedere delle centrifughe che girino per produrre uranio arricchito a condizione, però, che la vita delle persone possa anch’essa girare per il verso giusto.
In passato, prima dell’avvento di Ahmadinejad, Rouhani, durante i negoziati con l’Europa per il nucleare, ha dimostrato di essere non solo ottimo
negoziatore ma anche uomo di buona volontà, capace di concessioni e compromessi.
Fu lui infatti, nel lontano 2003, a convincere la Guida suprema ad autorizzare la sospensione delle operazioni di arricchimento dell’uranio, una
questione effettivamente molto delicata, giusto per il tempo di trovare un
accordo definitivo con la comunità internazionale.
L’aveva inoltre convinto che l’Iran dovesse firmare il protocollo aggiuntivo
dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, autorizzando successive
ispezioni non solo alle installazioni nucleari precedentemente dichiarate
ma anche su tutto il territorio.
E l’Iran, senza attendere l’approvazione del proprio Parlamento, aveva
addirittura accettato l’applicazione immediata di tale protocollo.
Ma durante il negoziato gli Iraniani si erano resi conto, a poco a poco, che
gli europei cercavano di ottenere da loro, cosa assolutamente inaccettabile,
la chiusura definitiva delle attività per l’arricchimento dell’uranio.
Nel 2005, quando Ahmadinejad divenne presidente della repubblica, il
negoziato stagnava chiaramente in una impasse e mentre veniva ripresa l’attività di arricchimento, il protocollo aggiuntivo non venne più applicato.
Allora Rouhani si dimise.
Eccolo però, ora, presidente e presidente impegnato a tener fede alle sue
promesse.
Le sanzioni internazionali fanno male alla popolazione, creano povertà,
accattonaggio e inflazione.
Finché persistono, l’Iran non può sperare di decollare economicamente e
invece il governo ha bisogno che ciò accada per consolidare la propria autorità, costruire una durevole popolarità e, in definitiva, garantirsi la
sopravvivenza.
I conservatori del regime, frustrati per una sconfitta imprevedibile visto
che occupavano tutti i posti di comando, sono in agguato, pronti a trarre
vantaggio dal minimo cedimento della nuova squadra.
Il destino di Rouhani e del suo governo è quindi nelle mani degli americani
e degli europei che sono liberi di sciogliere o meno la stretta delle sanzioni
da loro stessi stabilite.
Per il momento hanno accolto abbastanza favorevolmente la presenza di
Rouhani e preso nota, con interesse, della sua intenzione manifesta di aprire il dossier nucleare e di assegnare posti-chiave a personalità di spicco,
pragmatiche e aperte, in particolare al ministero per gli affari esteri.
Pertanto, si comprende come tutto ciò non sia sufficiente per l’Europa e che
si attendano, dal nuovo governo e proprio sulla questione del nucleare,
“gesti concreti, atti a ristabilire un clima di fiducia”.
Insomma, l’Europa chiede a Rouhani di “fare il primo passo”.
Nel medesimo tempo l’Europa lo pone in difficoltà se non si sbilancia e
mostra a sua volta le carte.
E’ del tutto illusorio aspettarsi da un politico, a qualunque distretto del
mondo appartenga, che faccia concessioni se non può simultaneamente dimostrare all’opinione pubblica del proprio paese i benefici che deriveranno
da una tale operazione.
In questo momento qualunque gesto di Rouhani cui non segua immediatamente un gesto di reciprocità da parte dell’Occidente sarebbe, in Iran,
immediatamente denunciato dai duri del regime, in particolare dalla
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maggioranza dell’ala parlamentare dei conservatori, come gesto inaccettabile di sottomissione agli avversari del Paese: Stati Uniti, Europa, Israele
… e riprenderebbero le accuse contro l’attuale presidente a sottolinearne la
debolezza come dieci anni fa quando era stato incaricato del dossier sul
nucleare.
Rouhani si trova perciò, fin dall’inizio del suo mandato presidenziale,
nella scomoda posizione che già il suo lontano predecessore, il riformatore
Mohammad Khatami, aveva dovuto sopportare durante i suoi due mandati, dal 1997 al 2005.
Anche Khatami era stato considerato “simpatico” dagli americani e dagli
europei che avevano salutato i suoi sforzi come testimonianza di apertura
e cooperazione.
Ma non bastò per far cadere la diffidenza nei riguardi della Repubblica
islamica.
Alcuni pensavano che Khatami si mostrasse troppo debole all’interno del
sistema per ottenere credito.
Ed è vero che si lasciò sfuggire l’opportunità di decidere su alcune faccende:
diritti degli uomini, interventi esterni sulla scena del vicino Oriente – Libano, Siria, Israele … -, lasciati nelle mani del Pasdaran, armata d’élite
fedele unicamente alla Guida suprema.
Altri pensavano invece che esistesse una ripartizione dei ruoli funzionale
per la quale Khatami impersonava il leader aperto e moderato ma unicamente al fine di rendere accettabile la realtà del regime che non dava segni
di cambiamento.
Ecco perché, malgrado le aperture sul nucleare, malgrado gli aiuti importanti agli americani nel loro intervento in Afghanistan, nulla era cambiato e l’Iran era stato perfino classificato da George Bush tra i paesi dell’
”asse del male”.
Senza risultati, la politica di apertura di Khatami finì col perdere credibilità agli occhi dell’opinione pubblica iraniana e la forte delusione ha contribuito grandemente all’elezione, nel 2005, di Ahmadinejad considerato
come presidente favorevole ad una politica di sfida all’Occidente.
Evidentemente tale politica, assolutamente sterile, ha consentito una perdita di tempo di altri otto anni.
E, oggi, una prospettiva catastrofica dalla quale fuggire. America e Europa sono chiamate ad una grande responsabilità.
Se resteranno aggrappate alle loro precedenti posizioni, se rifiuteranno gesti di apertura che permetterebbero di avviare un’uscita dalla crisi, nulla
cambierà.
Sapranno farlo?
E’ vero che in questo momento sono invischiate in altre difficoltà come la
drammatica situazione in Siria e che gli Stati Uniti subiscono la pressione
di Israele e Arabia Saudita i quali non vedono certo di buon occhio una
normalizzazione delle relazioni tra Iran e mondo esterno dato che ciò permetterebbe a questo Paese di riprendersi il ruolo importante che gli spetta
naturalmente in seno alla sua regione.
Ma, al di là di queste oggettive difficoltà, è vero altrettanto che il dossier
sul nucleare iraniano offre ad Obama l’opportunità di un importante successo diplomatico che lascerebbe buona traccia di sé nella Storia.
Sul piano tecnico si tratta di un dossier abbastanza facile da sistemare
dato che si ha un’idea sufficientemente chiara di quali controlli ulteriori
necessitano per assicurarsi che l’Iran non possa sviluppare l’arma nucleare.
E, in ultimo, la risoluzione del problema contribuirebbe a creare un miglior
“clima” in una regione che ne ha tanto bisogno e avrebbe una ricaduta
positiva per la sistematizzazione di altre problematiche difficili e in attesa
di una risoluzione.
Questa volta potrebbe quindi non prodursi il “peggio” al quale il Medio
Oriente è purtroppo abituato. —
Pre-Visioni
Usa 2016:
i possibili
candidati
ALBERTO PASOLINI ZANELLI
Fine agosto 2013,
ho chiesto all’ottimo e più che esperto in materia
Alberto Pasolini Zanelli,
già corrispondente e inviato de
Il Giornale negli USA,
di esaminare ad oggi le possibili se non probabili
candidature democratiche e repubblicane
per le elezioni presidenziali del 2016
P
I DEMOCRATICI
er cercare di estrarre il filo conduttore dal solito groviglio preelettorale americano, cioè di un Paese in cui i
partiti tradizionali all’europea quasi non esistono, e tenerlo stretto per orizzontarsi e bene, nella prospettiva
del 2016, occorre chiarire subito una differenza.
Fra democratici e repubblicani, naturalmente, ma in questo caso
non tanto per ragioni ideologiche e programmatiche quanto perché essi condurranno due campagne elettorali interne (fra gli
aspiranti alla candidatura alla Casa Bianca) completamente differenti.
Il confronto e lo scontro fra repubblicani sarà essenzialmente di idee.
Non solo idee strategiche ma proprio idee nel senso stretto del
termine, concezioni della politica, dei problemi, delle soluzioni e
delle conseguenze.
La contesa fra i democratici, invece, sarà fra persone.
Normalmente si dice ‘fra uomini’, ma questo evidentemente non
è il caso dal momento che il favorito è di gran lunga una favorita:
Hillary Clinton.
Che a questo rango è arrivata non tanto per la propria ideologia
e neppure per importanti innovazioni di tattica elettorale bensì
per meriti familiari e si può dire ‘dinastici’.
Quello che si svolgerà nelle primarie democratiche del 2016
sarà dunque in primo luogo un ‘referendum istituzionale’, ››
79
che può perfino ricordare quello italiano di esattamente settant’anni prima fra Monarchia e Repubblica.
La dinastia Clinton non è, naturalmente, l’unica nella storia politica degli Usa.
Ci sono stati gli Adams e i Roosevelt e i Kennedy e i Bush, ma
si sono sempre trasmesse per parentele di sangue, non matrimoniali.
Questa potrebbe essere, in un altro momento, una debolezza di
Hillary, ma nell’America di oggi è una forza perché coniuga (in
questo caso è proprio la parola giusta) un’eredità familiare con
la forza dirompente delle rivendicazioni femminili e femministe.
Lo sanno tutti ma Hillary preferisce ripeterlo, in una campagna
elettorale che, non dimentichiamolo, nel suo caso già è cominciata.
Nel 2008 lei era in campo per la Casa Bianca, era la favorita (e ha
mancato l’obiettivo solo per l’emergere impreveduto di un altro
simbolo incarnato, Barack Obama, l’afro).
Ma in realtà iei era candidata fin dal 1992, dal momento in cui
si presentò Bill Clinton e la sua sposa si costruì uno slogan tutto
per sé, copiato dalle campagne di vendita con lo sconto: “Se comprate Bill, avrete anche me gratis”.
La successione dinastica fu interrotta, lo abbiamo visto, dall’emergere di un fenomeno rivale: un Nero infilò per primo la porta
spalancata alle Minoranze con un breve anticipo sulla Donna.
Di tanto stretta la misura che va ricordata: del totale dei voti
espressi nelle primarie democratiche del 2008 Obama raccolse
il cinquanta e uno (50,1) per cento, la Clinton il quarantanove e
nove (49,9).
Pari a diciotto milioni di voti preferenziali, una cifra che Hillary
non ha cessato da allora di ribadire: “Ho fatto diciotto milioni
di graffi nella cupola di vetro più alta e più spessa del mondo,
quella che finora ha tenuto sotto le donne”.
Un martellamento che non è destinato a cessare, quasi una reclamata eredità.
Il cui effetto è ingigantito da una assenza: Obama non ha eredi
né personali né ideologici.
I suoi otto anni di Casa Bianca, da cui sarebbe comunque troppo
presto trarre oggi un bilancio, hanno indicato un leader onesto
e rispettabile ma non trascinante, un candidato eccellente e un
presidente più modesto, negli insuccessi e anche nei successi, che
comunque non sono mancati.
Molte cose possono evidentemente ancora accadere nei tre anni
che intercorreranno fra la stesura di queste note e l’appuntamento degli americani con le urne nel novembre 2016, molte
sorprese buone o cattive; ma allo stato sembra molto probabile
che il bilancio di otto anni di Obama non sia né esaltante né
disastroso.
A cominciare dall’economia, cioè da una ripresa costante ma lenta, per finire con la politica mondiale: può succedere di tutto, ma
stupirebbe assai se eventuali sviluppi ‘rivoluzionari’ derivassero
dalla impostazione dell’attuale inquilino della Casa Bianca, intrisa di moderazione con qualche timidezza, cautela con qualche
apparenza di debolezza.
Quale che sia il messaggio intellettuale di Obama, egli non pare
destinato a lasciare al suo partito né una eredità di tesori né una
rovina in termini di debito.
Dunque neanche un erede designato, una ‘dinastia’ politica a
fare da contrappeso a quella tribale dei Clinton.
Hillary Clinton
80
Pre-Visioni
Non ci sarà pertanto, nelle primarie democratiche del 2016, il
confronto fra ‘hillarysti’ (o ‘clintoniani’) e ‘obamiani’.
Tutti gli altri aspiranti democratici alla Casa Bianca dovranno
prima di tutto vedersela fra di loro nella speranza di riuscire ad
esprimere una alternativa credibile a una pretendente che parte
già con una corona in testa.
Non è che ne manchino, ma hanno molta, tanta strada da fare:
di Obama ne nasce uno ogni cent’anni.
Così a occhio sono oggi una decina tentati dallo scendere in campo e in varia misura a ciò decisi.
Almeno tre, oltre a Hillary, sono donne.
KIRSTEN GILLIBRAND non ha in comune soltanto il sesso
con l’Erede Dinastica.
Quando Hillary Clinton si dimise da senatore dello Stato di New
York fu lei a prendere il suo posto, a mostrare talento politico e
ad accumulare meriti legislativi, soprattutto come iniziatrice di
importanti misure contro la discriminazione sessuale anche nelle forze armate, mostrando inoltre capacità nel maneggiare gli
strumenti della pressione politica.
AMY KLOBUCHAR, che rappresenta in Senato il Minnesota,
non sembra avere molte chance ma appare perlomeno il più volonteroso: ha già cominciato, nella primavera del 2013, la sua
campagna elettorale per le ‘primarie’ nel vicino Iowa, le prime
del calendario presidenziale del 2016.
ELIZABETH WARREN, esponente della sinistra democratica,
è diventata un’eroina dell’ala ‘liberal’ per la sue crociate contro
lo strapotere delle banche.
Ha dimostrato anche notevoli capacità come legislatore ed é infine un ‘magnete’ per la raccolta di contributi finanziari.
Quella di cui sembra finora mancare è la voglia di impegnarsi in
una campagna così ambiziosa e ardua.
Anche nel suo caso, infine, non si vede perché, donna per donna,
non si debba preferire il prodotto originale.
I concorrenti più agguerriti di Hillary per la nomination democratica 2016 sono dunque uomini: tre volonterosi e ambiziosi ma
che appaiono finora di presa limitata, due potenzialmente forti,
uno che é teoricamente il più qualificato ma che mostra di avere
esaurito il ‘fuoco’ per la massima carica.
Preferisco elencarli dal basso.
MARTIN O’ MALLEY, governatore del Maryland, dal curriculum più fedele di ‘liberal’.
Si è battuto contro la pena di morte e in favore del matrimonio
fra omosessuali, non nega le sue ambizioni presidenziali ma sembra mancare, dicono gli esperti, di carisma.
BRIAN SCHWEITZER è un ex governatore del Montana, che
ha rinunciato a una candidatura al Senato nel 2014 perché intende avere mani ed energia libere per concorrere al più ambizioso
traguardo, quello della Casa Bianca.
HOWARD DEAN, ex governatore del Vermont, ha cercato la
nomination per la Casa Bianca nel 2004, sconfitto dopo un brillante inizio da John Kerry e poi è diventato segretario del Partito
Democratico.
Appartiene all’ala sinistra, è fra i pochi dotati di una verve combattiva che può concepibilmente rivaleggiare con quella di Hillary, ma ha al suo passivo salti di umore che non si addicono troppo
a una carriera presidenziale.
Fra i ‘grandi’, il nome d’obbligo é quello di JOE BIDEN, il vicepresidente in carica. ››
Jeb Bush
81
È persona amabile ed amata, carico di umanità,
con una storia personale attraente.
Figlio di operai, bambino balbuziente, ha saputo
sormontare entrambi gli handicap con un’enorme buona volontà.
Ha imparato a parlare riesumando pressappoco
il trucco che fece grande Demostene: farlo con
dei sassolini in bocca.
Rimasto vedovo, si occupò dei figli piccoli in
modo quasi materno, da pendolare fra la cupola
del Congresso di Washington e la sua abitazione
nel non lontano Delaware.
Un uomo che ha sudato nella vita, si è commosso, sa commuovere ma che finora ha mostrato
dei limiti.
In altri termini è un vicepresidente ideale, che
normalmente non si traduce in un candidato
trascinatore alla presidenza.
ANDREW CUOMO appare, almeno sulla carta, più forte, più incisivo.
Intanto perché dispone di una ‘macchina’ di
proverbiale efficacia: è governatore dello Stato
di New York, un posto occupato da Franklin
Delano Roosevelt.
Come lo era suo padre Mario Cuomo, che seppe
eccellere, battersi con coraggio anche per cause
a quei tempi impopolari come l’opposizione alla
pena di morte che lo indusse a opporre il veto
diverse volte alle iniziative per reintrodurla nello
Stato.
Fu uno dei motivi che lo portò alla sconfitta.
Un altro, più oscuro e forse leggendario, gli impedì il grande balzo verso la Casa Bianca: voci
mai confermate ma mai interamente smentite di
infiltrazioni mafiose fra i suoi antenati.
Anni fa era arrivato alla vigilia di presentare la
sua candidatura alla presidenza.
Già si scaldava il motore dell’aereo da cui sarebbe dovuto scendere candidato, ma all’ultimo
momento decise di no.
Mario Cuomo era forse il più brillante oratore
del Partito Democratico.
Suo figlio Andrew quasi lo eguaglia e probabilmente lo supera come amministratore.
E soprattutto non ha quell’ombra addosso.
E’ competente, dell’età giusta e maturo per la
Casa Bianca.
Ma non si chiama Hillary.
Il grande assente di questo elenco, probabilmente non completo anche perché forse un tantino
prematuro, è l’uomo che forse meglio si combinerebbe con il più alto officio: JOHN KERRY.
Oggi è Segretario di Stato dopo avere guidato con grande competenza la Commissione Esteri del Senato.
È il rampollo di una famiglia patrizia del Massachusetts, ha accumulato grandi esperienze, è stato un eroe di guerra (quattro
medaglie meritate in Vietnam) e, dimessa l’uniforme, un dimostrante contro quella guerra.
82
Dall’alto: Elisabeth Warren, Kirsten Gillibrand,
Joe Biden e Andrew Cuomo. Nell’altra pagina: Mitt
Romney, Paul Ryan, Scott Walker e Marco Rubio
Conosce il mondo probabilmente meglio di
chiunque, in particolare l’Europa.
Caso molto raro fra gli americani, è poliglotta,
in grado di esprimersi in tedesco a Berlino, in
una buona misura di italiano a Roma e in un
francese perfetto a Parigi.
Ha un simpatico difetto e due seri handicap.
Parla in modo troppo raffinato per l’elettore
americano medio, eccede in parole polisillabe
e in strutture sintattiche complesse, appare un
poco freddo nei rapporti personali.
Ma soprattutto avrà passato i settanta anni il
giorno delle prossime elezioni presidenziali (capitò anche a Ronald Reagan, ma di Reagan ce
n’è uno solo).
E soprattutto ci ha già provato ed è stato sconfitto.
Di strettissima misura, nel 2004.
Sarebbe bastato che ottantamila elettori nello
Stato dell’Ohio votassero per lui invece che per
George W. Bush e molte cose sarebbero state
differenti, in America e nel mondo.
I REPUBBLICANI
Per i repubblicani, l’ho anticipato, il discorso é
assai diverso.
Il dibattito, la gara, sarà meno fra persone e
molto di più fra idee.
Non é una novità: per tre decadi abbondanti,
dalla fine degli Sessanta fin quasi allo spirare
del ventesimo secolo il Grand Old Party è stato, nella buona e nell’avversa fortuna, il partito
delle idee, così come lo era stato nel trentennio
precedente il partito democratico, non solo nelle
urne ma anche dentro le teste: il secondo Roosevelt, i trionfi militari e ideologici, Keynes dietro
le quinte.
Più tardi, invece, Reagan, il trionfo nella Guerra
Fredda e, dietro le quinte, Friedman.
Sommate, non contrapposte, le due epoche foggiarono il ‘Secolo Americano’.
Non poteva, forse, durare per sempre.
Il ventunesimo secolo si é presentato subito
come più ingrato e tormentato.
L’assalto del terrorismo islamico, le guerre gemelle in Afghanistan e in Iraq hanno messo in
luce i limiti di potenza della Superpotenza militare, si é riaffacciato uno degli spettri del Novecento: la lunga
recessione, il terremoto finanziario ed economico del pianeta globalizzato sotto la guida Usa.
E dentro le urne si é invertita la corrente.
Nel ventennio fra il 1968 e il 1988 i repubblicani hanno vinto
cinque corse alla casa Bianca su sei (due ciascuna Nixon e Rea-
Pre-Visioni
gan, una George H Bush (sola eccezione Carter
nel 1976).
Nel ventennio successivo, fra il 1992 e il 2012 il
rapporto si é rovesciato: quattro vittorie su sei ai
democratici (due volte Clinton, due volte Obama, in mezzo la doppietta di George W Bush),
che ai fini statistici possono diventare cinque se
si tiene conto che nelle elezioni del 2000 Bush jr
fu eletto ma Albert Gore ebbe più voti popolari,
E’ dunque giusto che i repubblicani si preoccupino, riflettano, tornino a frugare nella loro cassaforte ereditaria, quella delle idee.
Sono abituati ad averne in abbondanza, soprattutto da quando ai rivali democratici se ne é
esaurita la sorgente.
Insomma che pensino e dunque, come è inevitabile in un grande partito di una grande democrazia, si dividano: sulle strategie, sui programmi, sulle ideologie
Le linee divisorie, naturalmente, non possono ricalcare esattamente quelle passato, che contrapposero Theodore Roosevelt a Taft e, molto più
tardi, Rockefeller a Goldwater.
È inevitabile, anche, che riemerga il vecchio
contrasto fra chi si attiene alla purezza ideologica e chi vuole soprattutto vincere.
Dunque, nel caso dei repubblicani, fra conservatori e moderati.
A complicare, e ad aggravare le cose é che le due
antiche ricette si traducono ora in strategie che
si rivelano inconciliabili non perché inefficaci ma
perché mirano ad obbiettivi differenti, con risultati opposti.
Se é vero che i repubblicani incontrano difficoltà
crescenti nelle contese per la Casa Bianca, é altrettanto vero che da tempo essi ottengono risultati
lusinghieri nelle elezioni per il Congresso.
Controllano saldamente la Camera, potrebbero già
l’anno prossimo riconquistare anche il Senato.
Ci riescono grazie ad una migliore organizzazione sul territorio, agevolata ed anzi nutrita da un
messaggio politico di un conservatorismo puro e
intransigente, intinto di nostalgie per l’America
com’era e come in parte ancora é nel Sud e negli
Stati delle Grandi Pianure, integrale e integrata,
bianca ed anglofona, intensamente patriottica e
religiosa, incrollabilmente fedele a Dio, alla famiglia e all’economia di mercato.
Insomma per l’‘Età dell’Oro’,
Una ricetta che funziona quando l’obiettivo é il
controllo del Congresso e del potere negli Stati, ma sempre meno quando é in palio la Casa
Bianca, su cui a decidere é sempre più spesso l’altra America,
quella che diviene e cambia.
Non sempre necessariamente in meglio ma in una direzione abbastanza precisa, non tanto eleggendo e rieleggendo Obama (ci
pensa il Congresso a bloccarne le velleità riformatrici), quanto,
e a ritmo accelerato, nel costume, anche quotidiano, soprattutto
attraverso i referendum e i sondaggi di opinione
pubblica.
Contrariamente al linguaggio di molti conservatori, si allargano e non si serrano le porte
all’immigrazione, a dispetto della ‘Maggioranza
Morale’ sono ormai crollate le barriere al matrimonio fra omosessuali, falliscono spesso le iniziative contro l’aborto, il Paese si muove verso
una maggiore tolleranza per l’uso di almeno alcune droghe, perfino la pena di morte comincia
ad arretrare.
Per tali motivi, vista di qui e da adesso, la strada
per la Casa Bianca nel 2016 si presenta in salita per i repubblicani, nonostante l’assottigliarsi
della ‘aureola’ di Obama e la forte probabilità
che i democratici presentino un candidato mediocre.
E ciò non tanto per il contrasto con i moderati e la loro prevedibile debolezza, quanto per il
dissidio che sembra profilarsi proprio fra i conservatori.
Molto se non tutto infatti lascia presumere che
la selezione del candidato alla Casa Bianca avverrà, in casa repubblicana, in due stadi (cui è
da aggiungere, naturalmente, il terzo, cioè lo
scontro tra il candidato repubblicano e quello
democratico).
Il primo confronto si preannuncia serrato e non
è quello solito che si verifica ogni qualche scadenza elettorale importante e che era previsto
anche per il 2016: si tratta della contesa in casa
Gop tra i moderati e i conservatori.
Gli ultimi anni hanno portato infatti sviluppi
nuovi e in parte inediti.
In primo luogo i conservatori sono venuti accrescendo a poco a poco il proprio peso politico
mentre i moderati hanno perso via via prestigio.
Erano moderati o almeno centristi i due candidati alla Casa Bianca sconfitti da Barack Obama, John McCain e Mitt Romney, mentre in
Congresso, e soprattutto alla Camera, le correnti
di destra continuavano a rafforzarsi.
Esse hanno oggi una salda presa sul quarantacinque per cento di coloro che votano repubblicano.
Anche se è viva tuttora la polemica a proposito
di chi sia la colpa delle ultime sconfitte, dell’estremismo degli uni o della carenza negli altri
della necessaria convinzione, se la partita fosse
questa nel 2016 non ci sarebbero molti dubbi
sull’esito: i conservatori sono oggi in netta maggioranza nel partito, mentre rappresentano quasi la metà dell’elettorato americano in generale.
La novità è che però l’ala conservatrice si sta dividendo in due
campi contrapposti e questo a causa della imperiosa crescita
all’interno del Gop del movimento ‘libertario’.
Sul piano intellettuale i libertari possono contare su tradizioni
altrettanto radicate. ››
83
Si sono espressi in loro favore due famosi economisti, Friedrich
August von Hayek e Milton Friedman, entrambi premi Nobel.
Oggi diversi esponenti repubblicani ammettono di avere in sé
“una vena libertaria”.
Ma la testimonianza più ambita è quella di Ronald Reagan, che
ebbe a dire: “Guardateci bene dentro e converrete con me che
l’ideologia libertaria è il cuore e l’anima del conservatorismo”.
Dunque i conservatori del Gop dovranno risolvere questa contraddizione interna prima di affrontare i moderati’ e, naturalmente, più tardi, il candidato democratico.
MITT ROMNEY. Tali essendo oggi gli umori dell’America, è
improbabile che il 2016 veda una seconda (terza se si considerano le perdute primarie del 2008) candidatura Romney alla Casa
Bianca.
Molti conservatori gli attribuiscono - come avevano fatti quattro
anni prima con McCain - la responsabilità per la rielezione di
Obama.
In gran parte a torto, perché se é vero che Romney ha commesso
errori ed é incappato in gaffe soprattutto nell’esposizione esasperata di un programma economico in complesso ragionevole, non
va dimenticato né che egli ha trionfato nei dibattiti faccia a faccia
col presidente in carica né che difficilmente avrebbe potuto sormontare l’handicap di essere costretto (lui solido conservatore di
buon senso) a far suoi temi e toni, per esempio, degli integralisti
religiosi.
Non é escluso, invece, che i repubblicani scelgano per così dire
‘un Romney’, un altro candidato su cui sia possibile un accordo
fra le diverse correnti e fazioni.
Se lo troveranno.
PAUL RYAN. Sarebbe una scelta coerente, essendo stato compagno di ticket di Romney nel 2012 e quindi candidato alla vicepresidenza.
Inoltre era emerso come un leader alla Camera, anzi un ideologo
nel campo finanziario.
Sostenitore strenuo di tagli draconiani sia alle tasse sia soprattutto alla spese pubblica, aveva dominato la Convenzione repubblicana, dettando in gran parte la ‘piattaforma’ economica ma
prestando anche il fianco ad accuse di scarsa sensibilità sociale
ed umana.
La botta propagandistica a lui avversa più velenosa presentava
una vecchietta che arranca in sedia a rotelle. Arrivava Ryan e la
spingeva in un burrone: per risparmiare.
Da allora il suo profilo si é un poco abbassato.
SCOTT WALKER. È uno di quei governatori repubblicani del
Midwest eletti in Stati che, come il suo Wisconsin, si sono ultimamente spostati in direzione dei democratici.
I conservatori lo considerano un eroe per il suo atteggiamento
intransigente nei confronti dei sindacati, un atout nella ‘pesca’
degli elettori repubblicani più tradizionali.
C’e’ chi lo chiama ‘un Ryan light’, una specie di birra analcolica.
BOBBY JINDAL. È un conservatore integrale.
Governatore della Louisiana, il primo di origini indiane, di famiglia indù immigrata di recente ma convertito al cattolicesimo.
Oratore aggressivo, é stato molto popolare fra gli attivisti di destra, ma le sue quotazioni appaiono in ribasso per lo stesso motivo: i suoi toni eccessivamente polemici e negativi.
RICK SANTORUM. Più a destra di lui non c’é nessuno, soprattutto su quelle che in America si chiamano ‘social issues’.
84
Ci ha già provato una volta, strappando anche più di un successo
nelle primarie repubblicane del 2012, in cui concorse come il più
conservatore dell’intero campo repubblicano.
Cattolico integralista di origini quasi italiane (suo padre arrivò in
America da Riva del Garda dopo la Prima Guerra Mondiale: era
nato però come suddito dell’Austria-Ungheria).
Non sono molti a credere che possa farcela stavolta ad avere la
candidatura repubblicana, nonostante abbia nella manica due
atout: é un oratore brillante, di quelli che sanno infiammare i
teatri, le piazze e le altre cento arene di una campagna elettorale,
ed é l’uomo del cuore dell’ala più religiosa del popolo e dunque
dell’elettorato americano.
Fervente cattolico (noi diremmo del genere preconciliare), è tuttavia il preferito non tanto dei suoi correligionari quanto degli
evangelici, cioè dei più integralisti fra i protestanti.
Un commentatore (tedesco, non americano) che ha studiato a
fondo la campagna elettorale di Santorum del 2012 lo ha definito “una delle menti più acute del secolo: del ventitreesimo
secolo”.
E il ventunesimo invece gli assomiglia sempre meno, anche in
America.
TED CRUZ. Se ne parla molto e lui parla molto.
Una combinazione che fa di questo giovane senatore del Texas un
protagonista, almeno in questa fase pre-preliminare della contesa per la nomination presidenziale repubblicana.
È una miscela in parte inedita: un conservatore ardente che respinge i compromessi centristi ma al tempo stesso non disdegna
di cercare alleanze per invadere le pasture dei moderati, e lo fa
distanziandosi in parte dall’ortodossia economica repubblicana, sia
tenendo aperto il contatto, attraverso la comune militanza nel ‘Tea
Party’, con l’eresia libertaria, sia, soprattutto di recente, abbracciando con fervore i temi e le sensibilità della destra religiosa.
Cruz contesta fermamente le tesi secondo cui il Gop dovrebbe
aprirsi di più all’America che cambia su temi come l’aborto e il
matrimonio omosessuale.
Riconosce che il suo partito ha dei problemi, ma ritiene e proclama che questi non nascono dal tradizionalismo culturale bensì
dall’immagine che si é diffusa di recente dei repubblicani come
difensori “dei ricchi e dei potenti invece che dei diseredati e dei
vulnerabili”.
E offre una ricetta e una raccomandazione: assomigliare di più
a Papa Francesco, difendere la famiglia, i “non ancora nati” e i
poveri.
In una parola, il Gop deve diventare “non meno, ma più conservatore”.
Un messaggio che trova ascoltatori, come dimostra l’aumento
dell’interesse e dei consensi per Cruz e potrebbe fare di lui un
protagonista nel 2016.
JOHN KASIC. Il governatore dell’Ohio è probabilmente più
bravo che noto, dal momento che i suoi meriti appaiono finora
superiori alle ambizioni.
Egli non ha ancora dato segno di volersi candidare alla Casa
Bianca, anche se parla molto e volentieri dei suoi successi locali e
delle loro proiezioni eventuali su scala nazionale.
Kasic ha promulgato da poco “la maggiore riduzione fiscale di
tutta l’America” dopo avere trasformato un deficit statale di sette punto sette miliardi di dollari in un attivo di due punto cinque
miliardi. ››
Pre-Visioni
Louis Dalrymple, An echo of election, 1896, Library of Congress Prints and Photographs Division Washington.
La stampa mostra un uomo d’affari in possesso di una bandiera americana con la scritta “Vittoria”, in sella a una carriola e spinto da un altro
uomo. In fondo, un giovane ragazzo sta dicendo a uno sconosciuto che il suo papà aveva scommesso con l’altro per quanto riguarda l’esito della elezioni
presidenziali. Il forestiero è incerto sull’esito della scommessa.
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Ha eliminato fra l’altro la tassa sull’eredità e si sta battendo per
diminuire l’imposta sul reddito.
Inoltre ha commutato più sentenze capitali di qualsiasi altro governatore repubblicano.
È molto rispettato negli ambienti religiosi.
Propugna un messaggio cristiano molto simile a quello che Cruz
mutua dal Pontefice ma in un contesto più sociale.
Se i repubblicani decidessero di affidarsi a un moderato, avrebbero in Kasic una delle armi più efficaci per battersi contro Hillary
Clinton.
RAND PAUL. È il figlio del fondatore di quella che potrebbe diventare una nuova, ennesima dinastia politica americana: quella
libertaria, che molti davano in declino, anche a causa dal ritiro
dall’agone politico, per motivi di età, del suo massimo esponente, Ron Paul, deputato del Texas e spesso voce isolata di un dissenso radicale e deserto.
Paul ha lasciato in eredità il partito a un figlio, ‘timbrato’ dalla
nascita dal nome impostogli: Rand, il cognome di Ayn Rand,
filosofa russa in fuga dalla patria sovietica, fondatrice della filosofia ‘oggettivista’ e prima icona del pensiero politico libertario.
Il giorno stesso del suo commiato Ron riuscì a far eleggere Rand
senatore del Kentucky.
Si pensava a un timido epigono e invece il passaggio di poteri ha
coinciso con un debutto quasi sensazionale del figlio di papà.
Un discorso di tredici ore dall’intento chiaramente ostruzionistico, per ostacolare la ratifica del Senato alla nomina del nuovo
capo della Cia, condizionato a un suo impegno sulla garanzie costituzionali all’uso contro cittadini americani dei droni, gli aerei
killer senza pilota, arma prediletta da Obama nelle operazioni
antiterrorismo.
Fra la sorpresa generale, altri senatori, appartenenti all’establishment repubblicano, sono accorsi in appoggio a Paul e lo hanno
aiutato a strappare almeno in parte quella promessa.
‘Insurrezione’ che si ripetuta poco dopo alla Camera, con un
emendamento presentato da un repubblicano libertario e mirato
a limitare la discrezionalità della Nsa (Agenzia di Sicurezza Nazionale) nello spionaggio sui civili negli Usa e all’estero, nell’ambito della legislazione introdotta da George W. Bush dopo la
strage terroristica di Manhattan nel 2001.
Sembrava l’espressione di una minoranza marginale, e invece ha raccolto più del quaranta per cento dei parlamentari dei due partiti e
addirittura la maggioranza fra i deputati repubblicani più giovani.
I libertari non sono più una minoranza eccentrica visto che un
quarto degli americani si riconosce nelle loro proposte fondamentali: meno Stato come nell’ortodossia conservatrice.
Non solo nell’economia ma anche nella regolamentazione di ogni “attività consensuale” incluso l’uso della droghe, i controlli di polizia.
E molti più limiti costituzionali alle iniziative militari.
E ha suscitato dure ed eccitate reazioni nel resto dello schieramento
repubblicano, ma in particolare tra i conservatori tradizionali, che
accusano i libertari di isolazionismo e di scarso senso dello Stato.
In alcuni casi una vera e propria ‘dichiarazione di guerra’, come
quella di un altro candidato alla presidenza nel 2016, che ha
messo in guardia da “un virus libertario che si sta infiltrando in
ambedue i partiti e rappresenta un grave pericolo per la sicurezza
nazionale”.
John Lewis Krimmel, Election Day in Philadelphia (Election Scene. Statehouse in Philadelphia), 1815
86
Pre-Visioni
La risposta di Rand Paul è altrettanto dura: “C’é chi ha paura
della libertà e chi, come me, dei pericoli che corre la libertà”.
E ha riesumato la frase storica di uno dei padri fondatori, Benjamin Franklin: “Chi é pronto a sacrificare la libertà per la sicurezza non é degno né dell’una né dell’altra”.
È cominciato così uno scontro frontale che potrà dominare almeno la fase iniziale delle primarie repubblicane, dividendo appunto l’area conservatrice e il cui esito è oggi imprevedibile se è vero
che l’establishment repubblicano è molto attento alla sicurezza
nazionale e solidamente legato alle gerarchie militari e alle strategie internazionali degli Usa.
CHRIS CHRISTIE. Il concorrente che con più fervore incrocia
il ferro con Paul si chiama Chris Christie, governatore del New
Jersey, uno Stato che per la Casa Bianca sceglie di regola il candidato democratico.
E questo spiega il suo atteggiamento, le sue strategie e la sua
stessa collocazione ideologica.
Christie ha un passato di conservatore intransigente, si richiama
spesso a George W. Bush e soprattutto a Reagan e per molti
aspetti assomiglia a Rudy Giuliani, un ‘falco’ dagli artigli che
scavano, un ‘crociato’ per la legge e l’ordine, tanta polizia e una
politica estera sostenuta da un forte apparato militare.
Vuol limitare il ruolo governativo nell’economia ma desidera
uno Stato forte nei settori in cui ce n’è bisogno: infrastrutture,
catastrofi naturali, difesa e sicurezza nazionale.
È contrario all’aborto, al matrimonio gay, alle restrizioni al possesso di armi da fuoco.
Da quando pensa alla Casa Bianca, però, si é spostato verso il
centro.
Ha praticamente abbracciato Obama nell’opera di ricostruzione
dopo il tragico assalto degli uragani nel Nord-Est degli Stati Uniti.
Ultimamente ha dato addirittura segni di apertura alla legalizzazione, parziale, di droghe come la marijuana.
Ma non ha cambiato le sue naturali inclinazioni: ama le parole
forti pronunciate con voce forte, i gesti forti, la decisione e la
precisione.
È di gran lunga il più grosso e grasso fra gli aspiranti alla presidenza, ma non va in palestra per dimagrire.
In una riunione recente del Comitato Nazionale Repubblicano ha
riassunto così le proprie intenzioni: “Farò tutto quello di cui avrò
bisogno per vincere”.
E i democratici confessano che di
lui hanno paura.
Il ‘numero uno’ nei sondaggi di
tre anni, due mesi e una manciata di giorni prima della chiamata
alle urne, però, non é Christie e
non è neppure Paul.
In pole position c’è, per ora, MARCO RUBIO, senatore della Florida. Soprattutto per un calcolo
elettorale molto importante per il
futuro del Partito Repubblicano: è
latino, di famiglia cubana profuga
dal castrismo, molto conservatore
soprattutto nelle questioni di co-
stume come l’opposizione all’aborto, ma ha aperto la porta a un
ragionevole compromesso sull’immigrazione, primo fra i repubblicani a distinguersi dall’intransigenza della maggioranza.
È stato per qualche mese l’uomo del giorno.
Se le sue quotazioni appaiono in questo momento un po’ in ribasso è in gran parte per motivi estranei al suo comportamento.
Il primo è che proprio nella sua Florida abita un possibile concorrente con un nome molto più forte del suo.
JEB BUSH. È, per cominciare, figlio e fratello di due presidenti.
È stato eletto e rieletto governatore della Florida che ha guidato con
successo per otto anni, con crescente popolarità locale e nazionale.
Momentaneamente è a riposo, ma da tempo si parla di lui come
il terzo della dinastia.
È considerato più vicino politicamente a papà George H Bush,
per otto anni vicepresidente di Ronald Reagan (dal 1981 al 1989)
e per quattro anni suo successore (1989-1993).
È promotore di un compassionate conservatism, conservatorismo
solidale.
Ma proprio papà può essere un ostacolo o almeno un monito per
lui: “Ho l’impressione”, ha detto qualche mese fa Bush sr, “che
l’America abbia voglia di fare a meno per un poco della nostra
famiglia”.
Jeb gli ha risposto indirettamente con una sua ‘impressione’: che
il partito repubblicano si sia spostato negli ultimi anni tanto e
destra “che sia mio padre che mi fratello avrebbero oggi serie
difficoltà a ottenere la candidatura alla Casa Bianca”.
Il ‘terzo Bush’ avrebbe inoltre nella manica un atout importante: è bilingue, ha una moglie di origini latine e potrebbe quanto Rubio riaprire le comunicazioni tra il Partito Repubblicano
e le decine di milioni di cittadini americani che a casa parlano
spagnolo. —
Udo Keppier, Modern military tactics; - our major-general and his staff,
1899, Library of Congress Prints and Photographs Division Washington.
La stampa mostra il generale Nelson A. Miles, sproporzionato, seduto ad
una scrivania con nella mano sinistra un libro intitolato “Come diventare
presidente”. Attorno a lui molti giornalisti e fotografi. Sulla parete in fondo
c’è un telefono coperto di ragnatele con l’etichetta “Per l’amministrazione”.
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Memorie
John Wayne è stato l’eroe degli anni Trenta, degli anni
Quaranta e di quasi tutti gli anni Cinquanta.
Prima che i vermiciattoli cominciassero ad alzare la testa.
Prima che, negli anni Sessanta, l’eroe scivolasse giù, fra i
deboli e gli incompresi.
Prima che le donne cominciassero a buttare ogni pretesa
di verginità alle ortiche.
E fino all’avvento dell’unisex.
Crebbero i capelli e decrebbe la fierezza.
E ci ritrovammo in mezzo agli antieroi.
Katharine Hepburn
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Memorie
Tempi duri
per i più buoni
ENRICO BERUSCHI
N
on è mai stato facile essere diverso, nel senso di
non andare dietro all’opinione dominante, anzi mi
pare che ci stiamo appiattendo sempre più, novelli
don Abbondio.
Fra l’altro e divagando, mi piacerebbe tantissimo interpretare questo personaggio, che ritengo il più attuale e diffuso ai nostri tempi.
Ma una cosa è portare in scena, un’altra è vivere.
Il bello dei ‘Promessi sposi’ è che Alessandro Manzoni li scrive
nella prima metà dell’Ottocento, li ambienta due secoli prima,
ma, in effetti, esamina almeno tre millenni della nostra storia: i
riferimenti all’attualità si trovano sempre.
Ma torniamo a noi: di che cosa vogliamo parlare?
Argomento: i tagli alla cultura, per esempio.
Fior di colleghi, o sedicenti tali, si stracciano le vesti per questo,
pensando che gli attori, i registi e tutti gli addetti ai lavori abbiano il diritto divino ad essere mantenuti.
Io dico, invece, ben vengano i tagli agli sprechi fatti in nome di
una ipotetica cultura.
Più passano gli anni e mi addentro nei problemi del teatro e della musica, più vedo sperperare risorse solo per la soddisfazione di
pochi addetti ai lavori, dimenticando il pubblico che vuole assistere agli spettacoli e che
capirebbe, io penso, uno
sfarzo minore, ma giustificato.
E vengo a conoscenza di
veri e propri furti, compiuti tra le pieghe dei
vari bilanci.
Vecchia abitudine degli
addetti agli acquisti, alle
scritture: qualche doblone rimane attaccato alle
mani.
Un mio vecchio impresario diceva che il migliore
amministratore è quello
che ruba poco.
Un esempio televisivo,
di cui si può parlare perché sono passati più di
vent’anni e dovrebbe essere prescritto (si usa dire così, no?). Un
mio progetto, messo a punto con due valenti amici, era finito sul
tavolo del direttore di Rai Uno.
Personalmente mi ero recato alla sede del Ministero dell’Ambiente e avevo parlato col Direttore Generale, credo.
Proponevo una trasmissione a gara tra gli studenti degli ultimi
anni della scuola media superiore che avrebbe trattato di temi civili, di comportamento, con particolare riferimento all’ambiente,
senza dimenticare la parte allegra e giovanile.
Noi tre folli eravamo convinti: i soldi c’erano, l’impianto sembrava fatto, ma... C’è sempre un ‘ma’.
La mia dabbenaggine mi fece compiere un fatale errore in perfetta
buona fede: alla prima riunione operativa mi rivelai per un ingenuo, affermando che il mio compenso era tot e facendo intendere
che non intendevo restituire niente a nessuno.
Volendo fare la cresta sulle spese, potevano approfittare dei gruppi di studio, che dovevano essere formati.
Essendo in odore di eresia, il mio progetto scomparve dalla sera
alla mattina.
Non ci fu verso, non ci conoscevano più, non eravamo mai esistiti, i fogli non erano mai stati su nessun tavolo, non avevamo
più udienza.
Bene, ho raccontato
un fatterello qualsiasi
di malcostume, ma io
continuo a combattere
perché non ritengo giusto un sistema, che dia
sempre per scontato,
che alcuni abbiamo dei
vantaggi dovuti alla posizione, specialmente se
conseguente a un incarico pubblico.
Volendo si può raccontarne altri, se interessa a
qualcuno, non per imparare il mestiere di mariuolo, ma per essere messi in
guardia e difendersi, senza
cadere in trappola, come è
successo a me. —
93
La voce
ITALO CUCCI
E
ra arrivata l’ora.
La Voce della famiglia – o della coscienza, non ricordo
– mi chiedeva: “Cosa fai domani?”.
“Gli orali”, dicevo, per non aprire con lei un discorso
complicato.
Maturità classica.
Mi aspettava – fra gli altri – il prof Fiorillo, Storia & Filosofia,
quello che mi aveva già tormentato in passato.
Era un brillante mattocchio che un giorno m’aveva rimandato
a ottobre avvertendomi che m’avrebbe rivolto solo una domanda…riparatrice: “Cosa c’è scritto davanti al manicomio di Magonza?”.
Durante le vacanze trovai un suo vecchio allievo e la risposta:
“Non tutti sono qua dentro”.
Lui era fuori.
Ma c’era di peggio.
L’Angela Sterminatrice della Matematica.
Non l’avrei mai domata.
Pensai – vile – a una fuga.
All’ora di pranzo trovai una lettera accanto al tovagliolo.
La lessi nel silenzio che ormai era diventata la regola.
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Non parlavo più, nessuno mi parlava: c’era intorno quella ben
rivelata quiete che precede la tempesta.
La lettera: mi si chiedeva di andare a Bologna per un bel servizio
giornalistico.
Lo dico, così capite anche le date: “Che fine hanno fatto i casini
un anno dopo la Merlin”.
Poi fu la Voce: “Cosa fai domani?”.
“Non so. Forse vado a Bologna…”.
“Ma non torni più qui…”.
“Non torno più qui…”.
Il mangiare era pronto ma mi alzai da tavola.
Me ne andai a pancia vuota da Rimini all’Avventura, quasi
presago di futuri digiuni che immaginavo collegati al mestiere di giornalista, almeno per certi racconti volutamente scoraggianti.
Me ne andai e decisi la mia vita.
Felice.
Restai lontano da casa – e non solo dalla Voce – per oltre un
anno.
Infelice.
Poi tutti accettarono – “poverino!” – la mia disgrazia.
Ero diventato giornalista. —
Memorie
Nel centenario della nascita di
Piero Chiara
per la penna del suo unico allievo
Peccato mortale
MAURO DELLA PORTA RAFFO
L
a serata volgeva al termine e, nel ristorante vicino al
lago, mi sentivo soffocare.
Il camino acceso che mi aveva fatto così piacere vedere
entrando stava diventando un supplizio.
Il caldo, il fumo e quella sensazione di torpore che ti dà qualche
bicchiere di vino rosso bevuto più per simpatia verso chi te lo
offre che per altro.
Anche Piero Chiara doveva sentire la necessità di una bella ventata di aria fresca e, interrompendosi un attimo nel suo continuo
parlare, mi disse di pagare il conto e di raggiungerlo fuori.
Si alzò, imitato dagli altri due nostri commensali, ed uscì muovendosi con la solida rapidità.
Quando a mia volta fui fuori dal ristorante, per un attimo, ebbi
qualche problema ad orizzontarmi ma, poi, li vidi tutti e tre proprio sulla riva del lago, a pochi metri.
Parlavano molto animatamente e così pensai di raggiungerli con
una certa lentezza godendomi un attimo di solitudine e l'aria che
mi accarezzava il viso, non più fredda e non ancora primaverile.
Le barche erano in secca e rovesciate sulla spiaggia.
Il moletto si protendeva nell'acqua che si muoveva sfiorata dai
raggi di luna.
Una notte adatta alle confessioni!
Chiara era da sempre un grosso personaggio a Varese.
La sua attività letteraria tra le più rimarchevoli.
Era capace di incantare con i propri racconti ed esercitava al meglio quest'arte specie se gli serviva per distogliere qualcuno da
posizioni ed argomenti in contrasto con i suoi.
Quando lo raggiunsi, il discorso era andato a finire, non so come,
sul peccato e mi venne di intervenire per ripetere quanto avevo
letto da poco: se Dio era davvero bontà infinita i cardini delle
porte dell'Inferno dovevano ormai essere talmente arrugginiti
che la porta, che già non si era mai aperta per accogliere un'anima dannata, non si sarebbe aperta mai più.
Chiara mi prese sotto braccio e, appoggiandosi nel cominciare a
camminare verso la nostra macchina, mi disse: "Può essere che
Dio ci perdoni, posto che esista, ma siamo capaci di perdonare
noi stessi?".
Dopo aver creato, così, la giusta atmosfera e richiesto la nostra
maggiore attenzione, proseguì a parlare mordendo il mozzicone
di sigaretta che aveva in bocca.
"Anni fa, avevo la bella abitudine, la domenica mattina, di andare in studio da solo per leggermi il giornale in tutta tranquillità.
Tiravo fuori la mia auto, andavo dal giornalaio e, guidando ››
Carlo Meazza
Lago Maggiore, Angera
95
verso l'ufficio, già pregustavo il piacere di quei locali vuoti, il
calduccio, la lettura non disturbata dal telefono, dalla segretaria,
dalle visite, eccetera.
A volte, il bello è nell'immaginare più che nel vivere poi realmente quanto sperato!
Una di quelle mattine, all'ingresso del cortile dove posteggiavo,
vidi fermo un vecchio barbone che tutti conoscevano a Varese.
Mi aspettava, evidentemente, perchè mi seguì all'interno e, come
scesi dalla macchina, si avvicinò con aria di complicità.
Chiedeva sempre così, ammiccando come se ti stesse facendo uno
scherzo.
Dopo due parole dette tanto per compiacerlo, tirai fuori una
banconota da cinquemila lire e gliela diedi pensando che così
avrebbe potuto passare una buona domenica.
Ci resta un senso di compiacimento più o meno sottile quando
siamo buoni o crediamo di esserlo e, insieme, pensandoci, un
certo fastidio per l'esistenza di quel compiacimento.
Il tutto è così poco naturale...
Il barbone sparì ringraziando e, da quella mattina, per mesi e
mesi, ogni domenica me lo trovavo sul portone che, sorridente,
mi aspettava.
Poi, per usare una frase fatta, il diavolo ci mise la coda!
Una delle prime domeniche di ottobre - potrei addirittura dirvi
quale - scendendo dalla macchina, tirai fuori di tasca un biglietto
da ventimila lire (a quei tempi esistevano) invece che il solito
cinquemila e dissi al vecchio che non avevo spicci ma che, se voleva, poteva andare a cambiare la banconota dal giornalaio, là in
piazza, e portarmi il resto. Io lo aspettavo lì.
Non si può sapere se il gesto fosse meditato o del tutto inconscio,
ma, mentre gli davo le ventimila lire, già me lo immaginavo girare l'angolo e sparire.
Ora, la questione era in questi termini: se fosse tornato con il
resto sarei rimasto suo prigioniero per sempre. Se non l'avessi più
visto, mi sarei liberato di quel piccolo fastidio che mi cominciava
a dare.
Non lo rividi più!".
Eravamo da qualche tempo fermi in piedi vicino alla portiera
aperta della macchina e l'autista stava lì, con una mano sulla
maniglia ed il berretto nell'altra.
Invitai Chiara a salire dietro con i suoi ospiti e mi sedetti davanti,
vicino al guidatore.
In automobile, naturalmente, si creò subito una diversa atmosfera e gran parte di quello stato d'animo che ci aveva coinvolto
andò disperso.
Comunque, volevo saperne di più e, voltando la testa, gli chiesi
perchè e cosa non riusciva a perdonarsi riguardo a quell'episodio.
Desideravo confrontare le mie sensazioni di ascoltatore con le sue
di narratore e, soprattutto, di protagonista.
Sembrò restare leggermente infastidito e mi disse che il racconto
era finito e che la morale la deve cogliere chi ascolta.
Comunque, quanto a lui, aveva indotto quell'uomo in tentazione, per di più per poche lire, calcolandone la stupida cupidigia
che, per un immediato, effimero guadagno, gli avrebbe impedito
una sicura e continua entrata.
In quell'attimo, era stato il diavolo tentatore.
"Ci si può perdonare di tutto?", continuò. “Anche di aver provocato, quasi scherzando e senza valutare le conseguenze, la dannazione di un uomo? Il suo peccato?".
Le domande restavano sospese ed ognuno per sè poteva dare una
risposta.
Io, però, conoscevo quella di Chiara.
La sua sensibilità lo condannava: era in peccato mortale! —
Archivio Farabola
96
Memorie
Un amico,
un certo
Bruno Lauzi
MAURO DELLA PORTA RAFFO
“RICHIAMANO LE CLASSI”
(IN MORTE DI BRUNO LAUZI)
e l’hanno già detto e, se così non è, ve lo dico io: Bruno Lauzi ha trascorso a Varese gli anni della sua ‘vera’
formazione.
Sì, certamente, apparteneva alla cosiddetta e famosissima scuola dei ‘cantautori genovesi’ ma arrivò tra noi alla vigilia della
maturità liceale per rimanere fin verso i trentacinque anni.
In città, a volte semisdraiato sullo scassatissimo divano collocato a
lato del tavolone giallo che dominava la sala delle riunioni nella sede
di via Bernascone del Partito Liberale, chitarra alla mano, nel mentre, silenzioso, lo ascoltavo, ha composto la sue più belle canzoni.
Per quanto mi riguarda, proprio in memoria di quelle antiche consuetudini vissute sotto il vigile occhio del segretario provinciale del
PLI Piero Chiara, ho voluto che Bruno presentasse a Varese dapprima una bella raccolta di poesie e poi, un anno fa all’incirca, il suo
unico romanzo.
In entrambe le occasioni, un vero e proprio ‘rientro alla base’ per
un Lauzi festeggiato da un numero quasi infinito di amici e felice
davvero fra loro.
“Richiamano le classi”, diceva negli ultimi tempi di vita Vittorio Sereni.
“Il bosco dei viventi dirada, si svuota la platea”, scriveva Chiara,
aggiungendo: “Spero di essere l’ultimo ad andarmene”.
Così, ovviamente, non è stato per lui né per Brunetto.
Così non sarà per me!
V
LAUZI, IL POETA
Non so chi sia il redattore del pezzo che su internet tratta de ‘Il poeta’, la bellissima canzone di Bruno Lauzi pubblicata nel 1963.
Quel che è incredibile è che, parlando delle atmosfere create e proposte da Brunetto nell’occasione, costui abbia scritto che ricordano
la provincia narrata da Piero Chiara.
Incredibile, perché Lauzi compose ‘Il poeta’ proprio sotto l’occhio
attento dell’autore, solo un anno prima, de ‘Il piatto piange’.
Eravamo a Varese, naturalmente, in via Bernascone al numero uno,
al secondo piano laddove si collocava all’epoca, prima di trasferirsi al
quarto, la sede del Partito Liberale Italiano.
Ricordo una lunga serata di battaglia: credo i big del PLI, Piero
Chiara in testa, discutessero la formazione delle liste in vista delle
elezioni politiche di quell’anno.
Assistevo in silenzio: giovanissimo, non mi sentivo d’intervenire.
Dopo, a briglie sciolte, rimasti in pochi, si discuteva del più e del
meno.
Nel mentre, Bruno, seduto sul divanetto sfondato che si trovava
lungo la parete dietro il tavolo giallo della presidenza, imbracciata la
chitarra, suonava e a bassa voce cantava:
“Alla sera al caffè con gli amici
si parlava di donne e motori
si diceva ‘son gioie e dolori’
lui piangeva e parlava di te.
Se si andava in provincia a ballare
si cercava di aver le più belle
lui, lui restava a contare le stelle
sospirava e parlava di te.
Alle carte era un vero campione
lo chiamavano ‘il ras del quartiere’
ma una sera giocando a scopone
perse un punto parlando di te.
Ed infine una notte si uccise
per la gran confusione mentale
fu un peccato perché era speciale
proprio come parlava di te.
(parlato)
Ora dicono, fosse un poeta
e che sapesse parlare d’amore.
(cantato)
Cosa importa se in fondo uno muore
e non può più parlare di te”. ››
97
Giorgio Lotti
Non era arrivato al terzo verso, che tutti ci zittimmo per ascoltarlo
ammirati.
Il pezzo che sapevamo in gestazione era definito.
Un gioiello.
Quanto alle atmosfere, quella era la nostra Varese: ‘nostra’, di Bruno
Lauzi, di Piero Chiara e mia!
LAUZI, IL CORRETTORE DI BOZZE
2005
Dopo, a tavola al mitico Bologna, contornato da vecchi amici, seduto come si conviene a capotavola, Bruno sembrava felice.
Di quella sua strana e particolare felicità, così contenuta da essere a
fatica percepibile.
D’un tratto, parlò del padre, morto da poco, se ben ricordo, ben
ultranovantenne.
Collocato com’ero d’accanto alla sua sinistra, cercai di portarlo a differenti memorie.
Non volevo trattasse troppo di decessi, anche perché ricordavo che
su quel triste tema si era intrattenuto un paio o tre d’anni prima,
allorquando, in un altro mio ‘Salotto’, aveva presentato un piccolo e
delizioso libro di poesie.
Mi aveva allora convinto – e le sue parole pesano ancor oggi su di me
e sul mio modo di mangiare senza badare troppo ai limiti – mi aveva
allora convinto, dicevo, che “non si deve mai dimagrire perché la
gente che sta per andarsene da questo mondo, prima, dimagrisce”.
E ricordò allora e quindi, da vivo, Piero Chiara, il nostro comune
maestro.
E in alcuni particolari momenti.
98
Dapprima, quando, al vecchio ‘Cantinone’, vedendolo con un gruppo di giovani, si era avvicinato per poi cominciare a narrare, seduto,
con il mento appoggiato al dorso delle mani che a loro volta poggiavano su un bel bastone, uno di quelli da passeggio.
“E, diavolo, che incredibile affabulatore era”.
Infine, di come e quanto il frequentare l’autore de ‘ Il piatto piange’
molto prima che quel fortunatissimo libro fosse pubblicato, lo avesse
formato come narratore, essendo suo compito, da correttore di bozze
assai malpagato, rivederne i testi dei primi racconti e degli articoli
che a quei lontani tempi uscivano su oramai antiche testate quale in
particolare ‘L’Altolombardo’.
“Ci si forma nei modi più strani”, concluse.
Certo, pensai, ma se non hai, se non abbiamo dentro qualcosa di nostro da dire, tutta la formazione del mondo non serve a un bel nulla.
E quanto aveva da dire Bruno, vero?
MACAIA
“Macaia, scimmia di luce e di follia,
foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia”.
Così, Paolo Conte nel 1974 parlando della macaia, nella bellissima
'Genova per noi'.
Credo si possa concordare: la più bella interpretazione - struggente,
intensa e insieme delicata - appunto di 'Genova per noi' è quella di
Bruno Lauzi.
E Bruno parlerà anni dopo, nel 1999, ancora di quella particolare
e unica situazione meteorologica che di quando in quando avvolge
il capoluogo ligure: il tempo cambia, la temperatura sale, il cielo si
riempie di nuvole minacciose che non si scaricano, umidità a non
Memorie
fnire e una invincibile malinconia riempie di sé tutto e tutti. Scriverà, infatti, malinconico come si conviene, una poesia ricompresa nella raccolta 'Versi facili':
“Spalle a Sestri Levante
la Liguria si inturchina sui monti
e la macaia confonde cielo e mare.
Oggi non so che fare
in questo corpo antico che imprigiona
il monello di ieri:
improvvisi, i pensieri d'uomo vecchio
fan da specchio ad un gioco
oggi guardato senza più ironia.
Soprassalti d'infanzia, ecco che sono,
cui i bambini che mi corrono a lato
sprigionando energia
con il loro squittire concertato
tolgono quel che resta di allegria”.
COME LAUZI RACCONTAVA
DI PIERO CHIARA
Testimonianza resa da Bruno Lauzi
a MdPR nel 2005
“Io ho vissuto a Varese gli anni degli studi e degli amori, l’ennesima versione di
‘Addio giovinezza’ recitata sul piccolo
palcoscenico di una città di provincia,
con tutti i suoi limiti ma in compenso
con la possibilità per chiunque di rendersi visibile e di diventare protagonista sia pure di storie da poco ma non per
questo meno gustose, come quelle che
ogni tanto Piero Chiara ci andava raccontando, con il suo cappelluccio alla Macario ed
il bastone di malacca col pomo d’argento su cui
poggiava le due mani a sostenere il mento, gli occhietti saettanti dietro gli occhialini, la bocca atteggiata a culo di gallina per non far tracimare il beffardo
sorriso di chi sa tenere sulla corda l’ascoltatore con sapienti
sospensioni, fino a farsi sollecitare da ingenue richieste a base
di ‘ancora, ancora’, novello Boccaccio che s’era fatto Omero…
Chiara aveva i suoi amici di carte e di biliardo al Bar Centrale, e solo
di rado veniva a sedersi con noi giovanotti che spadroneggiavamo
allo Zamberletti.
Era, come tutti i siciliani che ho avuto la ventura di conoscere, di fine
intelligenza, quella innata che prescinde dall’istruzione ricevuta, dimostrandosi scrittore concreto e lucido, sciabolatore di aggettivi che
collocava come ordigni micidiali a chiarire con una sola parola l’eventuale oscurità di un concetto. Erede della tradizione settecentesca che
aveva come suo esempio più fulgido le Memorie di Casanova (non a
caso le aveva tradotte con perizia), a differenza di tanti bravi scrittori
che si rivelano per contro penosi oratori, quale era Montanelli, sempre
balbettante, egli aveva avuto in dono una facondia rara che, guarda
caso, era proprio quella che ci voleva per fare di ogni aneddoto
curioso un racconto da ‘Mille e una notte’, addirittura degno di figurare nel
‘Decamerone’... . —
99
Rudolf Nureyev
come l’ho visto io
MAURO DELLA PORTA RAFFO
N
on sono certo la persona più adatta a celebrare la
indubbia e indubitabile grandezza di Rudolf Nureyev nell'arte della danza nella quale, peraltro,
anche da profano, quale ero e sono, lo vedevo rifulgere, unico e solo, al di là e al di fuori di ogni canone e di ogni
costrizione, per ‘creare’ continuamente nuove emozioni.
È proprio, credo, questa sua capacità di creatore che lo spingeva
a essere ogni volta uguale e diverso, comunque, sempre, maestro
e profeta inarrivabile.
Non lasciatevi ingannare da chi vi dice di essere modesto, umile!
Il grande uomo è perfettamente cosciente della sua forza, della
sua unicità e, così, è splendido rivedere e riascoltare una vecchia
intervista televisiva degli anni Settanta del trascorso Novecento di Nureyev nella quale, con decisione, ripeteva una sua convinzione: “La danza in questo secolo è sopravvissuta e ha avuto
successo per esclusivo mio merito”, affermazione nella quale è,
a mio parere, rintracciabile, comunque, la coscienza, anche del
sostanziale e sottile anacronismo di quest'arte.
Rudolf Nureyev ha avuto grandi doni dal cielo e, non ultimo,
quello di sapere che, contrariamente ai suoi più antichi maestri e
predecessori, la sua classe e la sua valentia resteranno per sempre
patrimonio visibile di tutti non esclusivamente in ragione delle
splendide coreografie lasciate ma altresì attraverso le infinite, felici registrazioni televisive, cinematografiche e
fotografiche (fra queste ultime, indimenticabili le
immagini scattate dal grande Giorgio Lotti allorchè Rudolf, affiancato dalla mitica Margot
Fonteyn, fu in Italia esibendosi in particolare
ne ‘Il corsaro’, da sempre il suo ’cavallo di
battaglia’) che delle sue rappresentazioni
esistono.
Ciò di cui, invece, posso tranquillamente parlare, perché mi riguarda
personalmente, è delle sensazioni
che la semplice presenza di Rudolf
sapeva irresistibilmente trasmettere.
Quando, nel settembre del 1991, Nureyev fu a Varese
per il suo primo concerto nella nuova veste di direttore
d'orchestra (avvenimento di portata mondiale che la città
non seppe, come assai spesso le accade, comprendere e che
lasciò passare senza alcuna partecipazione mentre giornali,
riviste e televisioni di ogni dove ne parlavano, fosse anche
100
solamente per interrogarsi al riguardo, con giusto rilievo), ebbi
finalmente modo di conoscerlo personalmente e fu ospite della
mia casa in una splendida, lunga, eppur breve, serata.
Da qualche anno mia figlia maggiore, Alessandra, che già lo
adorava da lontano, aveva avuto l'incredibile opportunità di frequentarlo, di seguirlo nelle sue rappresentazioni a Vienna, come
a Parigi, a Milano come a Roma, diventandone amica e venendo
considerata da lui "come una figlia".
Ed è proprio per iniziativa di Alessandra che Rudolf aveva deciso di presentarsi nella nostra città in quella sua nuova incarnazione.
Per inciso, l’idea di dedicarsi alla direzione di un’orchestra gli
era stata suggerita da Leonard Bernstein, suo coinquilino a New
York, il quale gli aveva fatto notare come appunto i direttori
d’orchestra fossero da annoverarsi tra le persone più longeve.
Quel 14 settembre il mio turbamento fu grande: Nureyev, con la
sua sola presenza, anzi, direi, con il suo solo apparire, sapeva trasmettere fortissime ondate emozionali.
Il suo carisma era evidente, solare.
Il portamento naturale, privo di ogni finzione.
Gli occhi, profondi, percorsi a tratti da un fuoco selvaggio.
La voce gentile e imperiosa.
La sua cultura incredibilmente vasta.
Tutto in lui, però, era come velato, immerso in
una invadente stanchezza, e si poteva indovinare, purtroppo, che ‘qualcosa’ lo stava lentamente soffocando.
Gradì molto l'ambiente familiare, la
cena, la compagnia e parlò, indifferentemente, in italiano, francese,
bulgaro, inglese e, naturalmente,
russo con gli altri ospiti.
La serata passò tanto velocemente che, quasi in un attimo, fu
l'ora dell'addio determinato dall'intervento del suo inflessibile
maggiordomo inglese, Blue, che, d'improvviso, gli disse, irremovibile, che era tempo di andare.
Ricordo, come fosse adesso, Rudolf indossare la mantella che la
sua inconfessata malattia rendeva necessaria anche in una dolce
sera di settembre ed assicurare a mia moglie che ci saremmo
rivisti “perché”, disse sorridendo, “Sissi possa insegnare al mio
maggiordomo le ricette delle ottime cose che ho mangiato”.
Memorie
Mi ripromettevo altri incontri e la possibilità di una più profonda
conoscenza, anzi, di una vera amicizia.
Purtroppo, salvo una fuggevole stretta di mano nei camerini del teatro Impero, al termine del concerto del 16 successivo, nessun altro
momento ci ha più visti insieme e, fino alla sua dipartita, il 6 gennaio 1993, solo qualche telefonata e la voce di Alessandra quando
ne era al seguito (prima del definitivo declino che volle giustamente
vivere appartato ove si escluda un’unica, terribile apparizione all’Opera di Parigi laddove di lui restavano esclusivamente i magici occhi
a sciabolare tra il pubblico dal palcoscenico) mi hanno informato del
reale evolversi della malattia e delle infinite sofferenze.
Per quanto annunciata e attesa, la morte di Rudolf mi ha colto impreparato come accade allorché ci lascia qualcuno che sogniamo sia
eterno e sempre a noi vicino. —
101
Una canzone
per Mina
DON BACKY
N
el tardo pomeriggio, Aldo e Emiliano erano nel
grande salone dell’attico romano, tranquillamente
sprofondati sul divano davanti al televisore, per godersi una nuova puntata di Sturmtruppen di Bonvi.
Lilli, leggeva un giornale lì accanto a loro.
Man mano che scorrevano le immagini, Don cercò di immaginare la sua storia a fumetti realizzata in quel modo, tentando anche
di figurarsi l’effetto che gli avrebbe fatto, se qualcuno di quei
personaggi si fosse messo a cantare.
Quando arrivò la telefonata, Lilli alzò la cornetta dopo un paio
di squilli.
Lui sembrò un po’ infastidito dall’essere stato disturbato nell’interesse per la nuova avventura dell’allegra brigata tedesca.
“Pronto…”, disse la moglie.
Stette poi un attimo ad ascoltare, quindi, passò a lui il telefono:
“Dice di essere Mina…”, disse semplicemente.
Lui stronfiò leggermente e sbuffò.
“Sì… qualche scimunita che fa scherzi…”, commentò, prendendo la cornetta di malavoglia.
“Pronto…”, soffiò nervoso, deciso a mandare al diavolo chiunque.
“Ciao, sono Mina…”, si presentò la voce.
“Sì… mio nonno…”, rispose spazientito.
“No… sono Mina davvero… ciao Aldo, come stai?...”.
A questo punto, lui si fece più attento e cercò nel casellario della
testa la voce originale della Tigre di Cremona.
Sovrapponendola a quella al telefono, dimostrò un sinc perfetto.
“Ciao… scusa, ma proprio non m’aspettavo una tua telefonata…”.
“Senti…”, tagliò corto lei, “…io so che tu hai una canzone per
me…”.
“Ah sì?...”, chiese un po’ imbranato, cercando di comprendere
bene ciò che la cantante sembrava conoscere con così tanta precisione.
“Cerca in qualche cassetto… sono sicura che hai una canzone per
me…”, ripeté.
A questo punto, l’emozione lo aveva completamente travolto.
Sullo schermo del televisore i piccoli soldati germanici continuavano a risultare sempre più goffi.
“Mah… non lo so… di quale canzone parli?...”, domandò, imbarazzato dall’impalpabilità dell’affermazione di lei.
“Guarda che… io l’ho vista la canzone… lo so che ce l’hai…”,
insisté.
102
Aldo, cercò di prendere tempo accondiscendendo con una mezza
affermazione:
“Boh?!... Ah, sì… forse… in effetti credo di avere un pezzo…”,
farfugliò, sfogliando mentalmente il librone dove catalogava i
testi in bella copia delle nuove canzoni, ma scartando automaticamente qualunque titolo gli si presentasse alla memoria.
Per niente al mondo però, avrebbe voluto perdere quell’occasione.
Lei insisté con sempre maggior convinzione:
“Vedrai che non mi sbaglio… cercala bene e appena l’hai trovata,
vieni su a Milano alla Basilica a farmi il provino…”, concluse,
dandogli l’impressione che stesse leggendogli nella mente.
Terminata la telefonata, Don si alzò e andò nello studio.
Purtroppo, la ricerca fatta fisicamente diede lo stesso identico
risultato di quella passata in rassegna virtualmente nella testa.
Nessun brano gli parve essere all’altezza di una simile richiesta.
L’unica che gli sovveniva più possibile, era l’ultima nata; il leit
motiv centrale della commedia musicale a fumetti, che stava realizzando, intitolata Tra i fiori nel vento.
L’avrebbero cantata in duetto Aladino e la sua ragazza, Neve.
***
Nei giorni che lo separarono dal 30 gennaio, non riuscì a fermare
alcuna idea a quel proposito.
La paura di non essere in grado di accontentare la cantante, lo
rese nervoso come l’ago di una bussola al quale avessero avvicinato una calamita.
Pensò alla canzone per tutto il viaggio.
Non di rado l’ispirazione gli era arrivata guidando, specie quando era da solo.
Stavolta però, avrebbe potuto raggiungere il Polo Nord, senza
che nemmeno l’ombra di un’idea gli si affacciasse alla mente.
Trascorse tutto il giorno tra scartoffie e verbali d’assemblea.
Terminata l’incombenza burocratica, decise di fermarsi a cena,
perché sua madre gli aveva preparato la minestra di cavolo, il
coniglio fritto e la zuppa inglese, sapendo che lui non avrebbe
resistito:
“Dormi qui e riparti domani… ‘ndo vai ora con questo buio…”,
suggerì lei apprensiva, dopo aver cenato.
“No, ma’… ritorno subito a Roma, così domattina son già lì…
ho da fa’ un fottìo…”, rispose abbracciandola.
Salutò suo padre già seduto in poltrona davanti al televisore, che
Memorie
stava ribadendo una notizia del giorno precedente:
“La Corte di Cassazione ha vietato la proiezione del film ‘Ultimo
tango a Parigi’, di Bernardo Bertolucci… Tutte le copie della
pellicola verranno bruciate…”.
Si ritrovò così nell’abitacolo del Jaguar, un po’ intristito dall’aver dovuto lasciare i genitori e i due cani, che erano rimasti lì
al cancello a vederlo allontanarsi con la coda e le orecchie basse
lasciando anche in lui un’intima sensazione dolente.
Si lasciò cullare dalle canzoni contenute in uno dei nastrini con
solo brani italiani, realizzati entro il 1960.
In quel momento aveva appena finito di cantare Tony Dallara:
“…Perché romantica, tu seiiiiiiii….” - …e stava passando il suo
cantautore preferito, Umberto Bindi:
“Non mi dire chi sei/Il nome che hai/A me non importa/Adesso che sei qui/Desidero che tu/Rimanga accanto a me, oltre la
vita…” – cantava con voce suadente.
Si accodò all’artista genovese, ricavandone forti emozioni miste
a riflessioni.
Da ragazzo, molte volte – insieme ai suoi amici – si erano chiesti
chi si celasse in realtà dietro l’immagine evocata da Bindi nel
brano.
Per tutto ciò che si vociferava nei confronti di Umberto, circa la
sua diversa sessualità, difficilmente avrebbero potuto scoprirci
un’entità femminile.
Per chissà quale strada misteriosa, gli sovvenne che anche il suo
brano, Faccia da marciapiede, aveva un verso – riferito a se stesso
– che sottolineava l’aspetto segreto dell’interprete:
“Potrei impazzire/Per una rosa/A guardarmi non ci si crede/Ho la
faccia come un marciapiede/Effettivamente il vero io me lo tengo
per me…” – canticchiò.
Già, a pensarci bene, anche Mina presentava un lato decisamente
sconosciuto di sé.
Chissà com’era in realtà, se romantica, buona, cattiva, simpatica,
sentimentale…
Su di lei, si leggeva di tutto e si immaginava di più, ma Mina,
quella vera com’era?
Chissà se l’idea gli sarebbe venuta lo stesso o fu lo stato d’animo
derivato da quelle riflessioni sui due brani a stimolargliela.
Fatto sta, che di colpo desiderò avere con sé l’agenda dove raccoglieva i testi delle canzoni.
Lo scopo del viaggio gli aveva fatto ritenere di non doversene
servire in quel breve lasso di tempo.
Man mano che il nastro d’asfalto si srotolava sotto le ruote del
Jaguar, sentì con certezza che l’idea valida era riuscita a insinuarsi nell’abitacolo e adesso premeva per stabilizzarglisi nella testa,
mescolata alla miriade di immagini che già vi si trovavano accavallate, intrecciate, alla rinfusa: isole in oceani lontani, gangster,
speculatori, buoni, bambini, fate, maghi, gli amici di un tempo,
Santa Croce, Franco, Graziano, Nicche, fino a Mina e alla voglia
di scrivere un brano per lei.
Così compreso e concentrato nello sviluppo dei progetti – ai quali
lavorava in contemporanea, alternandovisi – pareva gli si fosse ››
103
inaridita la fonte delle canzoni non legate allo schema della commedia.
E poi, improvvisamente…
“Cosa può cantare lei che non abbia ancora cantato?...”, si chiese
e si rispose: “…Un autoritratto con finale a sorpresa...”, stabilì
con decisione, avvertendo l’inquietudine, che sempre precedeva
l’arrivo di un concetto.
Ecco – come al solito – l’idea gli sarebbe giunta quando ne avesse
avuto voglia lei e così stava per capitare anche stavolta.
C’erano (e ci sono) cose nel comportamento di Aldo per cui non
sarebbe mai riuscito a spiegare perché doveva gestirle in quel
modo anche rischioso.
Fermarsi a un’area di servizio, sembrava la cosa più razionale da
farsi in un momento del genere, ma il genio della creatività scatta …dal momento in cui, alla rotella del suo fraseggiare, salta il
dente che lo porta a farneticare… - come aveva così bene evidenziato il giornalista Mario Oliviero – e in quel caso, la razionalità
non diventava che una parola con la finale accentata.
Del resto, l’intuizione vincente è una saetta che bisogna saper
afferrare al volo.
Una vecchia busta stazionante nel bauletto dell’auto, sembrò abbastanza stimolante.
Continuando a guidare la aprì, sezionandola poi in quattro parti, sembrandogli in quel modo, più maneggevole per l’uso a cui
voleva destinarla.
Appoggiò quindi il primo dei foglietti sul volante e – continuando a guardare la strada illuminata dai fari - cominciò a tracciare
le linee del ritratto, che aveva deciso di dedicare a Mina:
“Con la mia testa io/Io vi conquisterò/Io vi strabilierò/Con mille
qualità…”.
Mio Dio, come gli sembrava naturale la melodia all’apparenza
allegra, ma velata di un fondo di malinconia, che vi si adattava
senza alcun tipo di forzatura.
E come valutava tutto facile, adesso che la fotografia della cantante appariva sempre più nitida e a fuoco, man mano che i chilometri trascorrevano:
“E per chi vuol vedere/Le gambe, il mio sedere/Vestiti trasparenti/E
li accontenterò…”.
Rifletté solo qualche istante su quella nuova quartina, se fosse
il caso di modificare qua e là l’azzardo di una terminologia mai
usata da alcuno fino ad allora.
Dispose di no.
Il ritratto avrebbe dovuto essere crudo e solo il finale avrebbe
rivelato – e semmai giustificato - il perché di quella crudezza.
Giunse a casa eccitato come una pila da dodici volt caricata da un
generatore atomico, avendo riempito di geroglifici sussultanti, i
pezzetti di busta.
Fu proprio mentre se ne andava a letto, che di colpo il suo spirito
ipercritico, diede corda al pessimismo basale, facendo in modo
che non si sentisse più tanto certo di quel che aveva scritto:
“Non lo so… forse è troppo spinta… spero le piacerà…”, disse a
se stesso, prendendo a spogliarsi, titubante.
Fu in quel preciso momento che sentì giungere l’alter ego.
Non si trattenne molto, solo il tempo per dirgli qualcosa, che –
come al solito – lui non riuscì a decifrare subito:
“Fai bene a sperare… La speranza è una pessima cena, ma può
diventare un’ottima colazione…”, disse enigmatico.
Il mattino seguente, trascrisse quel sobbalzante testo sulla recu-
104
perata agenda e già compiendo questa operazione, finalmente gli
fu chiaro il senso della filosofica frase del Genio.
Lo capì mentre ci lavorava, spostando, cambiando, cancellando e
aggiungendo, cesellandolo fino a quando il testo non gli sembrò
ottimo.
Era proprio vero; la speranza, così flebile la sera prima, si era
davvero trasformata in certezza durante la colazione.
Ora era sicuro di aver realizzato un eccellente ritratto di Mina:
Nuda!
***
Ai primi di febbraio, prima di partire per Milano, terminò una
tavola con un’unica vignetta, che lo mise di buon umore per
come pensava gli fosse riuscita bene.
Assegnò a questo, un presagio favorevole.
Arrivò alla chetichella.
Si recò in Porta Ticinese, parcheggiò in piazza Sant’Eustorgio,
laddove era collocata La Basilica.
Dentro stazionava solo il tecnico, il quale era stato avvisato del
suo arrivo e del provino che avrebbe dovuto fare.
Per l’appunto, il fonico stava leggendo un articolo che era stato
commissionato a Aldo, per commemorare la fucilazione dei sette
fratelli Cervi, e raccontare le sue sensazioni nel periodo in cui
aveva preso parte al film omonimo:
“Lo posso prendere appena hai finito?...”, gli chiese.
“Certo, io l’ho già letto… interessante…”, rispose l’altro.
Poi Aldo tirò fuori la chitarra e – mentre il tecnico accendeva le
macchine – si scaldò la voce eseguendo un paio di volte il brano,
destinandogli una ritmica blues molto aggressiva, così come sarebbe dovuta essere eseguita, secondo lui.
La canzone – all’apparenza – poteva anche sembrare divertente
e leggera, in realtà, la riteneva uno dei brani biografici più duri
che potessero essere scritti sul tema.
Finì di registrare anche Tra i fiori nel vento, sperando che – magari lei se ne innamorasse – avrebbe anche potuto duettarla con
lui.
Ripose la chitarra nella custodia, salutò il fonico e si accinse a
tornarsene via.
Era già arrivato sulla porta che immetteva all’esterno della vecchia chiesa sconsacrata, quando fu colto da un’idea improvvisa:
“Ma certo…”, si disse tornando indietro, “…perché no? Ormai
sono qui… tutt’al più la scarta come hanno fatto tutti gli altri…”, decise.
Il fonico lo vide ripresentarsi in sala e indossare nuovamente le
cuffie:
“C’è qualcosa che non va?...”, chiese dall’interfono.
“Tutto a posto, ma dovrei registrane un’altra… se non ti dispiace…”.
“Aspetta che riaccendo le macchine… stavo andando via
anch’io…”, disse.
Lui si sedette di nuovo davanti al microfono e appena ebbe l’ok,
iniziò:
“Me ne sto qui seduto e assente/Con un cappello sulla fronte/E
cose strane che mi passan per la mente…”.
Quando ebbe finito, il fonico chiese:
“Che pezzo è questo?...”.
“Mah… s’intitola ‘Sognando fumo’…
Memorie
Nel ‘settantatre, la scartarono a Sanremo e nessuno più l’ha voluta…
Non sono mai riuscito a inciderla seriamente…”.
“Eh, non è mica facile come pezzo…”.
“Già… lo so… ma a fare quelle facili sono tutti capaci…”, disse
lui uscendosene con una battuta, comprendendo quanto anche il
tecnico del suono, fosse titubante verso quel brano.
Pazienza, ormai era fatta.
***
Quattro o cinque giorni dopo essere tornato via da Milano, cercò
di farsi una ragione per la nuova esclusione dalla manifestazione
sanremese, pensando che se a Mina fosse piaciuta Nuda, avrebbe
avuto di che gioire anche senza festival.
Quando arrivò lo squillo, staccò la cornetta che quasi il suono
non si era ancora del tutto smaltito nello studio:
“Pronto?... Ciao sono Mina…”, disse giuliva, con la voce che le
cantava naturalmente in gola.
“Sì?...”, rispose incrociando le dita, tentando di mascherare l’emozione da lei procurata.
“Te lo dicevo io che avevi la canzone giusta per me… È vero che
ce l’avevi già fatta in un cassetto?...”, chiese ancora accavallando
l’evidente euforìa.
Per niente al mondo, Don avrebbe risposto di no.
“Sì, non sapevo a chi darla, perché è una canzone davvero troppo
personale e forse pensavo proprio a te quando l’ho scritta tempo
fa…”, bluffò.
“Pensavi proprio a me?... Ma credi che io sia matta?...”, interrogò
lei.
“Matta?... E perché?... Quello è proprio il tuo ritratto…”, insisté
lui, tentando di caricare il suo bluff di maggiori certezze, dato
che nemmeno per un istante aveva pensato, lei potesse riferirsi a
niente altro che a Nuda. ››
105
“Guarda che io sto parlando di ‘Sognando fumo’…”, rivelò allora
la cantante.
In quel momento lui dovette riposizionare tutti i suoi credo, in
modo da comprendere bene quanto aveva inaspettatamente udito.
“‘Sognando fumo’?...”, ripeté automaticamente, “…sì, è bella
anche quella… ma guarda che ‘Nuda’ è proprio la tua foto…”,
insisté, temendo che per ‘Sognando fumo’ ci fosse una motivazione finale da parte di lei, che gli conducesse l’ennesima delusione.
“No, no… è una bomba… io le inciderò tutt’e due, ma il pezzo
che vedevo è questo…
Ti faccio chiamare dal maestro Buffoli, per la coedizione…
A proposito, ma perché l’hai intitolato ‘Sognando fumo’?...
Guarda che ‘Sognando’ è molto più bello…
‘Sognando’… senza niente altro…”.
“‘Sognando’… sì…”, ripeté ancora lui in trance, sentendo di
colpo vendicati anni di delusioni, che avevano riguardato quella
canzone.
Dunque non si era sbagliato ed era Mina – la più grande di tutti
– dall’altro capo del telefono, che glielo stava confermando.
***
Un po’ di giorni dopo, fu di nuovo a Milano.
Aveva da chiudere il suo rapporto con la WEA e tentare approcci
con editori per il libro a fumetti.
Con Elio e Enrico Martano – un loro amico proprietario di un
taxi - fecero visita a casa Moletti:
“Dai, andiamo a cena dall’Arlati…”, lo sollecitarono.
“No… sono stanco… e poi non voglio lasciare sola la Lucia con
la bambina…”, disse il grafico, che preferì ammosciarsi sulla poltrona davanti alla tivù.
Il locale di Mario Arlati aveva conservato il sapore un po’ crepuscolare dell’antico trani, così come lo aveva cantato Gaber: un
grande banco per la mescita, proprio lì all’ingresso, che prendeva
mezza sala, le tovaglie a quadretti bianchi e rossi sui tavoli e le
106
pareti imbiancate a calce, là alla vecchia Bicocca, proprio dietro
il campo di pallone.
Dopo aver mangiato, c’era sempre da potersene scendere giù in
cantina, nella quale era stato ricavato un palco, su cui, chiunque
se la sentisse, poteva far musica o cantare dal vivo, trascorrendo
lì il resto della serata.
Stava ancora infornando un pezzo di bistecca, quando Arlati
stesso fece capolino in sala e – rivolto verso il loro tavolo – disse:
“Ohé Don… ti vòren al telefono…”.
“Chi è mia moglie?...”, chiese.
“L’ha minga di’, ma me par de no…”.
Lui si meravigliò che qualcun’altro lo cercasse lì, dal momento
che solo Lilli a Roma, sapeva che ci sarebbe andato a cenare.
Si alzò per sentire di cosa si trattava:
“Pronto?...
“Pronto… ciao Aldo… sono Mina…
Tua moglie mi ha detto che ti avrei trovato da Moletti e lui mi ha
detto che eri venuto lì a cena…”, disse.
Lui fu sorpreso di sentirla in quella occasione, senza arrivare a
collegare la telefonata, con qualsiasi motivazione plausibile.
Riuscì a nascondere un po’ di timor panico, mentre chiedeva:
“Cos’è successo?...”.
“C’è un problema…”, disse subito lei, senza usare perifrasi.
Don si sentì congelare il sangue nelle vene, al pari di un africano
nudo in Alaska e bofonchiò:
“Un problema?... Che problema?...”.
“Vedi, Presti Pino ha fatto un bell’arrangiamento di ‘Nuda’, con
cambi di tonalità ogni due strofe, ma si è sbagliato e ha registrato
una base più lunga di ben tre strofe, oltre quelle che hai scritto tu…
Non sappiamo come fare per rimediare…”, rivelò.
“Be’… non dovrebbe essere difficile… Basterà tagliare la parte
in esubero e attaccarci il finale…”, suggerì, meravigliandosi che
l’idea non fosse venuta a loro.
“Non si può… ci sono i cambi di tonalità e se si taglia la base di
netto per legarci il finale, viene fuori un salto di un tono e mezzo,
Memorie
che è orribile…”, fece notare la cantante.
“Ah… già… E allora?...”, chiese lui, sentendo scivolare tra le dita
l’ennesima opportunità.
“Devi scrivere subito altre tre quartine e portarle immediatamente qui alla Basilica.
Io sto già incidendo… se ce la fai bene, altrimenti ci devo rinunciare…”.
“Ma la canzone è completa così… non vorrei ribadire cose già
dette...”.
“Be’, sta a te di fare un bel lavoro, che s’incastri bene… tanto sei
bravo… Dai, io ti aspetto, fai più presto che puoi… o preferisci
che non la canti?...”.
Non ci fu bisogno che rispondesse all’interrogativo.
Piuttosto che rinunciarci, avrebbe ingoiato la forchetta in orizzontale e scritto il seguito di Via col vento - della stessa durata
- in dieci minuti. Del resto, quella di risolvere situazioni difficili
all’ultimo istante, era proprio una delle sue caratteristiche più
specifiche. Nelle difficoltà, si esaltava, dando il meglio di sé.
Tornò al tavolo allegro quanto Giacomo Leopardi in uno dei suoi
momenti depressi.
Spiegò velocemente tutto a Elio, poi prese un fazzolettino di carta,
lo distese e cominciò a scrivere versi, che riuscissero a incastrarsi
nel contesto di quelli già prodotti, senza che risultassero forzati.
Elio gli tagliava la bistecca e lo imboccava, consentendogli di
dedicarsi esclusivamente al testo.
«Per quello che mi costa
Io non dirò mai basta
Io perderò la testa
Ma non mi fermerò…
E se c’è chi tra voi
Qualcosa in più vorrà
Magari immaginandomi
Tra mille voluttà…
Io ridere farò
Coloro che tra voi
Non hanno riso mai
Urlare li farò…».
Sarà stata la paura di non farcela, sarà stato lo stellone inserito
nel suo karma, fatto sta che un quarto d’ora dopo, poteva dire:
“Dai ragazzi, va bene così… corriamo a portargliela…”.
Sul taxi frustarono il povero Martano affinché andasse più veloce
e passasse col rosso:
“Ma no cazzo ohé… così mi ritirano la licenza…”.
“Ma chi se ne frega della licenza… ci aspetta Mina… Mina, hai
capito?...”.
Scese che l’auto ancora non era ferma e si infilò nel portone.
Arrivò in studio piuttosto trafelato.
Mina era lì in regìa in compagnia del fonico e di due personaggi
che lo occhieggiarono leziosi:
“Ce l’hai fatta?...”, chiese alzandosi in piedi, restando scalza e
andando verso di lui.
“Credo di sì… adesso dammi il testo, che incastro queste strofe
qua e là…”.
“Belle…”, convenne lei, leggendole.
Prima che la Tigre si infilasse in sala, Don pensò ai due rimasti
nel taxi:
“Senti Mina, fuori ci sono i due amici che mi hanno portato qui
di corsa… posso farli entrare?...”, chiese.
“Mi dispiace, ma non intendo ampliare il giro delle mie conoscenze…”, rispose in maniera drastica, chiudendo dietro di sé la
grossa porta ermetica e lasciandolo deluso. Furono abbassate le
luci, quindi partì la base.
Sulla ritmica sudamericana, allegra e sorgiva – assolutamente
diversa dal blues graffiante con cui l’aveva immaginata lui - eseguì un paio di strofe tanto per scaldarsi la gola, poi chiese di
registrare e iniziò:
“Con la mia testa io/Io v’innamorerò/Io vi strabilierò/parlandovi
di me/Di come so piacere/Mettendomi ad amare/ Di quello che
so fare/In mille modi e più…”.
Don stette lì ad ascoltare quella cascatella d’acqua fresca, che
scendeva gioiosamente lungo il letto della sua gola fatata, senza
incontrare il minimo ostacolo sul quale creare un ghirigoro che
non fosse voluto.
Come gli capitava quando era felice, un leggero sorriso gli increspò le labbra. Mina non ebbe bisogno di ricantare il brano.
I due tipi leziosi, applaudirono alla fine dell’esecuzione.
Lei tornò in regìa:
“Ti piace?...”, chiese.
“Accidenti… sì… moltissimo… è diversa da come te l’avevo provinata…”, rispose continuando a sentire il sorrisetto prorompergli sulle labbra.
“Senti… adesso registro ‘Sognando’… stavo pensando a quei
tuoi amici che sono là fuori… puoi dirgli di entrare se vuoi…”,
consentì.
“Grazie, vado a chiamarli…”.
Si diresse verso la porta e al ritorno, lei era già rientrata in sala.
In regìa non volava una mosca quando partì la base.
Anche per Sognando, Presti Pino aveva usato una ritmica andina
sulla cui sequenza crescente, lei fece sviluppare l’intensità della
voce.
Don osservò gli ospiti mentre Mina cantava.
Non un muscolo si muoveva su quei corpi immobili quanto la
statua di Garibaldi in piazza, tesi a seguire quel testo così inusuale anche per lei:
“Se sento voci non rispondo/Io vivo in uno strano mondo/Dove
ci son pochi problemi/Dove la gente non ha schemi…”, cantò,
inserendo nella voce un pathos rabbrividente.
Al termine, tutti applaudirono la strepitosa esecuzione:
“Credo sia proprio il caso di stappare la bottiglia…”, propose
uno dei suoi due amici, facendo moine e cominciando a scartocciare il Veuve Cliquot.
Poi uscirono tutti insieme all’aperto, dove li accolse una tramontanina gelida, che sembrava soffiata direttamente dal mantice di
Eolo.
Mina si avvolse intorno al collo un’ampia sciarpa color cipolla e
si strinse nel lungo cappottone scuro:
“Questo sarà il mio disco per l’estate…”, disse salutando.
Stette a guardarla mentre si allontanava in compagnia dei suoi
due angeli custodi.
No, non si era sbagliato su quella canzone e Mogol – a suo tempo
- aveva avuto ragione a dire che avrebbe meritato una copertina
d’oro! —
107
Manoscritti
e autografi di d’Annunzio nel 150° della nascita
GIOVANNI MARIA STAFFIERI
A
ffrontare e illustrare la personalità complessa e fascinosa di Gabriele d'Annunzio (1863-1938) in poche
righe attraverso le numerose testimonianze manoscritte, i cimeli, le opere a stampa e la bibliografia
che ho riunito in quasi quarant'anni di ricerche e di approfondimenti, è opera immane.
Mi limiterò ad alcuni cenni ed esemplificazioni.
Fu poeta, drammaturgo, romanziere, novelliere, diarista, giornalista, accanito corrispondente in innumerevoli carteggi,
uomo politico, uomo d'arme combattente, costituzio¬nalista, esteta e chi
più ne ha…
Una figura giustamente definita come
‘inimi¬tabile’ ma di arduo approccio se
si vuole penetrarne in modo completo la
personalità senza scadere nell'agiografia o nella stroncatura: tenendo sempre
presente che in ogni sua manifestazione egli fu, fondamentalmente, sempre e
solo un poeta.
Mi sono avvicinato occasionalmente
a d'Annunzio sui banchi del liceo, frequentato a Lugano tra il 1960 e il 1964,
ma non attraverso le lezioni di letteratura, bensì quelle di storia gestite da
quel grande docente — per chiarezza
e sintesi — che fu Giuseppe Martinola,
quando ci parlò in modo appassionante
dell'impresa, anzi dell'epopea di Fiume
(1919-1921), che vide il poeta quale
108
protagonista e, forse, ultimo 'capitano di ventura'.
La mia marcia di avvicinamento alle testimonianze manoscritte
di d'Annunzio partì negli anni Settanta con l'acquisto casuale,
sempre sulle bancarelle del mercatino di Lugano, di un suo libro
con dedica autografa, espressa con una scrittura elegante in inchiostro di china e con uno stile aulico inconfondibile.
Da lì crebbe l'interesse e la passione per il personaggio: acquisti e
scambi sempre più frequenti e vieppiù mirati, cioè di 'contenuto'
mi hanno condotto ad una collezione rappresen¬tativa che definirei antologica, che spazia dalla sua adolescenza quale studente
del famoso Collegio Cicognini di Prato
(ho una sua lettera del 1879 al padre),
fino ai tempi di quella che egli definiva la “turpe vecchiaia” (alcuni scritti del
1937), passando attraverso tutti i periodi della sua fecondità letteraria e della
sua spericolata azione politica e bellica
quale acceso patriota, nazionalista e irredentista (mai fascista e in ogni caso
dichiarato antinazista).
Poi le corrispondenze con familiari (padre, madre, moglie, figli), amici, colleghi, amanti, che ne manifestano aspetti
umani noti e meno noti.
E ancora il pensiero, scritto a china su
un fazzoletto di seta ricamata, che sigilla l'inizio del suo legame decennale
con Eleonora Duse, legame che produrrà opere immortali: “Amori et dolori,
Ghísola sacra. Firenze, 10.X.1895”: una
reliquia, se appena si pensa che la figlia
Memorie
della grande attrice distrusse quasi tutti gli scritti di d'Annunzio
alla madre subito dopo la sua morte.
Preziose le diverse minute con correzioni delle liriche composte a Settignano nei primissimi anni del Novecento per il primo
volume delle Laudi, cestinate, poi raccolte e conservate dal suo
confidente, custode e veterinario dei suoi cani e cavalli, il dottor
Benigno Palmerio.
Il taccuino degli indirizzi del periodo del suo esilio in Francia
(1910-1915) per sfuggire ai creditori attesta oltre quattrocento contatti con le più disparate personalità del mondo culturale
di allora (Jean Cocteau, Claude
Debussy, Léon Bakst, André
Gide, Isadora Duncan, Robert
de Montesquiou, Pietro Mascagni, Arturo Toscanini, Ildebrando Pizzetti e molti altri
ancora).
Segue il periodo di guerra
(1915-1918) dove il Poeta
si trasforma in Vate e combatte su terra, in mare e
nell'aria perdendo un occhio e ricevendo tre medaglie d'argento e una d'oro:
per quest'ultima possiedo
una lettera di rivendicazione
inedita indirizzata al suo superiore militare — colonnello Ernesto La Polla — il 9 agosto 1918, appena rientrato dal famoso
volo pacifico su Vienna, azione da Guinness dei primati per quei
tempi.
Poi l'impresa di Fiume con i suoi proclami e la Carta del Carnaro,
in alcuni esemplari dedicati (a Guglielmo Marconi, a Guido Marussig). Altre dediche sul Notturno e le correzioni autografe sulle
bozze di stampa del suo ultimo celebre Libro Segreto, del 1935.
Mi accorgo di dover ora porre termine ad una rassegna che sta
assumendo eccessive dimensioni.
Segnalo però che metto a disposizione degli studiosi quanto
possiedo di d'Annunzio,
con la relativa bibliografia, mentre ho sempre
trasmesso fotocopie dei
miei manoscritti e autografi dannunziani agli
Archivi del Vittoriale,
con i quali intrattengo
rapporti ottimali, in particolare con l'amico Presidente della Fondazione,
il Prof. Giordano Bruno
Guerri, illustre saggista
della storia e letteratura
italiana. —
109
Parte lesa
di Giuliano Zincone (in memoria)
“È
il turno della Parte Lesa, dottor Scipione Zumbo.
Giuri, eccetera”.
Giuro, eccetera.
Signora giudice…
“Si dice signor giudice, e non mi chiami Vostro Onore, come nei
telefilm americani”.
Signor giudice, la mia testimonianza ha bisogno di un contesto,
dovrei rievocare.
“Contestualizzi e rievochi, però non abusi della nostra pazienza”.
Quindi e allora.
Correvano (eccome!) gli anni Cinquanta che oggi tutti santificano,
forse perché non li hanno vissuti.
Noi ragazzetti della borghesia medio alta tenevamo parecchio ai
nostri codici.
Vestiti all’inglese, correttezza formale, baciamano, feste in smoking, messa la domenica e cattiveria.
Eravamo pagliacci, ma non delinquenti.
Non tutti, almeno.
Però conoscevo bene tre coetanei minorenni che commisero omicidi per rapina.
Frequentavano le scuole migliori, erano imbottiti di Valori, ricordo
i loro cognomi…
“E’ irrilevante, continui, Zumbo”.
Sì, grazie, signor giudice.
Insomma, non ci mancava niente: sport, balli, cinema, teatri, famiglie perfette.
Si giocava a poker fino all’alba e se non si poteva pagare, si rubava
in casa.
C’erano anche i teppisti.
Qualcuno, di notte, sfondava le vetrine e pisciava
nelle macchine parcheggiate.
“Vogliamo stringere?”.
Se m’interrompe, La chiamerò Vostro Onore.
“Vada avanti, Parte Lesa.
E porti rispetto”.
Rispettosamente, cerco di
stringere.
Nel codice del nostro
gruppo di amici c’era il disprezzo per gli altri.
Se qualcuno s’accostava a
noi, sbagliavamo apposta
il suo nome.
Era Roberto? Noi lo chiamavamo Gino, per fargli
110
capire che non era nessuno.
Eccetera.
Ma al primo posto c’era un comandamento.
Nel corteggiare le donne non bisognava mai lasciarsi andare: niente debolezze, fingere distacco, evitare le loro trappole.
All’origine di quei comportamenti, signor giudice, c’era un equivoco storico.
Ci assillava una convinzione pazzesca: le ragazze fanno tante moine, ma non ce La danno.
Molto tardi, troppo tardi, ho scoperto la verità: eravamo noi che
non osavamo chiederLa, perché avevamo paura di fare un figlio (e,
in quel caso, ritenevamo indispensabile sposarci).
E perché, nonostante la nostra cattiveria, eravamo succubi dei tabù
fatti d’incenso e di confessori che minacciavano gli eterni supplizi
anche per chi fosse sfiorato da un ‘pensiero cattivo’.
La nostra psicoviolenza era figlia di una specie di psicoimpotenza.
In quegli anni Cinquanta seguivo la moda del mio gruppo: crudeltà gratuita.
Avevo un casto flirtino con una ragazza, che forse avrebbe desiderato darmeLa.
Durante un ‘Gioco della Verità’, sua sorella mi chiese se l’amassi
davvero.
E io (mentendo) risposi che macché, m’ero messo con lei per scommessa.
Così la offesi, volontariamente e stupidamente.
Fu una delle peggiori azioni della mia vita.
Ma fui ampiamente punito.
Non da quella signorina, ma da molte altre donne.
Perché, negli anni successivi, cambiarono le mode.
E io, naturalmente, mi
adeguai.
Le signorine e le signore
(come si disse) avevano
preso coscienza.
Adesso La davano e Lo reclamavano.
La loro ascesa nella gerarchia del potere era ancora
lentissima.
Però nella conquista del
libero amore i loro scatti
erano fulminei.
A questo punto, il mio
ruolo si capovolse: dovevo essere gentilissimo con
le donne, possibilmente
sottomesso e tendenzialmente cornuto.
Dissensi & Discordanze
Olympia
Siccome sono sempre stato un tipo up to date, mi sono dimenato
a lungo in quella poltiglia di sventatezze.
Non capivo più niente e venivo sempre castigato.
Una signora m’invitò per un tè e io mi limitai a chiacchierare.
Apriti cielo: fui sputtanato come buono a niente.
Dopo qualche giorno, un’altra mi propose un whisky notturno a
casa sua.
Quindi ci provai.
Apriti cielo: fui sputtanato come lupo mannaro e playboy patetico.
“Concluda, povero Zumbo”.
Sì, concludo, Vostro Onore, pardon, dottor giudice.
In età matura ho subìto un infortunio: l’amore.
Forse la legge non contempla questa circostanza.
Però è vero: mi ha stordito come una martellata un sentimento
quasi febbrile per la mia convivente (o compagna, o come la volete
chiamare), cioè per l’Imputata Susanna. La quale, un bel giorno,
allegra e sportiva, mi riscaldò gli involtini primavera e mi disse che
le piaceva Paolo.
Paolo?
Ma dai, quel ciccione?
“Sì, lui”.
Senti - risposi - sarei più contento se, invece di tradirmi con Paolo,
m’infilassi un coltello nella schiena.
Detto, fatto.
Torna in cucina, acchiappa l’arma (impropria?) e mi colpisce tra le
costole.
Sono Parte Lesa, signor giudice, però non mi posso lamentare troppo.
Io l’ho sfidata e lei, in fondo, mi ha accontentato.
E’ cambiata la moda, sono cambiate le donne, per disgrazia o per
fortuna.
Ritiro la querela contro Susanna.
D’ora in poi starò più attento.
Misurerò le parole.
Lo giuro, eccetera. —
111
114
Interviste
Non c'è la società. Ci sono
uomini, donne, famiglie.
Margaret Thatcher
115
Valentina
Cortese
Di seguito, la mia intervista alla grande Diva realizzata in attesa
del nostro incontro in programma sabato 12 maggio sera a Milano
nell’ambito della serata conclusiva di ‘Rendez vous, appuntamento
con il nuovo Cinema francese’, Festival organizzato dall’Institut Francais.
Nell’occasione, alla Sua presenza e su Sua richiesta è stato proiettato
in lingua originale il film di Francois Truffaut ‘La nuit américaine’,
‘Effetto notte’ nella versione italiana
MAURO DELLA PORTA RAFFO
S
ignora,
La incontro oggi nella Sua veste di madrina di un Festival
dedicato al Cinema Francese.
I Suoi grandi trascorsi a livello internazionale Le hanno consentito di frequentare ambienti e mondi cinematografici per ogni
dove e sempre ai massimi livelli.
Quali le ragioni di questa sua presenza, quali i Suoi rapporti
con le bella cinematografia d’Oltralpe al di là della squisita e
intensa caratterizzazione che le valse la candidatura all’Oscar
in ‘Effetto notte’ di Francois Truffaut?
La mia presenza qui come madrina?
È perché ho incontrato persone gentili che me lo hanno chiesto.
Una qualità rara la gentilezza, l’anima gentile.
Poi perché ho un rapporto direi ‘amoroso’ col Cinema francese, grazie a Truffaut. Ma non dimentico altri registi coi quali ho lavorato anche in teatro
come Patrice Chereau, caro adorabile matto.
Geniale però.
In teatro con lui feci negli anni Settanta ‘Lulu’ al Piccolo Teatro, con Tino
Carraro e Alida Valli e fu un successo incredibile.
E ancora, girai un film: ‘Un’orchidea rosso sangue’.
Ricordo altri registi: Dominique Delouche, Bernhard Wicki (con me c’era
la mia grande amica, vera, Ingrid Bergman, il film era ‘La vendetta della
signora’), e poi Denys de la Patellière, (feci ‘Le soleil noir’) e ancora, Claude
Pinoteau.
Poco prima di ‘Effetto notte’ incontrai Joseph Losey e con Richard Burton e
Alain Delon girammo ‘L’assassinio di Trotsky’…
E tanti altri registi.
Ma certamente il film che ho amato di più è del mio adorato, indimenticabile François, il mio ruolo era quello di Séverine, attrice in crisi, una donna
fragile e coraggiosa.
116
Il regista non volle scrivere il testo preciso del copione, voleva che io ricreassi
d’istinto il personaggio.
Il film vinse la Palma d’oro a Cannes e io fui candidata all’Oscar.
Amo il cinema francese il suo modo di saper raccontare le storie senza perdere
mai il controllo del film nel suo svolgersi.
Si deve considerare il Cinema come un linguaggio.
Si può esprimere tutto con il Cinema, idee generali e ossessioni personali, come
si fa con i romanzi o con la saggistica.
Certo una signora come me arrivata a novant’anni non sempre si aggiorna
sulla realtà del ‘grande schermo’ e non solo francese ma devo dire con onestà
che ho vissuto la grande stagione del Cinema con magnifici compagni di lavoro e registi di razza, senza dubbio alcuno.
Lei ha frequentato da protagonista non solo i set cinematografici ma anche i teatri, riuscendo magnificamente in due mondi
che per quanto possano apparire prossimi sono dal punto di
vista della recitazione (e non solo, ma parlo all’attrice ovviamente) diversi. Può soffermarsi su tali diversità?
Non amo molto i distinguo.
Amo il buon cinema e la buona recitazione.
Se diversità c’è, è che l’obiettivo della cinepresa per un fatto tecnico, ti mette
a nudo ogni moto dell’anima, ti scruta dentro, ti rivela, e non puoi bluffare.
Occorre sincerità al cinema.
Poi, certo, è importante il montaggio: contributo notevole all’arte della recitazione nel cinema, può determinare il successo o no di un film.
In teatro la parola non puoi soffiarla, ti deve aiutare la tecnica, l’emissione
della voce.
Tecnica e sentimento.
Lo dico sempre.
E non sempre ho visto in teatro giovani attori preparati e consapevoli di queste due importanti componenti.
Nel cinema l’attore deve ‘sentire’ la velocità di una carrellata o la dolcezza
di un dolby. ››
Interviste
“Ho novant’anni
e ancora coltivo lo stupore”
Valentina Cortese
117
Si deve amoreggiare con l’obiettivo.
In teatro invece si costruisce per accumulo, non a frammenti.
Ma ripeto è la sincerità che deve vincere.
In ogni caso.
Ennio Morricone, anni fa, in un nostro incontro, sottolineava
l’importanza per la riuscita di quanti abbiano vere capacità dei
Maestri, delle frequentazioni.
Quali, Signora, i suoi Maestri?
Quali gli eventuali modelli ispiratori?
I miei maestri assoluti sono stati due uomini che ho anche amato e che mi
hanno amata: Victor De Sabata e Giorgio Strehler.
Victor, incandescente genio, grandissimo direttore d’orchestra, mi ha educata
alla musica come nutrimento dell’anima, ancora oggi quando studio ascolto
musica.
E poi Giorgio.
Mi ha portata a tali altezze da rimanerne sbigottita.
E non ho fatto altro che seguire lui come Dante seguiva Virgilio, sperimentando viaggi di conoscenza profonda dei testi e degli autori.
Ma non dimentico, mi creda, le contadine lombarde della mia infanzia, la
forza, l’umiltà e la dignità che le contraddistingueva.
Anche loro mi sono state maestre.
È difficile, lo so, a volte, far capire e credere come da quelle donne abbia carpito certi gesti, certi modi di muoversi, la grazia nell’annodarsi il foulard o
nel tenere in braccio i figli da allattare.
E non dimentico le danze attorno al fuoco degli zingari che ho frequentato
nella mia infanzia, i loro racconti, anche la loro fatica di vivere.
Tutto a tutti ho assorbito, rubato, conservato.
Dalla fame si impara molto.
Questo e altro ancora, vissuto nella mia infanzia nella campagna lombarda,
mi è stato maestro di vita.
Oltre ai registi teatrali e cinematografici, Le è occorso di recitare a fianco di veri ‘mostri sacri’ quali James Stewart, Spencer
Tracy, Humphrey Bogart, William Holden, Anthony Quinn,
Paul Newman e potrei continuare.
Qualche particolare ricordo, qualche aneddoto.
Le è possibile?
Oh, my God, da dove cominciare?
È vero se ripenso agli anni di Hollywood la mia avventura umana ha
dell’incredibile.
Dall’incontro con Greta Garbo: averla a tavola con me il primo giorno
che approdai in America, dopo averla sognata, vedendola da ragazzina,
sullo schermo… Non si può immaginare il fascino che sprigionava la sua
sola presenza. O giocare a tennis con Chaplin che mi offrì di girare con
lui il film ‘Luci della ribalta’ che purtroppo rifiutai perché ero incinta
di mio figlio.
Le risate pazze con Cary Grant o
Gregory Peck, meravigliosi colleghi.
Gli spaghetti cucinati ad arte da
Marlene Dietrich o la tenerezza delle
confidenze di Marilyn Monroe, la sua
fragilità e la sua bellezza, che vista da
vicino sembrava di panna montata.
E poi ancora Bette Davis, le lunghe
conversazioni fra le pause delle riprese
con Spencer Tracy che viveva in segreto
la sua storia d’amore con Katharine
Hepburn, avendo un figlio malato
grave.
118
Anthony Quinn, bravissimo e spassoso, maschio e sensibile, si pensi al suo
personaggio, Zampanò, in ‘La strada’ di Fellini.
E altri e altri ancora.
E non solo in America.
Penso ai film girati in Inghilterra dove (mi vergogno a dirlo) mi paragonarono alla Garbo.
E quel pazzo di Orson Welles che ne combinava di tutti i colori sul set, ma
grande attore, geniale.
My God, se li nomino tutti stiamo qui fino a Natale!
Ma non voglio dimenticare i miei compagni italiani.
Mastroianni che debuttò con me.
Gassman, Rossano Brazzi che nelle scene d’amore mi soffocava con la sua
bocca carnosa, e Alberto Sordi e Giancarlo Giannini, e altri ancora. Registi
come Zeffirelli fratellino adorato.
Visconti l’aristocrazia.
Antonioni la sperimentazione.
Fellini la visionarietà…
Devo riconoscerlo la mia vita è stata una lunga e meravigliosa avventura e
lo è ancora adesso quando mi alzo al mattino e mi metto a studiare e guardo
fuori dalla finestra di camera mia, la struggente bellezza degli alberi, testimoni del divino nella natura.
Ho appena registrato per la televisione svizzera alcune poesie e ricordi di
Alda Merini.
E le folgoranti poesie di Emily Dickinson?
E quel che mi commuove ancora è quando per strada o a teatro, la gente anche
la più umile, mi vuole abbracciare e ringraziare, allora come dice la poetessa
americana in una sua poesia: “ …se allevierò il dolore di una vita o guarirò
una pena, non avrò vissuto invano”.
Infine, se me lo consente: cosa Le ha regalato di particolare la
maturità?
La maturità…questa stagione della vita?
La consapevolezza, la ricchezza della semplicità, lo scoprire che l’amore si
trasforma con te e con le tue stagioni, e che prende ampiezze inaudite.
Ripercorro l’amore per le cose semplici e tenere.
Mi chiedo spesso cosa succederà quando si arriverà a ‘quella soglia’ oltre la
quale c’è il mistero.
Il Mistero.
Con serenità affronto questi pensieri, a volte ci scherzo su, ma sono presenti
in me, di continuo.
Ed è giusto così.
Ho novant’anni anni e ancora coltivo lo stupore.
Ho amici, veri, sani, che amo e ne sono ricambiata.
Amo andare ai concerti, a teatro, frequentare gente che sa condividere la
risata e il ragionamento.
Ho sempre allontanato da me l’invidia e la stupidità, oggi più che
mai. Non ho voglia di perdere tempo, questo tempo che ancora mi viene
donato è prezioso.
E amo guardare avanti.
Solo ogni tanto mi giro e mi stupisco
di quanto, quella bambina che giocava a piedi nudi nella campagna
lombarda, abbia camminato e ancora camminerà…
Oh sì, come dice quel poeta orientale? “un albero senza foglie non
Ph. Alberto Bortoluzzi
perde mai la speranza”. —
Interviste
“Ancora oggi quando studio ascolto musica”
Valentina Cortese
119
Sandro
Mazzinghi
Come tutti i varesini della mia età, infiniti anni orsono, ho molte volte
incontrato in città Sandro Mazzinghi.
Boxava per la ‘colonia Ignis’ ed era un protetto del commendator
Giovanni Borghi. Con lui, spesso, il fratello maggiore Guido.
L’ammiravo da lontano, non osando importunarlo. Ci siamo, invece,
conosciuti una dozzina d’anni fa, in occasione di una cerimonia
commemorativa proprio del mitico ‘Cumenda’.
Tengo, da allora, tra i miei più cari cimeli la foto che ci ritrae vicini e
sorridenti. Grazie, Sandro, per l’amicizia dipoi coltivata.
Grazie per essere stato ed essere l’uomo che sei!
MAURO DELLA PORTA RAFFO
C
omincerò con una domanda particolare e articolata,
dettata dall’invidia.
Devi sapere che nel 2005 sono stato finalista del
Premio Bancarella Sport ma non l’ho vinto.
Tu invece sì e con un libro dal titolo davvero speciale, ‘Pugni
amari’.
Immagino la tua soddisfazione.
Cosa ti aveva spinto allora a prendere la penna in mano?
Quale urgenza?
Perché ‘amari’, quei pugni?
Beh, intanto sono lusingato di destarti invidia, ma scherzi a parte ho scritto
‘Pugni Amari’ grazie anche al giornalista Michelangelo Corazza perché avevo ancora molto da dire al mio
pubblico e perché ho subito molte ingiustizie nella vita.
Sono sempre stato un uomo pulito ed onesto e forse proprio per questo mio carattere schietto non andavo giù
a qualcuno.
E’ stata una soddisfazione enorme l'uscita della mia
biografia, con ampi consensi sia di pubblico che di critica.
‘Pugni amari’ perché ho visto l'ingratitudine di tutte
quelle persone che finché ero ‘il Campione’ con la c maiuscola avrebbero fatto carte false pur di starmi vicino
per abbandonarmi invece quando non sono più stato il
Mazzinghi che strappava caratteri cubitali sui giornali e questo non è bello.
120
La ‘nobile arte’ – lo si chiamava così il pugilato in tempi oramai
lontani – è ai nostri giorni negletta.
Viene considerata da molti, se non dalla più parte della gente,
come qualcosa di brutale e di selvaggio.
Ha perso quell’appeal, quel seguito entusiasta sul quale poteva
contare senza timore.
Tu hai riempito San Siro: sessantamila spettatori.
Oggi, non è nemmeno pensabile che chiunque possa anche
solo riuscire a far programmare nello stadio milanese un qualsiasi incontro.
Cosa, a tuo parere, ha causato questo tramonto?
Devo dire che le cause sono molte.
Una di queste è il troppo benessere (per carità, meglio
così).
Noi si proveniva da situazioni particolari.
Io ero molto povero e con il pugilato ho trovato il pieno
riscatto.
Oggi riempire uno stadio come quello di San Siro con
sessantamila persone per un incontro di pugilato è vera
utopia.
Eravamo trascinatori, uomini di tempra e, se posso
permettermi, con grande carisma.
Il pugilato è una disciplina bellissima.
Può sembrare brutale, ma ti assicuro che non è così.
Basta vedere quando termina il match: i due gladiatori si abbracciano ed è la cosa più bella del mondo
Credo te l’abbiano chiesto in molti, ma cosa
Interviste
ti ha spinto sul quadrato?
Quale la tua motivazione?
I successi - non all’altezza dei tuoi, per carità – di tuo fratello
maggiore Guido?
Un qualche desiderio di rivalsa?
Il bisogno?
Hai detto giusto: tutte e tre queste cose.
Vedevo mio fratello combattere e lui all’epoca era un bel campione, e io ero
piccolo e mi immaginavo che un giorno sarei stato come Guido.
Mi affascinava talmente tanto che lo volevo copiare in tutto.
Poi, le condizioni economiche in cui la mia famiglia versava.
Erano momenti difficili e io con il pugilato ho avuto il riscatto di tutto.
Con il pugilato ho reso felice la mia famiglia che tanto aveva sofferto e sacrificato per crescere noi figlioli.
E come hai affrontato gli infiniti sacrifici che una carriera pugilistica di altissimo livello in qualche modo impone?
A cosa, a quali affetti, hai dovuto rinunciare?
Caro Mauro, e se ti dicessi che non ho rinunciato a nessun affetto?
Ti spiego.
Ho avuto una carriera ad altissimi livelli e quando dovevo affrontare immensi sacrifici, li affrontavo
con totale naturalezza perché amavo il mio lavoro più
di qualunque altra cosa e
per me era appunto naturale
il sacrificio.
Se rinascessi rifarei tutto
allo stesso modo.
Sono stati momenti irripetibili, immensi, profondi, che
non si possono dimenticare.
Hai capito subito, ‘sapevi’, di essere destinato alla gloria sul ring?
Cosa ha voluto dire per
te il vincere da dilettante i Mondiali militari in America?
Fu la conferma?
olevo diventare un campione a tutti i costi.
Oltre ad emulare mio fratello, amavo Roky Graziano e mi affascinava la
sua storia che vidi da bambino in un cinema della mia città.
‘Lassù qualcuno mi ama’, la pellicola, interpretata dal grande Paul Newman.
E dentro di me, dopo aver visto quel magico film, ripetevo in continuazione:
“Alessandro, anche tu un giorno diventerai un campione”.
E quando da dilettante vinsi i Mondiali militari in America fu la conferma
che ce la potevo fare.
Cosa si prova a dare e prendere pugni?
Quale mai forza ti faceva restare in piedi e reagire superbamente quando colpito duramente?
Quando salivo sul ring ero talmente concentrato che a volte non sentivo neanche i colpi.
Avevo una grande preparazione atletica.
Ero meticoloso nel prepararmi.
Addirittura andavo in ritiro tre/quattro mesi prima dei match e questo influiva moltissimo quando c’èra da incassare colpi durissimi e credimi ne ho
incassati non so quanti.
Sessantanove combattimenti – e che combattimenti – e tre
sole sconfitte, due delle quali con Nino Benvenuti.
Penso che la seconda volta non avessi perso, ma, questo a parte, come hai affrontato e superato – tanto da riconquistare il
mondiale – l’amarezza conseguente?
E con Nino, quali, dopo e oggi, se ci sono, i rapporti?
Hai ragione, il secondo match con Benvenuti l’avevo meritatamente vinto,
ma purtroppo le cose andarono come sappiamo e non voglio star qui a rifar
polemiche chi mi conosce sa come andarono i fatti.
Il dopo Benvenuti per me è stato il ripartire da capo.
Riconquistai l’europeo per ben quattro volte con degli avversari durissimi.
L’ultimo a Stoccolma con quella furia di Bo Hogberg.
Fu un match fantastico.
Ma la più grande soddisfazione l’ho avuta quel 26 maggio del 1968 a San
Siro, con sessantamila spettatori, contro il coreano Kim So Kim.
Fu un incontro durissimo: due tori nell’arena, quindici intensissime riprese
di pura follia e ritornai in possesso del titolo del mondo.
Quel titolo che era stato già mio tre anni prima e che la sorte beffarda mi
aveva portato via ingiustamente.
Con Benvenuti sono anni che non ci vediamo.
Lui ha la sua vita ed io la
mia.
L’importante, alla fine, è
stare bene!
Hai terre nella tua Toscana, produci olio e
vino.
Ti appaga la terra?
Hai ancora dentro di te
quel fremito, quell’ardore, quella voglia,
quel desiderio infinito
di prevalere?
Se così è, come lo
domi?
Sì, nella mia proprietà ho
molta terra e coltivo un buon
vino rosso e bianco.
Coltivare le viti mi è sempre piaciuto.
Lavorare la terra mi appaga moltissimo perche la lavori con amore e lei con
amore ti da i suoi frutti.
E’ bellissimo.
In gioventù avevo un carattere abbastanza esuberante, tipico di noi toscani.
Avevo quel desiderio di prevalere sempre, perché la voglia dentro di arrivare
era tanta.
Oggi sono un po’ più pacato, ma il cavallo di razza è sempre dentro di me.
Sai di essere per molti – ed io tra loro – una leggenda?
Non mi fare arrossire.
Se voi tutti dite che sono una leggenda, grazie per me è un onore saperlo. Vuol
dire che ho lasciato un buon ricordo per quel che ho fatto.
Io so solo che sono Sandro, una persona semplice…
Sei, amico mio, credente?
Certo, sono credente.
La fede per me è sempre stata importante sia sul quadrato che nel cammino
della vita.
Se non avessi avuto fede, forse non avrei superato quei momenti difficili che
la vita a volte ti presenta...
Un abbraccio a tutti, Sandro Mazzinghi. —
121
DISSENSI & DISCORDANZE
Pubblicazione indicativamente semestrale
ideata, diretta, edita
da MAURO DELLA PORTA RAFFO
Numero 1 | novembre 2013
Stampa:
LEGATORIA CARRAVETTA, Varese
finito di stampare il
18 ottobre 2013
Vittore Frattini
Globi in Vetro di Murano, (diam. 30 cm.)
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Anno I N1
ottobre 2013
1
Pubblicazione
indicativamente semestrale
ideata, diretta, edita
da Mauro della Porta Raffo