Trimestrale regionale delle politiche giovanili I giovani raccontano

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Trimestrale regionale delle politiche giovanili I giovani raccontano
anno VI n. 4
Amministrazione Provinciale di Pordenone
Trimestrale regionale delle politiche giovanili
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Caro diario...
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I giovani raccontano sentimenti
e inquietudini del loro tempo
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Trimestrale regionale delle politiche giovanili
Scrittura di sé
e mondi giovanili
[Sommario]
Scrittura di sé e mondi giovanili pag. 3 • Scrivere i sentimenti: imparare a
conoscersi per educarsi pag. 6 • Inquietudine: stato di coscienza universale pag. 8 • Questione
di punti di vista pag. 10 • Canzoni e sentimenti pag. 11 • Le storie di Giulia pag. 12 • Fare
Tr im e s t r a l e r e gi o n a l e
d e lle p o l i t i c h e gi o va n il i
spazio ai giovani, capire il loro linguaggio pag. 13 • Sentimenti: lavori in corso! pag. 14 •
I Nuovi Eroi pag. 15 • Conferenza provinciale permanente sulle politiche giovanili
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anno VI n. 4
pag. 18 • Il sentimento globale: le emozioni descritte da 3 punti di vista particolari
pag. 19 • Uno sguardo verso il cielo: l’emozione del rock progressivo in un
memorabile incontro triestino pag. 22 • Note d’insieme pag. 23 • La solitudine
dei numeri primi pag. 24 • Là dove osano i cineasti pag. 25
Alidee Trimestrale regionale delle politiche giovanili
Anno VI n. 4
Registrazione presso il Tribunale di Pordenone n. 491 del 15.10.2002
Editore
Provincia di Pordenone Largo San Giorgio 12, 33170 Pordenone
Direttore responsabile
Massimo De Bortoli
Redazione
Andrea Aiza, Provincia di Trieste
Tito Brusa, Comune di Gorizia
Luisa Conte, Comune di Pordenone
Annalisa Furlan, Provincia di Pordenone
Paola Grizzo, Regione Friuli Venezia Giulia
Valentina Pividori, Comune di Udine
Martina Tosoratti, Provincia di Udine
Paolo Zuliani, Provincia di Gorizia
Coordinamento redazionale: Antonio Garlatti,
Associazione Intercomunale del Sanvitese
A cura del Servizio Programmazione Sociale della Provincia di Pordenone
via Sturzo 12, 33170 Pordenone
[email protected]
Progetto grafico
DSF Design
Supporto redazionale
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Servizi fotografici originali per Alidee di
Lorenzo Crasnich
Stampato presso Poligrafiche San Marco, Cormòns
Tiratura copie 6.000
Alidee è anche su www.provincia.pordenone.it e su www.aliasfvg.it
editoriale
Du ccio De me trio
Una premessa
La scrittura, negli ultimi
anni, è tornata in auge
soprattutto grazie all’uso e
all’introduzione delle nuove
tecnologie dell’informazione. Difficile
è infatti non ammettere, soprattutto
nelle nostre vite private, quanto impulso
questo antico mezzo di comunicazione,
interazione e narrazione abbia ricevuto dalla
rivoluzione informatica. All’inizio, fu guardata
con grande sospetto dai più (ma non dai giovani)
con quella diffidenza tipica di chi abbia ricevuto
una formazione all’uso della lingua scritta
prevalentemente morfosintattica e stilistica,
poco attenta al valore dello scrivere in sé,
che spesso prescinde dal riuscire a
realizzare produzioni corrette e
accettabili. Quando lo si usi come un
prolungamento simbolico e narrativo
della propria persona per capirsi e
farsi intendere dagli altri, la scrittura,
della cui filosofia non ci ha parlato
nessuno a scuola e spesso
nemmeno al tempo
dell’università, è anche un
impulso umano di carattere
emancipativo, riconducibile
al desiderio di affermare
la propria presenza e
individualità; ai propri
occhi e a quelli degli altri.
Con le nuove tecnologie,
si sono dunque rotti
gli argini che
convogliavano lo
scrivere entro gli
esclusivi confini
Quando il lavoro
educativo raccoglie e
promuove un’esigenza
evolutiva
della scuola. Oggi ci si scrive, si scrive di sé, si entra nelle reti
innumerevoli degli scrittori per diletto di ogni età, senza dover
dar conto a nessuno. Per il puro piacere di farlo e di farsi leggere
da lettori noti o ignoti.
Come scrivono i giovani
Le resistenze, se non le esplicite opposizioni ad un uso così
spigliato della lingua, sono comunque comprensibili. Non si può
certo restare del tutto indifferenti, se dotati di una coscienza
professionale educativa e docente, dinanzi alle imperfezioni,
alla sciatteria testuale, al fiorire di refusi di ogni genere di cui
queste nuove scritture, istintive, contingenti, poco meditate, sono
responsabili. Un atteggiamento didattico attento soltanto al buon
uso delle regole morfosintattiche, rischia però di scoraggiare chi,
prima di tutto, dovrebbe essere aiutato a comprendere la
risorsa-scrittura per la propria vita (perché scrivere ci fa sentire
meno soli, consola, sorregge nei momenti difficili) e non soltanto
per ciò che la scuola e poi il lavoro ci richiedono.
Una nuova abitudine allo scrivere
Se le ricerche in passato hanno mostrato che con l’avvento della
televisione gli italiani hanno imparato a parlare la lingua
nazionale, oggi possiamo affermare che un’abitudine maggiore a
scrivere si va finalmente diffondendo grazie alle grafomediaticità
soggettive e interattive. Mettendo da parte le ansie ipercorrettive
pur giustificate, è mia convinzione che per avvicinare i giovani
all’arte della scrittura nelle sue qualità più raffinate occorra in
primo luogo dar spazio a ciò che fanno, sperimentano, vivono
emotivamente in più grazie allo scrivere. In quanto, come dirò,
se ragazzi e ragazze verranno incoraggiati ad avvalersene anche
in modo spregiudicato, libero, eccentrico, i risultati e i benefici
a livello motivazionale non tarderanno ad apparire. Le nostre
attuali diffidenze sono riconducibili al ritenere che lo scrivere
sms, lettere al computer, chattare, entrare nelle blogosfere,
interagire in Facebook ecc. costituiscano dei comportamenti
scrittori responsabili di abbassare e appiattire le abilità di scrittura
e di peggiorare complessivamente le aspettative inerenti il
profitto. Se da una parte è senz’altro vero che tali modalità
discorsive e narrative obbediscono per lo più a necessità
momentanee di contatto, scambio e amicizia in prossimità
o a distanza, screditarle e sottovalutarle sarebbe però quanto
mai sbagliato. Equivarrebbe ad irridere le folle di giovani che
usciti dalla scuola, nella loro stanza, scrivono a profusione.
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Trimestrale regionale delle politiche giovanili
Duccio Demetrio
Professore ordinario di Filosofia dell’educazione e di Teorie e pratiche della
narrazione all’Università degli studi di Milano-Bicocca. Fondatore e presidente della
Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, di recente ha pubblicato sui temi
di questo articolo: Autoanalisi per non pazienti (Cortina, 2003); Per una pedagogia
e una didattica della scrittura (Unicopli, 2007); La scrittura clinica (Cortina, 2008).
Di imminente uscita: L’educazione non è finita. Idee per difenderla (Cortina, 2009).
Qualche suggerimento didattico per gli studenti delle scuole secondarie si può
trovare in D.Demetrio, Il gioco della vita (A.Guerini, 1999); Ricordare a scuola.
Fare memoria e didattica autobiografica (Laterza, 2003).
Scrittura e compiti educativi
Chi ha il compito di insegnare, educare,
accompagnare verso la vita non
mostrandosi attento al valore
comunque pedagogico, sociorelazionale, formativo di queste scritture
on line, perde - a mio parere - una
preziosa occasione per accedere al
sentire e al pensare giovanile.
Si potrebbe obiettare che i ragazzi fuori
dalla scuola sono liberi di comunicare in
totale autonomia. Su questa posizione
nulla da eccepire, se non fosse che
scrittura e lettura, da promuovere non
solo per l’esecuzione dei compiti ma
per il futuro delle loro vite, costituiscono
una priorità connaturata alla formazione
scolastica. Possiamo pertanto anche
non occuparci di quanto i ragazzi
e le ragazze fanno per conoscersi,
scambiarsi idee, affetti e sentimenti.
Ma se entra in gioco la scrittura, nelle
sue modalità attive e passive, ecco che
l’incentivarle rispetto alle loro necessità
personali e interpersonali può essere
un’occasione in più per sostenerne
l’uso. Diventa un compito docente non
trascurarle e sostenerle. Con un gesto
lungimirante che travalichi le esclusive
applicazioni del mezzo per l’esecuzione
di compiti, ricerche, sintesi e riassunti.
Scritture in cerca d’identità
Ma che cosa scrivono i giovani? Non è indispensabile consultare le indagini condotte
dagli osservatori sociologici dediti a scrutare i loro comportamenti. È sufficiente
discuterne insieme a loro, in classe e in famiglia (possibilmente evitando di profanare
i testi da loro redatti con curiosità che compromettono rapporti e il futuro di una
vocazione) per comprendere che le loro scritture riguardano quanto stanno vivendo.
Come al tempo in cui, dalla fine del ‘700 in poi, i diari di giovinette e giovinetti - in tanti
casi dagli esiti letterari poi divenuti celebri - ebbero una funzione iniziatica, anche nel
presente la funzione della scrittura per sé e di sé è rimasta la medesima. Alla penna
d’oca e al lapis si sono sostituite le tastiere, in ogni caso i giovani si rivolgono alla
scrittura per cercare di capire chi mai siano, agli occhi di chi possa leggerli e ai propri
oltre che come ad uno sfogo, quando si avvertano soli, incompresi, abbandonati (e non
solo dagli adulti). Tale atteggiamento, da alcuni considerato un universale giovanile nei
paesi occidentali, è più diffuso di quanto non sembri. Si presenta più spesso soltanto
episodico e frammentario negli anni della prima adolescenza, ma in una miriade di altri
casi riesce a diventare un lavoro personale più continuativo, sistematico, controllato.
Incoraggia aspirazioni e talenti per il resto della vita. Pertanto tale genere, finalmente
non disprezzato dagli studiosi di ‘letterature dell’io o autografiche’ (le cosiddette
egoscritture), dagli psicologi dell’educazione, dai terapeuti, svolge una funzione cruciale
agli effetti della formazione progressiva e accidentata dell’identità.
La differenza dello scrivere
Per comprendere che cosa avvenga in chi - e non solo in gioventù - decide di punto
in bianco di incominciare a tenere un diario segreto, a scrivere poesie, a corrispondere
con uno sconosciuto, è indispensabile però fare un passo indietro. Dobbiamo chiederci
quale sia il valore dello scrivere di sé, della propria esperienza, della propria storia e
cioè delle tipologie grafematiche di cui stiamo parlando. Non degli altri usi e registri
di questa tecnologia scaturita dall’inventività del cervello umano per trasmettere
memoria, per dialogare col divino, per commerciare, per sancire leggi e regole,
per - finalmente - produrre bellezza, domande religiose, testimonianze. Tutti gli
studiosi a tal proposito sono concordi: la scrittura non è un’ altra versione dell’oralità,
non si limita a nobilitarla. È dotata piuttosto di una sua autonomia sul piano della
costruzione di modelli cognitivi, stimola quei processi neuronali oggi scoperti dalle
neuroscienze definiti ‘a specchio’, i quali ci consentono di riconoscere negli altri e
in noi stessi quel che andiamo facendo con il linguaggio e con i gesti. Poiché lo
scrivere è combinazione di parole in frasi dotate di senso, prodotte da un’attività
motoria, si realizza con semplici gesti un procedimento di rispecchiamento. Chi scrive
qualcosa di sé, stimola eventi di natura autocoscienziale. Inoltre, il piacere e lo stato
di sollievo che un simile movimento produce anche quando scriviamo di una sofferenza,
di ciò che ci fa male, è riconducibile alla produzione di sostanze neurochimiche ora
stimolatrici, ora calmanti. Tale attività strettamente privata e intima, dinanzi a situazioni
di carattere depressivo, a disorientamenti esistenziali, a perdita di legami e fiducia
in se stessi (sintomi quanto mai frequenti nel mondo giovanile) ha effetti in primo
luogo autocurativi. In secondo luogo, poiché la scrittura è un’esperienza elettivamente
sociale, è stata inventata difatti per comunicare e rendere pubblico, gli scritti diventano
altrettanti oggetti tematici da condividere con altri per rispecchiarsi in loro e ricevere
il loro consenso. Il potere autoriflessivo della scrittura diventa in tal modo un’attività
di reciproco aiuto o dialettica, grazie soprattutto, ed è questa una questione
specificamente pedagogica, alla concentrazione, alla ponderazione maggiore, alla
riflessione che lo scrivere impone rispetto all’esercizio spesso scomposto, improvvisato,
effimero dell’oralità. Ed è evidente che laddove anche le nuove tecnologie della scrittura
vengano usate con gli stessi ritmi di tale più arcaica facoltà umana, allora non vi è
dubbio, che ci troveremmo dinanzi ad uno uso oralimorfo dello scrivere, ossia spurio.
Autobiografia e luoghi educativi
Da quanto detto non possiamo allora che sposare la causa di tutti coloro che,
non solo nella scuola, oggi vanno promuovendo attività di carattere autobiografico
nelle loro aule, in laboratori collaterali o esterni ad esse.
L’autobiografia, oltre ad essere una produzione narrativa specifica, è oggi un genere
che comprende ogni tipo di scrittura che scaturisca dalla volontà di un io di
raccontarsi. Per questo sia ad integrazione dei programmi, come avviene in altri Paesi,
sia allestendo momenti autobiografici ad hoc si possono valorizzare le produzioni
spontanee come anche livelli di scrittura
più complessi ed esteticamente più
raffinati. Diventando consulenti di
scrittura per i ragazzi, per aiutarli
ad esprimere meglio quanto
percepiscono, soffrono, cercano.
Al contempo è bene oggi introdurre
la letteratura autobiografica di scrittori
famosi (poeti, letterati, filosofi, musicisti,
ecc.) allo scopo di indurre suggestioni
utili tanto a rendere i programmi più
consoni alle storie di vita degli autori
studiati, quanto a indurre l’uso di varietà
stilistica. Ad esempio: “provo a scrivere
il mio diario, o la mia storia come la
scriverebbe Jean Jacques Rousseau,
Giacomo Leopardi, Cesare Pavese,
Virginia Woolf, Etty Hillesum ecc.”.
In conclusione approfittiamo in campo
educativo di questo ritorno ‘popolare’
alla scrittura: facciamo in modo di
sostenere queste genetiche domande
narrative senza eccedere nel ricondurle
nell’alveo della scuola, ma piuttosto
imparando a sintonizzarsi con esse
e a gareggiare con esse al solo scopo,
antica questione, di introdurre un poco
di vita reale, nella vita spesso irreale,
astratta, lontana dalle cose che pulsano
fuori, di una scuola che non può
più bastare a se stessa.
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Trimestrale regionale delle politiche giovanili
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Provincia di Pordenone
Abbiamo descritto l’odio, con l’aiuto di poeti come Dante, Shakespeare e Pavese, come
un sentimento rivolto ad altro da sé che implica distanza, repulsione e ripudio e come
un’esperienza legata a qualcosa di particolare e di specifico non a un’idea generica.
A questo punto, dopo che i partecipanti si sono presentati leggendo alcune scritture
di autodescrizione e immaginazione, è passata di mano in mano intorno al tavolo
circolare la ‘scatola delle parole maledette’. Ognuno era invitato a pescare una o più
parole che evocassero un’esperienza da raccontare legata al sentimento dell’odio.
Dopo un momento di imbarazzo, la paura di mettersi in gioco, nel gioco della scrittura,
sono sgorgate le parole sull’esperienza dell’odio. Come quelle di Dominique:
Scrivere i sentimenti:
imparare a conoscersi
per educarsi
Il Servizio Programmazione
Sociale della Provincia di
Pordenone, proseguendo il percorso
rivolto ai ragazzi dei Progetti Giovani
del territorio riguardante la
promozione del benessere e il
protagonismo giovanile, nell’ambito
di pordenonelegge.it ha proposto
due laboratori di scrittura inseriti
nell’iniziativa la Mappa dei sentimenti.
Si è trattato di un laboratorio di
scrittura autobiografica sul sentimento
dell’odio curato da Massimo De Bortoli,
direttore di Alidee e collaboratore
scientifico della Libera Università
dell’Autobiografia di Anghiari e di un
laboratorio di scrittura creativa sul
sentimento dell’inquietudine condotto
da Patrizia Rigoni, scrittrice e
formatrice, e realizzato in
collaborazione con il Dipartimento
di Salute Mentale dell’ASS n. 6
Friuli Occidentale. Nelle pagine
seguenti diamo conto delle
due esperienze.
Le parole che aiutano a imparare la vita
La proposta di un laboratorio di scrittura autobiografica rivolto ad adolescenti e giovani
suona un po’ strana. Non è la scrittura di sé qualcosa che si riserva alla vita adulta o
alla terza età? Cosa mai avrà da raccontare un ragazzo o una ragazza di oggi della sua
breve esperienza di vita, cosa potrà imparare da se stesso che non possa apprendere
meglio guardando ad altri, agli adulti significativi, agli educatori? In realtà, come
suggerisce Duccio Demetrio nel suo editoriale, i giovani scrivono di sé, sebbene
in forme che non sempre rispecchiano il canone autobiografico che conosciamo.
E i giovani, insieme ad alcuni operatori curiosi dei Progetti Giovani del pordenonese,
sono venuti a scrivere di sé, a misurarsi con il tema difficile dei sentimenti,
a confrontare le loro parole scritte con la voce di autorevoli filosofi presenti
alla manifestazione.
La scrittura, a differenza della sfuggente oralità silenziosa del pensiero, opera come
filtro e selezione per dare un ordine ai pensieri, agisce per concentrazione e
condensazione, procede dall’universale al particolare e viceversa, consente di
guardarci per un momento da fuori come se potessimo vedere un film sulla nostra
vita e provare a dare un senso, come attenti spettatori, alle sequenze più importanti.
Durante il laboratorio di scrittura, promosso dalla Provincia di Pordenone con
sensibilità e apertura alle nuove modalità della formazione, i partecipanti si sono
misurati con la scrittura sull’odio, sull’esperienza dell’odiare o del sentirsi odiati,
provando a superare quella distinzione tra la ragione e i sentimenti che ha costituito
per molto tempo un tratto distintivo della nostra cultura. La scrittura di sé prova
a riscoprire quella vita emotiva della mente che secondo molti autori è una chiave
importante per comunicare con il mondo-a-parte che rappresentano spesso i ragazzi
agli occhi degli adulti.
Non collego l'odio a un sentimento uniforme. Lo collego più che altro ad un arcobaleno
scuro, striato di sfumature dal nero al grigio. Non sono sicura di aver provato al cento
per cento questo sentimento. È difficile spiegarsi e capire se sia odio ciò che si sente:
esiste la rabbia, la delusione, il dolore. Per questo motivo immagino un arcobaleno:
l'odio può essere costruito dal dolore o può essere disegnato dalla delusione.
Personalmente una persona mi aveva deluso a un punto tale da sentire dentro di me
un ruggito straziante: questo rumore indesiderato l'ho associato a un leggero odio.
La delusione ha seminato dentro di me questo germoglio ‘maledetto’, che ha cercato
L’odio, come altri sentimenti, va
conosciuto e ri-conosciuto anche nella
sua insensatezza per poterlo accettare.
Dalle scritture che i partecipanti hanno
messo in comune è emerso che l’odio
si riferisce a una persona o una
situazione particolare e precisa,
che è collegato a un senso di fastidio,
di malessere e di inadeguatezza,
che la scrittura aiuta a descrivere le
cose prima di interpretarle.
L’incontro con il filosofo Massimo Donà
ha chiarito la radice unitaria dell’odio
che, insieme con l’amore, è anche
l’espressione del fondamento originario.
Quel fondamento condiviso con l’origine
della vita in cui “si può navigare come in
un sogno”, descritto da Lia, una
di crescere, di svilupparsi, ma ho cercato di reprimerlo con le lacrime, sfogandomi.
L'odio leggero, perchè cosi preferisco definirlo, sembra che ti bruci le viscere, ti morsichi,
ti scortichi; infatti ho sentito di molte persone che si sono rovinate, perse, annegando
nel loro odio. Questo sentimento è una pianta fastidiosa e carnivora da avere nel cuore,
ma l'arcobaleno scuro ne rende il panorama più azzeccato: selvaggio, vuoto, buio.
giovanissima autobiografa recentemente
scomparsa in modo improvviso, i cui
intensi scritti sono stati inviati alla
redazione di Alidee dalla madre perché
fossero fatti conoscere ad altri ragazzi.
Immaginate di essere sopra una
macchina del tempo e tornate indietro
negli anni; ripercorrete tutta la vostra
vita ed improvvisamente giungete al
momento in cui siete venuti al mondo.
Forse questo potrà farvi un po’ “male”:
ora voi, anziani, indeboliti, spenti;
non vi sembra neanche possibile
che una volta foste dei giovinetti…
Ora io ho solo 13 anni, ma forse un
giorno, chissà, mi verrà voglia di
rileggere queste mie parole e navigare
nel passato; come in un sogno...
Massimo De Bortoli
Una proposta formativa
della Provincia di
Pordenone per
adolescenti e operatori
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Provincia di Pordenone
La scrittrice Patrizia Rigoni ci introduce al laboratorio
sul tema tenutosi a Pordenonelegge.it
Aprire un laboratorio
sull’inquietudine. Bene. Non poteva
esistere per me migliore sentimento:
io sono stata tutta la vita dominata
dall’inquietudine. Forse è inquietudine
la stessa professione di scrivere, forse
è inquietudine la stessa voglia di vivere.
Perciò è forse il mio sentimento più
intimo, più profondo. Nasce
dall’inquietudine la sensazione di non
essere mai al posto giusto nel momento
giusto, di essere in qualche modo
spostati spazio-temporalmente,
con l’obbligo di situarsi più avanti,
senza mai poter contare su qualcosa
di definitivo.
Ed è per questo che, nonostante fosse
in qualche modo un ‘mio’ sentimento,
volendoci mettere le mani per il
laboratorio di lettura e scrittura,
mi sono immediatamente accorta
che inquietudine è tantissime cose,
è vicino al dentro ma anche al fuori,
è vicino al terrore e al dolore ma anche
al più felice sentimento amoroso,
insomma spazia da est a ovest,
dal cielo agli abissi.
Alla parola inquietudine sullo Zingarelli
troviamo: “Inquietudine: la condizione
del non avere quiete”.
Quindi la sottrazione della quiete,
di quella condizione per cui un corpo
è dentro uno spazio in un dato tempo.
Ma un uomo non è un corpo soltanto. Dunque parlare
di stato di quiete per un uomo, per di più di nostra cultura
occidentale, è quasi impossibile. Voglio dire l’inquietudine,
a mio parere, nel ventunesimo secolo e nel territorio europeo,
è la stessa condizione umana.
Non si può crescere senza inquietudine. Un uomo non cresce senza
inquietudini. Né tanto meno un artista può vivere senza inquietudine. Lo stesso atto
del crescere, la pratica trasformativa che ci lega alle mutazioni delle esperienze nella
direzione della ricerca è il risultato di continue inquietudini, di questi piccoli movimenti
del corpo nello spazio e nel tempo.
Movimenti anche minimi, non importa. Piccole lacerazioni che ad un certo punto
irrompono sulla scena e, come in un’illuminazione, ci fanno vedere il quadro diverso
da quello che è. Vi sarà successo. Certamente vi sarà successo.
C’è una poesia di Zavattini straordinaria, fulminea, che esprime benissimo questa
convinzione. Zavattini, che ha scritto in poesia, ha scritto saggi, ha lavorato come
sceneggiatore con i grandi registi italiani: inquieto e fertile nelle continua ricerca
della forma. È proprio per la stima che gli devo come uomo e come intellettuale,
che ho scelto di aprire il laboratorio con una sua poesia.
Vet o vèt?
A tramplava inturn’a la valis,
Celso Pirasa Nudul e Binac
Bulov Felice Guido Masimèn
d’adlà i bablava.
Am sum catà cm’an pèr de calset in man
E an dobi: vèt o vét?
Vai o vieni?
Trafficavo intorno alle valigie
Celso Pirasa Nudul e Binac
Bulov Guido Felice Massimino
di là chiacchieravano.
Mi sono trovato con un paio di calze in mano
e un dubbio: vai o vieni?
Inquietudine:
stato di coscienza
universale
Per Zavattini inquietudine è quell’attimo sospeso delle calze in mano, le valigie aperte
ai piedi, e una decisione istantanea da prendere: andare o restare?
Così inquietudine è male e bene insieme. È la domanda e poi la ricerca della risposta.
È il dolore, ma anche il processo per venirne fuori. Certamente è l’amore, e tutto
il processo per conquistarlo.
Pensateci bene, l’inquietudine è un sentimento che cresce con noi.
L’inquietudine si comincia a provare in adolescenza. Da bambini si può essere agitati,
pieni di vivacità, irrequieti, esuberanti e malinconici, ma l’inquietudine è un sentimento
che io credo sia collegato non solo al corpo e al suo movimento dentro lo spazio, ma
alla coscienza di tutto questo. Cioè al pensiero del turbamento, dell’ansia, della paura,
del brivido che accompagna questa precisa emozione, così come la sua fatica.
Inquietudine è forse il primo sentimento dell’adultità. Accompagna le prime
contraddittorie definizioni di sé, della propria identità, di quello che siamo e
che sogniamo di diventare. Nasce nel periodo dello sviluppo, e al di là di quello
che credono i giovani, non ci abbandona più, nemmeno da adulti.
Certamente, cambiano le cose di cui si nutre, non sarà più l’approvazione di una
ragazza o il giudizio di un professore a darci inquietudine (forse), ma certamente
avremo nuovamente confronti pieni di inquietudine (forse anche le ragazze che
sono diventate le mogli e i professori che sono i nuovi direttori nei luoghi di lavoro,
o per esempio nel mio caso tutti i lettori che prendono in mano ogni mio libro).
Quindi l’inquietudine, di cui ho fatto scrivere a Pordenonelegge, non è una lettura
filosofica, né l’inquietudine legata ad analisi economiche: è la ‘nostra’ inquietudine,
che in un certo senso si configura come più astratta, legata alla stessa nostra
condizione esistenziale, ma dall’altra parte molto più concreta, legata ai nostri piccoli
vissuti, nei dettagli delle ore, davanti ad una partenza, all’idea di un incontro amoroso,
nella paura di attraversare un luogo ignoto. Legato insomma alla nostra precarietà e
alla nostra fragilità, alle prove forti che ci chiede continuamente la vita, con il suo
correre di incontri e di mutamenti.
Patrizia Rigoni, nata a Monza e residente a Trieste, ha pubblicato i romanzi: Come
tenere l’acqua nella mano (MobyDick 2007), La luna e le ore (Helvetia 2003, premio
nazionale Spagnol), Giallotondo (MobyDick 1996, Selezione Bancarellino), Il fuoco e
la pioggia (Pegaso, 1993) e i LibriMano (Edizioni Coccinella 1989, traduzioni in Francia,
Spagna e America). Ha inoltre pubblicato raccolte di poesie e racconti su antologie.
Finalista al Premio Morante di Roma, con la raccolta Andature (pubblicata da Fara
editore, secondo premio al concorso nazionale) ha vinto nel 2007 il Premio
Internazionale di Poesia Fiur’lini in Olanda, con la raccolta di poesie Distanze Astrali.
L’emozione della lettura, l’immedesimazione
con parole di altri, ci spingeranno a
soffiare fuori le nostre, a guardare sul
foglio ciò che sappiamo di noi ma anche
ciò che non sappiamo. Perché la scrittura
collettiva modifica i frammenti, così come
la stessa idea di doverli leggere tutti
insieme, in una sorta di piccola platea
teatrale, che può anche applaudire o non
applaudire, ma che comunque, senza
sapere prima null’altro di noi, ci potrà
dare il suo consenso.
Patrizia Rigoni
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Trimestrale regionale delle politiche giovanili
Questione
di punti di vista
[
Incontro con la professoressa Troìa, insegnante di lettere presso il Liceo scientifico
Le Filandiere di San Vito al Tagliamento e osservatrice dell’universo giovanile
Prof. Troìa, il punto di
vista privilegiato da cui osserva
i giovani, le consente di cogliere
il modo in cui essi vivono i
sentimenti e le dinamiche che
intercorrono tra di loro?
Il nostro osservatorio sul mondo degli
adolescenti è sicuramente privilegiato.
Noi insegnanti vediamo i ragazzi in una
dimensione diversa da quella degli
amici e da quella della famiglia.
La scuola è il primo ambiente in cui
un adolescente ha la percezione
delle regole; da questo punto di vista,
noi vediamo ragazzi che sono migliori
di quello che si vuole far credere.
Le dinamiche all’interno della classe
sono decisamente complesse ed
eterogenee. Per esempio nelle due
classi in cui insegno quest’anno,
mi ritrovo ad osservare due realtà agli
antipodi: una classe è molto unita, vive
anche di polemiche e arrabbiature ma
fa gruppo; l’altra è fortemente legata
ad una dimensione individualistica
nella quale i ragazzi relegano le cose
prettamente alla loro sfera personale,
non considerando la collettività.
La scuola rappresenta per i ragazzi
l’ambiente ideale in cui dare prova
del loro essere adulti. In quest’ottica,
quello che io osservo è molto positivo:
i ragazzi cercano di tirare fuori il
meglio, si mettono in discussione,
si interrogano su ciò che li circonda.
Quanto si espongono?
Anche qui è necessario fare una
distinzione: alcuni si espongono
Come nasce una canzone?
La canzone nasce da quello che io chiamo ‘un treno’, una partenza che può arrivare
dalla musica o dal testo, quindi da una serie di note o da una frase, uno slogan.
Oggi le canzoni partono da degli slogan. È molto importante non perdere mai ‘il treno’.
Puoi lavorare molto su un testo, ma la sostanza è data dal momento in cui è nata
l’idea di scrivere qualcosa.
]
davvero tanto, mettendo fuori moltissimo, soprattutto nel rapporto interpersonale
con me. Altri, invece, innalzano un muro di difesa ma, comunque, in modo non del
tutto consapevole, si raccontano.
Il loro modo di essere si manifesta inevitabilmente nelle dinamiche interne alla classe.
All’inizio sono più attenti e trattenuti ma poi, quando la tensione emotiva nel rapporto
con l’insegnante si allenta, vengono fuori per quello che sono.
Spesso tra genitori e figli c’è un muro di incomunicabilità; la sua prospettiva
le permette di coglierne, almeno in parte, le ragioni?
Mi capita di parlare con genitori che mi dicono: “mio figlio non mi racconta, non so niente
di lui”; io sono dell’idea che comunicare con i propri figli non significhi chiedergli cosa
hanno fatto a scuola ma, piuttosto, appassionarsi a quella che è la loro vita provando
interesse anche per cose a cui un adulto non dà valore ma che per i ragazzi sono
importanti. Se un figlio percepisce che il genitore si interessa alla sua vita, lui racconterà.
E qual è, invece, la chiave d’accesso di un’insegnante?
Non chiudere mai il dialogo: ho alunni che mi raccontano cose obiettivamente
imbarazzanti: mi confidano cose personali, confessano cose che hanno fatto,
mi dicono di aver marinato la scuola; in tutti questi casi, anche se non condivido le
loro azioni, manifesto con decisione il mio dissenso ma non credo sia giusto chiudere
il dialogo e sentenziare la condanna. Coi ragazzi si deve parlare.
Allora, scaviamo un po’ più a fondo nel rapporto insegnante-alunno.
È un rapporto in cui i sentimenti sono molto in gioco; quelli dei ragazzi ma anche quelli
dell’insegnante. Ci vuole disponibilità ad aprirsi con loro e la voglia di far aprire loro
con te. Se si riesce a farlo, si può essere davvero d’aiuto; bisogna trovare la strada
giusta per arrivare ai loro sentimenti, al loro cuore.
La scrittura rappresenta ancora uno strumento attraverso cui i ragazzi
esprimono se stessi?
Mi piacerebbe poter dire di si ma i ragazzi purtroppo non scrivono più! Ormai le
comunicazioni avvengono con gli sms, con le chat, si sta perdendo il confronto con
la scrittura creativa. Sono diventati più superficiali nella lingua scritta come nel parlato.
I ragazzi di oggi, immersi in un mondo che cambia a gran velocità, sono
diversi da quelli di 15-20 anni fa?
No, i ragazzi non sono cambiati, sono sempre uguali. Le loro problematiche sono
sempre le stesse. Sono i professori che cambiano e che, col passare del tempo,
modificano la loro prospettiva; allontanandosi dall’età dei loro alunni devono
ricontestualizzarsi di continuo per non perdere il contatto con il mondo degli adolescenti.
A cura di
Erika Biasutti
Durante i laboratori per facilitare i ragazzi a scrivere propongo loro un tema. La cosa
meravigliosa è che da una semplice suggestione emergono riflessioni molto differenti fra
loro, perché noi siamo quello che sentiamo. Ognuno avverte qualcosa di diverso e può
trasmettere un’emozione speciale, straordinaria, in quanto unica. E alle volte quando
l’emozione è grande i ragazzi faticano a gestirla perché non sono abituati a farlo.
Come definiresti il tuo lavoro?
Il mio lavoro è sicuramente quello di un
artigiano, nel senso che come un sarto
può fare un vestito per essere utilizzato,
io, allo stesso modo, compongo le
canzoni affinché siano utili a qualcuno.
Le canzoni diventano delle persone in
quanto appartengono a chi le ascolta.
Che cosa proponi ai ragazzi
durante i tuoi laboratori di
scrittura di canzoni?
Quello che insegno ai ragazzi durante
i laboratori è di essere artigiani delle
loro emozioni. Ai giovani propongo di
vivere quella che oggi è una grande
trasgressione, un foglio bianco.
Infatti è sempre più difficile trovare degli
spazi vuoti da riempire. Penso ai tempi
in cui ero un ragazzino, quando durante
le giornate d’inverno la nebbia mi
stimolava la fantasia e mi faceva vedere
delle immagini. Ma anche le distese
come la campagna e il mare mi hanno
sempre suscitato delle emozioni perché
ti lasciano dello spazio per pensare.
Credo che il foglio bianco rappresenti
tutto questo, uno spazio tuo.
E non essendo preconfezionato può
spaventare e imbarazzare.
Nel mio lavoro devo quindi aiutare i
ragazzi a far emergere le loro emozioni,
partendo da un’idea o da un sentimento
che si manifestano chiaramente.
Solo così si può scrivere un pezzo.
Creatività e poesia incontrano la musica: si parla ancora di sentimenti
nelle canzoni?
La canzone non dovrebbe parlare di sentimenti, ma trasmettere un sentire.
Le canzoni dei grandi cantautori come Gino Paoli o Lucio Battisti non parlano di
sentimenti, ma sono dei sentimenti che ne suscitano degli altri.
Come ne parlano i giovani oggi?
Oggi rispetto a un tempo non si costruisce più il testo di una canzone come fosse un
racconto. Il passaggio cruciale nella musica italiana è avvenuto con gli 883, i testi delle
loro canzoni non sono poetici, ma semplicemente descrivono delle situazioni. I giovani
ascoltano questo genere di musica, che è più diretta e di conseguenza anch’essi si
raccontano con degli slogan. I pezzi che scrivono hanno sempre delle frasi molto
concise. Una canzone oggi non va oltre i tre minuti e quindi c’è poco tempo per dire
qualcosa e far emozionare. I ragazzi hanno però un bisogno enorme di raccontarsi,
di uno spazio mentale per cercare di capire che cosa provano dentro di loro.
Sono bombardati da comunicazioni e informazioni di ogni genere, senza avere
il tempo di metabolizzarle. Credo che attualmente i progetti giovani e gli oratori
abbiano il grande compito di fare una proposta diversa, meno omologata rispetto
a quella di certi luoghi di ritrovo come ad esempio le discoteche.
Rimango sconcertato se penso che oggi i locali delle nostre zone fanno suonare
esclusivamente le tribute band, cioè gruppi che imitano alla perfezione, anche nella
gestualità, i cantanti famosi come Vasco Rossi e Luciano Ligabue. Un ragazzo se va
in un locale per cantare una sua canzone non lo può fare. Bisogna quindi provare
ad aiutarlo, dandogli la possibilità di raccontarsi ed essere se stesso.
A cura di
Antonio Garlatti
[email protected]
[
A colloquio con il cantautore Marco Anzovino
]
Canzoni
e sentimenti
12
Trimestrale regionale delle politiche giovanili
13
Comune di Udine
Le storie di Giulia
Cosa c’è di più bello e
appagante del riuscire a fare
emozionare una persona? Far sentire
quella sensazione di farfalle allo
stomaco, far venire i brividi, far
scendere una lacrima di gioia, far
galoppare il cuore a quel qualcuno
a cui teniamo.
E i modi per farlo sono tantissimi: una
dedica via messaggio o e-mail, un regalo,
una lettera, una sorpresa… una canzone.
La musica. Quale mezzo migliore?
Nel corso di quest’anno, nel centro
d’aggregazione di Tiezzo, ho avuto
l’occasione di partecipare ad un
progetto musicale insieme ad un noto
cantautore della zona: Marco Anzovino.
Il laboratorio si è protratto da ottobre
2007 fino a quest’estate e io ed altri
ragazzi abbiamo avuto l’opportunità di
scrivere dei testi e girare dei video
insieme a Francesco Guazzoni. Al
termine di questa esperienza sono
riuscita a realizzare due canzoni. La
prima s’intitola Noi, che si può definire
un po’ un inno di ribellione per noi
giovani, mentre la seconda, Parole per
te, è dedicata a mia madre.
Veder nascere una canzone è davvero
una bella esperienza, perché non
penseresti mai che da qualche parola,
qualche rima possa uscirne un vero e
proprio capolavoro. Il testo parte
sempre da un’idea, o ‘treno’, che ti
porta poi a viaggiare nella tua mente tra
i vari pensieri. Ricordo che la mia prima
canzone è partita da una frase: “siamo
giovani e belli dannati e ribelli” per poi
affluire tutta velocemente. Ovviamente
dopo c’è stato un lavoro di ‘restauro’,
in cui ho imparato varie regole che ti
guidano in una migliore composizione.
Sono rimasta stupita quando tutti nel
leggere la mia bozza di testo mi hanno
fatto i complimenti, dopotutto era la
prima volta che ne scrivevo una.
Scrivere una canzone è mettersi in
gioco: perché ti esponi, scrivi cose che
riguardano te, che ti toccano. Scavi
nella tua anima. E quando con le tue
parole arrivi agli altri provi una gioia
indescrivibile, una flebile fierezza per
esser riuscito ad emozionare non solo
te, ma anche altre persone.
Fare spazio
ai giovani,
capire il loro
linguaggio
Ma la cosa più bella di tutto ciò, è che poi siamo andati a cantare per i vari auditorium
e teatri della provincia e del Veneto.
Poter cantar sul palco, davanti anche a solo poche persone, ti fa provare una strana
sensazione. Sei lì, da sola, che ti racconti, che ti metti in gioco, che ti esponi. Con
quella paura che ti accompagna prima di entrare in scena e rimane lì durante i primi
istanti della canzone. Poi, superate le prime note, ti senti in grado di dominare il
mondo, come se niente e nessuno potesse fermarti.
La prima volta che cantai Noi un turbine di sensazioni ed emozioni mi hanno avvolta,
sentivo di poter toccare il cielo con un dito. Penso che emozionarsi è saper volare
senza ali. È qualcosa di complicato da spiegare, ma ti fa sentire vivo come non mai.
Giulia Facca
NOI
PAROLE PER TE
Chissà perché non ci state ad ascoltare
Sono parole che fanno male
Ci tocca usare bombolette per parlare
Sembra di essere una peccatrice
Insulti frasi d'amore quello che ci pare
In un confessionale
Scriviamo tutto a carattere cubitale
Sono parole che sono amare
Anche se poi ci vien voglia di scappare
E cerco disperatamente perdono
Da tutto questo rumore dal vostro criticare
Io cerco disperatamente perdono
Siamo giovani e belli
Scusa se adesso ti tolgo il sorriso
Dannati e ribelli
Scusa se a volte so che ti deludo
Siamo giovani e fragili
Scusa se non te lo dico a parole
Per niente facili
Ma c'ho provato con questa canzone
Siam giovani e basta
Scusa se adesso ti tengo lontana
Ma quanto ci costa
Scusa se a volte io non ti ho ascoltata
Siamo giovani soli
Scusa se a volte non riesco a guardarti
Siamo milioni di cuori
Ma da domani tornerò a cercarti
Chissà perché ci puntate contro il dito
Sono parole che scrivo per te
Le vostre prediche son sempre lo stesso rito
Che mi ammonisci con uno sguardo
E ci sputate addosso solo sentenze
E mi perdo nel silenzio
Fatevele voi le vostre penitenze
Ma non è facile darti ragione
Ci regalate auto potenti
E cerco disperatamente perdono
E poi piangete se facciamo gli incidenti
Io cerco disperatamente perdono
Siamo giovani e belli
Scusa se adesso ti tolgo il sorriso
Dannati e ribelli
Scusa se a volte so che ti deludo
Siamo giovani e fragili
Scusa se non te lo dico a parole
Per niente facili
Ma c'ho provato con questa canzone
Siam giovani e basta
Scusa se adesso ti tengo lontana
Ma quanto ci costa
Scusa se a volte io non ti ho ascoltata
Siamo giovani soli
Scusa se a volte non riesco a guardarti
Siamo milioni di cuori
Ma da domani tornerò a cercarti
Andiamo in giro con i jeans strappati
Al cellulare rimaniamo incollati
Torniamo a casa e ci ficchiamo un dito in gola
E poi domani che palle si ritorna a scuola
Siamo giovani e belli
Dannati e ribelli
Siamo giovani e fragili
Per niente facili
Siam giovani e basta
Ma quanto ci costa
Siamo giovani soli
Siamo milioni di cuori
Una frase che si sente
ripetere spesso recita “i ragazzi sono
così superficiali, non hanno voglia di
pensare!”. Solitamente questa frase è
pronunciata con tono di rassegnazione,
delusione o rabbia da adulti che per vari
motivi hanno a che fare con i giovani.
Il Comune di Udine, attraverso la
collaborazione di Aracon Cooperativa
Sociale Onlus gestisce un progetto
denominato Strada Facendo che
prevede la realizzazione di percorsi
di prevenzione dei comportamenti
a rischio nelle scuole secondarie
di secondo grado del territorio. Il lavoro
svolto da noi educatori nelle classi ci ha
permesso di condividere il tempo con
gli studenti, di affrontare temi legati sì
alla prevenzione e ai comportamenti
a rischio, ma soprattutto alla loro vita
quotidiana, a quanto costituisce la loro
normalità. Dalla condivisione di questi
spazi sono emersi elementi che
contrastano con quella che pare ormai
una verità universalmente riconosciuta:
i giovani provano emozioni, sono capaci
Percorsi di prevenzione
in alcune scuole
secondarie di secondo
grado di Udine
di sentire veramente e in profondità sé stessi e gli altri. Quello che è cambiato e
continua a cambiare con velocità sempre maggiore, è il modo in cui questo sentire
viene tradotto in parole, comunicazioni, gesti e azioni. È diverso il linguaggio, sono
diversi i codici usati dai giovani e la distanza esistente tra questi e quelli utilizzati
dal mondo degli adulti rende difficile la reciproca decodifica e comprensione.
Eppure i ragazzi e le ragazze hanno voglia di farsi sentire e vedere, a patto che
l’interlocutore sia disposto ad andare oltre le apparenze e creare uno spazio
di ascolto che sia veramente tale, in cui quello che viene espresso è accolto
e valorizzato e soprattutto non giudicato.
Nel corso degli incontri il tema più sentito e sostenuto dagli studenti è stato quello
della partecipazione, della costruzione di spazi di espressione e protagonismo
all’interno della scuola e degli altri contesti istituzionali e non. È emerso che molto
spesso le occasioni che vengono loro offerte non rispondono alle reali esigenze
o desideri perché predisposte secondo occhi e misure che non li rappresentano.
Si è riflettuto sul fatto che le situazioni proposte dal mondo adulto per dare spazio
ai giovani non sempre raggiungono l’obiettivo per rispondere al quale sono state
pensate. È facile dare spazio ai giovani, altra cosa è fare spazio ai giovani.
Fare spazio richiama a un’intenzionalità che va ben oltre la semplice concessione
di luoghi o tempi. Fare spazio significa ‘sporcarsi le mani’, impegnarsi a capire i
linguaggi e i pensieri dei giovani, ad andare oltre l’immagine con la quale si presentano
al mondo esterno. Significa soprattutto essere capaci di non pretendere che i giovani
si adeguino a modelli precostituiti prima di poter prendere possesso della scena.
Gli insegnanti, gli educatori, gli adulti che si pongono in relazione con i giovani hanno
la possibilità di restringere il gap che si è creato tra i due mondi. Possono stravolgere
la visione che i giovani hanno del mondo adulto e, nel contempo, farsi portatori
di un’immagine nuova dei giovani. Il protagonismo può essere vero e reale solo
se è proprio di entrambe le componenti: dei giovani che si impegnano ad esserci
e ad attivarsi e degli adulti che nel fare loro spazio agiscono il proprio ruolo
di accompagnatori e facilitatori.
Stefania Stel
Operatrice Centri di Aggregazione
del Comune di Udine
14
Trimestrale regionale delle politiche giovanili
Esclusi i casi in cui una
particolare predisposizione possa
considerarsi distorta, parrebbe al di
fuori di ogni dubbio che la passione
per qualcuno o per qualcosa sia una
forza con un’inclinazione benigna:
“una passione è qualcosa che ti
gratifica e che ti dà gioia” ci racconta
Davide, 18 anni, chitarrista; Davide si
dice d’accordo quando suggeriamo che
una passione possa essere persino una
cura e un rifugio dalle insicurezze e
dalle mancanze di cui spesso un
adolescente si sente circondato.
Caterina, 15 anni, sulla sua passione il fumetto - scrive cose bellissime:
“quando disegno sento che tutto il
mondo intorno a me scompare, esiste
solo quello che ho in testa e mi sento
libera; con il disegno anche le cose
impossibili possono accadere e i tuoi
sogni prendono vita”. Sono molti quelli
che, come Davide e Caterina, pensano
che per realizzare i propri sogni non sia
necessario doversi per forza privare
di qualcosa, e nonostante in questo
campo il sacrificio sia concepito come
inevitabile, una contingenza a volte
necessaria ma mai opprimente,
di fronte alle emozioni suscitate
dalle proprie attitudini tutte le rinunce
sembrano non contare.
A Gabriele, 17 anni, è capitato
di dover sacrificare qualcosa
per seguire la propria passione ma
“ne è sempre valsa la pena
e continuerò a farlo se dovesse
essere necessario”.
Lorenzo, 17 anni, per la sua
passione ha speso tempo e
denaro; Luis ha sacrificato lo
studio e gli amici. Eppure tutti
sottolineano le parole di Michele, anche
lui diciassettenne, che racconta: “la mia
passione è più importante di qualsiasi cosa,
la mia passione è la mia anima”.
Pensieri positivi, opinioni sul tema delle
passioni, che sono maturate nel corso di un
confronto tra i ragazzi che frequentano le Officine
Giovani del Comune di Udine, uno spazio di
aggregazione dotato di sale prova, sala teatro, postazioni
Internet, riviste di musica e fumetti, e che nelle sue
numerose attività viene gestito per conto del Comune di Udine
dalla Cooperativa sociale Aracon. Cerchiamo di tirare le somme
di questo dibattito di cui abbiamo condiviso il divertimento, la gioia,
l’eccitazione; una discussione che è stata spontanea e leggera ma mai
superficiale e che ha spinto chi vi ha preso parte a misurarsi prima con
sé stesso, poi con gli altri. Alla fine di questa esperienza tutti noi, educatori
e ragazzi, siamo sorpresi dal numero di interrogativi suscitati da un
argomento apparentemente così semplice, tanto che per alcuni parlare delle proprie
passioni non è stata una cosa immediata. Non solo perché ciò che anima il nostro
entusiasmo a volte è protetto da un pudore intimo e personale, ma perché adesso
sentiamo quanto sia difficile riuscire a tracciare un quadro preciso del proprio estro se
non si è disposti ad indagare i propri sentimenti e le proprie emozioni.
Ci domandiamo se si possa davvero accettare che l’amore verso qualcosa sia di per
sé un sentimento scevro da ogni dubbio, ansia, paura, o se dovremmo considerare
che anche dietro una forte inclinazione possano nascondersi delle incertezze
o addirittura anche qualche problema.
Non dobbiamo dimenticare che se è vero che possono regalare molto, le passioni
possono anche rivelare dei lati avversi, come quello della delusione di chi spende
tante energie con l’obbiettivo di ottenere qualcosa che però poi viene disatteso.
Per dedicarsi a una passione c’è chi ha ottenuto tanto, ma anche chi ha perso
qualcosa e questo ci racconta dell’importanza di affiancare e di lasciarci affiancare
da qualcuno che ci segua nell’impegno, dell’importanza di un appoggio e del valore
di un contatto diretto con chi si applica per un risultato.
Enrico Librio
Operatore Officine Giovani
I ragazzi delle Officine Giovani
a confronto con le loro passioni
15
Provincia di Udine
Sentimenti:
lavori in corso!
È la mattina di lunedì 10
novembre, giornata di apertura
dell’annuale Settimana delle Solidarietà,
importante evento promosso
dall’Assessorato alle Politiche Sociali
della Provincia di Udine, articolata in
workshop, seminari e convegni volti
ad offrire al territorio momenti di
sensibilizzazione, riflessione ed anche
confronto sui contenuti caratterizzanti
i diversi volti e bisogni della solidarietà.
Quest’anno la tematica scelta per
la giornata dedicata ai giovani ha
riguardato il volontariato: è stato infatti
proposto un workshop dal titolo I Nuovi
Eroi cui hanno preso parte, in qualità
di relatori, alcuni fra gli esponenti più
significativi di realtà che operano a
livello internazionale. Sono intervenuti
Francesca Patrone di Emergency,
Massimiliano Fanni Canelles, presidente di @uxilia (onlus che si dedica alla tutela
dei soggetti deboli) e medico volontario in paesi afflitti da guerre e catastrofi naturali,
padre Leonardo Battaglia della congregazione dei Missionari Comboniani che opera
nel sostegno materiale di progetti di vita nei paesi del sud del mondo ed il Tenente
Colonnello Roberto Di Giorgio responsabile per la cooperazione militare e civile
dell’Esercito Italiano.
I relatori hanno presentato, agli studenti degli istituti superiori di Udine, svariati
spaccati di realtà del nostro tempo caratterizzati quasi esclusivamente da sofferenza,
povertà e mancanza di futuro, in netta contrapposizione con la nostra più o meno
‘reale-realtà’ di benessere e privilegi.
Hanno presentato i loro volti e le loro mani, hanno raccontato le loro vite di persone
comuni, pur non essendolo affatto, prendendo, tutti, le distanze da quel titolo I Nuovi
Eroi nel quale non si sono riconosciuti, che hanno sentito non appartenere loro.
Persone semplici che hanno catturato l’attenzione prima ancora di dire una parola.
Persone diverse: alcuni hanno fatto della loro vita una missione, altri hanno scelto
di vivere la propria vita dedicando quanto più tempo possibile ad aiutare chi ha
bisogno, incondizionatamente, mossi da un unico sentire, quello della solidarietà.
Una platea diligente ha guardato attenta, ha ascoltato curiosa ed ha restituito,
attraverso educati silenzi, il rispetto dovuto a questi ‘non eroi’ che hanno agito
ed agiscono spinti da un impulso interiore.
I Nuovi Eroi
Testimonianze dal Workshop sul volontariato
nella Settimana delle Solidarietà 2008.
16
Trimestrale regionale delle politiche giovanili
[
È difficile riuscire a tradurre le sensazioni
ed il senso della mattinata del 10
novembre attraverso ‘parole di carta’,
è difficile parlare di sentimenti ed eroi
nel momento in cui si presenta a giovani
sorridenti, sani e con buone prospettive
future, immagini dell’esistenza di altri
giovani sempre sorridenti anche se
malati, poveri e con scarse prospettive
future, senza scadere nella retorica.
È difficile perché, come ci spiega il
dott. Fanni Canelles, “[…] oggi la
confusione nella nostra coscienza è
grande, abbiamo bisogno di rimuovere
subito la morte, gli stupri, i bambini
abbandonati e sfruttati. Questi messaggi
vengono scartati in fretta, così come
sono venuti, senza che possano scalfire il
nostro modo di vivere e di pensare […]”.
I relatori attraverso i loro racconti
hanno catturato l’attenzione dei giovani
presenti trasmettendo passione
17
Provincia di Udine
I nuovi eroi rinunciano all'egoismo
]
e dedizione per ciò che fanno ed hanno soprattutto aperto gli occhi su molte
situazioni geo-politiche spesso dimenticate da quotidiani e telegiornali proprio per
la loro drammaticità […]”. Alessandra, IIB del Liceo Classico Stellini afferma:
“Quando ci si imbatte in verità tanto amare è impossibile non ripensare un attimo
anche alle cose più banali e sentirsi fortunati ma anche in dovere di fare qualche
cosa. Ognuno dei presenti è tornato a casa arricchito o perlomeno con in testa
qualcosa su cui riflettere andando oltre i problemi che assillano la mera quotidianità o
il proprio orizzonte personale. Perché, al contrario di quello che spesso si crede, molti
giovani coltivano ideali e valori e non rimangono indifferenti di fronte a problematiche
così importanti e ai vissuti di tanti uomini e donne che con coraggio cercano, lontani
dalle luci della ribalta, di costruire un mondo migliore, fatto di relazioni umane vere”.
Come Alessandra altri ragazzi, studenti del Liceo Scientifico Marinelli, concordano
e difendono il loro bagaglio valoriale, non sono indifferenti alle sofferenze altrui
e sentono sulle loro spalle, nonostante la giovane età, il peso del futuro e la
responsabilità di scelte ed agiti che necessariamente si ripercuoteranno su un
sistema precario e profondamente ingiusto.
Alla voce degli studenti del Marinelli si sono unite quelle di altri ragazzi che rifiutano
la generalizzazione fatta sul conto dei giovani e della loro ‘indifferenza’ verso ciò che
accade attorno a loro, come Piergiorgio della 5H dell’Istituto D’Arte Sello: “[…] io ho
sentimenti ed ideali ma vedo che tanti miei coetanei non ne hanno e capisco che è
questa società che produce delle spaccature [….] bisogna collaborare ed aiutarsi,
combattere assieme senza dividerci”. Meno ottimista David, sempre 5H dell’I. A. Sello,
che riconosce attorno a sé una società cinica e superficiale, lamentando l’assenza
degli adulti guida e riferimento delle nuove generazioni: “il problema più grosso è
che nessun valore viene realmente approfondito, tutto si limita ad una serie di luoghi
comuni sia d’immagine che di contenuti, manca la volontà di impegnarsi e di fare
fatica, è più comodo farsi travolgere da mode ed ideologie di passaggio […] soffriamo
e gioiamo molto senza soffrire e gioire veramente: come gli ideali anche i sentimenti
si fondano su parvenze esteriori e quindi con questi presupposti difficilmente si
costruiscono rapporti umani profondi. Le nuove generazioni avrebbero i mezzi per
crescere, quello che manca è la guida. Per Valentina 4G dell’I. A. Sello “noi giovani
siamo molto indifferenti, per noi la nostra vita è molto più importante di quella altrui.
Di fronte a questo mi sento impotente perché penso che cambiare questo modo di
pensare sia abbastanza complicato. Quindi prima di cercare di migliorare la società,
cercherei di migliorare me stessa impegnandomi ancora di più in servizi di volontariato
per la mia comunità”.
Sono tante le testimonianze che gli studenti intervenuti all’evento ci hanno regalato,
impossibile in questo contesto riportarle tutte; di certo è possibile una considerazione
su quanto hanno evidenziato i ragazzi che combacia con il pensiero di Elisabetta
Patrone: “ho molta fiducia nei giovani e nelle loro potenzialità, hanno valori
e sentimenti diversi dai nostri ma li hanno e vanno guidati nell’esprimere queste
virtualità, vanno aiutati a comprendere gli altri, vanno sostenuti nei momenti
di difficoltà, sottolineando però che questi momenti fanno comunque crescere
e rendono forti nel corso della vita”.
[
Alcuni studenti del L. S. Marinelli hanno
indicato come eroi contemporanei
coloro che si mettono a disposizione
degli altri rinunciando al proprio
egoismo. È eroe colui che decide
di dimenticarsi di se stesso per dedicarsi
agli altri. Chiunque riesca a fare qualcosa
per rendere questo mondo migliore
è un eroe perché fa la differenza.
Ci pare non serva aggiungere altro.
A cura di
Elisa Marras
Osservatorio delle Politiche Sociali
[email protected]
Patrone: i giovani vanno guidati nell'esprimere i sentimenti
]
18
Dopo un anno di lavoro si è
giunti al primo momento formale di
verifica del processo attivato dalla
Provincia di Gorizia con la conferenza
Provinciale Permanente sulle politiche
Giovanili. Il 2 dicembre scorso, nella
Sala Consiglio dell’Amministrazione
provinciale, si è fatto il punto della
situazione sui due assi portanti del
percorso intrapreso: il coordinamento
degli Enti locali attraverso la
costituzione del Tavolo Provinciale
degli Assessori alle Politiche Giovanili
e l’avvio del Forum Giovani Provinciale,
con il coordinamento tecnico di uno
staff composto da personale della
Provincia, del Comune di Gorizia,
del Comune di Monfalcone e
dell’associazione Lab Centro
Promozione Benessere.
Nei mesi passati la Provincia si è fatta
promotrice di un articolato processo
di concertazione con le Amministrazioni
comunali del territorio per concordare
linee di indirizzo e strategie di
intervento relative alle politiche da
rivolgere al mondo giovanile. Da questo
percorso di condivisione e riflessione
sul ruolo delle istituzioni nei confronti
dei ragazzi è nato un documento che
gli Assessori e i Consiglieri delegati
dei Comuni, coordinati dall’Assessore
provinciale Licia Rita Morsolin e
19
Provincia di Gorizia
Trimestrale regionale delle politiche giovanili
Tempo di primi bilanci per
le iniziative intraprese
supportati da Flavio Montanari, consulente esterno di comprovata esperienza
nel campo, hanno redatto per proporre alla Regione Friuli Venezia Giulia, da un anno
dotata di una legge quadro in materia, alcuni suggerimenti per rendere tale legge
più aderente alle reali necessità del territorio.
Sul fronte del lavoro con i giovani l’obiettivo perseguito è stato quello di avviare
un Forum Giovani cercando di trovare modalità, linguaggi, codici e significati in grado
di sperimentare una nuova forma di rappresentanza. Se le nuove generazioni sembrano
essere disaffezionate alle forme della politica così come gli adulti la intendono,
la scommessa della Provincia è stata quella di proporre dei percorsi che partissero
dagli interessi, dalle competenze, dalle ‘eccellenze’ di alcune realtà giovanili locali,
per avvicinare altri giovani e promuovere la partecipazione, il protagonismo,
la progettualità, l’espressione. Il ‘fare’ diventa allora lo strumento per ‘il saper fare’,
per il ‘saper essere’, per stimolare la riflessione sulla politicità in generale dello stare
al mondo, dentro un contesto dal quale non si può, nonostante il disinteresse
o il rifiuto della politica intesa in senso stretto, prescindere dall’appartenere.
La Conferenza ha visto dunque l’esito dei due percorsi, illustrati rispettivamente dai
ragazzi protagonisti di questa sperimentazione e dagli Assessori che hanno partecipato
al Tavolo. Non solo. L’intento della Provincia è quello di ampliare questo articolato
processo coinvolgendo tutte le ‘molte vite’ che costituiscono lo sfaccettato mondo
giovanile: la scuola, il mondo della Chiesa, i Servizi del territorio che in modo più o meno
diretto hanno i giovani come destinatari, ma anche la società civile, il mondo del
volontariato, l’associazionismo. L’Assessore ha esplicitato l’intenzione della Provincia
di dare vita, progressivamente e con la diretta partecipazione degli altri attori sociali,
ad un Sistema Formativo Integrato, dove tutte le agenzie intenzionalmente educative
si mettano in rete a favore dei giovani.
La sintesi di tutti i contributi e degli interventi dei partecipanti è stata ascoltata ed accolta
dall’Assessore Regionale Alessia Rosolen, che si è detta concorde con molte delle
proposte avanzate e che ha sostenuto il lavoro svolto dal territorio isontino, tanto
da ritenere che, il percorso degli Enti locali possa essere un modello replicabile
su scala regionale. Segno inequivocabile che la Provincia di Gorizia è riuscita a mettere
in atto un progetto di qualità, non solo per le modalità di realizzazione, ma anche
e soprattutto per i risultati che ha ottenuto.
Una giornata densa dunque di significati e di stimoli per proseguire, nel futuro con una precisa
e condivisa intenzionalità: portare le politiche giovanili al medesimo livello di tutte le altre.
Grazia Maniacco
Coordinatrice progetto AzioneProvinceGiovani - Provincia di Gorizia
Conferenza provinciale
permanente sulle
politiche giovanili
Il sentimento globale:
le emozioni descritte
da 3 punti di vista
particolari
Un cuore dietro le sbarre
Davide, 27 anni, detenuto presso
la Casa Circondariale
Guardo una vecchia foto: io e lei a
Roma, un viaggio, le nostre cose, i cani,
la nostra gioia.
Un bel ricordo, un’emozione ancora
viva nella mente.
Che cos’è un’emozione?
Provo a pensarci: è qualcosa mossa
da tante sensazioni che si uniscono,
fatta di tanti attimi. È come una rosa
formata da tanti petali che la
compongono. Ci si potrebbe poi chiedere
che differenza passa tra emozioni e stati
d’animo. Forse gli stati d’animo sono
sensazioni forti, magari diverse l’una
dall’altra, che ti si conficcano dentro,
che rimangono nei giorni.
Oggi, per esempio, mi è venuto in
mente un ricordo della scuola
elementare, tornato a galla così, forse
perché ero a scuola, mentre si stava
parlando delle notizie del giorno. Quella
volta la maestra, a fine lezione, mi ha
chiuso in classe da solo e lì davvero
ho provato un’emozione fortissima:
la paura di rimanere solo, appunto.
Da adolescente, frequentavo una sala giochi con i miei amici. Avevo i capelli dipinti
e anche la cresta. E così forse ho attirato l’attenzione di quella che poi è diventata la
mia ragazza. Ripenso ancora a come me l’aveva fatto sapere che gli piacevo, tramite
una sua amica, e rivivo la sorpresa, la gioia che ho provato quando c’è stato il primo
incontro. Era proprio una bella ragazza a ripensarci! Ed io mi sentivo felice di essere
stato scelto da lei.
Poi è arrivata Silvia, ed è stato l’incontro più importante della mia vita. Insieme a lei ho
provato emozioni fortissime, qualcosa che prima non avevo mai vissuto. Viaggi, libertà,
amore: stare insieme è stato questo e molto, molto altro.
Poi è morto mio padre: un’emozione dolorosissima. Ed io che non ho potuto rivederlo,
non ho potuto sentirlo, né salutarlo per l’ultima volta perché mi trovavo a San Patrignano
e non mi è stato permesso di allontanarmi. Ancora oggi, a ricordarlo, provo una
violentissima rabbia.
In carcere si provano tante emozioni, alcune belle, altre brutte. Spesso le emozioni
sono legate a buone o cattive notizie che filtrano da fuori e tutto poi viene amplificato
dalla solitudine.
Il momento più bello qui è sabato, il giorno dei colloqui con i parenti: l’emozione nel
rivederli, nel sentirti ancora qualcuno, nel sapere che conti ancora per qualcuno.
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21
Trimestrale regionale delle politiche giovanili
Nella sempre più multiculturale società italiana, la conoscenza dell’altro, del diverso
da noi presuppone una conoscenza approfondita (non solo folcloristica) di tutti questi
meccanismi che governano il pensiero e l’azione individuale. Le singole situazioni
emotive, se non vengono mediate in una società sempre più multietnica, possono
essere una fonte crescente di tensione. L’essere giovane può in qualche modo
rappresentare il luogo ideale per l’incontro fra più emozioni, proprio perché il giovane
è per definizione privo di preconcetti e più aperto a sperimentare nuove emozioni.
La consapevolezza che la mia emozione, anche se simile a quella altrui, può
manifestarsi in modo diverso permette di relazionarmi meglio con gli altri.
Sentimenti, emozioni, passioni sono concetti universali
che spesso, però, tendiamo a relegare alla nostra
quotidianità. Un excursus nella ‘normalità che non
ci appartiene’ è un viatico per aprire gli occhi di fronte
alle mille accezioni che questi termini portano con sé.
La mia emozione è nera
Lydie, Caritas Gorizia, Africa
Cos’è l’emozione, cosa la
contraddistingue da tutte le altre cose
che siamo in grado di provare come
esseri umani? Le nostre culture ne
possono influenzare l’espressività?
L’emozione è una parola che va
utilizzata sempre al plurale perché ogni
emozione nasconde una serie infinita
di emozioni o situazioni che danno un
ritratto di noi. È come se noi avessimo
diversi cliché che rappresentano la
medesima fotografia di una persona.
L’emozione può essere più o meno
nascosta, è un qualcosa di espressivo,
di comunicabile con un grado di
controllo più o meno esteso.
L’emozione è negativa o positiva,
la massima espressione del dualismo
e della versatilità di ogni situazione
umana, a conferma del fatto che le
cose non sono sempre come sembrano.
Se è vero che ogni uomo è in grado
di provare delle emozioni, è altrettanto
vero che le emozioni vengono influenzate dalle varie società nelle quali nasciamo
e cresciamo, e dai valori che ci vengono inculcati sin dalla nostra infanzia.
L’uomo è un animale sociale e le sue emozioni sono, assieme a lui, frutto della sua società.
Léopold Sédar Shengor, ex capo di Stato e grande intellettuale africano, scriveva
suscitando la rabbia delle élites appena scaturite dalle indipendenze degli Stati africani:
“La ragione è ellenica, l’emozione è negra”.
L’Africano è, agli occhi di chi lo vede da fuori, un essere emotivo, le emozioni
associate alla sua vita sociale sono rese visibili da una serie infinita di rituali che
cospargono tutto l’arco della sua vita, il rito è la vita.
La contraddizione nasce dal punto di vista del soggetto stesso, dalla percezione che
l’africano ha di sé stesso. In una società che da tutti i punti di vista rappresenta per
l’osservatore esterno la massima espressione dei sentimenti, c’è una sorta di
censura sociale nell’espressione delle emozioni, delle passioni. E ciò può arrivare
a produrre delle situazioni contraddittorie: per esempio, portare troppa attenzione
alla persona amata è segno di un carattere frivolo cosicché, dai Senufo (Popolo del
Nord della Costa D’Avorio), un ragazzo si accorge delle simpatie di una ragazza se
quest’ultima si nasconde appena lo vede. Il corteggiamento, che si basa su delle
regole precise, deve rimanere entro un margine molto ristretto di modi autorizzati
perché la brava ragazza non può esporsi oltremodo o concedersi troppo all’uomo
che la sta corteggiando.
La censura sociale viene però attenuata a seconda del genere: è consentito ad una
donna piangere mentre nell’uomo può essere percepito come un segno di debolezza
oppure, paradossalmente, il pianto di un uomo può essere il segno manifesto di una
grande sofferenza, il parossismo del dolore. Questo pensiero è stato cristallizzato
nell’espressione ‘piangere come una donna’.
In nome di Dio
Anna Lucia, 28 anni, monaca
Sono Anna Lucia, ho 28 anni e sono una monaca nelle Fraternità Monastiche
di Gerusalemme: nel cuore delle città, nel cuore di Dio.
Sono cresciuta in una famiglia numerosa a Lucinico (Gorizia) tra le attività parrocchiali
e una grande passione per l’atletica; dopo il liceo classico, ho studiato architettura.
Niente di straordinario? Certo che no ma il tutto vissuto sempre con il desiderio di
donarsi a fondo, senza riserve, di rispondere in verità alla sete d’infinito e ai mille
interrogativi che agitano il cuore.
A poco a poco il bisogno di amare ha preso un nome e un volto: Gesù. Allora il
desiderio di grandezza diventa desiderio non di realizzarsi ma di perdersi, non di
guadagnare ma di donare e di donarsi, per amore; di lasciare posto nel proprio cuore a
Dio che è amore che viene ad amare in noi, di imparare ad ascoltarlo e a rispondergli.
I pellegrinaggi a Lourdes, l’esperienza delle Gmg (Giornate mondiali della Gioventù) e la
vita da studente Erasmus hanno certamente allargato i confini del mio cuore alla
dimensione dell’universo che ora ritrovo quotidianamente nei fratelli e nelle sorelle di
tante nazionalità diverse e nella liturgia della Chiesa.
L’arte e l’architettura mi hanno portato ad amare il mistero della città dove l’uomo ha
posto il meglio della sua intelligenza, del suo lavoro, della sua fede, ma che rimane il
luogo dell’orgoglio, del frastuono, della miseria; luogo di contemplazione di tante
bellezze e sfida contro tanti problemi, luogo della preghiera solitaria e del lavoro solidale,
la città rimane per me culla di un progetto: quello dell’amore di Dio per ogni uomo.
“Scegliendo di pregare nel cuore delle città, vuoi manifestare che la tua vita è nel
cuore di Dio”. Gioia di credere! Gioia di vivere semplicemente, da figli di Dio! Che cosa
desiderare di più nella vita???
Le Fraternità Monastiche di
Gerusalemme sono nate nel 1975.
Il fondatore, Pierre-Marie Delfieux,
ebbe chiara la chiamata a dar vita ad
un monachesimo cittadino che potesse
costituire un’oasi nel deserto urbano.
Le Fraternità sono oggi presenti in
Francia a Parigi, Vézelay, Strasburgo e
Mont Saint Michel, in Belgio a Bruxelles,
in Canada a Montreal, in Italia a Firenze,
Gamogna e Roma, in attesa delle
prossime fondazioni in Germania
a Colonia e in Polonia a Varsavia.
La preghiera di Gesù: “Padre, non chiedo
che tu li tolga dal mondo, ma che tu
li custodisca dal maligno” (Gv 17,12)
orienta tutta la loro vita. Poiché l’uomo
è la più bella immagine di Dio, monaci
e monache vogliono pregare e
incontrare Dio attraverso la città degli
uomini, testimoniando con la loro vita
contemplativa e fraterna la presenza
di Dio nel cuore del mondo.
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Comune di Trieste
Trimestrale regionale delle politiche giovanili
Uno sguardo verso
il cielo: l’emozione
del rock progressivo
in un memorabile
incontro triestino
Fino a sabato 13 dicembre
2008 una decina di gruppi di Trieste e
dintorni non si conoscevano, i nomi delle
band erano noti ma un’occasione di
contatto e una riflessione serena sul
proprio produrre, suonare e creare non
c’era mai stata. Un vero peccato se si
pensa a fenomeni quali la dispersione
e lo scarso dialogo che viene imputato
a ‘questi giovani d’oggi’! Cos’è accaduto
il 13 dicembre al Ricretoti di Trieste?
Chi scrive (un appassionato ricercatore
e scrittore e una giornalista molto
emozionata), ben avallato da ‘complici
locali’, ha proposto una tavola rotonda
sul rock progressivo italiano.
Un misterioso fenomeno, quello del rock
progressivo, che ha irrimediabilmente
rapito ammiratori sparsi in tutto il
mondo. Se poi si tratta del ‘prog’ italiano,
allora ci troviamo di fronte ad un genere
di alta qualità, amato sempre di più
all’estero, oltre che in patria. Formazioni
leggendarie come Orme, Premiata
Forneria Marconi, Banco Del Mutuo
Soccorso, Area e Osanna (i capofila di un
movimento che in Italia tra 1971 e 1977
ha contato svariate centinaia di gruppi)
hanno lasciato una traccia indelebile
nella storia della musica italiana e oggi,
in tempi di decadenza, volgarità e
‘immondizie musicali’, una legione di
appassionati si muove tra concerti, libri,
collezionismo e nuove pubblicazioni.
Creatività, libertà di espressione e industria
discografica: una tavola rotonda lancia un ponte
tra passato e presente. Nove giovani gruppi presenti
e la celebre Donella Del Monaco ospite speciale
L’incontro triestino è servito a fare il punto della situazione sulla vitalità del rock
progressivo in Italia e in quest’epoca: nove gruppi di area differente (il jazz-rock dei
Magnetic Sound Machine e il metal-prog dei Sinestesia, l’alternative-prog dei J’Accuse,
il vintage-rock di Hypnoise e Mr. Moog, passando per la fusione klezmer-psichedelico
dei Passover, il viaggio nell’estremo dei Garden Wall, la prog-fusion degli Aphelion
e la ricerca dei Watashiwa Cactus) hanno consegnato al pubblico le loro riflessioni
valorizzate dalla presenza di Donella Del Monaco. Celebre soprano, nipote
dell’indimenticabile Mario Del Monaco e artefice del progetto Opus Avantra, Donella
ha portato la propria testimonianza, quella di un passato importante ma anche di un
presente prestigioso, vista l’emozionante tournèe giapponese recentemente conclusasi.
Il ‘prog’ non è stato solo un modo di fare la musica ma un modo di immaginare: dal
vestiario ai colori, dalla liberazione del corpo alla liberazione dell’anima. Oltre alla
proiezione di video anni ’70, grazie all’esposizione di vinili e giornali d’epoca a cura di
Maurizio Giugovaz, si è potuto toccare con mano il valore che si è attribuito e che si
continua a dare all’opera come concetto, come produzione unica. Creare musica come
terapia dell’anima, il suonare come unica forma di espressione, la gioia nell’atto stesso
della creazione, i problemi che sorgono nel confrontarsi con il mercato, il dilemma eterno
se un passato osannato vada conservato o superato. Questo stuolo di gruppi -estrazioni,
età, esperienze e proposte diverse- ha contribuito in modo unico ad alimentare quella
domanda virtuosa da sempre: come si nutre l’anima e come si esprime? Solo un paio
di ore per confrontarsi sui percorsi dell’anima: misteriosi ma anche densi e sereni.
Se oggi si discute del passato è evidente che lo stesso ha prodotto energie che si
rinnovano ancora e che proseguono il loro corso anche con altri nomi, incontrando
altre aree espressive, altri modi di fare musica dal vivo. A conferma di questa vitalità
ogni estate Trieste propone il Summer Rock Festival: una rassegna organizzata
dall’associazione Musica Libera che da anni lavora sodo per portare in Piazza Unità
d’Italia (ingresso gratuito) nomi del calibro di PFM, New Trolls, Alan Parsons, Ian Paice,
Osanna, Carl Palmer. I ragazzi protagonisti di questo memorabile incontro -musicisti,
organizzatori o semplici appassionati che siano- non vogliono etichette ma vogliono
creare, emozionarsi e far emozionare: in questo i ‘giovani d’oggi’ ci ricordano che il
‘prog’ non è affatto morto.
Francesca Grispello e Donato Zoppo
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Provincia di Trieste
La città di Trieste fa spazio all’espressione musicale,
veicolo di emozione e aggregazione
Note d’insieme
“È stato costruito un
assassino, dai coltelli lunghi e l’ombra
corta che fugge.
È ovunque puoi vedere ed ascoltare
e ti dice che la musica sono i Blue
e i Britney Spears che muovono le
labbra su basi copiate in TV.
Lentamente così uccide e il cantante
non canta, non serve. È importante solo
l’immagine, quella più utile a vendere
di più. A vendere te. Ma se non compri
non vende e uccidi l’assassino.
Musica cos’è? Chiediti a cosa serve
a te. Quando chiudi gli occhi non è per
ricevere da lei ma per entrare dentro di
te e darle qualcosa. La musica non crea
le emozioni, sono le emozioni a
riempire la musica. Con le mie mani
suono come con gli occhi parlo e ti
do ciò che sono. Decidi di prenderlo!
Guardati intorno, vicino. Vedi noi,
non siamo di ‘serie’ solo perché non
abbiamo la corta catena di una casa
produttrice. Siamo liberi. Ti sussurriamo
dal basso che andare ad un concerto
non è pagare per vedere un tizio
famoso, è sentire in ogni nota un pezzo
d’anima e mescolare i tuoi pezzi con
i miei. Provaci: spegni la TV e scendi,
noi siamo sotto casa tua sopra ad
un palco ad aspettarti con pezzi freschi.
Prendi la musica com’è per te falla
assieme a noi…..grazie al progetto
Ricrerock dei Poli di Aggregazione
Giovanile del Comune di Trieste”.
Il brano è stato scritto da Antonio, bassista dei Watashiwa Cactus ed è un valido
esempio di come i giovani, per mezzo della musica, trovano il modo di comunicare
i propri sentimenti e le proprie emozioni. La musica dunque: è questa forma artistica
che viene maggiormente utilizzata dai ragazzi come veicolo delle proprie ansie, paure,
gioie, frustrazioni e allegrie. È l’elemento unificante per trasmettere, non solo ai propri
pari ma al mondo intero, i sentimenti più intimi e reconditi che si celano all’interno di
ognuno di loro. Il brano è anche un invito ad uscire di casa per incontrarsi, ascoltare
o fare della musica così da condividere le proprie emozioni.
Fare musica a Trieste è possibile anche grazie al progetto Ricrerock e ai poli di
aggregazione del Comune di Trieste, Toti e Borgo San Sergio, promotori dell’iniziativa
che permette ai giovani musicisti di incontrarsi e suonare grazie ai due spazi messi
a disposizione e alla sala di incisione del polo di B.go San Sergio. Questa iniziativa è
un dinamico laboratorio che permette ai giovani di esprimere il proprio talento e la
propria creatività non solo all’interno delle mura dei ricreatori ma organizzando eventi
pubblici per far conoscere alla città quello che questi ragazzi sanno offrire. Portare
all’esterno dei ricreatori la propria musica ed esibirsi nel cuore della città è infatti
uno degli obiettivi principali del progetto anche se spesso questo risulta difficile o
impraticabile; nel 2006, ad esempio, una decisione del sindaco, presa al fine di tutelare
la quiete del quartiere in cui si sarebbe svolto un festival di musica rock, impedì ai
musicisti del progetto Ricrerock di esibirsi. L’episodio provocò la mobilitazione dei
giovani dei Poli di Aggregazione che si adoperarono per promuovere le loro iniziative
e sensibilizzare la cittadinanza attraverso l’allestimento di banchetti informativi che
consentissero il contatto diretto con le persone. Da questa mobilitazione nacque
anche uno ‘storico’ concerto che si svolse all’interno delle sale comunali in presenza
del sindaco stesso. La musica fuori dai ricreatori di Trieste è anche il cardine intorno
al quale ruota l’iniziativa di scambio con gli altri centri di aggregazione fuori provincia.
I giovani di Ricrerock vanno a Udine a suonare e fare musica assieme ai musicisti
di quel centro per poi contraccambiare. Questo scambio avviene, poi, con diverse altre
realtà dando vita così a un circolo virtuoso che porta a una vivace contaminazione
di idee e a una sana espressione di sentimenti ed emozioni, linfa vitale preziosissima
per rinverdire con la freschezza dei vent’anni questa amata ‘vecchia’ città.
Andrea Aiza
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Trimestrale regionale delle politiche giovanili
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Rubrica
[
La recensione
]
Strumenti di lavoro
Emozioni nero
su bianco
La solitudine dei
numeri primi
La solitudine dei numeri primi
è un titolo che racchiude in sé il
concetto chiave che permea il romanzo
di Paolo Giordano: i numeri primi,
metafora di unicità e distinzione dalla
massa, sono destinati a fare i conti
con la loro condizione, incapaci
di conformarsi ad un tutto a cui non
appartengono e con cui non sanno
interagire. Mattia e Chiara, i protagonisti
della storia, sono proprio due numeri
primi: due persone diverse, troppo
diverse, che si trovano, si riconoscono
nella loro estraneità ma non riescono
a superare le barriere che si sono
costruiti intorno.
Il romanzo percorre l’arco della loro
esistenza a partire dall’infanzia per
giungere fino all’età adulta ma concentra
la maggior parte della narrazione negli
anni giovanili; è proprio in quegli anni
cruciali, infatti, che le difficoltà di Mattia
e Chiara sembrano diventare insostenibili perché
sottoposte all’ulteriore sovraccarico della precarietà
emotiva tipica dell’adolescenza. Giordano descrive
con grande tatto gli imbarazzi, le incertezze, i sussulti,
le parole taciute che caratterizzano il rapporto tra questi
due ragazzi; attraverso le loro storie, pur al limite, il lettore ritrova i sentimenti e le
sensazioni che anch’egli ha provato, si immerge nella solitudine e nel dolore di due
anime che si sentono sperdute come tutti i giovani, prima o poi si trovano ad essere.
Lo sguardo dell’autore è lucido ma mai privo di partecipazione emotiva; grazie
alla cura per i dettagli descrittivi, restituisce un’impressione di estremo realismo.
Lo si coglie nei momenti corali, come le feste di classe o gli incontri nei corridoi
della scuola, e nei lunghi segmenti narrativi che vivono unicamente dell’introspezione
dei personaggi.
Il risultato è una lettura scorrevole, mai scontata e profondamente toccante con
l’unico piccolo limite di concedersi un po’ troppo nella seconda parte che finisce
per appesantirsi di alcuni segmenti narrativi tutto sommato superflui.
Erika Biasutti
Là dove osano i cineasti
Incomprensibile,
imperscrutabile, impenetrabile:
il mondo degli adolescenti rappresenta
un territorio off-limits per chi non
vi appartiene. Questa difficoltà
rappresenta, per il cinema e per i
suoi autori, uno stimolo fortissimo
ad investigarlo, nel tentativo di entrare
dentro una realtà a cui gli adulti
difficilmente hanno accesso. I percorsi,
attraverso cui il cinema mostra il mondo
dei giovani, sono molteplici; le ultime
stagioni cinematografiche hanno
sancito il successo di pellicole sui
giovani e per i giovani: La notte prima
degli esami, Come tu mi vuoi, Tre metri sopra il cielo sono esempi di un genere che
racconta storie di ragazzi in modo fruibile e leggero. Ma l’indagine su un mondo
complesso come quello degli adolescenti passa soprattutto attraverso autori che si
propongono, evidentemente, obiettivi più ambiziosi. Diversi registi hanno investito in
soggetti che propongono temi delicati e ‘pericolosi’ ma che rappresentano il modo
più vero di mostrare l’universo giovanile.
Si pensi, ad esempio alla filmografia di Gus Van Sant che si è occupato spesso
di giovani; due delle sue pellicole più recenti, Elephant (2003) e Paranoid Park (2007)
sono entrambe ambientate tra i ragazzi, mostrati nel loro lato più inquietante e
problematico. Elephant ripercorre la strage del liceo Columbine negli USA mettendo
in luce il vuoto esistenziale che riempie la quotidianità di ragazzi inspiegabilmente
‘sbagliati’; Paranoid Park entra nelle vite di ragazzi di periferia, osserva la loro incapacità
di affrontare la vita, l’immaturità che permea i loro comportamenti, lasciando trasparire
una perdizione morale che finisce per diventare una condanna pendente sulla
generazione adulta, incapace di fornire gli strumenti di cui i giovani necessitano.
Quando il cinema racconta
i sentimenti dei giovani
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Trimestrale regionale delle politiche giovanili
La produzione della stagione
cinematografica in corso offre ulteriori
spunti di discussione sul tema: una
pellicola su tutte incarna il malessere
del sentirsi inadeguati tipico dell’età
giovanile; si tratta de Il papà di Giovanna
di Pupi Avati. Al centro di una pellicola
che, comunque, vira spesso verso una
visione d’insieme molto più ampia,
c’è Giovanna, una liceale degli anni ’30,
imprigionata tra il troppo amore di un
padre onnipresente e l’assenza
(non fisica ma affettiva) di una madre
che rappresenta un modello che la
ragazza ritiene irraggiungibile. La sua
inadeguatezza nei confronti della vita ha
origine da un’instabilità psichica che la
porterà a compiere un atto estremo.
Avati indaga con infinita delicatezza
il rapporto padre-figlia, toccando le
corde più profonde di una relazione in
cui, a volte, l’eccessivo istinto a fare del
bene finisce per diventare una colpa.
Tutt’altro tipo di approccio ma identico
intento caratterizza l’indagine del
rapporto madre-figlio secondo la
commedia Il matrimonio è un affare
di famiglia (2008); l’ironia e la leggerezza
sono l’arma vincente di questo piccolo
grande lungometraggio australiano che
racconta la storia di una madre single
alle prese con il suo mai sopito
desiderio di realizzazione artistica
e la difficile gestione di un figlio
adolescente, coinvolto con una
relazione sentimentale piuttosto tumultuosa. La leggerezza che permea il film
non impedisce però che essa viva anche di momenti di amarezza che stimola
la riflessione sui difficili equilibri che il mondo adulto deve sforzarsi di mantenere
con quello dei giovani.
Il cinematografo ha, per tendenza, la predisposizione a raccontare gli estremi
piuttosto che la normalità; è più facile, infatti, imbattesi in pellicole che raccontino
di giovani disagiati, emarginati, abbandonati che lottano per trovare una loro
identità in un mondo da cui non si sentono compresi; nello stesso tempo però,
nei ragazzi che il cinema moderno propone, al di là di tutti i disagi che le loro
condizioni ‘al limite’ comportano, emergono quelle insicurezze e quegli eccessi
che accomunano tutti i giovani e che la macchina da presa, magicamente, riesce
a mostrare con un tocco di sensibilità e di paterna comprensione.
Una nota infine sul film che ha fatto parlare di più recentemente a proposito
di un luogo di vita e di sentimenti molto frequentato dai ragazzi, la scuola.
La classe (Francia, 2008) di Laurent Cantet, basato sul libro d’esperienza
dell’insegnante e protagonista François Bégaudeau, racconta l’intrecciarsi
di relazioni che avviene dentro le mura di un liceo di periferia parigino. Con un
punto di vista inedito, una telecamera che si incunea tra i banchi con l’intento
di scomparire e di non assumere un punto di vista privilegiato fra quelli in gioco,
il film-documentario, girato con studenti veri e non attori professionisti, mette
in luce il complesso meccanismo del rapporto tra insegnante e alunni e tra
compagni. La pellicola, Palma d’Oro all’ultimo festival di Cannes, non intende
essere l’ennesima indagine sui problemi della banlieu o di tutte le realtà sociali
giovanili marginali, ma si ritaglia letteralmente uno spazio di narrazione all’interno
dei muri della classe da cui lo sguardo non esce mai. Cosa succede in quel tempo
misterioso e prezioso che i ragazzi trascorrono in classe con l’insegnante?
Il film prova a dare una risposta non scontata e autentica, invitando tutti coloro
che hanno a che fare con la scuola direttamente o indirettamente a ricostruire
il proprio punto di vista, a non accontentarsi di descrizioni banali o di parte,
ad accettare l’ira, la rabbia, la comprensione, l’affetto, le sfumature della colpa
come sentimenti necessari della relazione educativa.
Scrivi alla redazione di Alidee: [email protected]
Alidee è anche su www.provincia.pordenone.it e su www.aliasfvg.it
Erika Biasutti
www.ilpapadigiovanna.it www.gusvansant.com
Alidee - Trimestrale regionale delle politiche giovanili è un progetto del Piano Triennale
per le Politiche Giovanili 2007-2009 della Provincia di Pordenone inserito nell’Accordo
di Programma Quadro tra il Ministero della Gioventù e la Regione Friuli Venezia Giulia.
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T rime st ra l e re g io n a l e
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