"Storia di una Blokova"

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"Storia di una Blokova"
Gruppi di alunni, delle classi coinvolte nel
laboratorio di scrittura creativa, hanno
elaborato questo breve racconto, che ha preso
vita in un lasso di tempo altrettanto breve,
considerando il tema trattato.
L’intreccio, i personaggi e gli ambienti citati
sono frutto della creatività dei ragazzi,
ispirati dalla storia di una coppia di gemelle
sopravvissute all’olocausto.
I fatti storici - le leggi razziali, i casi
di reclutamento forzato, i campi di
concentramento e i relativi maltrattamenti
alle persone - sono frutto della mente umana
e realmente accaduti.
Docente
Dott. Antonio Roma
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Premessa
Dal 1933 al 1942 in Germania
furono emanate leggi che, partendo
dalla protezione dei caratteri
ereditari tedeschi, arrivarono al
razionamento alimentare per gli
ebrei. Gli ebrei furono esclusi dalla
vita economica del paese, dai vari
servizi pubblici, furono costretti
a indossare come segno distintivo
la stella a sei punte. Ghettizzati.
Deportati. Uccisi.
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Johanna era castana, i suoi occhi
erano vivi, pieni di espressione e
di mistero, in cui lo sguardo di chi
osasse guardarli sembrava annegare
come nel più profondo degli oceani.
Dei piccoli puntini rossi sparsi sulle
gote chiare le tingevano di un colore
roseo e lasciavano trasparire una
sorta di imbarazzo, di vergogna,
di pudore. Le spalle erano coperte
da una lunga chioma raffinata,
ricamata. Era una maestra d’asilo,
appassionata di psicoanalisi. Viveva
a Berlino.
Nel mese di Maggio del ’33 la natura
era rigogliosa, sputava pollini
nell’aria. Alle tre del pomeriggio,
dopo aver mangiato un panino,
Johanna attraversava la città con
passo ansioso. Arrivata in biblioteca
passò in rassegna tutta la sezione
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filosofica, fin quando trovò il libro
che cercava. Si guardò intorno,
cercando un posto per sedersi e
consultare il testo, in un angolo
due uomini anziani discutevano
sommessamente tra di loro, più
in là alcuni rabbini consultavano
tomi voluminosi e impolverati, in
fondo alla sala un giovane intento
nella lettura; Johanna si avvicinò
e sedette di fronte a lui. Il giovane
sembrava non essersi accorto della
sua presenza, la sua attenzione fu
distolta soltanto dal rumore che
Johanna fece nel sedersi. Alzò lo
sguardo dal suo librone, la osservò
e riprese a leggere.
Nei giorni successivi Johanna
tornò in biblioteca per completare
la sua ricerca, lui era sempre lì; per
una settimana, non si rivolsero
la parola, pur studiando l’uno
di fronte all’altro, finché un giorno
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il ragazzo distolse lo sguardo
dal libro e domandò a Johanna,
intenta a raccogliere le sue cose,
se fosse tornata in biblioteca.
Johanna rimase folgorata dai suoi
occhi verdi e da quella carnagione
olivastra ma disse che non sarebbe
più tornata, perché aveva finito la
sua ricerca. Lui insistendo le chiese
il nome, lei porgendo la mano
rispose: “Johanna”.
Lui la strinse:“Friedrich”.
Fu subito amore.
Il 20 luglio 1934 si sposarono senza
alcuna cerimonia religiosa, solo un
rito civile perché Friedrich era ebreo
e Johanna cristiana.
Il 2 settembre del 1936 nacquero
Giada e Carol, due gemelle.
Carol aveva un grande neo sul piede
destro.
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Una sera Johanna tornando a
casa venne fermata da un uomo.
Era il padre di un bambino che
frequentava l’asilo dove lei lavorava.
Disse che aveva bisogno di parlarle,
l’uomo era evidentemente sconvolto
da qualcosa; venne trovato morto
il giorno seguente. Johanna finì in
carcere con l'accusa di omicidio.
Una guardia, un giovane sulla
trentina, le lanciò un quotidiano
davanti alla sua cella perché lei lo
leggesse. Si chiamava Josuè, era
alto, capelli castani, corti e una
leggera barbetta. Lui non era come
gli altri, non aveva quell’aria cupa. Il
suo volto era illuminato.
Almeno credevo.
EBREI NEI GHETTI. Così riportava
il giornale, in prima pagina, la
notizia della ghettizzazione.
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Johanna pensò subito alla vecchia
biblioteca di famiglia ormai
abbandonata. Friedrich e le bambine
avrebbero potuto nascondersi lì.
Si rivolse a Josuè che fin dal suo
arrivo in carcere si era manifestato
cordiale nei suoi confronti. Pensò
che potesse essere l’unico tramite
con l’esterno.
Fu proprio lui a comunicare a
Friedrich il nascondiglio indicatogli
dalla moglie.
La mattina seguente Friedrich
preparò in fretta una valigia con
il minimo indispensabile e disse
alle bambine che sarebbero tornati
presto a casa.
La biblioteca non era in ottime
condizioni, all’esterno l’elemento
più vistoso era l’immenso portone
in legno che si incastrava sotto
il profilo architettonico. Con un
cigolio il portone dava accesso a una
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sala immensa. Tre corridoi ricolmi
di scaffali che sembravano crollare
sotto il peso dei libri e della polvere.
Ogni passo produceva un suono,
un rumore, uno scricchiolio, era
impossibile passare in silenzio.
L'aria, pervasa dall’odore di muffa
e umido, terminava in fondo con
una porta.
Rinchiusa nella sua cella, Johanna
non faceva altro che scrivere. Una
volta al mese poteva mandare una
lettera alla famiglia, per gentile
concessione di Josuè. Quando usciva
per l’ora d’aria non le staccava mai
lo sguardo di dosso, nemmeno un
attimo, eppure Johanna era la più
mesta di tutte le detenute. Cresceva
in lui il fuoco della passione sperava
che un giorno se ne sarebbe accorta
ma lei continuava a chiedergli
notizie del regime, di Friedrich
e del venticinque del mese, giorno
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in cui avrebbe potuto mandare la
lettera.
Era Josuè che si occupava della
consegna, le diceva sempre “Se hai
bisogno di qualcos’altro dimmelo!”
oppure “Spero possa incontrare
presto la tua famiglia!” Johanna
puntualmente abbassava lo sguardo
e proseguiva dritta seguendo il
percorso obbligato che conduceva
alla sua cella. Passavano i giorni
e quell’amore non corrisposto
trasformò presto Josuè da guardia
gentile e disponibile quale era stato
fino ad allora, in carceriere senza
scrupoli. Non gli interessava più
Johanna, voleva solo punirla per
quell’indifferenza.
Comunicò alle SS che una famiglia
ebraica si nascondeva nella vecchia
biblioteca della città.
Friedrich, Carol e Giada erano
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da quasi cinque mesi in quel
nascondiglio, quando arrivarono i
soldati.
Rastrellavano la parte nord della
città, casa per casa, a ogni portone
urlavano - Chi c’è in casa. Aprite-.
Il tonfo ligneo delle porte sfondate
era il finale del ritornello. Nella
vecchia biblioteca la temperatura
era asfissiante, le figlie di Johanna
avevano i pantaloni di cotone,
calzamaglie appiccicate per il sudore
alle loro gambette. Carol, cercando
di prendere un po’ d’aria aprì la
porta in fondo alla sala ma non si
accorse che a pochi centimetri c’era
una pila di libri che svettava tra la
polvere; urtandoli li fece cadere.
“Wer in dem Haus? Öffnen!”
Gli uomini in divisa aprirono
violentemente
la
porta
e
costrinsero Friedrich e le sue
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figlie a uscire afferrandoli dalle
braccia. Attraversarono il corridoio
delimitato dagli scaffali. Fuori dalla
biblioteca c’erano altri prigionieri.
“Camminare! Gehen!”
Chi cadeva, costretto a rialzarsi
continuava a marciare.
I piedi accaldati, le fronti grondanti
di sudore, gli occhi appannati, le
labbra disidratate. Le bambine
urlavano, anche i soldati urlavano.
Fu così che Friedrich, Giada e
Carol sparirono nella polvere, che
lentamente si posava al suolo,
svelando il deserto che i soldati
avevano lasciato alle loro spalle.
La notizia della cattura arrivò
puntuale in carcere, portata dallo
stesso Josuè sghignazzante, e
si abbatté come un macigno su
Johanna. Sempre sola, nessuno
svago, nessuna amicizia.
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Aveva perso la libertà, aveva perso
anche la sua famiglia.
Scrisse più volte ai genitori di
Friederich perchè li cercassero;
erano spariti nel nulla.
Ogni notte faceva lo stesso incubo:
Giada e Carol erano morte e le
chiedevano, con i volti insanguinati,
di raggiungerle.
Si svegliava e non si riaddormentava
più. Era deperita nell’animo e nel
corpo.
Nel 1943, dopo sei anni
di carcere e nessuna notizia
della famiglia venne un medico
tedesco; con un volto senza alcuna
espressione disse: “Ho consultato
la tua scheda. Risulta che sei ariana
e che hai lavorato in un asilo. Da
questo momento sarai la mia
collaboratrice! Ci occuperemo di
bambini che hanno perso i genitori”.
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Esco da questo luogo! Posso cercare
le mie piccole, aiuterò i bambini
bisognosi.
Forse ho giudicato male il medico, non
è cattivo come sembra.
L’equipe composta dal dottore
tedesco e le nuove reclute si mise
in cammino per un lungo viaggio in
treno diretto in Polonia; il dottore,
sembrava addormentarsi con il
volto nella sua rivista scientifica,
dall’inizio del viaggio non aveva
rivolto la parola a nessuno.
Criminali comuni, futuri infermieri,
appena reclutati alla volta dei campi
di concentramento.
Johanna era felice del viaggio, felice
della missione da compiere.
Il treno era in marcia da molte ore.
L’entusiasmo sembrava lasciare il
posto a una strana sensazione, un
presentimento.
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Scoprì la sua destinazione solo dopo
esserci arrivata.
Una grande distesa di neve
intervallata da chiazze rosse.
Uno spintone distaccò i pensieri
di Johanna da quello sguardo
quasi innocente delle cose che
la circondavano. Alle sue spalle
un rumore assordante la fece
sobbalzare: il cancello era stato
chiuso con forza.
Migliaia di persone erano accalcate
davanti ad un vagone e pochi
uomini in divisa gridando facevano
la selezione. Qualcuno non riusciva
a muoversi e inciampando tra gli
zoccoli di legno che pietrificavano
i piedi riceveva calci allo stomaco;
le bave dei cani ringhianti si
impastavano alle loro lacrime.
Decine di bambini si tenevano per
mano: lo smarrimento regnava negli
occhi di chi appena allontanato dai
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suoi cari cercava invano di ritrovarli
nella confusione. Alcuni piangevano.
Altri restavano immobili. Muti.
Il giorno seguente il medico che
reclutò Johanna si presentò così:
“Buongiorno signori e signore.
E’ il vostro primo giorno di lavoro
qui; dovrete soltanto eseguire i miei
ordini! Poco altro c’è da sapere!”
Dopo aver assegnato ad ognuno la
sua postazione spiegò che avrebbero
dovuto selezionare e schedare
coppie di gemelli.
Johanna fu condotta alla baracca
assegnatale dove alcuni bambini
stavano stretti intorno ad una sola
di loro, forse la più coraggiosa.
Spingendo la fecero cadere e i suoi
zoccoli rotolarono lontano. D’istinto
Johanna si piegò per raccoglierli e
rimetterglieli ai piedi quando notò
che la bambina aveva un grande neo
sul piede destro.
Distolse lo sguardo dal neo e la
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guardò negli occhi; la bambina
sprezzante del pericolo che quella
donna avrebbe potuto costituire la
ringraziò.
Johanna rimase in ginocchio
ancorata col pensiero agli occhi
della piccola; poi si rialzò a fatica e
le domandò come si chiamava.
La bambina rispose “15243” si voltò
e tornò dai più piccoli.
Guardandosi intorno cercò l’altra
gemella, la individuò e chiese anche
a lei il nome.
“15244” rispose l’altra.
In quell’istante il sangue smise di
fluire, il respiro venne a mancare,
il pensiero che le sue figlie fossero
ancora vive si mescolò all’orrore.
L’orrore di sapere che, se erano
vive, lei avrebbe dovuto mandarle
a morire. Era il suo compito. Lei
portava i bambini nelle mani
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dell'Angelo. Quei bambini non
tornavano.
Mai.
Nella baracca delle sue figlie stavano
tante altre coppie coetanee di
gemelli. Fra queste andava fatta una
selezione. Dovevano essere scelte
quelle che rispettassero la fascia
d’età e che non avessero problemi di
salute. Johanna decise di scambiare
le sue due bambine con altre due
che accusavano problemi.
Le blokove controllavano le
bambine, lei si avvicinò a Carol e
Giada e affermò di aver fatto già
dei controlli. Le bambine notarono
questo particolare interesse nei
propri confronti ma non capirono
perché quella Johanna avesse detto
una bugia per farle rimanere in
quella maledetta baracca.
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Erano le mie figlie ma non potevo
dirglielo. Volevo raccontarle tutta la
mia vita ma ero troppo impegnata a
salvare la loro. Pensai di dirglielo il
giorno seguente.
All’alba soldati e mezzi pesanti
dell’armata americana entrarono
nel campo. Le urla deboli e festanti
dei sopravvissuti si mescolavano
al frastuono delle attività militari.
Johanna vide un camion portare via
i bambini superstiti. Giada e Carol
erano tra quelli.
Ero riuscita a salvarle.
Di mio marito non seppi più nulla.
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