Célia Houdart è nata nel 1970 a Boulogne Billancourt. Dopo aver
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Célia Houdart è nata nel 1970 a Boulogne Billancourt. Dopo aver
Célia Houdart è nata nel 1970 a Boulogne Billancourt. Dopo aver studiato lettere e filosofia e aver lavorato come assistente teatrale, nel 1997 decide di dedicarsi alle proprie creazioni (teatro, performance, radio, installazioni). Nel 2007 pubblica il suo primo romanzo, Le meraviglie del mondo, un grande successo di pubblico e di critica, proposto in Italia da Barbès Editore. Gare du Nord La frenesia e la multiculturalità della parigina Gare du Nord raccontano il carattere composito della collana di narrativa contemporanea di Edizioni Clichy, dedicata alla scrittura di stampo letterario, principalmente francofona ma non solo: storie, esseri umani, vite, colori, suoni, silenzi, tematiche forti, autori dal linguaggio inconfondibile, senza timore di assumere posizioni di rottura di fronte all’establishment culturale e sociale o di raccontare abissi, sperdimenti, discese ardite ma anche voli e flâneries. «Carrare» de Célia Houdart © 2011 P.O.L. éditeur - Paris Per l’edizione italiana: © 2014 Edizioni Clichy - Firenze Edizioni Clichy Via Pietrapiana, 32 50121 - Firenze www.edizioniclichy.it Isbn: 978-88-6799-130-3 Célia Houdart Carrara Traduzione di Tommaso Gurrieri Edizioni Clichy 1. Al banco di un caffè che aveva appena cambiato proprietario, Marian ordinò un espresso e un croissant con la marmellata di albicocca. Le mani che si alzavano per salutare e il movimento delle tazze e dei bicchieri d’acqua facevano scivolare forme sfumate sull’acciaio satinato. Poi Marian andò verso il nord della città. Dalle strade distribuite a stella intorno alla piazza dei Cavalieri affluivano studenti. Jeans stretti. Capelli schiacciati sulla fronte o pettinati all’indietro col gel di fronte a uno specchio. I ciclisti facevano lo slalom per non disturbare le coppie che camminavano fianco a fianco, tenendosi per i fianchi. Il tribunale era un edificio degli anni Tren5 Célia Houdart ta con la facciata monumentale aperta, nel senso dell’altezza, da tre varchi rettangolari sormontati da una loggia. Di fronte all’entrata c’erano due carabinieri, uno dei quali giovanissimo. Per le scale un cancelliere si stava riaggiustando, con la mano infilata dentro la manica della giacca, la manica della camicia, tirandola fuori. Marian entrò nel suo ufficio, una piccola stanza con le pareti dipinte di grigio chiaro. Tolse i fiori appassiti d’una azalea rosa facendoli cadere a pioggia in un cesto per la carta, mentre pensava a quello che avrebbe dovuto dire nella seconda giornata di udienza. Si tolse l’impermeabile e indossò la toga sopra i vestiti. L’ingresso del tribunale risuonava già di voci la cui eco rimbalzava per le scale. Marian infilò i documenti in una cartella di cuoio scuro. Poi si guardò intorno in cerca di un anello. Un’acquamarina che un tempo era appartenuta a sua madre. Lo portava all’anulare della mano destra e aveva preso l’abitudine di farla ruotare con il pollice perché l’anello era un po’ troppo largo per il suo dito. Cercò tra i libri, sollevò dei classificatori. Non c’era nien6 Carrara te. Si disse che senza quell’anello al momento di parlare sarebbe inciampata su ogni parola. 7 2. Un furgoncino si fermò di fronte ai primi scalini dello scalone del tribunale. Un uomo con il giubbotto antiproiettile scese dalla portiera posteriore stringendo il braccio di un altro uomo di una quarantina d’anni, bruno e magro. Vista la loro altezza, dovettero abbassarsi e rimasero entrambi fermi un istante perché il sole li abbagliava. Nello stesso momento il guidatore chiuse la porta dell’abitacolo. Si avvicinò al giovane carabiniere che era all’entrata del tribunale, e gli dette un foglio azzurro pallido protetto da una busta di plastica nella quale era infilata una penna a sfera. Mentre il ragazzo firmava con le sue iniziali il documento, l’altro carabiniere chiese all’uo8 Carrara mo magro di avvicinare i polsi stretti dalle manette. Il carabiniere mise le mani aperte sui braccialetti d’acciaio e li fece scivolare dolcemente verso di sé. Guardò la serratura e i punti che sopportavano più tensione. Lo scintillio del metallo lo infastidiva. Dovette stringere gli occhi per vedere bene. Poi i due carabinieri si misero da una parte e dall’altra dell’uomo magro, tenendolo per le braccia. Il più anziano dette un ordine in un tono un po’ duro con una punta di accento napoletano indicando col mento la scala che si trovava di fronte a loro. Entrarono in un ingresso immenso attraversato da raggi di luce. I tre uomini portavano scarpe con le suole in elastomero. Non si sentivano rumori. Il loro movimento negli spazi del tribunale aveva qualcosa di fantomatico. L’uomo magro aveva una giacca nera a cui mancavano dei bottoni, una camicia bianca e dei pantaloni grigio cenere un po’ larghi. Nel corridoio i giurati, pur già familiari con i luoghi ma disorientati da una nuova segnaletica, verificavano sulla loro convocazione di non aver sbagliato edificio. 9 Célia Houdart Le porte dell’aula erano spalancate. I carabinieri misero l’uomo magro su un sedia rialzata da una pedana. Dal punto in cui era, l’uomo poteva vedere tutta l’aula. Si disse che c’era molta meno gente del giorno prima. Sulla sua destra contro il muro erano allineati dei sedili la cui pelle allentata formava una fila di strani crateri spenti. 10 3. Tre anni prima il prefetto della provincia di Pisa passava le vacanze con la moglie, all’inizio di luglio, in una villa in affitto all’isola d’Elba. Era l’ora della siesta. Sua moglie leggeva sul bordo della piscina. Un grande telo da bagno rosso era ad asciugare sul trampolino. Lui dormiva in camera sua, steso sul letto. Un uomo era entrato dalla vetrata del salotto che era rimasta socchiusa. Aveva svuotato i cassetti di un comò, preso dei foulard di marca e una macchina fotografica Olympus. Il rumore che fece il tappo dell’obiettivo cadendo sulle piastrelle aveva svegliato il prefetto. Si era sollevato sul letto. Aveva chiamato la moglie, ma visto che la piscina era dall’altro lato del 11 Célia Houdart giardino lei non aveva sentito niente. Quando l’uomo aveva intravisto la sagoma del prefetto in controluce, aveva sparato tre volte nella sua direzione ed era fuggito arrampicandosi sul cancello automatico Si era potuto dedurre il suo percorso grazie a una rete di sottili tubi neri dissotterrati, che dimostravano come l’uomo fosse inciampato nell’impianto di irrigazione automatica in due punti ben precisi del prato. Il prefetto aveva vacillato sulle gambe. Aveva sbattuto la tempia contro lo stipite di una porta. Poi era svenuto, con una pallottola da nove millimetri dentro il polmone destro. Era rimasto per cinque settimane in prognosi riservata all’ospedale San Martino e Frediano. Da allora soffriva di perdite improvvise della memoria e di difficoltà respiratorie, una sensazione di soffocamento, che persisteva. Il 1° agosto, la polizia aveva arrestato Marco Ipranossian, un armeno, alla stazione di Firenze. In una bustina in similpelle infilata sotto la camicia, era stato ritrovato un falso documento di circolazione e, scritto sul retro 12 Carrara di uno scontrino di lavanderia, l’indirizzo di una trattoria di Rio nell’Elba. 13 4. L’entrata dei giurati aveva modificato l’acustica dell’aula, rendendola improvvisamente più sorda. Una donna bruna, col tailleur rosa chiaro e la camicetta pistacchio, i capelli raccolti, si era messa in prima fila. Aveva tolto dalla borsa di cuoio beige un quadernino e una matita in miniatura. Dietro di lei c’era un uomo d’una cinquantina d’anni. Molto alto, gli occhi nascosti da occhiali fumé che tolse molte volte, per asciugarsi con la punta di un fazzoletto di stoffa gli occhi arrossati da una congiuntivite. All’inizio dell’udienza, il prefetto tornò sulle cose che aveva detto il giorno prima. Disse che l’uomo che gli aveva sparato addosso era 14 Carrara più tozzo. Ma non ne era certo. Durante il primo interrogatorio ricordava una sagoma vista controluce, di corporatura media. Il dottor Onofrio, di appena venticinque anni, avvocato d’ufficio di Marco Ipranossian, aveva parlato molto alla svelta, dando a volte l’impressione di non respirare. Fin dal primo giorno di udienza aveva chiesto la messa in libertà del suo cliente per insufficienza di prove. La richiesta era stata respinta. L’indomani, quando ricostruì la vita del suo cliente, la donna della prima fila aveva sollevato la testa dal suo quadernino e aveva squadrato Marco Ipranossian. Aveva trovato poco somigliante la foto apparsa sul Tirreno l’estate del suo arresto. L’uomo della seconda fila, la cui congiuntivite mal si adattava all’aria fredda dell’impianto di condizionamento rotto, aveva ascoltato l’udienza a occhi chiusi, seguendo interiormente le immagini che ogni intervento formava nel suo cervello. Quando la campana di San Zeno suonò mezzogiorno, Marco Ipranossian stava curvo sulla sua sedia. Ascoltava. Avvicinò al busto le mani informicolite, piegò e ripiegò le dita 15 Célia Houdart per mandar via il formicolio. Poi osservò l’incavo formato dai tendini che legano il pollice al polso, e nel quale, da bambino, metteva la sabbia o lo zucchero. 16