UN ROMANZO DI ALESSANDRO D`ALESSANDRO
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UN ROMANZO DI ALESSANDRO D`ALESSANDRO
PIERINO UN ROMANZO DI ALESSANDRO D’ALESSANDRO 1 concettina + vincenzo rosina+costanzo assuntina + delio giacomo filippo franco+(1)antonella+(2)myriam paolo+flora elissa anna+(1)nuto+(2)enrico emilio+roberta alessandro ginetta + desiderio angela + alberto andrea + antinea vincenza+italo pierluigi eleyson romina (1)massimo (2)francesco sirena+alberto manuel dino (pupitto) isabella cerasani gino figlio andrea carla giacomo [+ a 2 mesi] pierino + silvana giacomo + margherita gisa + vittorio Melania+mauro jacopo tiziano andrea+daniela federica Rita+ (1)cesare (2)roberto silvia+paolo fabrizio+(1)claudiana carlo 2 figli matteo e valerio 2 PREMESSA N.B.: Fatti e personaggi, narratore compreso, di questo e degli altri romanzi della serie sono solo frutto di fantasia: qualsiasi coincidenza con fatti o personaggi della vita reale è puramente casuale. Questo romanzo è il terzo dei sette che saranno raccolti sotto l'unico titolo “INFORMATIVE DLL'ARCHIVIO DI FAMIGLIA”; ciascuno di essi invece avrà come titolo il nome della persona di cui si racconta la vita. Si tratta di sette sorelle/fratelli, tutti nati in provincia dal 1923 al 1938 e tutti quindi variamente segnati dal fascismo: le loro singole storie, tra loro intrecciate, dovrebbero consentire, nei piani dell'autore, di far trasparire tra le righe quanto potente sia stata la fascistizzazione delle giovani generazioni ad opera del Duce e dei suoi pifferai. “Il fascino del fascismo.” avrebbe potuto essere un titolo altrettanto adatto alla serie. L'ordine di nascita dei personaggi è, come appare dalla genealogia posta in ex-ergo: Cettina, Assuntina, Ginetta, Angela, Pierino, Giacomo, Gisa; l'ordine di scrittura invece sarà Ginetta, Cettina, Pierino, Giacomo, Angela, Assuntina, Gisa: il lettore curioso comprenderà da solo le ragioni del mancato rispetto dell'ordine di nascita. Infine non appaia troppo presuntuoso l'autore se fornisce al lettore una chiave per leggere più agevolmente i sette romanzi. Ciascuno di essi è imperniato sulla figura e la personalità del personaggio che è nel titolo, però l'autore si è voluto divertire a selezionare, dell'enorme materiale a disposizione, ciò che riguarda eminentemente lui o lei e tutto ciò ha inserito nel romanzo di lui o di lei; ma, trattandosi di fratelli e sorelle, è chiaro che gli altri, come anche i genitori, i parenti e gli affini, appaiono in esso come comparse di secondo, terzo e anche ennesimo piano, così come gli episodi che riguardano loro ma non il personaggio principale. Il lettore deve avere perciò la pazienza di leggersi tutti e sette i romanzi o, se non gli va di leggerseli tutti, di tener presente che in quello o in quelli che legge molte cose e molti personaggi appena accennati in un certo luogo torneranno a tutto tondo solo nel capitolo che li riguarda direttamente. Questo per i personaggi principali; quelli secondari faranno comparsate più o meno in questo o quel romanzo o in più romanzi e perciò sono stati trattati dall'autore come personaggi trasversali dei quali il lettore non deve tener conto se non nella misura in cui essi sono tali. 3 Pierino State contente, umane genti, al quia. (Dante) Il ricordo che io ho di Pierino non è un ricordo, ma una vera e propria stigma che mi fu impressa da lui e da Giacomo a Sulmona quando io avevo fra i due o tre anni e già mi volevo impicciare di tutto. Loro due erano dei ragazzetti cresciutelli: a conti fatti Pierino era adolescente e Giacomo stava lì lì. Mi dicono, e io mi immagino perfettamente, che era una giornata di sole, forse già estate, e stavamo tutti e tre sul piazzale del casello di Sulmona, dalla parte retrostante. Loro due stavano facendo non so cosa con tanto di martello e scalpello, come loro solito, e io piccolissimo ma già in grado di stare in piedi da solo e di camminare speditamente devo averli raggiunti 4 all'improvviso tendendo la manina destra per arraffare quello che loro avevano fra le mani. Proprio in quel momento Pierino menò la martellata che mi aprì letteralmente l'indice all'altezza del tarso. Io cominciai a strillare come un'aquila, loro due si spaventarono a morte e cominciarono ad invocare l'aiuto di mamma mentre il mio sangue scorreva abbondantemente sporcando tutto. Mia madre mancò poco che svenisse, ma poi, necessità fa virtù, si fece coraggio, tamponò alla meglio la ferita e mi portò di corsa all'ospedale dove mi misero uno o due punti in modo così maldestro (Mo ce vò: lo sbrego era alla mano destra!) che la cicatrice è ancora lì a testimoniare questo evento di cui non ricordo nulla. L'ho raccontata così come me l'hanno raccontata i più grandi, ma io sono certo che a quell'età ero già in grado di memorizzare lampi della realtà che poi ho cercato di razionalizzare come archetipi (psicoanalisi) o come miti (antica Grecia). E' sicuro però che io mi ricordo esattamente di una volta che questi due ragazzi agili come gazzelle, dopo aver preso il sole quasi nudi sul piazzale abbastanza ben riparato, all'improvviso balzarono in piedi e corsero chissà verso quale meta o quale fine; forse avevano messo a punto qualche loro piano “delinquenziale” ed erano fuggiti per far perdere le loro tracce dal resto della famiglia; mi ricordo esattamente il velluto nero di Gisa con dei bottoni bianchi cuciti a “v” sul petto mentre piangeva inconsolabile perché i miei non le 5 permettevano di uscire; e come all'improvviso mio padre, innervosito da quella sua lagna, balzò fuori di casa per picchiarla e la rincorse a lungo lungo il viottolo che si inerpicava sulla balza costeggiante la ferrovia, poi si fermò perché gli mancava il fiato; mi ricordo soprattutto il buio della cantina di quel casello in fondo alla quale qualcuno aveva gettato, volontariamente o no, il mio bell'aeroplano avuto in dono dalla befana; ho già detto del mio incontro precoce con le mestruazioni delle mie sorelle o addirittura di mia madre o forse anche di entrambe; ma soprattutto mi ricordo le mattinate in cui mi levavo prestissimo perché non vedevo l'ora di uscire e andare a giocare dietro al palazzo. Ero piccolo piccolo, ripeto due o tre anni, mia madre mi lasciava poltrire un po', poi alle mie grida si alzava e mi depositava su una sedia dove mi avrebbe messo e allacciato le scarpe, cosa che io non sapevo ancora fare. Sette figli, il cui numero in quel casello fu accresciuto dagli sposalizi delle due sorelle più grandi fino ad arrivare ad undici: povera donna, non sapeva a chi dare i resti. Prepara colazioni, lava stira rassetta, insomma mi lasciava lì anche le mezzore prima di vestirmi e di mettermi le scarpe che mi avrebbero consentito di uscire e di andare a giocare con gli altri bambini. Io diventavo furibondo, strillavo chiamandola con quanto più fiato avevo in gola, piangevo, urlavo e, ahimè, quando capii che la cosa aveva effetto perché l'avevo imparato da mio padre, 6 bestemmiavo. A mia discolpa va detto che ciò accadeva solo di rado e solo quando mia madre mi faceva uscire dai gangheri ritardando troppo il suo intervento. Lei era una donna dolcissima e dotata di una pazienza infinita e quando succedeva che io bestemmiassi non mi puniva ma semplicemente mi rimproverava con toni dolci e sommessi che ovviamente ebbero poco effetto finché fui bambino ma, una volta cresciuto, mi trapassavano il cuore in modo tale che ancora mi duole e non bestemmio più per nessun motivo. Basta, mia madre non aveva finito di allacciare la seconda scarpa che io ero già saltato giù dalla sedia dirigendomi come un fulmine dietro al palazzo. Che cosa ci fosse di così attraente dietro al palazzo non lo sapremo mai. Probabilmente una squadra di ragazzini, come se ne vedevano in Italia nei tardi anni quaranta e nei primi cinquanta: con essi probabilmente intrecciavo i miei primi giochi dei quali però non ricordo nulla. Ricordo solo questo specialissimo rapporto con mia madre condizionato dalla cultura di Bolano, meno che medievale, per la quale il figlio maschio era tutto e poteva anche bestemmiare all'indirizzo della madre come poi ho visto fare più volte, mentre le femmine venivano degnate, sì e no, di uno sguardo se frignavano troppo. Probabilmente con la stessa foga sbattei la mia manina destra sotto il martello di Pierino che evidentemente non poté più fermare il colpo già partito. 7 Pierino nacque a Serchio undici anni prima di me e subito dopo quel primo maschio che la sorte aveva fatto morire poco dopo che era nato. Mia madre amava Pierino più di ogni altro di noi. Era venuto al mondo a colmare vuoti che prima sembravano incolmabili: portò nel mondo la leggerezza, la gioia, l'allegria a compensare quel lutto inconsolabile che aveva colpito la mia famiglia. Mia madre parlava apertamente di compensazione. Mentre era incinta di Giacomo primo, chiamerò così il bambino morto per distinguerlo dal secondo Giacomo, aveva sognato la Madonna che le si era presentata con in braccio un bambino e le aveva detto: “Ti sto per portare questo bambino, ma ricordati che non è tuo: è mio e dopo qualche giorno me lo riprenderò.” Mamma non raccontò a nessuno il sogno perché ne fu terrorizzata e si consolava pensando che la Madonna non poteva essere così cattiva. Ma quando poi il sogno di avverò, si sfogò raccontando a tutti quell'orrenda premonizione per cui durante i giorni del lutto sembrava la più determinata a mandare avanti la vita nonostante il dolore. Incinta di Pierino passò intere notti insonni lavorando a maglia o con l'uncinetto per fargli il corredino, ma in realtà perché non voleva dormire, terrorizzata dall'idea che la Madonna venisse una seconda volta a visitarla in sogno. Quando diede alla luce quel bambino di quattro chili, sano vispo e sempre sorridente lei si sentì rinascere. Lo prendeva 8 in braccio e sembrava che lui volesse parlarle quando con la manina le faceva capire chiaramente di scoprirsi il seno perché lui voleva il latte. Lei gli sorrideva e allora lui si concentrava sul suo sguardo storcendo un po' gli occhi e la osservava attentamente. Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem. Non c'è bisogno di tradurre, vero? E' Virgilio. Il figlio maschio di Pierino, anticipo un po', quando prendeva il latte dal biberon probabilmente lo faceva con la stessa foga e la stessa, direi, violenza. Mia cognata lo metteva in posizione. Con la sinistra lo reggeva e allungando la destra prendeva il biberon in precedenza preparato. Andrea non aspettava che fosse la madre a imboccarlo: incrociava gli occhietti, tendeva le manine con impazienza, afferrava il biberon e se lo portava alla bocca rapidamente incominciando a succhiare con la stessa foga e vuotandolo in un battibaleno; per cui arrivava alla fine sudato fradicio e pienamente soddisfatto. Ho sempre pensato che quel desiderio di cibo così concitato fosse un segno dell'amore per la vita sia del padre che del figlio, ma mi auguro naturalmente che la vita non gli presenti lo stesso conto salato che ha presentato al padre. Fra Pierino e mia madre si instaurò un legame che fu più forte del cordone ombelicale e quando arrivò il momento dello svezzamento che per Pierino tardò fino alla fine del secondo anno di vita lui non ne volle sapere. Niente il sale: Pierino prima si ciucciava 9 quello e poi giù con il latte; niente limone: pareva che fosse ghiotto di limonate che gli provocavano rigurgiti estenuanti; niente l'aceto: lo stesso. Non c'era verso di staccarlo dal seno di mia madre. Di giorno si riusciva a convincerlo con qualche surroga, ma la sera e la notte non c'era verso. Allora mio padre a cui quel primo maschio cominciava a stare antipatico se lo abbracciava e in giro di notte per la campagna fino alla capanna di qualche contadino dove Pierino si calmava a contatto con le pecore o con i cani. Ma appena mio padre innervosito e insonnolito cercava di tornare al chiuso e si alzava in piedi gli strilli si sentivano fino a casa. Il problema dello svezzamento di Pierino fu un problema serio. Continuò a cercare il latte di mia madre fino a sette anni e mia madre che era una latteria domestica gratuita qualche volta cedeva ai suoi garbati corteggiamenti. “Ma', vieni qua, ascìdete, damme le latte!” E mia madre che nel frattempo produceva latte per il figlio successivo non sapeva resistere a quel garbato invito di un piccolo gentiluomo. Ad appena un anno, quando ancora non sapeva camminare, raggiunse gattonando una bottiglia di vermut che una delle mie sorelle aveva lasciato a terra facendo pulizie; la rovesciò e si leccò tutto il vermut che lentamente sgocciolò dalla bottiglia. Quando capì che vermut non ne usciva più si allontanò barcollando, si fa per dire, perché ancora gattonava, e a un certo punto si addormentò profondamente sul 10 pavimento della cucina proprio sotto l'enorme tavolino che mio padre aveva fatto costruire appositamente per la numerosa famiglia che sognava. Cettina lo vide, non capì nulla e lo adagiò nella culla dove Pierino continuò a dormire profondamente ignaro della tragedia che stava per scatenare. Mia madre, al ritorno, si meravigliò che il suo bambino non fosse già sveglio e urlante per avere il suo latte. Prese atto del bel sonno in cui giaceva e pensando “si sveglierà” si dedicò alle altre faccende. Scaduto il tempo della ragionevole attesa però, incominciò a preoccuparsi e decise di svegliarlo; macché, Pierino continuava a “russare” come se non fosse affar suo. Mia madre cominciò a sudare freddo. Le sorelle, ancora delle ragazzine, avendo nel frattempo scoperto la causa di quel sonno ingiustificato, incominciarono a tremare per la paura della punizione; insomma l'atmosfera tragica calò su quella casa già così provata. Mia madre piangeva e ripensava al terribile sogno che aveva fatto prima della nascita del primo maschio. Mio padre non ci pensò due volte, saltò sulla sua bicicletta, andò in paese, si caricò il medico e lo portò giù. Il medico non seppe che dire. Visitò Pierino, trovò che tutto era a posto, disse che per lui quel sonno era inspiegabile e se ne andò dicendo che sarebbe tornato tra due ore perché fra due ore lo avrebbe trovato sicuramente sveglio. I miei genitori, traumatizzati dalla precedente esperienza, presero quella rassicurazione come un 11 preannuncio di morte e già in casa, dove era accorsa gente, incominciava il cordoglio che per i bambini allora era profondamente lugubre e cadenzato. Le mie tre sorelle erano terrorizzate. Salite nella loro camera, si stringevano tenendosi per mano pensando che avrebbero vissuto giorni terribili come quelli che si erano avuti dopo la morte di Giacomo primo. Abstulit atra dies et funere mersit acerbo. Anche questo è Virgilio ma rivisitato da Carducci. Ve lo traduco perché è meno noto dell'altro: “Un giorno nero lo rapì e lo consegnò a morte precoce.”. Ma per la fortuna di tutti non andò così. Bazzicava casa a quei tempi una contadina delle campagne circostanti, tale Filumena (Filomena) che di creature se ne intendeva. Capì che il mistero di quel lungo sonno lo avrebbero potuto svelare solo le tre sorelline a cui il bambino era stato affidato dai genitori. Le prese da parte. Giurò e spergiurò che qualsiasi cosa le avessero detto lei non lo avrebbe riferito ai loro genitori e così riuscì a carpire loro il segreto di quell'interminabile sonno. E quando riuscì a sapere di che cosa si era trattato non ce la fece a mantenere la promessa: incominciò a gridare fra le lacrime e a chiamare mia madre e mio padre perché si rassicurassero dato che il bambino era vittima di una sbornia che presto gli sarebbe passata. Una sbornia? Mio padre chiese spiegazioni e, avutele, rassicurò le bambine spaventatissime che non ci sarebbe stata nessuna punizione in quanto loro non erano 12 responsabili di quello che era accaduto. Ma allora chi era responsabile? Mio padre era strano davvero. Nella sua testa c'era che quel maschio rompiballe si sarebbe succhiato questo mondo e quell'altro e che sicuramente sarebbe divenuto un alcoolizzato. Niente di tutto questo, ma intanto era stato seminato nel suo cuore il germe di quella ostilità contro Pierino che, più o meno dissimulata, durò per tutta la sua vita. Si può dire che non sopportò mai quel maschietto così intrigante che riusciva quasi sempre a ottenere la soddisfazione di un desiderio innaturale (il latte della madre anche oltre i due anni) e, quando crebbe, se c'era qualcuno a cui dare un po' di botte, quello era Pierino. Giacomo praticamente riusciva sempre a sottrarsi alle punizioni niente montessoriane di mio padre perché approfittava della indifferenza di Pierino verso quell'uomo manesco e volgare. Quando si inferociva (ma non più ai miei tempi!), si sfilava la cinta e frustava i figli lasciando il segno fino a quando mia madre non interveniva con la sua autorità di donna che ormai lo teneva per le palle. Bene! Pierino non capiva quell'accanimento da parte di un uomo a cui voleva bene e che gli avrebbe dovuto voler bene, e dopo i suoi scherzi terribili rimaneva sempre lì a godersi lo spettacolo e a prendere le botte mentre Giacomo riusciva sempre a svignarsela. Pierino era un tipo buono nel significato più ovvio del termine, e anche mio padre era buono, ma fra quei due non corse mai buon sangue. Mio padre 13 proiettava su quel primo figlio maschio quello che Pierino, come vedremo, non poteva dargli, cioè un religioso, e Pierino pretendeva dal padre la raffinatezza della famiglia di mia madre che mio padre non conobbe mai. La famiglia di mio padre era soprannominata, come si faceva a quei tempi nei paesi, la famiglia “ 'e Scoreggione” (dei “Scoreggione”) perché, probabilmente per una genetica malformazione della pancia, tutti i componenti, dal suo bisnonno fino a me, erano costretti quando necessario a liberarsi di enormi meteorismi spesso rumorosissimi. Ciò che mio padre faceva regolarmente anche in nostra presenza e anche in presenza delle figlie femmine privilegiando sempre, anche a tavola, i discorsi di tipo scatologico spesso conditi da emissioni poco piacevoli. Pierino detestava tutto ciò e non potendo combatterlo apertamente aveva trovato una forma molto garbata per contestarlo. Era riuscito ad ottenere un controllo notevole del suo corpo e a controllare quindi in se stesso la formazione dell'aria nell'intestino che poi era in grado di emettere quando voleva e nella quantità che voleva. Una vera e propria arte sfoggiata a richiesta in piccoli spettacoli che, quando era in forma, ci facevano scompisciare dalle risate. Ma di questo parlerò dopo. Fra i due insomma si era instaurata una antipatia che giustificava pienamente la predilezione di mia madre per Pierino. Questo figlio era il figlio 14 suo, quello che la riportava alle delicatezze di suo nonno o a quelle del mastro che da bambina le aveva insegnato a costruire le macère, cioè dei contrafforti di sassi contro i terreni franosi per le piogge. Lo sentiva sempre vicino a sé, anche quando stava a scuola o stava fuori a programmare i suoi scherzi esilaranti. Sentiva sempre la dolcezza di quel modo di suggere la mammella che solo lui tra gli altri figli sapeva condire con un che di sensuale di cui lei non sapeva darsi spiegazione. Amava la sua signorilità, il suo senso della misura, la sua eleganza, il suo portamento virile e deciso che solo a vederlo ti diceva tutto su di lui. Certo che con papà non poteva andare d'accordo! In particolare lo faceva imbestialire il modo come mio padre mangiava. Papà era un buongustaio vorace e onnivoro: una fame atavica lo tormentava costantemente per cui certe volte mia madre temeva che come Crono si volesse rimangiare anche i suoi figli. Perciò quando si metteva a tavola non mangiava esattamente come un lord inglese. Si riempiva la bocca oltre il limite consentito e poi assaporava il cibo a bocca aperta emettendo un rumore che noi definivamo “sbattere”, ma “sbattere” era un termine inappropriato e che non rendeva minimamente il rumore che egli faceva. Era un suono non facilmente descrivibile. Dichiaro di essere in difficoltà. Immaginate uno che faccia con tutto l'apparato orale “gnam, gnam, gnam” in continuazione, ma non a bocca vuota, bensì con la 15 bocca piena di cibo. Solo lui ci riusciva non facendo fuoruscire nemmeno un ette del cibo ingurgitato. Emetteva in compenso un rumore simile a quello che facevano una volta le lavandaie quando sbattevano i panni nell'acqua per risciacquarli. Ecco, ci sono: onomatopeicamente era uno “sciacquo sciacquo sciacquo” senza interruzione col quale mio padre coniugava la soddisfazione del gusto e quella della fame in modo, diciamo così, musicale. Nessuno di noi gradiva quei concerti. Ma mio padre era irremovibile: lui o mangiava così o mangiava così. Mio fratello si alzava imbufalito da tavola fra il nervosismo di mia madre e l'indifferenza di lui, divertito da quel figlio così signorino da non poter ascoltare come mangiano i veri uomini. Era un patto, secondo me, stipulato da loro tacitamente e di comune accordo, per neutralizzare uno scontro ben più profondo. C'era in palio il possesso di mia madre al quale mio padre non avrebbe mai rinunciato a costo di ammazzare qualsiasi contendente. Ma non ce ne fu bisogno. I due contendenti furono capaci di trovare degli accomodamenti. Questa indifferenza di mio padre verso ogni nostro tentativo di fargli capire che aveva ragione Pierino un po' ci faceva ridere e un po' si sopportava tutti perché anche lui era un uomo sostanzialmente buono e quel comportamento si capiva che era un retaggio della famiglia di provenienza, di origine contadina. Accomodamenti di che tipo? Bene, pensate che Pierino ancora 16 adolescente aiutava le mie sorelle grandi, anche loro delle vere e proprie latterie, quando, dopo sposate, qualche eccesso di latte le infastidiva. Lui, senza pensare né a Freud né a Jung, dei quali del resto non sapeva niente, si attaccava tranquillamente al seno delle sorelle e si saziava di quel latte di cui sembrava insaziabile. E mio padre lasciava correre divertito. A chi faceva male Pierino? A Freud e a Jung? Ma lui non sapeva manco chi fossero e poi volete metterli con Dante? Questa grande confidenza di Pierino con mamma e con le sorelle più grandi non fu corrisposta sul piano del carattere da un'uguale intraprendenza nei confronti delle donne non di famiglia. Pierino, bello, spigliato, amante della compagnia, però con le donne non ci sapeva fare. Anzi in generale era timido. Si vergognò sempre di andare a comprare qualsiasi cosa nei negozi e, divenuto adulto, quando la carne premeva, a comprare i preservativi ci mandava Giacomo che invece aveva il carattere opposto. Dove andasse a fare sesso, onestamente, tranne che per un paio di casi, non lo so, ma lo posso benissimo immaginare. Le donne lo sconvolgevano nella stessa misura in cui lui non sapeva trattarle. Quando sarà il momento vedremo, per esempio, in che strano modo trovò moglie. Per sua fortuna subito dopo di lui nacque Giacomo e i due crebbero insieme praticamente alleati contro quel mondo di donne che li sovrastava 17 avvolgendoli e seducendoli continuamente. Pierino era perdutamente innamorato di Ginetta e in second'ordine di Cettina, Giacono di Cettina e in second'ordine di Ginetta. Minore accoglienza trovava in loro Assuntina che avendo un carattere molto duro e legalitario non sempre era disposta alle smancerie che alle altre piacevano tanto. In realtà Assuntina fu l'unica che li amò veramente. Lei aveva sistemato fin da subito la differenza maschio/femmina e quella endo/esogamico e aveva per tutti i maschi un debole che era incapace di camuffare. Quando si sposò lasciò me e quei due ragazzi angosciata per i pericoli a cui saremmo potuti andare incontro senza di lei. Delle altre sorelle non gliene fregava niente: erano soltanto delle donne, come diceva Fassbinder. Fino ai cinque anni Pierino visse felicemente perché poteva baloccarsi all'interno di quel castello di Atlante in cui c'erano sei donne tutte per lui e un padre da lui considerato un eunuco, abbastanza indifferente, ma, tutto sommato, nei momenti buoni, anche amorevole. I problemi di Pierino incominciarono con la scuola. E' come se lui fosse venuto al mondo con precise idee innate su di sé, sul suo corpo, sul suo destino: la sua intelligenza il DNA gliel'aveva messa negli arti, non nel cervello; lui si rifiutò, per tutta la vita, di concentrarsi su un problema teorico e di riflettere su di esso; parlargli poi di libri era come minacciarlo di tortura. Pierino non prese mai 18 posizione su nessuno dei temi che lo riguardavano. La famiglia? Lui voleva bene e basta. La scuola? Una scocciatura inutile. La società? E che è? La religione? Va bene quella che c'e'. La politica? Di nuovo: e che è? Insomma una di quelle esistenze che nel nostro paese soltanto, credo, sono capaci di trascorrere interamente al di sotto della storia. Pierino visse a Roma gli ultimi trent'anni della sua vita. Bene! Non si recò mai a piazza Montecitorio; a Piazza Sant'Eustachio sì, ma di notte, per andare a prendere il caffè in un bar di quella piazza a quei tempi celebre e soprattutto per farsi un giro in macchina. Non si girò comunque mai verso Palazzo Madama né tanto meno verso Sant'Ivo alla Sapienza. Qualche volta portò i figli piccoli a Piazza Navona per le bancarelle della Befana, ma non si accorse neanche di Sant'Agnese o della fontana dei fiumi. Insomma in modo più colpevole di Cettina aveva interrotto prima del tempo i suoi rapporti col mondo e con la conoscenza di esso. Perché? Più in là vi dirò la mia ipotesi. Intorno ai due anni vi fu il primo abbandono del mondo e dei suoi problemi perché tutto si risolveva nella ricerca del latte materno; alla fine dei sei anni la rottura con la scuola fu immediata: perché imparare a scrivere? A che serviva? Perché imparare a leggere, cosa del tutto inutile? Perché restare fermi e in silenzio per ore e ore a sentire scempiaggini di cui non gli importava nulla perché per lui non avevano alcuna utilità? Fino ai 19 quattordici anni la ricerca del seno femminile fu una vaga ed opaca ricerca della donna, per cui tutto il resto era assolutamente inutile; dopo l'adolescenza la ricerca del seno si allargò alla ricerca della fica e lì, nella fica, si concluse per sempre il mondo di questo fratello che, se ne avesse avuto la volontà, avrebbe potuto fare grandi cose. Inutili, va bene, perché alla fine è morto lo stesso; ma almeno si sarebbe potuto sottrarre alla nefasta influenza di Ginetta che se lo era, per così dire, re-infilato nella sua, di fica, e lì se lo tenne per tutta la vita allo stato di feto nuotante nel liquido amniotico, che era la sola condizione che a Pierino piaceva. Sul finire dell'infanzia però, proprio per tramite di Ginetta, egli aveva subito una specie di trauma che lo condizionò credo per tutta la vita. Erano i primi anni del dopoguerra e ovviamente i racconti del quinquennio bellico fiorirono a iosa e si diffusero per tutta la penisola. Un giorno che Ginetta stava parlando con una sua amica, Orsolina, Pierino sentì Orsolina che in dialetto diceva a Ginetta con l'aria di dire una cosa di enorme gravità “Giné, a Napoli i suldate viulinìvene i vagliulìtt!” volendo dire: “A Napoli i soldati violentavano i ragazzini!” Ginetta ebbe una specie di soprassalto e rispose all'amica: “Oddio e quelle povere madri come la prendevano?” “Macché povere! quelle erano loro che gli portavano i figli piccoli per un po' di dollari. Giné, la fame!” Pierino legò quel viulinìvene all'idea del violino e 20 come al solito elucubrò che i soldati americani di stanza a Napoli durante la guerra obbligavano i ragazzini a studiare il violino di cui per altro lui aveva una certa conoscenza grazie a Delio allora già fidanzato con Assuntina e sul punto di convolare. E si chiedeva come fosse possibile che delle madri snaturate potessero obbligare i loro figlioletti a studiare uno strumento che in seguito non gli sarebbe servito a niente. Intanto assillava di domande Delio, amante del violino che suonava anche abbastanza bene: era stato costretto a studiarlo? Lo aveva scelto liberamente? Insomma non sapeva darsi ragione di quel fatto strano: soldati di occupazione che costringono i ragazzini dei paesi occupati a studiare il violino. Pierino era così: non pensava mai al peggio e forse per lui il peggio era solo un'idea riferibile al suo personale giudizio. Sia come sia, era terrorizzato da quell'idea che un giorno mia madre lo potesse portare a forza a studiare il violino se fossero arrivati gli Americani. Forse fu l'unica volta che Pierino prese temporaneamente posizione: meglio i Tedeschi che gli Americani, almeno quelli non ti costringevano a suonare il violino! E lasciava spesso mia madre stupita perché le chiedeva: “Tu non mi ci porteresti a studiare il violino se arrivano gli Americani.” Mia madre gli rispondeva divertita: “Pierino, gli Americani sono già arrivati e se ne sono pure andati e soprattutto non obbligano nessuno a studiare il violino.” Parole chiare che lo avrebbero dovuto 21 sollevare da qualsiasi dubbio; ma lui non approfondiva mai, non indagava e in fondo restava sempre ancorato saldamente alle sue paure. E se tornavano? E se quelli che tornavano magari volevano insegnare davvero a suonare il violino? Insomma come per tanti altri problemi la sua vita, come quella di tutti i miei fratelli e sorelle, fu tormentata da paure infondate che in qualche modo gliela condizionarono gravemente, come nel caso di Cettina, fino al limite dell'esistenza mancata. Il rapporto di Pierino con la scuola fu il più tormentato fra quelli avuti dagli altri fratelli e sorelle. Visse per dieci anni nella condizione del ripetente. A un certo punto non lo sapeva più neanche lui quale classe stesse ripetendo. Bolano poi, dove frequentò le elementari in piena seconda guerra mondiale, non era certo l'humus più adatto. Scherzando lui diceva che non aveva potuto studiare perché con tutte quelle bombe che facevano rumore gli era impossibile concentrarsi. Possedeva un humour irresistibile come tutti quelli che debbono contenere dentro un dolore inconfessabile. In questo informativa cercherò di venire a capo del problema. Che cosa voleva reprimere dentro di sé questo fratello bello come Nembo Kid, un eroe dei fumetti di allora? Ripeto, io un'ipotesi ce l'ho e piano piano cercherò di farla venir fuori tra le righe. Il suo compagno di sempre, il suo alter ego che rimase con lui fino a quando non prese moglie fu 22 Giacomo, il fratello nato due anni dopo di lui e dunque quasi suo coetaneo. Quasi tutte le bravate di Giacomo portavano la firma di Pierino e quasi tutti gli scherzi da Pierino organizzati avevano come complice Giacomo. Insomma un tandem che essendo durato trent'anni quando la vita lo scisse lasciò in ciascuno dei due un vuoto incolmabile. Perché? Perché in qualche modo si facevano la guardia l'uno con l'altro. Ciascuno dei due aiutava l'altro a sopportare l'angoscia di una natura sostanzialmente contraddittoria e in definitiva nevrotica. Incominciarono a fumare insieme all'età di otto anni, Pierino; sei, Giacomo. E fumarono sempre per il resto dei loro giorni, salvo un'interruzione di nove o dieci anni prima che morisse, imposta a Giacomo dal cardiologo. La sigaretta fu per loro, come del resto per me fino a quando non ne capii la funzione devastante, l'equivalente universale di ciascun loro desiderio, anche infimo, ma soprattutto neutralizzava quel desiderio inconscio che in loro non affiorò mai perché troppo angoscioso. Presto forse riuscirò a dire di che si trattava. Abbiamo già raccontato degli scherzi a Cettina, ma loro non erano autori soltanto di scherzi; erano anche autori di bravate pericolosissime. Già grandicelli, nelle loro scorribande nei dintorni di Bolano scoprirono, interrata nel Fucino, una bomba americana inesplosa. Fu uno o due anni dopo la fine della guerra. Loro due, insieme a qualche altro 23 sciagurato, la dissotterrarono e la trasportarono a spalla tutti insieme fino al paese. Avrebbe potuto essere una carneficina: cinque o sei ragazzini disintegrati dallo scoppio di un ordigno residuato di guerra non disinnescato. Non occorre andare lontano. Il futuro sposo di mia sorella Gisa, che era di Roma e a Roma abitava con i suoi due fratelli, aveva il fratello mezzano con due dita in meno nella mano destra per l'esplosione di una bomba con la quale stava giocando insieme a dei compagni. Quando mio padre vide quei ragazzini, fra i quali i suoi due figli, come era uso nella nostra famiglia di allora, si inginocchiò e cominciò a gridare invocando tutti i santi del paradiso affinché gli risparmiassero quella strage e ordinando immediatamente ai suoi figli e agli altri di depositare delicatamente a terra quell'ordigno. Cosa che tutti fecero, ma i primi furono Pierino e Giacomo per potersi prendere un vantaggio su di lui fuggendo all'impazzata. Corsa inutile perché mio padre si dovette occupare subito della bomba rivolgendosi alle autorità preposte e non pensò quindi minimamente a inseguirli. Come tutti i ragazzini cresciuti durante la guerra anche quei due miei fratelli avevano una grande passione per le armi e così una volta tutti e due furono autori di un'altra bravata che per poco non costava la vita a Giacomo. Presero la pistola che mio padre teneva non si sa perché riposta in un cassetto del comò, quella che 24 impugnava la notte del sabba provocata da mia nonna e raccontata nel romanzo di Ginetta, e insieme si recarono in una cava convinti che lì avrebbero potuto sparare senza conseguenze. Non sapevano niente di bossoli o di traiettorie alternative che le pallottole possono seguire quando il colpo incontra un corpo resistente. Spararono, sì, ma Giacomo sentì un fruscio in testa che gli fece la scriminatura fra i capelli. Sarà stato il bossolo? Sarà stato il proiettile stesso? Non lo sapremo mai. Fatto sta che i due incoscienti, vista l'emozione che avevano provato, quando andarono a riporre la pistola al loro posto, vollero provare di nuovo. Uno dei due comodini della camera da letto dei miei, ereditata da me, reca due fori: uno nello sportello e l'altro nel fondo del comodino stesso; poi per loro fortuna, incontrato il muro, il colpo sfiancato già da due ostacoli non ebbe la forza di tornare indietro. Ma la botta fu tremenda e l'intera casa rimbombò: mia madre accorse disperata non capendo che cosa stesse succedendo e quando arrivò in camera li trovò bianchi come un cencio per lo spavento e li riempì di botte. Ma le botte di mamma per quei due diavoli erano carezze. Povera mamma! Stette tutto il giorno a pensare se doveva o no informare mio padre. Poi, temendo quelle sue scenate che disturbavano non poco la sua innata signorilità, decise di non farne niente e probabilmente questo suo difensivismo unilaterale, che lei contrapponeva alla severità solo estemporanea di mio padre, furono la causa prima 25 della crescita sballata di quasi tutti i componenti della nostra famiglia, me compreso. Ma meno male, verrebbe voglia di dire. Sette personalità, una diversa dall'altra, eppure tutte sottese da un'uniformità che oggi si direbbe trasversale, sono le fondamenta solide di questo mio lavoro che io dedico a tutte loro nel disperato tentativo di salvarle dalla seconda morte. Fra uno scherzo e l'altro Pierino era arrivato a sedici anni e ancora stava frequentando il secondo avviamento professionale, un tipo di scuola che ora non c'è più. Si vergognava di andare a scuola con bambini di cui sembrava il padre e quindi ci andava poco. Quando aveva i soldi, si comprava le sigarette e se ne andava in giro per Sulmona sicuro che in una città per lui così grande non avrebbe fatto “pericolosi” incontri; ma quel giorno il diavolo ci mise la coda e mentre camminava tranquillamente fumando per uno dei vicoli di quella città, a un incrocio si incontrò faccia a faccia con mio padre che non è escluso che avesse ricevuto qualche spiata. O che fosse così o che i riflessi di quel giovane padre fossero ancora prontissimi, Pierino fu colpito da un ceffone istantaneo sulla bocca che gli fece ingoiare la sigaretta ancora accesa. Ci fu un po' di trambusto, una semi-colluttazione... poi, siccome era sostanzialmente un ragazzetto mite, Pierino senza versare neanche una lacrima, mentre mio padre lo riportava a forza verso casa, si espresse con estrema chiarezza: lui a scuola non ci sarebbe andato più, non poteva tollerare che gli 26 altri stuenti lo salutassero scambiandolo per un professore, che i professori lo mettessero continuamente alla berlina perché non sapeva né voleva sapere nulla. Rientrarono che il problema era più di mio padre che di Pierino. Lo mandò di sopra, cioè al piano di sopra dove Pierino si sarebbe gettato sul letto aspettando indifferente il verdetto e, convocata mia madre, le espose il problema nella speranza di disfarsene. Mia madre quella volta pianse amaramente. Che male aveva fatto perché quel figlio amatissimo dovesse essere così ostile allo studio? Ne avrebbe voluto fare un professore, un avvocato, un giornalista, un ingegnere, insomma uno di quelli che contano, ma non si può andare in paradiso a dispetto dei santi. La carriera scolastica di Pierino finì per decisione unanime dei miei genitori i quali nel frattempo avevano anche perso la pazienza con Giacomo che ne combinava una appresso all'altra. Posso dire che mentre Pierino la realtà non la vedeva proprio, perso com'era dietro alla ricerca di una donna, Giacomo la realtà la vedeva sempre secondo un suo punto di vista falso. Tanto per fare un esempio: quando fui verso i sedici anni anch'io, e cominciavo ad andare al cinema da solo, dicevo a tutti che io non aveva bisogno di leggere le critiche dei giornali per scegliere un film: mi bastava consultare Giacomo: se diceva che era bello, allora il film era assolutamente da evitare; ma se diceva che era brutto bisognava 27 subito buttarsi a vederlo prima che lo ritirassero dai circuiti cinematografici. I nipoti, più giovani di me, erano ancora più drastici: dicevano che zio Giacomo apriva bocca e gli dava fiato. Cosa fece decidere i miei genitori a dare una svolta alla vita dei due ragazzi fu il fumo. Pierino fumava a più non posso perché la sigaretta, come detto, per lui era l'equivalente universale di tutti i piccoli desideri repressi e lui, l'unico desiderio che aveva, era quello di attaccarsi al seno di mia madre che gli si era fissato in testa e non lo abbandonava mai; Giacomo fumava per imitare il fratello più grande e trascorrevano così il loro tempo, fra il fumo di una sigaretta e l'invenzione di stratagemmi per rimediarle. Negli anni immediatamente dopo la guerra il fumo era una specie di status symbol. Chi poteva permettersi di fumare sfoggiava la sigaretta con gesti codificati, oggi risibili, ma a quel tempo pieni di fascino. Giacomo si inventò di vendere la gatta di casa, per altro guercia a un occhio, al figlio scemo del tabaccaio che la acquistò per un pacchetto di nazionali, ovviamente sottratte di nascosto al padre. La vendita si ripeté due volte perché naturalmente la gatta tornava da noi e si sarebbe ripetuta ancora se non se ne fossero accorti i grandi e non avessero posto fine a quel vergognoso mercimonio. Giacomo non fu punito da mio padre che naturalmente dette la colpa a Pierino perché era lui che istigava il fratello più piccolo a fumare. La guerra dei miei contro il 28 fumo fu una guerra persa in partenza. Mia madre strepitava perché non poteva sopportare che i soldi andassero letteralmente in fumo; mio padre perché doveva obbedire ai suoi diktat perentori; ma quando poi, dopo poco, la famiglia si trasferì a Roma, dato che le due sorelle romane fumavano, i due manigoldi pensarono bene che anche a loro sarebbe stata lasciata via libera. E così fu. Intanto a Bolano, dove eravamo tornati, i due discoli stavano dissipando la loro vita senza concludere niente. Pierino si divertiva inventando scherzi rimasti nella memoria di tutti perché particolarmente divertenti; Giacomo lo seguiva guardando estatico una realtà di cui non capiva nulla, ma tanto non ci faceva niente perché c'era Pierino. Il quale un giorno, visto che un cantoniere procedeva sempre sguardo a terra, anche quando andava in bicicletta, nella speranza di trovare qualcosa di utile da riportare a casa, architettò uno scherzo tanto divertente quanto rivoltante. Prese un tubetto di mastice, allora si usava per riparare le gomme bucate delle bici, che era praticamente finito, lo vuotò del tutto, ne ricompose l'involucro di latta come se fosse nuovo, lo aprì dal fondo e dal fondo lo riempì di cacca di gallina opportunamente fatta ammorbidire fino a renderla molle come il mastice stesso. E quindi lo richiuse per bene. Compiuta l'opera, quando arrivò l'ora nella quale abitualmente il cantoniere rientrava dal lavoro passando in bicicletta davanti al nostro 29 casello i due discoli misero il tubetto ristrutturato in bella vista in mezzo alla strada e si appostarono in attesa. La vittima arrivava in bicicletta e dunque loro non fecero caso ai passi che si stavano avvicinando e che erano di mio padre e dell'ingegnere che le Ferrovie avevano mandato a fare un controllo lungo la linea. Quando se ne accorsero era ormai troppo tardi: l'ingegnere aveva già raccolto il tubetto e, stupito che qualcuno l'avesse perso così nuovo, lo aprì quasi automaticamente e se lo avvicinò al naso per gustare il tipico odore dei mastici con cui gli ingegneri hanno dimestichezza e che gli piace anche, direi. L'espressione nauseata di quel pover'uomo avrebbe meritato una foto se i ragazzi avessero avuto a disposizione una macchina fotografica, ma non ce l'avevano e per anni ci siamo dovuti accontentare del loro racconto. Una cosa terribile nelle famiglie sono i racconti ad uso della casa. La nostra per esempio si era costruita nel tempo una specie di aneddotica riguardante questo o quello di noi, che è poi quella di cui io mi servo per raccontarvi i miei fratelli e sorelle, una aneddotica che serviva a oscurare tutti i problemi reali che un gruppo così folto in un periodo così nero covava al suo interno senza rendersene né volendosene rendere conto. E dunque estenuanti pranzi o cene dove come dei matti continuavano a raccontarsi questi insignificanti episodi ridendone 30 ogni volta, e sono state infinite, che qualcuno li rievocava. Più tardi venne in voga uno spettacolino serale che aveva un musichetta nota a tutti gli italiani che oggi hanno più di cinquant'anni. Si tratta di “Carosello”. Bene, quando il marito di Rosetta a tavola sentiva il primo di questi aneddoti incominciava a intonare la musichetta di Carosello volendo dire che la famiglia incominciava ad incensarsi non si sa poi per quale motivo perché tutti i protagonisti non ci facevano mai una bella figura. Dopo i caroselli di Costanzo l'intollerabile consuetudine mano a mano scomparve anche se ogni tanto come l'idra di Lerna ritirava e ritira fuori una delle sue teste e allora giù con aneddoti su aneddoti per lo più già noti e quindi noiosissimi. Non per me tuttavia, perché io mi divertivo a studiare le varianti e soprattutto le discussioni fra i miei fratelli sulle diverse versioni dei fatti raccontati. Ma mamma c'era? Ma no, che dici? Mamma era andata ad accompagnare Pierino a scuola. Non te lo ricordi? E allora giù ad ammonticchiare particolari su particolari per avvalorare la propria versione. Una vera e propria tortura per chi non aveva l'interesse, allora anche a me ignoto, di natura, diciamo così, narratologico. La sera del mastice i due scomparvero e ci fu una grande scenata di mio padre che in questi casi non li riconosceva come suoi figli e inveiva contro 31 mia madre: “I figli... i tuoi figli!” e tutti facevamo finta di essere contriti per il comportamento irresponsabile di quei due. Fumo, scherzi, fannullaggine: alla fine i miei non ne potevano più ma non avevano neanche la possibilità di escogitare una qualche soluzione possibile. Quando non ne poteva più mio padre, con la scusa del lavoro, andava a Roma a parlarne con Assuntina e con Ginetta, le quali non bastavano a se stesse, figuriamoci se potevano trovare una soluzione a un problema così; mentre mia madre, con la scusa della spesa, si rifugiava da Cettina nella speranza di trovare almeno un po' di consolazione, ma Cettina non sapeva far altro che inveire contro quei due manigoldi che pure amava perdutamente. Alla fine ci pensò il caso. Molti tra parenti e conoscenti cominciarono a interpretare gli atteggiamenti estatici di Giacomo come un segno della sua profonda religiosità e mio padre che aveva sempre sognato un figlio maschio prete o frate gongolava di questo nella speranza che si avverasse il suo desiderio e si dava da fare per inculcare in quel ragazzetto incorreggibile l'idea che si poteva anche studiare tra le mura di un collegio insieme a tanti altri compagni e guidati da sacerdoti che sapevano veramente insegnare ai ragazzi. In quel periodo tornò a Bolano a predicare, per la festa del santo patrono, tale padre Pietro, che una quindicina di anni prima lo aveva talmente affascinato che lui se ne era ispirato 32 per dare il nome a Pierino. Non gli sembrò vero, a mio padre, di condurre tutte le sere i due ragazzi ad ascoltare il predicatore e Giacomo, che del tutto stupido non era, si lasciò affascinare dalla parola di quel frate, ma soprattutto dal silenzio che essa riusciva ad imporre su un uditorio sterminato. Insomma arrivò per Giacomo la crisi mistica. Si convinse che andare in convento a studiare con i frati sarebbe stata per lui la cosa migliore. Fu un vero e proprio colpo basso per Pierino ma i miei avevano pronto anche per lui un piano, anche se diverso. Quando Giacomo arrivò a Pietrelcina già vi faceva il bello e il cattivo tempo un frate dalla personalità portentosa che quando glielo presentarono storse la bocca e mormorò al rettore: “Non è quello che pensa il padre. Che non si vede che questo è nato per andare puttaniando?” Il rettore si scandalizzò non poco ma il santo frate aveva, come sempre, ragione. E certo! Era ispirato da Dio che gli aveva concesso anche le stimmate. A me solo ne aveva concessa una sola e non nel posto proprio preciso e che comunque non si sarebbe riaperta mai più! Giacomo infatti non ci resistette molto in quella vita cadenzata ora per ora; ogni volta che gli era concesso tornava a casa senza però avere il coraggio di dire che quella faccenda non gli garbava punto. Una volta addirittura scappò ma fu riacciuffato. Insomma tutta la famiglia alla fine capì che la cosa non poteva durare. E infatti non durò. Giacomo che si 33 scalmanava nel gioco del pallone per distrarsi da quella prigione, in uno scontro più duro ebbe un ginocchio massacrato e da lì fu segnato per sempre il suo destino. Divenne un valetudinario che passò la sua vita fra letto e lettuccio, in casa o di ospedale, sostituendosi ai medici per curarsi e quindi arrecandosi più danni di quelli che erano già di per sé inevitabili. Intanto mentre lui era in collegio mio padre aveva provveduto ad impegnare anche Pierino. Avevano notato tutti la sua passione per il ciclismo. Erano i tempi di Bartali e Coppi e della grande passione per questo sport diffusa dalla radio. Inoltre Pierino si può dire che ormai viveva sulla bicicletta di mio padre per compiere, mentre lui lavorava, continue scorribande nei dintorni del paese e spesso si vantava di aver coperto lunghe distanze in poco tempo e senza fatica. Mio padre pensò bene che sarebbe stato un affare, anche se molto dispendioso, acquistare una bicicletta da corsa per Pierino, anche per recuperare la sua, di bicicletta, che ormai non vedeva più perché era sempre impegnata da lui. Pierino quando la vide ne fu entusiasta e subito si sognò come un novello Coppi, al quale per altro somigliava, ma molto molto più in bello. Incominciarono quindi allenamenti estenuanti, sudate grondanti, fami insaziabili ma che lui straordinariamente sapeva tenere a bada senza conoscere nulla delle famose diete a cui gli sportivi vengono assoggettati dai loro torturatori, cioè 34 nutrizionisti. Divenne ancora più bello: gli occhi che da bambino storceva per concentrarsi sul volto di mia madre avevano conservato un leggero strabismo, quello che nelle donne viene chiamato “strabismo di Venere”, che, unito ad una motilità impressionante dello sguardo, ma dovrei dire della “guardatura”, come si diceva in famiglia, facevano di lui un giovanotto assolutamente affascinante. Le donne, tutte, se lo mangiavano con gli occhi, ma lui sembrava non accorgersene; totalmente invasato da quella bicicletta sulla quale appoggiava tutte le sue speranze rimaneva lontano da casa per intere giornate impiegate in vere e proprie tappe come quelle, diceva, che si facevano al giro d'Italia. Ma poco tempo dopo l'incidente che aveva stroncato la carriera religiosa di Giacomo una rovinosa caduta stroncò anche quella sportiva di Pierino. Rovinosa non tanto perché gli avesse procurato danni gravi ma perché da quella caduta in poi Pierino fu pervaso da una paura che non lo lasciò più. Hai voglia a dirsi che non era successo niente, che doveva ricominciare dimenticando quell'incidente di per sé banale ma così scenografico da dargli tutto il tempo, per accogliere dentro di sé un rifiuto, dovuto a paura, di quello sport che lo aveva affascinato tanto profondamente. Era demoralizzato, ma quando tornò Giacomo non poté resistere alla tentazione di accoglierlo con uno scherzo anch'esso rimasto negli annali. 35 C'eravamo un po' tutti ad accoglierlo. E come stai? E come e andata col ginocchio? Ma hai veramente intenzione di non tornare più a Pietrelcina? Pierino invece lo accolse con un festoso “Ho imparato un trucco stupefacente che mi ha insegnato il mago di Serchio (praticamente un ciarlatano che ingannava i bolanesi ignoranti leggendo il loro destino sul libro del Rutilio [sic!]). Io esco e se tu prendi una posizione strana io da fuori senza vederti indovino esattamente qual è la posizione che hai preso. D'accordo? Appena sei pronto, tu chiamami e chiedimi ad alta voce: 'Pierì, come sto?' e io indovino tutto.” La trovata incuriosiva un po' tutti; alcuni di noi erano increduli conoscendo il tipo; ma Giacomo, preso di contropiede anche dalla situazione cadde nella trappola. Pierino uscì, in attesa della sua chiamata che però tardava per le molte prove che faceva nel cercare la postura più bizzarra possibile e rendergli in tal modo impossibile la soluzione; alla fine decise di rimanere seduto sulla sedia e di mettersi l'indice e il medio della mano destra sotto il naso. In quella posizione riuscì appena a farfugliare: “Come sto?” che la risposta di Pierino arrivò fulminante: “Come un cretino!” Nei racconti di quello scherzo, io non c'ero o ero distratto da chissà cosa, quello che più diverte ancora i miei fratelli, e li divertì allora infinitamente, è l'espressione indescrivibile del povero Giacomo che, dopo aver impiegato qualche secondo per capire, cominciò a piangere, perché non riusciva a sopportare il cinismo 36 di quel fratello, e amico oltre che fratello, che approfittava di una situazione sentimentale così particolare per rifilargli uno scherzo così stupido. Non aveva torto. Pierino per uno scherzo avrebbe venduto l'anima. Non sapeva resistere all'idea di mettere qualcuno in difficoltà e di riderne poi allegramente. Era, in tal senso, di un cinismo pari alla sua visione disincantata della realtà e della vita. I due fratelli dunque si riunirono contenti, ma tutti e due, ormai segnati dalle rispettive “disgrazie” capivano che non erano più gli stessi di prima: con quelle due cadute era stato segnato il confine della loro adolescenza: erano giovani, anzi giovanotti, e dovevano incominciare seriamente a porsi il problema del loro futuro. Intuizioni, naturalmente, percezioni, ma non ancora niente di deciso. A loro due anzi sembrava che tutto stesse continuando come prima; tutto invece gli parlava di un cambiamento avvenuto improvvisamente. Vedevano chiaramente che la fine della guerra aveva cambiato tutti, vedevano che c'era in giro un'atmosfera di libertà e di bellezza che più nulla aveva a che fare col nero periodo della loro infanzia e della loro adolescenza. Ogni tanto l'uno o l'altro dei due si provava a fischiettare “Giovinezza” o “Faccetta nera”, più per abitudine che per una reale adesione ai contenuti di quelle canzonacce, ma il tentativo gli moriva sulle labbra. Vi fu un episodio a Bolano che segnò la fine del sogno che riproponeva scioccamente il fascismo. 37 Arturo, un ex federale che aveva fatto il bello e il cattivo tempo nell'epoca in cui i federali valevano qualcosa non voleva rassegnarsi alla fine di quell'epoca per lui felice. Se si entrava nella sua casa si respirava un'aria tipicamente fascista: persiane semichiuse, stanza in ombra o quasi nell'oscurità, mobili chippendale con tanto di buffet e controbuffet e annesse specchiere, soprammobili in gesso pensati e realizzati naturalisticamente ma poi laccati nel modo più stilizzato e inelegante possibile: una cagna che allattava due cuccioli, un'enorme tigre distesa sul pavimento, tappeto ricavato dalla pelliccia di qualche povero animale, un lampadario con otto lampade che si disponevano intorno a un lampione centrale più grande, il tutto assemblato da un'orrenda struttura di ferro nero. Naturalmente centrotavola in gesso laccato, ma non mi ricordo più cosa rappresentava, e dappertutto centri e centrini di merletto a incorniciare quei capolavori e infine su un'angoliera più grande del normale il grammofono a tromba sul quale Arturo faceva girare gli amati 78 giri di un tempo. Quel pomeriggio al gerarca nostalgico andava di riascoltare “Faccetta nera” intonata dai nostri soldati della guerra d'Africa al tempo del fascio. E va bè! Ma Arturo non voleva sentirla solo lui, la voleva imporre all'ascolto di tutto il quartiere. Passava di lì un ex-partigiano che non aveva ancora riconsegnato la pistola e quando sentì quella canzone per lui insopportabile entrò in casa senza bussare e sparò 38 senza pensarci due volte al povero... grammofono che saltò giù dall'angoliera, fatto a pezzi dai ripetuti colpi. Ovviamente il fatto ebbe delle lunghe conseguenze giudiziarie che non ricordo nei minimi dettagli ma che non mancarono di tenere desta l'attenzione della gente su quell'evento. Parlandone, Pierino e Giacomo, riconoscevano implicitamente che con la guerra e col fascismo anche la loro adolescenza se n'era andata e questo li induceva ad essere più assennati, ma non meno giocherelloni. In particolare Pierino, appunto, che trovò il modo di accogliere in casa una delle ultime trovate di mio padre. “Imparate l'alfabeto Morse così vi prendete un bel diploma di telegrafisti e prima o poi troverete lavoro.” Giacomo nell'atteggiamento estatico con cui si rapportava alla realtà neanche prese in considerazione l'invito di mio padre, però ogni tanto a tempo perso si dedicava anche lui a trasmettere e a ricevere qualche messaggio, ma “a” e “da” chi? Mio padre aveva chiesto ai capistazione di Bolano di avere la pazienza di rispondere ai suoi due figli quando questi si fossero dilettati a comunicare con loro. Dunque era chiaro a tutti che il telegrafo rimediato da mio padre non era collegato con una rete, ma che era un semplice strumento per studiare collegato solo con la stazione ferroviaria. Al contrario di Giacomo, Pierino aveva una vera e propria passione per tutto ciò che era meccanico o tecnico o elettrotecnico. Dopo il 39 ciclismo, i suoi sogni si erano molto ridimensionati ed egli sperava di poter fare un giorno il meccanico, ma di auto. Intanto incominciò col telegrafo e scoprì che, se avesse collegato un semplice filo a quello strumento e lo avesse fatto passare nella stanza attigua, da lì, procurandosi un altro trasmettitore, avrebbe potuto fare col fratello quello che intanto tutti e due facevano con i capistazione. E capitò che quando aveva appena finito l'installazione della quale per puro caso non aveva informato Giacomo, altrettanto casualmente era scoppiato una specie di nubifragio che aveva costretto Giacomo a rientrare e a dedicarsi a tempo perso a quell'aggeggio di cui non capiva bene l'utilità. Le intenzioni di Pierino inizialmente erano serie ma quella concomitanza di circostanze gli suggerirono uno scherzo senza precedenti per bellezza e riuscita. Appena sentì che Giacomo aveva attivato il telegrafo si affrettò a mandargli lui un messaggio terribile e per Giacomo inspiegabile: “Zutaro fa l'amore con Rita.”, un segreto di cui Giacomo credeva di essere lui solo a conoscenza. Ognuno di noi in famiglia aveva un soprannome e Zutaro era quello di Giacomo, perché da bambino passava le ore ad accompagnare i cantonieri che segavano le traverse di legno per la ferrovia interpretando onomatopeicamente il rumore della sega: “zu” all'andata, “ta” all'arrivo, “ro” al ritorno. Come tutti noi in famiglia era assolutamente stonato: 40 sapevamo ascoltare solo rumori, mai dei suoni. Zutaro sentendo che il suo telegrafo stava ricevendo pensò che fosse una comunicazione della stazione ma quando decifrò il messaggio fu colto dal panico. Chi poteva conoscere il soprannome con cui lo chiamavano in casa? E chi poteva mai sapere di quell'amore che in quel momento lo intrigava? E altre domande confuse che, unite ai tuoni e ai fulmini della tempesta scatenatasi lo gettarono nel panico più totale. Si precipitò giù per le scale urlando come un tarantolato e gettandosi tra le braccia di mia madre che con riusciva a capire che cosa potesse essere successo. Fatto sta che quel figlio tremava, era bianco come un lenzuolo appena lavato ed era così caldo che sembrava avesse la febbre. Ce l'aveva davvero e si fece tre giorni a letto assistito da mia madre o da uno di noi perché non voleva rimanere solo, convinto com'era che quel messaggio fosse opera del diavolo. Pierino, viste le conseguenze, non aveva il coraggio di rivelargli l'arcano: fra sé e sé rideva ma al tempo stesso pensava con ansia a cosa sarebbe successo se mio padre avesse scoperto la verità. E così il povero Giacomo non si accostò più al telegrafo fino a quando, passato il pericolo delle botte, Pierino non gli disse la verità. Giacomo ci rimaneva male, ma non si sentiva mai ferito da quel fratello buontempone con cui condivideva tutto della vita, compreso il rispetto e l'affetto profondi che nutrivano per quelle due sorelle 41 e soprattutto per Ginetta. Non avevano voluto studiare, non pensavano che al gioco più che allo sport, avevano la convinzione profonda che solo lavorando avrebbero potuto sbarcare il lunario e realizzare i loro sogni minimi, cioè ripetere il modello pre-modellato della famiglia, illudendosi di poter ricreare, a loro volta, la bellezza della nostra famiglia. Facevano parte insomma dell'infinita schiera dei molti (οι πολλοι, come dice Platone, che verrebbe da tradurre “i polli”, col significato che gli si dà a Roma), i quali attaccano al chiodo la meravigliosa dote che ci viene data alla nascita: pensare, e vivono sulla base di conclusioni provvisorie che loro ritengono definitive. Perciò essi venivano assemblando i pezzi delle loro personalità senza alcuna mediazione culturale, completamente vittime degli agenti esterni che li modellavano. Pierino in particolare si rivelava sempre più taciturno e timido con le donne, anche se di quando in quando cercava di mascherare tale timidezza con i suoi scherzi esilaranti o con le sue barzellette geniali. La loro fanciullezza vissuta a Bolano al tempo del fascismo non offrì loro che un solo modello, quello del maschio prepotente che si appropria di una donna cercando di sottometterla con le sue prerogative: il guadagno, l'autorità, la forza fisica. Questo fu Pierino: un carattere timido, chiuso in una struttura che non gli apparteneva e che egli trasferì nella Roma della ricostruzione inconsapevole 42 di quello che la città e soprattutto Ginetta gli stavano preparando. Pierino era stato la vittima designata delle botte di mio padre che finiva per prendersela sempre e solo con lui e sarà coerentemente la vittima designata dal destino a subire primo fra noi la morte. Per fortuna la scappatoia del cercare il divertimento dovunque fosse possibile trovarlo lo compensò minimamente di ciò, ma la sostanza è che la donna che egli blindò dentro di sé per obbedire agli unici modelli per lui vigenti lavorò al buio scatenando dentro e contro di lui un cancro mortale. Delle infinite barzellette che mi raccontò una in particolare mi è rimasta impressa. Un nonno che porta a spasso il nipotino si imbatte in due cani che si stanno ingroppando. Il nipotino incuriosito da quello che per lui può essere solo un gioco chiede al nonno: “Che fanno?”. Il pover'uomo dopo un attimo di imbarazzo ha una trovata straordinaria: “Vedi, caro, quello che sta sopra è cieco e perciò l'altro se l'è preso sulle spalle e lo porta a fare una passeggiata.” Il bambino per il momento sembra soddisfatto mentre il nonno si congratula con se stesso per aver escogitato una risposta così convincente. Ma dopo qualche secondo il bambino torna alla carica: “Nonno!”, “Che c'è?”, “Sai che dice il mio amico Lorenzo?” “Che dice il tuo amico Lorenzo?” “Dice che a questo mondo più sei buono e più ti si inculano.” Me la raccontò orgoglioso di potermi comunicare una storiella così ben congegnata e rideva 43 soddisfatto del mio ridere. Anch'io ovviamente ridevo, ma in quella complicità, in quell'intrecciarsi di risate io, sicuramente, e lui, forse, percepimmo qualcosa in più di quello che la storiella in sé e per sé conteneva, qualcosa di inesprimibile e dunque qualcosa che anche in questa sede debbo lasciare inespressa se non voglio violare una legge ferrea del raccontare. Arrivati a Roma, i miei due fratelli adolescenti e le due sorelle ancora nubili si misero subito alla ricerca del lavoro. Angela e poi Gisa andarono a mettere punti in una modesta sartoria di Piazza Bologna; Pierino e poi Giacomo andarono a lavorare in un'officina meccanica gestita da un torinese, tale Sor Giovanni Sampò che, non avendo avuto figli, prese a cuore soprattutto Pierino perché lavorava a vita persa, come si dice, pur di riportare a casa un po' di soldi. Con il Sor Giovanni per la prima volta Pierino esportò fuori di casa la sua indimenticabile tecnica della “scoreggia”. So che non è bello parlare di scoregge; perciò vorrei citare immodestamente due precedenti illustri che lo hanno fatto, non in letteratura, ma nel cinema. Il primo è Fellini che rappresenta la scoreggia sia nel “Satyricon” che in “Amarcord” e il secondo è Bergmann in “Fanny e Alexander”. Dunque con due precedenti così illustri non esiterò a raccontare questo aspetto a suo modo non poco significativo della personalità di mio fratello. 44 Pierino aveva raggiunto una tale padronanza del suo corpo che riusciva a controllare perfettamente l'emissione dei peti. Perciò quando voleva ne faceva dei veri e propri spettacoli. Per esempio riusciva a modularne il rumore in modo da poter imitare i peti delle persone che avevano contatti con la nostra famiglia ovviamente da lui mai sentite scoreggiare, ma modulando il peto in modo che comunicasse agli ascoltatori-spettatori, di un vero e proprio teatrino si trattava, una simbolizzazione iconofonica (sono costretto a coniare un nuovo termine), della persona stessa di cui egli imitava, per ricostruzione fantastica, il peto. Se annunciava “Sentite come scoreggia Asilde”, la maestrina cognata di Cettina, emetteva un flebile prolungato lamento che ci faceva scompisciare dalle risate; o se annunciava “Sentite come scoreggia il capostazione”, che era un omaccio corpulento e quasi obeso, sfornava un boato torbido e morbido che era l'immagine stessa del pover'uomo. Il massimo del successo in famiglia lo raggiungeva quando era in vena di battere l'ora, come i campanili delle chiese. Naturalmente noi tutti sfidavamo l'impossibile chiedendo orari del tipo “dodici e un quarto” o simili, ma lui era imbattibile. Quando una volta gli dicemmo di battere l'ora prima del campanile che stava per segnare le dodici e tre quarti, rimanemmo tutti a lungo senza fiato perché non credevamo che sarebbe stato capace di emettere dodici peti, diciamo così, grandi, e tre peti piccoli, per segnare i tre quarti. 45 Naturalmente tutti a ridere e tutti in qualche modo ad ammirare questa capacità che lui asseriva del tutto innata e naturale. Che famiglia, la nostra! La conversazione poteva vertere a lungo su argomenti scatologici come la scoreggia o il culo o la merda, ma guai a chi si azzardava a intavolare una discussione sul sesso. I problemi sessuali se li doveva risolvere ciascuno per conto suo: nessuna informazione, neanche un semplice riferimento, erano ammessi in famiglia. Fuori di casa Pierino ebbe l'opportunità di sfoggiare tale bravura una volta che fu sfidato dall'ignaro principale. Stavano lavorando ciascuno al proprio tornio quando il Sor Giovanni, gridando per superare il rumore degli attrezzi, disse a Pierino in piemontese: “Nè, Pierino, ciapa questa.” e mollò una fragorosa scoreggia. Pierino lasciò immediatamente il tornio, finse di inseguire la scoreggia ma in realtà per correre fuori dell'officina e caricare un bel peto e, rientrato di corsa, gridò a sua volta al Sor Giovanni: “Eccola, Sor Giovà!” e mollò a sua volta il fragoroso peto che aveva accumulato con la finzione di andare a riprendere quello del principale. Il Sor Giovanni che soffriva di cuore stramazzò a terra per il gran ridere e tutti temettero veramente che dalle grandi risate non ci restasse secco. La ricerca del lavoro non era stata tanto difficile per nessuno dei miei quattro fratelli, perché tutti avevano una gran voglia di lavorare per sottrarsi 46 alla noia della scuola, ma le paghe erano basse; mia madre però con la sua solita economia di guerra riusciva comunque fortunatamente a mettere da parte qualche lira. L'anno che soggiornammo nel casello km 3, nel bel mezzo della periferia sud di Roma, le cose andarono molto bene perché quel casello era una dimora principesca. Sempre su due piani, aveva un giardino a destra e dietro di esso un terreno dove il precedente inquilino coltivava api che ci lasciò in eredità perché era andato in pensione e non avrebbe saputo dove metterle. Dietro aveva un'aia dove razzolavano le galline e il porco che come al solito mia madre allevava per sfamare noi ma soprattutto per neutralizzare la fame pantagruelica di mio padre. Sull'altro lato c'erano le stalle, il forno per fare il pane e la fontana per lavare i panni. Appresso a queste costruzioni, sempre sulla stesso lato, c'era un orto enorme che si disponeva su due livelli: quello da cui entravamo che era una striscia che correva lungo la ferrovia e al disotto di questa di circa un metro l'orto vero e proprio che sarà stato lungo un centinaio di metri e che si chiudeva con un'enorme pianta di fico che nell'unica estate che abitammo lì produsse dei fichi dalla dolcezza indimenticabile. Tutto ciò consentiva a mia madre di assicurare la sopravvivenza della famiglia a costo zero e l'accumulo dalle varie mensilità di un bel po' di soldarelli che presto sarebbero stati utilizzati per l'affare de “La Mèliga”. I miei quattro fratelli però 47 fecero un grande sacrificio: si dovevano collegare con il centro prima con il treno e poi con i tram, e specialmente le sorelle, dovendo rientrare tardi, percorrevano con un po' di ansia a causa del buio il tratto che dalla stazione conduceva al casello. Fu in quell'anno che io potei perfezionare la mia idea di aeroplano perché a qualche centinaio di metri dalla nostra abitazione precipitò un aereo di grandi proporzioni che fece una strage, nessun superstite. Di fronte alla nostra casa cantoniera sorgeva quello che per me resterà sempre il palazzo: a poca distanza dalla casa cantoniera, bastava attraversare i binari, era stato costruito un palazzo, anch'esso abitato da ferrovieri, che ospitava varie famiglie e quindi ragazzi e ragazze di tutti le età. Quelli sui dieci anni eravamo cinque o sei e in tanti decidemmo appena fu possibile di andare a vedere che cosa era successo dopo quell'enorme schianto. Mi ricordo che si potevano vedere oggetti personali non raccolti perché ormai rovinati e addirittura qualche pezzo di lamiera con attaccati poveri resti umani. Fu il mio primo impatto con la dura realtà dell'esistenza, in un modo o nell'altro destinata a finire, ma non mi emozionò più di tanto; o forse sì, che ne so; se lo sto raccontando qui, nella storia di Pierino, un suo significato per me ce l'avrà pure avuto; ma nel mio ricordo io risposi con indifferenza a quello spettacolo che oggi invece mi appare dolorosissimo. Per arrivare sul luogo della catastrofe bastava 48 uscire da un cancelletto apposito attraverso il quale si entrava e si usciva dall'intera nostra area abitativa. Quel cancelletto era lo strumento con cui i miei due fratelli tormentavano un cagnolino, Zucchino, sempre eredità del precedenti inquilino, che si chiamava così perché era stato realmente trovato sotto una zucca. Quel bastardello aveva una grande qualità: quando passavano i treni in rallentamento perché si dovevano fermare nella vicina stazione, lui li sfidava e vinceva sempre: era veloce come un fulmine. Prima di trovare lavoro quei due filibustieri si divertivano a richiamarlo dopo queste lunghe corse e uno dei due, nascosto, chiudeva il cancello all'ultimo momento della corsa di rientro per vedere se la povera bestia che arrivava come una freccia sarebbe riuscita a fermarsi. Generalmente Zucchino come nei cartoni animati scavava due solchi per terra ma riusciva quasi sempre a fermarsi in tempo. Quando però non ci riusciva si catapultava sul cancelletto che si apriva ma lo lasciava interdetto perché lui lo aveva lasciato aperto e, al momento del fischio di richiamo, lo aveva visto ancora aperto. La povera bestiola si dimostrò molto più intelligente di quei due filibustieri: dopo un paio di scontri col cancelletto, quando Pierino o Giacomo gli lanciavano il fischio di richiamo, lui tornava passeggiando come se quel fischio non l'avesse sentito. Quando lasciammo quella casa cantoniera un camion arrivò fin davanti al palazzo e i trasportatori 49 dovettero far attraversare tutta la mobilia a rischio di ritrovarceli fracassati, loro e la mobilia, sotto un treno imprevisto. Quando il carico fu pieno, anche noi montammo chi da una parte chi da un'altra, chi, come me e Gisa, che eravamo i più piccoli, nella cabina di guida. Zucchino che aveva sicuramente capito saltava verso il finestrino con balzi che non aveva mai fatto mugolando come un bambino. Il camion partì, noi avevamo tutti gli occhi gonfi di pianto e mia sorella Gisa, la più piagnona, singhiozzava disperatamente. A Roma ci aspettava la convivenza con Ginetta e la sua famiglia di cui ho parlato a lungo nel romanzo a lei dedicato. Devo dire che noi tre maschi fummo i tre che soffrimmo di meno in quei tre anni di disperazione. Chi era di più nel mirino di Ginetta erano i miei e le due sorelle nubili. Quali fossero le segrete ragioni per cui Ginetta preferiva vessare più l'uno che l'altro non lo sapremo mai. Posso fare solo un'ipotesi: probabilmente i due fratelli non si ribellarono mai alle sue angherie perché erano letteralmente innamorati di lei; mentre le due femmine spesso battevano i piedi e ciò era per Ginetta un'intollerabile ribellione e quindi un giusto motivo per perseguitarle. E poi entro breve Pierino sarebbe partito militare, che allora era un servizio pubblico obbligatorio, e dunque la sua presenza in casa sarebbe finita. Lo mandarono a Taranto a fare il periodo di premilitare che allora si chiamava car e, dopo un 50 mese, lo smistarono a Novi Ligure, in Piemonte. Si salutò con i compagni che si era fatto con una grande commozione che lui però controllava perfettamente, non riuscendo a capire come alcuni di essi invece si abbandonassero a dei pianti irrefrenabili. Tra i miei ricordi più vividi di quell'età c'è il viaggio che feci con mio padre per andare a trovarlo a Novi Ligure. Perché lo ricordo tanto bene? Perché mio fratello era riuscito ad ottenere una specie di volo premio per i parenti. Fu il primo volo della mia vita, fatto su un velivolo che, portato in alto da un aereo trainante, venne poi abbandonato alle correnti d'aria e ai venti, fino a quando il pilota non riuscì a riportarlo a terra. Come si è incoscienti a quell'età! In seguito, tutte le volte che ho volato, per viaggi brevi o lunghi, ho sempre avuto una paura fottuta: quel giorno mi sembrò la cosa più naturale del mondo essere trasportato da un aggeggio che non aveva neanche il motore. Certe volte, rimuginando questo ricordo, mi sembra di aver sognato e che il suo contenuto non sia vero. Non ci scommetterei insomma. Fatto sta che, vero o immaginato, io debbo a Pierino anche il primo volo della mia vita. Il periodo militare trascorse senza traumi. Pierino si asteneva dagli scherzi perché aveva paura delle punizioni e tutto filava liscio: nelle libere uscite si univa ad altri compagni e a gruppi si disperdevano per quella bella cittadina alla ricerca di qualche ragazza disponibile con la quale intrecciare un 51 discorso e poi, poi... Aveva capito da un brutto episodio di nonnismo che se avesse preso dei giorni di punizione li avrebbe poi scontati al momento del congedo: tanti giorni, dopo quelli obbligatori della leva, quanti ne aveva trascorso in prigione per punizione. L'episodio riguardava un tale Valter Mereu, un piccolo sardo che era partito con la precisa intenzione di non tollerare nessuno sgarbo da nessuno. E invece il nonno che si stava per congedare lo accolse ordinandogli: tu stasera mi rifai la branda, cioè mi rifai il letto. Valter capì subito che quello non scherzava, ma tanto meno scherzava lui. Senza scomporsi chiese quale fosse la branda del nonno e quello gliela indicò. Bene, al calar della sera, all'improvviso quella branda prese fuoco scatenando il putiferio nella caserma. Ci furono le indagini. Il nonno, cretino, dovette parlare e prese una bella punizione: Valter subì delle severe indagini e si scoprì che aveva sempre portato con sé una bottiglia di spirito, una pistola, un coltello a serramanico e... una bomba, di cui non volle dare spiegazioni e quindi non sapremo mai come se l'era procurata. Si beccò non so quanti giorni di prigione e la cosa finì lì perché si sa che il nonnismo che ha imperversato nelle nostre caserme, almeno fino a quando non è stato abolito il servizio militare obbligatorio, ha potuto resistere grazie all'omertà anche degli alti gradi che vedevano in pericolo le loro mangiatoie se qualche scandalo fosse venuto alla luce, come talvolta pure avveniva. 52 Quello che lo divertiva di più della vita militare era il comportamento dei marescialli che facevano creste paurose sulla spesa per la truppa costringendo i poveri soldati semplici a ranci immangiabili; ma uno soprattutto lo divertiva perché quando, abbandonati a se stessi in giro per la caserma senza far niente e senza il permesso per uscire, gli chiedevano garbatamente con una sottile e impercettibile ironia: “Che dobbiamo fare?” lui gli rispondeva serio serio: “Dovete aspettare il congedo.” Una cosa strana però accadde anche a lui, rivelata solo a Giacomo per farsene spiegare il significato. Una notte, mentre dormiva profondamente fu svegliato da qualcosa che si muoveva sotto le sue coperte. Fra le altre idiosincrasie di Pierino, che ho già elencato, c'era anche quella dei serpenti. Nelle campagne di Bolano di serpenti ne trovi quanti ne vuoi, anche di quelli velenosi, in particolare la vipera Ursini, la vipera insomma, il cui morso, se non è tamponato subito, è mortale. Fu una specie di incubo. Pierino si svegliò di soprassalto e riconobbe nell'oscurità la faccia del sergente Ferrari, uno che tutti sfottevano senza che lui, Pierino, ne capisse il perché. “Che fai?” Gli chiese sibilando nel silenzio della camerata, “Che fai?” “Niente, niente.” rispose l'altro facendogli segno di stare zitto e sibilando a sua volta “Ssssst” “Che vuoi?” “Niente, niente.” e lo vide dileguarsi nel buio lasciando la camerata nel silenzio più assoluto. 53 Pierino non capì. Si riaddormentò pensando di aver sognato, ma così non era. Il giorno successivo fu convocato dal tenente Mingoni che gli chiese pacatamente che cosa era successo nella notte appena passata. Pierino spiegò che gli era accaduto qualcosa ma che lui non sapeva neanche dire se era una cosa vera o era un sogno: aveva visto il sergente Ferrari che... e raccontò quello che aveva visto. Il tenente lo ascoltò attentamente e quando si rese conto che Pierino non avrebbe dato alcun seguito a quell'episodio lo congedò senza dargli spiegazioni. Né Pierino si interrogò più di tanto sull'accaduto. Non si chiese per esempio come mai il tenente fosse a conoscenza del fatto e del suo sogno, addirittura. Non si chiese come il sergente Ferrari avesse potuto raccontare una cosa che era accaduta solo in sogno. Insomma dopo qualche secondo di radotage inconcludente Pierino archiviò il tutto e tornò alla sua vita di soldato in attesa del congedo. Molto tempo dopo, parlandone con Giacomo, ebbe tutte le spiegazioni. Pierino era fatto così. Non amava interrogarsi su nulla. La vita era la cosa semplice che lui riteneva tale e dunque era inutile stare a chiedersi se, dove, come, quando, perché. Per lui la parola “frocio” non ebbe mai un significato reale; tutt'al più significò “persona particolare o strana” e tanto meno la parola “omosessuale” che lui pronunciava addirittura “uomosessuale” pensando ad un uomo che soffriva di 54 particolari eccessi in fatto di sesso. Ma che due persone dello stesso sesso potessero far sesso insieme era una cosa che non riuscì mai a concepire. E quando Giacomo, più scaltro e smaliziato, cercava di convincerlo, lui pensava che gli stesse facendo uno scherzo come uno dei tanti di quelli che gli faceva lui. Quando Pierino tornò dal militare Ginetta era tutta zuccherosa con lui, era tutta un accordo. Perché il Sor Giovanni lo aveva ripreso subito a lavorare e con lui Pierino guadagnava bene: sicuramente lei aveva già messo gli occhi su quella povera paga per i suoi diabolici disegni. Che poi, a ragion veduta, tanto diabolici non erano. Ginetta aveva una sua visione della realtà non del tutto sbagliata: lavora, guadagna e mangiati i tuoi guadagni per fare una vita bella. Mia madre e mio padre invece contrapponevano a questa visione avveniristica e postbellica la loro visione del sacrificio e del risparmio a tutti i costi. Per mia madre, parlando di economia domestica, non esisteva la categoria del necessario; ma solo quella del superfluo: mia madre fu un'antesignana della decrescita felice di Georges Latouche e io che la porto dentro da quando è morta porto dentro di me anche questa rozza economia che però al momento giusto ti fa trovare un bel po' di soldi da parte sufficienti per agevolare qualche tua iniziativa. Fu così che Pierino a un certo punto con grande dolore di lei decise di acquistare in comproprietà con Desiderio una topolino, cioè la 500 Fiat di una volta, 55 immettendo la famiglia nell'ambito dei possessori di una macchina. Pierino sognava tutto ciò da quando bambino a Bolano vedeva il gerarca Arturo Venditti andare in giro con la sua Aprilia, con tanto di predellino su cui qualche volta saliva per farsi portare per un breve tratto. Era il sogno realizzato di un meccanico che finalmente poteva possedere uno strumento su cui aveva sempre lavorato per gli altri. Sulla topolino coprimmo spesso il tragitto per andare a “La Mèliga” per la costruzione della bifamiliare di cui ho parlato spesso; sulla topolino facemmo le prime gite a Ostia per andare a vedere il mare. Ma nient'altro! Nessuno di noi sapeva perché dovevamo spendere tutti quei soldi per andare a vedere il mare. Forse perché essendo montanari, quel fenomeno ci colpiva in particolare. Con la topolino forse Pierino fece i suoi primi approcci amorosi probabilmente con prostitute. Io a tal proposito non so niente perché, salvo che con Giacomo, Pierino non si confidava con nessuno. So solo che una volta Giacomo, che era un chiacchierone pettegolo, disse a un loro amico comune, ma io ero lì e li sentii, che doveva andare a comperare i preservativi perché Pierino si vergognava. In realtà Pierino si vergognava di entrare in qualsiasi negozio perché era di una timidezza patologica e, oltre a questo, soffriva di alcune altre idiosincrasie molto singolari: la peluria della pesca gli faceva saltare i nervi così come le penne delle galline; 56 singolare no? un pezzetto di grasso di maiale dentro la minestra, per insaporirla, per lui significava non mangiare; e poi, come ho detto, quel rifiuto davvero patologico dello “gnam gnam” che mio padre emetteva quando mangiava di gusto. Generalmente si alzava da tavola indispettito, ma senza dir niente, oppure si recava nella sua stanza e prendeva a pugni la testiera del letto che, essendo di latta, ne presenta ancora la gobba. Si consumava così questa copia formato tessera, ma molto molto sbiadita, del complesso di Edipo: l'ubriacone Laio è mio padre, per analogia un mangione; l'infelice Giocasta è la mia povera madre che aveva voluto sposare quell'uomo bello, ma rozzo, solo un po' migliorato dal fronte e da un prete suo amico che gli aveva insegnato qualcosa del sesso; e Pierino è il povero Edipo che, non riuscendo a uccidere il padre, chiude dentro di sé la madre e se la porta con sé per sempre. Mio padre fu uno dei ragazzi del '99, cioè uno dei ragazzini che nel 1917 i signori criminali della guerra richiamarono su uno dei fronti alpini per continuare una guerra crudele e sanguinosa, inutile se non per quelli che avevano il potere e ne traevano i profitti. Durante quel terribile anno di trincea mio padre divenne amico di un certo don Aldo Bacci, un prete di Cesena che, trovandosi anche lui al fronte, cercava di educare quei ragazzi come poteva e di avviarli, qualora fossero riusciti a tirar via la pelle, 57 alla vita e alla ricostruzione di un Paese praticamente decapitato prima dalla guerra e subito dopo dalla terribile epidemia chiamata spagnola. Don Aldo doveva essere un prete molto moderno perché informava quelli che in fondo erano solo dei ragazzini anche delle cose del sesso. Mio padre insomma tornò dal fronte sapendo benissimo che cosa doveva fare e che fece con mia madre. Profondamente cattolico e, diciamolo pure, timidamente antifascista, non volle mai prendere in considerazione il controllo delle nascite. Io scherzando andavo sempre dicendo che meno male che lui era così perché altrimenti io non sarei mai nato. I miei genitori avevano rispettivamente 45 anni lui e 40 lei quando io fui concepito, dopo altri otto figli, a sette anni di distanza dall'ultima; dunque fui concepito dai miei nonni non dai miei genitori; ma fui concepito grazie all'assoluta contrarietà di mio padre a qualsiasi tipo di controllo delle nascite che per altro a quei tempi era del tutto rozzo e rudimentale. Antifascista invece non rimase; col solito pretesto del tengo-famiglia a un certo punto prese la tessera del partito pur rimanendo profondamente socialista perché convinto che il duce e il fascismo erano anche loro profondamente socialisti. Dunque mio padre non avrebbe mai rinunciato alla donna che aveva desiderato per un anno intero tra le nevi del Podgora e che aveva potuto finalmente possedere in barba alla morte che mieteva giovani 58 vite su quei monti infausti messi lì per difenderci e che invece inghiottirono migliaia di giovani vite. Ma neanche Pierino vi avrebbe rinunciato. Fu insomma un complesso di Edipo in formato ridotto, ad uso di contadini e medio ceto. Pierino si guadagnò la vita lavorando duro e senza cercare vie traverse. Una volta provai ad aiutarlo io in modo fraudolento in un concorso per un posto fisso, ma fu un disastro. Alla prova di dattilografia, nella quale non lo potei sostituire, le sue grandi mani da meccanico prendevano due tasti alla volta e il risultato di quella prova compromise anche gli ottimi risultati conseguiti da me nelle due prove precedenti. Quando Sor Giovanni si allargò e creò la DE.BO, cioè una società fra lui e i parenti della sua compagna, la signora Anna, Pierino incominciò ad entrare nell'orizzonte di questa donna innamoratissima del compagno, ma ormai compagna solo per modo di dire perché il pover'uomo si era ammalato al cuore e a quei tempi non c'erano tutte le risorse mediche che ci sono adesso. Anna stava sulla quarantina ed era una donna del nord molto curata e ancora molto piacente. Non era bellissima ma per Pierino non era tanto importante la bellezza quanto il fatto che la signora aveva due tette enormi che lui se le mangiava con gli occhi ogni volta che la donna per qualche motivo capitava in officina. Del resto prima che nascesse la DE.BO (acronimo che non ricordo come si decrittava) la piccola officina in cui Pierino aveva esordito era 59 attigua all'abitazione del Sor Giovanni e spesso la signora Anna si affacciava anche in décolletée per chiamare o chiedere qualcosa al marito in presenza di Pierino. Sia la Signora che il Sor Giovanni si erano accorti di quella simpatia. Il pover'uomo voleva talmente bene a quel ragazzo bello, onesto e lavoratore che quasi quasi agevolò lui stesso il suo primo grande amore. Alla Signora Pierino andava a sangue, come si diceva allora, ma presa com'era dai lacci della squallida cultura sessuale degli anni sessanta del 900, reprimeva tutte le manifestazioni di simpatia che non fossero gli sguardi ammirati per quel giovanotto di notevole bellezza. Pierino era come Sergio Raimondi, un attore a quei tempi specializzato proprio nelle parti di meccanico nei film del tardo realismo; ma molto molto più bello nel viso: mentre Raimondi aveva la faccia seria del meccanico ultra-trentenne che ormai aveva messo la testa a posto, mio fratello era sì ultratrentenne ma conservava un viso da bambino maschio con tanto di strabismo di Venere che gli faceva oscillare gli occhi orizzontalmente riempiendoli di luci saettanti: insomma uno schianto come dicevano le ragazze di allora. Intanto gli scherzi continuavano. Quelli che lo divertivano di più erano quelli agli animali, i quali, povere bestie, non potevano stare dietro alle divertenti pensate di Pierino che però non facevano mai del male all'animale ma semplicemente cercavano di 60 coglierlo in momenti in cui non si poteva assolutamente difendere dallo scherzo. Il cane del Sor Giovanni si chiamava Black ed era un bulldog di notevoli proporzioni ma buono come un pezzo di pane; anche lui aveva preso a simpatia quel ragazzo così caro ai suoi padroni e in particolare alla sua padrona che adorava. Pierino pareva che stesse sempre a pensare a Black. Una volta gli avvolse una cipolla in una fettina di carne, sapeva che i cani non sopportano le cipolle, e il povero animale ingannato dall'odore della carne mandò giù il tutto in un solo boccone. Senonché cominciò immediatamente ad avere conati di vomito che prima preoccuparono un po' Pierino, ma alla fine lo divertirono molto perché Black rigettò... solo la cipolla... e per intero: della carne neanche un pezzettino. Un'altra volta, mentre Black dormiva tranquillamente, approfittando della fiducia che il povero animale riponeva in lui, gli si avvicinò con una sigaretta appena accesa e gliela infilò fra due dita della zampa aspettando che il vento la consumasse fino a fargli sentire un po' di bruciore alla zampa. Mi pare di rivederlo ancora desso Pierino che imita con la mano la zampa del povero Black sbattuta a terra con violenza per eliminare il fastidio e poi visto che non riusciva a liberarsene abbaiare rabbiosamente contro la sua stessa zampa fino a liberarsi definitivamente dell'increscioso bruciore. Ma non nutriva nessuna cattiveria contro le bestie, Pierino; amava solo divertirsi a vederle messe in 61 difficoltà dai suoi scherzi. Quanto al fumo, inutile dire che Pierino fumò si può dire per tutta la vita. Cominciò intorno ai nove anni quando fumare era un segno di distinzione per tutti ma per i ragazzi era anche il segno dell'essere divenuti grandi. Non riuscì a smettere mai, neanche quando i medici gli diagnosticarono il tumore. L'infernale sigaretta sostituiva evidentemente il desiderio del petto materno che non riuscì a dimenticare mai. Le sigarette e il lavoro fortemente a rischio del meccanico com'era a quei tempi ce lo portarono via in quattro cinque anni senza dargli alcuna possibilità di appello. Fu operato tre volte, ma non perse, fino a quando non entrò in coma, cioè dieci minuti prima di morire, la speranza di essere riuscito a sconfiggere il male. E come si divertiva a raccontare che tre giorni dopo la prima operazione aveva provato ad abbrancare la moglie per fare l'amore ma mia cognata che non era né tenera né piccola gli aveva preso il braccio e glielo aveva rispedito rudemente al mittente, con le migliori intenzioni, ovviamente. Quante mogli di pazienti impazienti vanno a lamentarsi dai medici perché i mariti in piena convalescenza da malattie molto serie tentano di fare l'amore esponendosi a sforzi poco consigliabili nelle loro condizioni! Amava la vita, Pierino, non ostante tutto. Aveva visto la guerra, aveva sopportato un padre violento, aveva tollerato insegnanti incapaci; ciononostante 62 continuò ad amare la vita: quelle nostre sei madri, in costante odor di catamenio, ci insegnarono che la vita è importante e che è un regalo che, una volta che te l'hanno fatto, te lo devi tenere stretto e da conto perché nessun altro mai te ne potrà più fare uno uguale. E Pierino si era abbeverato voracemente alla fonte della vita avendo l'intelligenza di capire che lì ha inizio il tutto e che, comunque e dovunque noi siamo, dentro, fuori, altrove, la vita la dobbiamo amare perché ti concede, almeno, di giocare. Proprio la sigaretta fu la pronuba che soffiò sull'amore di Pierino per la signora Anna. “Pierino, che hai?” gli chiese il Sor Giovanni, vedendolo pensieroso; “Niente, Sorgiovà, ho finito le sigarette e il tabaccaio a quest'ora è chiuso.” “Nè, Piero, mi pare che ne ho comprato un pacchetto in più l'altra sera; vai a vedere se c'è mia moglie in casa e fattelo dare!” Intendeva il pacchetto naturalmente, ma Pierino che con l'italiano ci faceva poco capì un'altra cosa. Come non comprenderlo? “Pacchetto” fa rima con “petto”, di cui è anche l'estensione grafica, e “fatte” è quasi uguale a “fotti”. Del resto il sor Giovanni diceva “mia moglie”, ma in realtà era la compagna. Pierino balbettava, non sapeva cosa dire, mille fantasie e altrettanti film si srotolavano nella sua testa, ma alla fine si decise e andò. Nessuno mai, neanche io, potrà sapere se il Sor Giovanni fece ciò intenzionalmente o no. Sicuro è che di Pierino si fidava ciecamente e mai avrebbe potuto pensare che avrebbe potuto 63 approfittare di quella incursione in casa sua per fare l'amore con la signora Anna. Ma l'amore è subdolo e ingannatore. Suonò, si fece riconoscere, la signora disse: “Scusa un momentino, nè, Piero, che sono in vestaglia.” Non era vero, era il solito trucco che le donne usano più o meno ingenuamente per solleticare la fantasia dei loro amanti e per darsi una rassettata e rendersi presentabili. Non era vero neanche questo: doveva soltanto togliersi le mutande perché aveva deciso istantaneamente che o quella volta o mai più. Se le tolse e si sbottonò due bottoni della camicetta, poi: “Entra, Piero, che c'è? che vuoi? Ti manda Giovanni?” A quel nome Pierino si riscosse e spiegò il motivo ella sua visita. “Scusa ancora un momento, Piero; stavo facendo da mangiare; spengo il gas e te le cerco; intanto siediti.” gli disse con tono d'impero a cui non si poteva disobbedire. Si sedette con qualche difficoltà: la signora Anna, già così come si era presentata, glielo aveva fatto addrizzare e sotto la patta si vedeva un gonfiore imbarazzante che Pierino non sapeva come gestire; nessun problema: la signora tornò subito e quando vide la situazione, Pierino era rosso per l'emozione e per l'eccitazione, gli si avvicinò amorevolmente, gli liberò dai pantaloni il sesso che saltò fuori come un cobra indispettito, con grande naturalezza glielo prese in mano e dopo esserglisi accomodata sulle gambe accavallandogliele con le sue, se lo infilò dentro senza tanti complimenti. Pierino era esterrefatto ma non riusciva a capire nulla 64 di quello che stava succedendo: le due tette della donna gli si schiacciavano sul viso e lui non poteva far altro che baciarle, leccarle, morderle alla disperata ricerca dei capezzoli dai quali però questa volta non usciva nulla. Ma a lui del latte ormai non gli importava davvero più nulla, anche se in quel preciso istante stava capendo che la sua felicità sessuale era più legata alle tette delle donne che al resto e così venne subito; ma anche lei, dopo un paio di anni di astinenza, venne subito; si alzò accompagnandogli il pene nello sfilarselo, corse in bagno e ne uscì subito, già ricomposta come se non fosse accaduto nulla. “Ecco le sigarette, Piero. Piero, né, di' a Giovanni che non riuscivo a trovarle, altrimenti finisce che capisce qualcosa.” “Sì, signora.” Non riuscì a dire altro; ma Anna lo fermò sulla porta e aggiunse: “Nè, Piero, tornerai!?” Piero, non capendo se era una domanda o un ordine, fece di sì con la testa e stava di nuovo imboccando la porta. “Nè, quando stacchi e Giovanni si trattiene ancora un po' in officina tu passa qui senza paura perché se anche dovesse tornare all'improvviso tu fuggi dalla finestra sul cortile che è bassa bassa. Te capì?” “Sì, sì.” E scappò via e non riusciva a credere che quella cosa fosse accaduta proprio a lui. Ste torinesi? Ammazzale oh! Le tette di Anna si erano ormai incistate nel suo cervello e non lo volevano abbandonare per nessun motivo. Tornò in officina, consegnò le sigarette al Sor Giovanni e quando quello gli disse: “Piero, prendi. Non volevi fumare?” Pierino 65 divenne così rosso che, sfilata in modo maldestro la sigaretta dal pacchetto, scappò fuori anche perché in officina non si poteva fumare ma soprattutto perché non voleva che il principale capisse qualcosa di quell'improvviso rossore. Quella relazione di cui non si capacitava durò un paio d'anni, fra la chiusura della vecchia officina e l'apertura della DE.BO che comportò un piccolo spostamento, però prezioso per i due amanti, perché in quel modo, calcolato il breve tragitto a piedi e la facile via di fuga, si potevano vedere in tutta tranquillità. Non è escluso, come diceva mio fratello Giacomo, che il Sor Giovanni fosse consenziente perché si rendeva conto che l'astinenza imposta dalla malattia penalizzava fortemente quella donna ancora così giovane e bella... e con due tette così, aggiungeva Giacomo, che era un lazzarone chiacchierone, come vedremo. Fra la vecchia officina e la DE.BO non c'era confronto. La prima era una piccolissima sequenza di tre locali dei quali quello frontale era molto ampio e serviva a ricoverarvi le due o tre macchine su cui si doveva lavorare; la seconda era un enorme magazzino a ridosso del Verano davanti al quale veniva convogliato su un gomito stradale gran parte delle macchine che provenivano da Porta Maggiore. Dentro quel magazzino il Sor Giovanni aveva messo vari reparti di meccanica: carrozzeria, elettrauto, gomme, banco per lo smontaggio dei motori ecc. Insomma una 66 vera e propria catena di montaggio che sembrava l'imitazione della Fiat importata direttamente da Torino. Lentamente il numero dei meccanici salì da tre a trenta e la grande officina cominciò a lavorare a pieno ritmo. Pierino aveva la piena fiducia del Sor Giovanni che ne aveva fatto quasi un vice, nonostante la giovane età, per l'invidia degli altri e l'ironia di qualcuno sulla sua simpatia per la signora Anna. L'affare si ingrandì a dismisura, l'impegno era notevole, il Sor Giovanni cominciava ad accusare il fiatone. La DE.BO fu un'idea geniale e il Sor Giovanni si dimostrò un imprenditore di grandi capacità; in poco tempo riuscì a dare lavoro a un sacco di gente oltre che alla mia famiglia perché nel frattempo Pierino era riuscito a far assumere anche Giacomo. Purtroppo durò poco perché dopo un paio d'anni il Sor Giovanni morì improvvisamente e la signora Anna, che non era né meccanico né imprenditrice, si vide costretta a vendere tutto e a tornarsene a Torino da dove era venuta nonostante Pierino la scongiurasse di restare e di far tentare a lui la sorte: si sentiva ormai pronto per gestire un'officina sia pure di quelle dimensioni e sarebbe bastato che lei avesse il coraggio di rischiare i suoi capitali perché lui glieli avrebbe fatti fruttare a dovere. Ma Anna non riuscì ad avere fiducia in Pierino che vedeva troppo giovane e lasciò perdere, nonostante lo amasse più di se stessa. Morto il marito, sola a Roma, a parte quella relazione precaria con un ragazzo molto più giovane 67 di lei, pochi soldi della modesta eredità, ebbe paura e tutto finì: la DE.BO fu venduta e dopo un po' chiusa. E trenta persone finirono senza lavoro. Pierino si vide costretto a buttarsi negli affari: avrebbe aperto un'officina sua, magari cercandosi un socio. Quello fu sicuramente il periodo più brutto della sua vita: il giorno si tormentava chiedendosi se era meglio lavorare ancora alle dipendenze di qualcuno o aprire lui stesso un buco di officina meccanica; la notte si tormentava al pensiero delle tette di Anna chiedendosi se non fosse il caso di trasferirsi a Torino, raggiungerla e lì mettersi a cercare lavoro come meccanico. Si telefonarono qualche volta, si scrissero anche, ma poco, perché a Pierino questa attività non piaceva: insomma ad entrambi mancò il coraggio di fare un passo verso la felicità. In realtà quella relazione era nata su basi troppo fragili: lei era più grande di una quindicina d'anni, lui era uno rimasto attaccato alle gonnelle, meglio: alle tette, della madre. E per di più la madre moltiplicato cinque: mamma più tre sorelle più una nonna. Tutte, a tavola, lo guardavano mute significando con quel loro silenzio triste “Non ci lasciare!” oppure “Pierì, addò va?” oppure, nello sguardo di Ginetta: “Che ce devi fa' de quella mignotta?” Spesso non aveva i soldi né per la benzina né per le sigarette e allora rimaneva disteso sul divano in corridoio senza chiudere occhio perché noi 68 passavamo e ripassavamo facendo rumore e spesso chiamandolo per una cosa o l'altra. Povero Pierino! Niente più scherzi né più sceneggiate con peti modulati e sofisticati. Oscuramente sentiva che c'era una forza più grande di lui che lo tratteneva a Roma: quanto a dire qual era, gli era impossibile, ma che ci fosse era chiaro come il sole. Una volta provò anche ad andare a Torino, ma fu un disastro: Anna con una scusa non lo ricevette e lui bighellonò per la città fino a quando non decise di imbucarsi in uno dei primi cinema a luci rosse che a Roma ancora non c'erano per via del papa, in attesa che arrivasse l'orario del treno per tornare a Roma e per avere almeno qualcosa da raccontare a Giacomo. Quando arrivò a Roma capì che non avrebbe mai potuto vivere senza quella costellazione di affetti fra i quali il più potente era quello della madre. Sentiva oscuramente che se se ne fosse andato in un'altra città l'avrebbe perduta, l'avrebbe lasciata fra le braccia di quell'uomo rozzo e sguaiato (“mio padre” nella sua percezione) e forse sarebbe morta prima ancora che lui avesse il tempo di rientrare per salutarla per sempre. Insomma quando la salutò (era mancato due notti e un giorno) l'abbracciò come se fosse tornato dall'America e scoppiò in un pianto dirotto che mia madre ovviamente interpretò male. Piangeva per quella donna che lo faceva soffrire: lei non avrebbe mai potuto capire che quella donna non era Anna e che chi lo faceva soffrire era un'altra donna. 69 In quella situazione difficile bisogna dire che l'intervento di Ginetta fu provvidenziale. Era una analfabeta scriteriata, ma di coraggio ne aveva da vendere: aveva sentito dire che il marito di una delle sue giovani clienti stava cercando un socio per aprire un'officina meccanica: perché non andava a cercarlo? Pierino andò e con sua grande sorpresa si trovò di fronte un giovane più o meno della sua età, allora era fra i venti e i trenta, pieno di buone intenzioni e con le idee già chiare. Aveva fatto una scuola di meccanica e la famiglia era disposta a finanziarlo: cosa poteva fare Pierino? Ben poca cosa. I soldi che aveva guadagnato li aveva tutti consegnati a mia madre che gli razionava sigarette, benzina e divertimenti, ma che non bastavano mai. Beni al sole non ne aveva. Che gli poteva offrire? Il giovane futuro socio, capìta la situazione, gli chiese le referenze e quando sentì DE.BO non ebbe esitazioni: lo lasciasse parlare col padre e quanto prima gli avrebbe dato buone notizie. E così fu. Quel sant'uomo che si intendeva anche lui di meccanica si accollò tutto l'onere dell'investimento e propose a Pierino di lavorare a percentuale. Era quello che l'intera famiglia aspettava. Nessuna responsabilità e possibilità di vivere modestamente senza tanti pensieri. Né mia madre né Ginetta pensarono di esporre i loro soldi, pochi in verità, per permettere a Pierino di iniziare un'attività in proprio. La cosa comunque funzionò ugualmente e per di più Pierino fece tesoro di tutta la problematica 70 imprenditoriale, elementare come poteva essere elementare in quel momento e al suo livello, ma da quel momento incominciò a lavorare alacremente con la prospettiva di arrivare un giorno a mettersi da solo, ma sempre restando con la “fissa” di trovare, come si diceva allora, un posto fisso. La nuova officina andava bene e i due fratelli, Pierino col lavoro, Giacomo a spasso, si facevano forza a vicenda: Giacomo a causa delle sue molteplici malattie, ma soprattutto a causa di una spondilite che gli stava rovinando il sistema osseo, ormai aveva rinunciato a fare il meccanico e, in attesa di una migliore sistemazione, si era messo a lavorare con un elettrauto, lavoro che non prevedeva i defatiganti esercizi ginnici dei meccanici che si sdraiavano su lettini terraterra e con rotelle per spingersi sotto le macchine e andare a visionarle da sotto. Cosa che durò almeno fino a quando anche i più poveri non si poterono permettere il così detto ponte, cioè un supporto di ferro mastodontico che azionato con l'elettricità sollevava l'autovettura e permetteva al meccanico di osservarla da sotto senza bisogno di sdraiarsi a terra. Il lavoro di Pierino andava bene. La famiglia pure perché i due maschi in casa non c'erano mai e quindi a Ginetta non davano fastidio; neanche le due sorelle stavano in casa durante il giorno ma le donne si sa dentro casa diventano più litigiose degli uomini, per cui nei rispettivi romanzi di Angela e di Gisa 71 racconteremo le loro vicende disastrose con la regina della notte, cioè Ginetta. Poi finalmente ci fu la separazione e il trasferimento nella nuova casa per cui i due fratelli, che ebbero finalmente un letto ciascuno in una camera tutta per loro, si misero un po' più tranquilli e incominciarono seriamente a dedicarsi agli amori. Per il momento Pierino viveva dei racconti che Giacomo gli faceva delle sue numerose conquiste, perché Giacomo, come vedremo a suo tempo, aveva una grande fortuna con le donne e quindi stava sempre lì a raccontare a Pierino le sue avventure che Pierino ascoltava non senza un po' di invidia ma fiducioso che prima o poi sarebbe ritornato per lui il suo turno. Che venne abbastanza presto ma non come era nelle sue aspettative e nello spasso di Giacomo che come al solito era sempre quello più smaliziato. Gigi, il socio di Giacomo, era di un paio d'anni più grande di lui, ma era già sposato e aveva avuto da poco una bambina. Sembrava una persona pienamente realizzata: aveva un padre che lo finanziava per un'officina che andava abbastanza bene, una bella moglie che lo adorava e una bambina che era una delizia, tanto è vero che Pierino pensava sempre, quando la madre la portava in officina, che avrebbe voluto una figlia femmina così. Gigi però aveva dei comportamenti strani. Spesso lasciava l'officina prima della chiusura, pregava Pierino di chiudere lui e se fosse passato qualcuno dei suoi parenti di dirgli che 72 era andato a provare una macchina appena riparata. Pierino ne parlò con Giacomo il quale gli disse: “Mah! Me pare strano; se è così, se vede che ci ha qualcuna. Certo con una moglie così giovane e così carina a quell'età avecce pure l'amante è proprio un figlio di mignotta.” Pierino se la cavò sempre bene anche da solo fino al giorno in cui poco prima della chiusura passò in officina il padre di Gigi nonché proprietario dell'intera impresa. “Ohé, Sor Alcè!”, si chiamava Alceste il pover'uomo! “Gigi non c'è: è andato a provà 'na machina.” e così dicendo pensava che il Sor Alceste dopo qualche chiacchiera se ne sarebbe andato. Niente da fare. Quella sera il Sor Alceste si insediò nel piccolo ufficetto che c'era in officina e dava chiaramente ad intendere che avrebbe aspettato lì il figlio. “Sor Alcè, andate che lo aspetto io Gigi: dovemo da finì quell'Ottocentocinquanta, stasera.” “La finite domani, Pierì. Va a casa che lo aspetto io a Gigi.” Pierino era disperato. Non sapeva proprio che fare, ma con la sua solita ingenua indifferenza si disse beh, saranno affari de famiglia. Dove lo vado a pescare adesso Gigi e anche se lo trovo che scusa jje po' mette ar padre se rientra senza macchina? Mentre tra questi pensieri stava rientrando ecco che incontra Giacomo. Gli spiega tutto e Giacomo gli dice: “Guarda che Gigi l'ho visto poco fa in via del Poggetto, se corri lo trovi. Pierino sfoderò le sue notevoli doti atletiche, lo raggiunse e gli raccontò 73 velocemente la situazione. Gigi tremava. Non aveva previsto quell'imprevisto. Andarono subito da un amico comune che aveva una macchina e con quella Gigi si ripresentò in officina dove lo aspettava il padre. “Beh, che j'avete fatto a 'sta machina?” “Gnente, papà, dovevo solo fa un giro pe' vvede che ci ha. Er padrone m'ha detto che nun frena più bene e è vvero.” “E pe' controllà li freni te ce voleva più de 'n'ora? Domani parlo co' Pierino. Intanto dimmi dove sei stato.” Gigi non parlò, si chiuse in un mutismo ostinato e il Sor Alceste per quella sera dovette lasciar perdere. Il giorno appresso, sempre quasi alla stessa ora, si ripresentò in officina e sottopose i due a un interrogatorio estenuante. Il povero Pierino, che però non sapeva niente, niente poté dire se non ammettere che quelle scuse Gigi le aveva addotte altre volte. Quante volte? E chi se ricorda? Due, tre, nun lo so. “Va bene”, fu la conclusione del Sor Alceste, “da domani la chiusura la faccio io e quando arivo ve vojjo trovà qui tutti e due.” L'interrogatorio era stato martellante ed insinuante e insomma Pierino anche nella sua ingenua indifferenza intuì che sotto c'era qualcosa di grave e forse di losco. Ma cosa? Non riusciva a capire. Lo mise in pace Giacomo con la solita risposta: ci avrà 'n'altra donna. L'interrogatorio ebbe anche un effetto immediato. Da quel giorno Gigi non chiese più la connivenza di Pierino e anzi chiudeva regolarmente 74 l'officina insieme a lui attardandosi se c'era da finire qualche lavoro urgente. Ma non passò molto tempo che Gigi incominciò a dare altri segni di malessere. Era sempre triste, ascoltava distratto le barzellette di Pierino e soprattutto non rideva più alle sue battute. Non solo; spesso Pierino lo coglieva sovrappensiero o che lo stava fissando in modo strano e troppo prolungato. Comportamenti ripetuti spesso spesso, altrimenti Pierino non li avrebbe neanche notati. Sopratutto lo mettevano in difficoltà quegli sguardi complici di cui lo gratificava in continuazione. Che aveva Gigi? Che gli stava succedendo? E' possibile che l'amore per una donna, diversa dalla moglie, lo riducesse in quello stato? Una sera all'improvviso Gigi gli disse: “Perché stasera non ceni con me? Ti porto a un ristorante al ghetto che tutti ne parlano bene.” “A Gigi, io la sera so' stanco, vojjo andà a dormì.” “E dajje, pe' 'na sera! Domanimmatina aprimo 'n'ora dopo.” “A Gì, lascia perde, io nun ci ho voglia, nun me va de ripulimme, nun me va de magnà in pubblico, insomma nun me va.” “Ammazza che amico che sei! Pe' 'na vorta che te 'nvito me dici de no. 'Na bella serata. Parlamo un po' d'affari. L'officina va bene, ma potrebbe annà meglio. E dajje, fa uno sforzo.” Pierino non se la sentì di rifiutare ulteriormente, anche se già stava all'erta perché quella cosa non gli sembrava una cosa fatta bene. Con la moglie e la figlia che lo aspettavano a casa, lui se n'annava a cena co' 'n amico! Bah! 75 A cena, in uno dei più esclusivi ristoranti della capitale, l'imbarazzo di Pierino crebbe, se possibile, ancora di più. Si era vestito giacca e cravatta ma si vedeva che i suoi vestiti erano da quattro soldi nei confronti degli altri avventori e insomma tutto l'ambiente lo faceva sentire decisamente inadeguato. A questo si aggiungeva l'imbarazzo per l'andamento della conversazione così come la dirigeva Gigi. Incominciò subito a parlare della moglie e dello sbaglio che aveva fatto a sposarla. Non mi piace, non sa fare l'amore, non sa baciare, non mi cerca mai e giù contro quella povera Nadia che non sapeva nulla di tutte le critiche che il marito le faceva e che soprattutto si riteneva assolutamente fortunata di aver trovato un uomo che l'amava e la desiderava. Pierino si chiedeva: perché proprio a me? A Roma si dice: “E 'sti cazzi!”, sottinteso: “a me li racconti?” Pensava questo ma non lo diceva perché in realtà non avrebbe saputo cosa dire; annuiva, ogni tanto pronunciava qualche monosillabo privo di significato; insomma ascoltava con finta attenzione la confessione di un uomo sul fallimento del proprio matrimonio; mangiava, questo sì, delle cose con sapori straordinari e appetitosi che non aveva mai mangiato: un timballo di fettuccine al tartufo, saltimbocca alla romana con contorno di carciofi alla giudìa, il tutto innaffiato da champagne. Gigì, ma che sei impazzito? “Ma che impazzito? Se campa 'na vorta sola!”. Esterrefatto, Pierino come al solito cadeva dalle nuvole e non capì 76 neanche quando Gigi incominciò a fargli delle domande sulle donne. Come mai non so niente di te? Con chi te la fai? Dai che non me lo vuoi dire. E non era più come sotto le armi che quando si passava a parlare di donne si poteva inventare quello che si voleva, tanto nessuno avrebbe mai potuto verificare. Qui Gigi aveva possibilità di controllo e non gli si potevano raccontare balle. Insomma, alla fine di quella specie di interrogatorio, Gigi era venuto a sapere che per ora Pierino non ci aveva nessuna, che c'era una che jje piaceva ma che lui non ci aveva il coraggio di farle la dichiarazione, si diceva così allora; ma quale dichiarazione? diceva Gigi, portala in macchina e mettiglielo in mano: vedrai che non lo lascia e anche se lo lascia mica vola via. Pierino rise. Non sapeva come fare per dire a Gigi che lui cercava una sola cosa nelle donne: le zinne, e che l'unione sessuale se non gli fosse servita per chiudere il circuito egli neanche l'avrebbe attivata. E' difficile per chiunque mettere a fuoco e poi descrivere la specificità del proprio desiderio sessuale, ma per uno come Pierino era addirittura impossibile. Sapeva, ma non sapeva di sapere. Una volta scioltosi dall'abbraccio della prostituta di turno neanche si ricordava più che quella gli aveva imposto di mettere il preservativo e che ora quel coso gli pendeva tra le gambe in un lugubre scenario da camera mortuaria. Con la signora Anna non gli succedeva: la signora, espertissima, appena finito, 77 glielo toglieva lei, il preservativo, mentre Pierino ancora frugava con la lingua fra le sue mammelle. Però sentiva che tutto questo a Gigi non lo doveva dire. C'era nella curiosità dell'amico qualcosa fuori di luogo che lo disturbava. Preferì fare la figura del verginello ingenuo piuttosto che quella dell'uomo navigato, quale un po' già era. E poi era frastornato da tutto quel lusso, dalla bontà dei cibi, dalla conversazione stessa che, nonostante le riserve dette, fece trascorrere piacevolmente le ore fino alla fine. Insomma Pierino uscì dal ristorante così entusiasta della serata di cui non aveva capito niente che disse a Gigi: “Grazie, Gì. E' stata proprio bella. La rifamo. Ma stavolta pago io.” proposta ingenua dovuta più al desiderio di contraccambiare per provinciale onestà la gentilezza dell'amico che perché ci tenesse davvero. Esternata tale proposta, Pierino fu perduto per sempre. Nei giorni seguenti, parlando ancora di quella serata, Pierino scoprì quanto era costata e allora decise che non avrebbe più rinnovato quell'invito perché assolutamente non alla portata delle sue tasche, e fece passare così molti giorni sempre assillato dallo strano comportamento di Gigi, che lui cominciava a considerare come frutto di una malattia che prima o poi sarebbe venuta a galla. Dopo un paio di mesi, Gigi tornò alla carica. Pierino con grande imbarazzo si giustificò dicendo che gli era passato di mente, ma anche Gigi tagliò corto: quello, quando te pare; adesso te sto a invità io 78 e pago io. L'invito perentorio, dato il precedente, non lasciava scampo e Pierino dovette assoggettarsi a quel secondo capitolo della via crucis, che però non fu terribile come il primo. Intanto perché un po' ormai era preparato a tutto, ma poi perché Gigi, stranamente, non intavolò discorsi imbarazzanti. Parlò di macchine; parlò del suo sogno di cambiarsi al più presto la sua per acquistarne una più bella; insomma sembrava che volesse sempre sottolineare il suo stato di persona benestante che si poteva permettere molte cose che invece a Pierino, per un motivo o per l'altro, erano precluse. In più Gigi insisteva sul fatto che gli faceva piacere averlo a tavola con lui perché ogni tanto si voleva liberare di quella rompiscatole della moglie che, dicendo sempre le stesse cose, lo annoiava mortalmente. Io e te invece... sembra che il destino l'abbia fatto apposta a farci incontrare. Quella bella officina! Pure i guadagni sono buoni. Tu lavori e metti al pizzo perché ti vuoi sposare, dì la verità. Ma chi te lo fa fare? Magari poi finisci come me, con una rompicoglioni che ti rovina l'esistenza. Nun te sposa', damme retta, e via con banalità di questo genere. Pierino era divertito, ogni tanto interrompeva quando il tema gli ricordava qualche barzelletta esilarante che raccontava quasi ad alta voce per farla sentire agli altri avventori; come a dire: vedete che anch'io, poveraccio come sono, so far divertire la gente. Insomma anche quella serata finì bene. Senonché nel riaccompagnarlo a casa Gigi cadde in un silenzio 79 assoluto. Guidava attento e accigliato e sembrava vittima di un improvviso cambiamento d'umore che non gli consentiva più di essere brillante come era stato fino all'uscita dal ristorante. E' matto, pensò Pierino, e cominciò a sonnecchiare contento che quel cicaleccio di Gigi fosse finito. Quando scese dalla macchina e lo ringraziò salutandolo, Gigi lo salutò con un ciao detto velocemente fra i denti e seguito da uno sportello sbattuto e da una partenza a sgommata che confermò Pierino nella sua diagnosi: è proprio matto! Poi però dimenticò quel saluto così strano perché altra carne bolliva in pentola. Dopo qualche mese che eravamo nella nuova casa le gambe di nonna Francesca, già molto provate, cedettero e lei si allettò definitivamente. Invocava spesso la morte, ma in realtà ne aveva una paura fottuta perché si lagnava in continuazione chiedendo l'intervento del dottore. Il dottore qualche volta veniva ma la diagnosi era sempre la stessa: per quelle gambe ormai non c'era più alcun farmaco efficace: la poverina avrebbe passato i suoi ultimi anni in quel letto di contenzione. Un bel giorno un dottore... bello, giovane, alto ed elegantissimo suonò alla porta per visitare la povera malata. La riuscita dello scherzo spingeva ai limiti il cinismo di Pierino: per lui era più che altro una rappresentazione, uno spettacolo e certo si sarebbe rivelato un attore provetto se ne avesse avuto l'opportunità. Si era fatto dei baffi finti con la polvere 80 del caffè, si era messo un cappello a larghe tese che gli davano un aspetto assolutamente signorile, al punto da incutere rispetto a chiunque non fosse informato dello scherzo come accadde all'amica di mia sorella Angela che andò ad aprirgli. Indossava sulla tuta da meccanico appena lavata da mia madre il suo nuovo trence di un dignitosissimo bianco sporco. Nonna non si accorse di nulla; si fece visitare senza fare storie, assistette pensierosa alla prescrizione dei medicinali (si era procurato un block-notes che per la nonna era un ricettario più che cedibile), ascoltò in religioso silenzio le consegne che quel giovane medico così per bene le imponeva. Finita la visita, guardando con severità quelli di noi che esageravano a ridere, salutò cortesemente e se ne andò. Quando in seguito a nonna fu rivelato lo scherzo lei si divertì molto ma disse anche in dialetto: “Volevo dire che aveva le unghie troppo sporche di nero per essere un medico vero!” Uno scherzo sciocco, come si vede, ma a Pierino si perdonava tutto perché era simpatico e sempre pronto a ridere. Intanto la sicurezza del lavoro lo aveva spinto a dedicarsi un po' di più alla vita sociale. Fra i suoi amici ricordiamo Erbacio, nome non inventato da me, Lillo e Marcello. Pierino aveva per essi una vera e propria venerazione: se durante il giorno non lo andavano a trovare in officina, appena staccava, si era tutti nello stesso quartiere, andava ad accertarsi che tutto procedesse regolarmente: sentiva 81 di avere per loro un'affezione di cui non capiva il senso, si sentiva un po' come il buon padre o meglio il fratello maggiore che doveva avere cura di loro; ma per Erbacio, che in romanesco significa “il bacio”, sentiva una forma di protezione particolare che spesso lo metteva a disagio. Erbacio era bello più o meno come Alain Delon, ma piuttosto più che meno, in quanto su di lui non si era stratificata la ricchezza e le convenzioni borghesi dei cinematografari. Era di una bellezza spontanea e naturale, una bellezza che lasciava senza fiato quando abbozzava un sorriso di intesa su questo o quell'argomento. Era una bellezza esagerata, quasi femminea, e Pierino non poteva fare a meno qualche volta di toccarlo secondo gli schemi virili del tempo: braccio sulle spalle; accenni di pugilato; qualche mossa di lotta: a quei contatti provava con sgomento un piacere che non sapeva riconoscere; e così, quando Erbacio morì per un incidente d'auto la vita di Pierino cambiò decisamente. Un lutto per lui insopportabile, la sensazione che tutto fosse finito, l'impossibilità di comprendere perché una persona tanto giovane dovesse morire improvvisamente e perché tanto dolore dovesse provocare in lui. Prese a disertare le riunioni serali degli amici, si chiudeva in casa a rimuginare sdraiato sul letto dal quale non schiodava se non per mangiare. E generalmente la cena era frugale e molto ridotta. Pierino aveva un controllo perfetto sul suo corpo. 82 Quando diceva: “Mà, basta; mi sento sazio!” Era proprio sazio; non era come me che, se quel cibo mi piaceva, non mi alzavo da tavola fino a quando non ne vedevo la fine, e invece, se non mi piaceva, lo lasciavo tutto lì dicendo che non avevo fame. Cominciò a frequentare la casa di Erbacio dove trovava la madre, distrutta dal dolore e tuttavia capace, con l'energia delle donne, di opporvi resistenza, e una sorella di Erbacio che gli assomigliava in modo impressionante. Pierino non faceva caso tanto a questa somiglianza quanto al fatto che tanto Erbacio era allegro e scherzoso quanto Lissa era seria e taciturna. Qualche volta si risvegliava da quella specie di torpore e gli faceva delle domande strane non su Erbacio, ma sulla meccanica e i motori. Pierino si recava in quella casa per cercare di consolare quella madre che lo ricambiava con cortesia ma dentro di sé si chiedeva “Perché mio figlio e non lui?” Insomma alla fine Pierino si dovette convincere che quell'incidente terribile si andava archiviando da solo nell'animo di tutti quelli indirettamente ma anche direttamente colpiti da esso. Il ricordo dell'amico era quello del ritratto marmoreo e gelido della tomba e nulla consentiva di pensare che si sarebbe potuto tornare ai tempi belli di quella giovinezza ormai perduta con Erbacio. Si rifugiò nella famiglia... di Ginetta dove la sorella lo aspettava a braccia aperte perché era l'unico che alla fine della settimana riportava a casa la paga e 83 Desiderio, suo complice, lo allettava con una benevolenza e con un'amicizia che ostentava sottolineando che era riservata solo a lui e non a noi altri poveretti. Avevano in mente i due marpioni di acquistare a mezzi la topolino di cui ho già parlato. Pierino sognava ad occhi aperti una macchina e per quella proposta, in quel momento provvidenziale per distoglierlo dal pensiero di Erbacio, cresceva in lui spropositatamente l'ammirazione e l'amore per quella magnifica sorella che era capace di aiutarlo in tutto, anche a dimenticare Erbacio. Ma ahimè Erbacio ritornava a lui come l'ombra di Banco a Macbeth. La madre dell'amico infatti quando si accorse che le sue visite si andavano diradando, capì che la speranza di un matrimonio che lei sognava fra la figlia e Pierino si stava dileguando. E allora prese coraggio e venne a trovarlo lei in casa nostra. Mia madre la ricevette con un certo imbarazzo ma anche con un grande rispetto per il dolore che quella donna era stata ed era costretta a sopportare. Ma più grande fu l'imbarazzo di Pierino il quale non sapeva cosa dire né sapeva nascondere lo sguardo interrogativo che gli si dipingeva sul viso. La donna fu molto franca: le sue frequenti visite dopo la perdita del figlio le avevano come dato l'illusione che lei potesse riversare su Pierino l'amore che aveva per Erbacio, e che quindi riprendesse le sue visite che a lei erano particolarmente gradite. “E anche a Lissa” concluse con una particolare sottolineatura, 84 “farebbero molto piacere.” Pierino non era scemo: capì che quella era una vera e propria spedizione, ma non riuscì che a farfugliare una vaga promessa che poi non mantenne lasciando cadere la cosa. Non aveva mai pensato a Lissa come una probabile compagna, il suo bel viso e la sua persona si confondevano con quelli dell'amico scomparso e lui non avrebbe mai potuto avvicinarsi a lei con intenzioni più che fraterne. Dunque promise sapendo che non avrebbe mai potuto mantenere. Anzi, da allora in poi, quando incontrò qualche volta Lissa, il loro imbarazzo era talmente evidente che alla fine la ragazza svicolava piuttosto che affrontarlo e salutarlo. Intanto in officina Gigi continuava a dar di matto. Spesso lo accarezzava all'improvviso; spesso gli faceva complimenti sul suo fisico. Chissà quante donne ci hai: ci avrai la fila. Ma che distribuisci i numeretti? Francamente quella specie di assedio fatto per insinuazioni e di cui non capiva il senso lo infastidiva molto e una volta che ne stava parlando con Ginetta e con Giacomo Ginetta gli aprì definitivamente gli occhi. “A Pierì, ma non lo hai ancora capito che quello è frocio: quello te se vo' fa'.” Pierino arrossì, aveva troppo rispetto per quella sorella per chiederle spiegazioni più approfondite. Lo fece però con Giacomo il quale gli tolse ogni dubbio sia sulle mire di Gigi sia sul fatto che fosse frocio. Una volta che nel negozio di Ginetta la moglie si era lamentata anche lei dei comportamenti del marito, 85 appena uscita, una delle altre signore presenti svelò l'arcano: “E' proprio vero che il cornuto è sempre l'ultimo a saperlo. L'unica attenuante per quella povera donna è che stavolta le corna so' speciali.” “E che saranno mai? Corna de reggina?” “Ma che reggina? De re, e più d'uno, a quello che se dice.” Insomma tutti sapevano che Gigi era gay, persino il padre, meno che la moglie e il povero Pierino che non poteva credere a quello che gli stava dicendo Giacomo. Ma come? Ci ha la moglie! “E che ne so! Sembra che se pò fa' lo stesso.” E alle successive richieste tecniche di Pierino, Giacomo, a un certo punto, infastidito, gli rispose come avevo fatto io con Assuntina. Pierino lo lasciò per seguire i suoi pensieri, ma i suoi pensieri su quel tema gli sembrarono subito una specie di scherzo e si spensero incalzati da pensieri ben più importanti. Quando Pierino parlò in casa dell'acquisto della topolino trovò la recisa opposizione di mia madre che vedeva i mezzi meccanici, dopo il fratello, dopo Erbacio, come moderne ghigliottine per sottrarre i figli alla madri. Ciò le avrebbe dato un grande dolore. Allora Pierino si appellò a mio padre che come al solito se ne lavò le mani. E alla fine fu costretto a crescere e a prendersi personalmente la responsabilità di concludere l'affare contro la volontà della famiglia. Mia madre non volle mai salire su quella macchina facendo pesare a Ginetta e a Pierino quella decisione presa contro la sua volontà. Ma quella macchina per 86 Pierino rappresentò la libertà da molte cose: girava per Roma, accompagnato da Giacomo, per rimorchiare qualche ragazza disponibile o alla peggio caricare qualche prostituta. Intanto si era sposata anche la quarta delle sorelle, Angela. Insomma Pierino era pronto ormai ad affrontare il tema del matrimonio. Aveva un lavoro, stava abbastanza tranquillo economicamente, la famiglia era a posto, lui cominciava seriamente a pensare di prendere moglie. Ma Gigi? Che faceva Gigi? Si era rassegnato alla irreversibile eterosessualità di Pierino o ancora ci stava pensando? L'amore, si sa, non perdona. Pierino era troppo bello e soprattutto era una tentazione sempre là presente. C'era in officina, giù in fondo, nascosta in un angolino appartato, una doccia che i due utilizzavano alla fine della giornata per lavarsi, cambiarsi e portare a casa solo il borsone con le tute sporche. Quella sera, come ogni sera, Pierino si stava facendo la doccia protetto solo dalla tenda di plastica che lui manco chiudeva tanto era sicuro di essere al di fuori di sguardi indiscreti. All'improvviso da dietro la tenda gli entrò in doccia Gigi, anche lui nudo, cosa che non aveva mai fatto prima. “A Gì, che fai?” “Ci ho fretta, non posso aspettà. Dajje, insaponame la schiena, che quella stronza nun me lo vo' mai fa'. E più giù, più giù.” “A Gì, il culo te lo poi lava' da solo, no?” Disse Pierino, ma non fece neanche in tempo a dirlo, che Gigi si era portato una mano alle spalle e gli 87 stava afferrando il pisello. “A Gì, ma che fai? Sei matto?” “Ma nun te s'addrizza?” “Ma che sei impazzito? Perché me se dovrebbe addrizzà?” Gigi si risciacquò velocemente senza dir niente, sgusciò via dalla doccia e scomparve. A Pierino sembrò di essere uscito da un incubo, ma solo per qualche secondo; poi tornò alla sua solita calma olimpica, finì di lavarsi, si asciugò, si rivestì e fu allora che vide Gigi rincantucciato sul sedile della sua macchina, ancora avvolto nell'accappatoio, che piangeva silenziosamente: le lacrime gli scendevano sul viso abbondanti e sembrava che non avesse altro pensiero che quelle perché se le asciugava continuamente col palmo della mano. “A Gì, ma che ci hai?” L'amico fece segno di no con la testa. “A Gì, ma guarda che non è successo niente.” “E lasciami stare!” gli rispose sgarbatamente e chiuse lo sportello con violenza come a dirgli: “Vattene a fa' 'n culo!” Pierino rientrò nell'incubo. Che doveva fare con quel matto? Mo lo piglio e lo gonfio di botte. Pensò. Ma poi fu assalito da un soprassalto di tenerezza. No, mo riapro lo sportello e cerco di parlargli ancora. Aveva già fatto qualche passo per allontanarsi dalla macchina in cui l'amico si era chiuso. Tornò indietro non visto da lui perché era in controluce rispetto alle lampade dell'entrata e quando mise la mano sulla maniglia della macchina vide inorridito che Gigi si stava masturbando. Ritrasse la mano in preda ad una vera e propria confusione mentale. A quel punto si 88 affrettò ad andarsene pensando lui questa volta: “Ma vattene a fa' 'n culo, va'!” Se ne andò a casa con la mente che ritornava ostinatamente su un episodio raccontatogli spesso da Assuntina. Lei era già una ragazzetta quando lui nacque e mia madre quando aveva da fare glielo appioppava, d'estate anche seminudo. Un giorno che il maiale riuscì a venir fuori dal suo recinto inaspettatamente attaccò Assuntina, seduta con Pierino in braccio, col chiro intento di mangiarsi il pisellino del piccolo. Assuntina gridò spaventata e mio padre che era poco distante perché stava inseguendo il fuggitivo con una vanga in mano, viste le brutte, lo fermò con un terribile fendente di vanga che spezzò la spina dorsale del povero animale per cui dovette essere abbattuto definitivamente da un porcaro chiamato d'urgenza per non farlo soffrire troppo. Mio padre morì pochi giorni dopo che Gigi aveva attentato al pisellino ormai cresciuto di Pierino. Per Pierino la morte del Sor Giovanni era stata una prova difficile da superare ma era come se quel grand'uomo che gli aveva dato e insegnato tutto della vita trattandolo come un figlio gli avesse anche voluto far fare da spettatore all'anteprima della morte del padre. Infatti mentre Pierino era tutto lanciato a costruirsi un'esistenza decente ed era nello stesso tempo incalzato da questa triste vicenda di Gigi improvvisamente morì mio padre. E dunque punto e a capo. 89 La famiglia si trovò nei guai che ho già descritto, tutti e tre i miei fratelli sorelle rimasti in casa, lui compreso, dovettero in qualche modo segnare una pausa alla loro vita: Gisa, già fidanzata da tempo, dovette ritardare il suo matrimonio; i miei fratelli lo dovettero ritardare ancora di più perché mia madre era assolutamente convinta che prima doveva sistemare le figlie femmine e poi si sarebbe parlato dei maschi. Io ero ancora fuori discussione: avevo, sì e no, una quindicina di anni. Intanto ecco riapparire la solita Ginetta. La seconda delle sue figlie, Isabella, poco più che una ragazzina, ebbe bisogno di un intervento alla cistifellea che fu fatto eseguire in una clinica di lusso dalle parti di piazza Bologna. Allora non era come adesso. Un intervento banale com'è oggi la cistifellea con i calcoli allora era considerato un'operazione chirurgica vera e propria e quindi prima, durante e dopo, medici e chirurghi dovevano tenere a bada parenti e amici che andavano a visitare il malato. Per Isabella fu una passeggiata e così per tutta la famiglia, ma il caso volle 'il caso!' che nella stanza a due letti in cui era ricoverata mia nipote fosse degente anche la signora Antonietta. Che signora poi tanto non era né nell'aspetto né nel comportamento. Era una popolana capitata lì solo a causa dell'emergenza clinica e incapace di rendersi conto che si trovava in una villa di signori, scelta da Ginetta perché lei doveva comunque distinguersi. 90 Il tutto nacque dunque da un equivoco. La Sora Antonietta strinse l'amicizia con i parenti della sua compagna di stanza pensando che fossero dei ricchi signori abituati a frequentare cliniche di lusso; Ginetta, invece, la lasciò fare pensando che se ne sarebbe potuta fare una cliente. Tanto più che la Sora Antonietta aveva tre nipoti una più bella dell'altra: Silvana, Loredana e Claudiana. E dunque forse era arrivato il momento di programmare la moglie per Pierino che, fra Silvana e Loredana, Claudiana era ancora troppo giovane, avrebbe sicuramente avuto una facile scelta perché erano entrambe molto belle. Pierino non ebbe dubbi: Loredana! Loredana aveva una capigliatura fulva e riccia e due tette da far invidia ad Anita Ekberg e inoltre era alta e slanciata, insomma proprio la donna che ci voleva per lui. Sì, certo, Loredana! Silvana che era altrettanto bella ma di un tipo diverso, il riferimento più logico per il lettore potrebbe essere un'attrice del tempo, Belinda Lee, morta tragicamente in un incidente d'auto; Silvana aveva un caratteraccio e, nonostante la sua bellezza, era vittima di un'autostima di copertura, cioè un'autostima che nascondeva invece la consapevolezza di non valere niente e di non essere niente. Insomma una papabile zitella, destinata ad allevare i figli delle sorelle e a rimanere per sempre in famiglia la povera zia Silvana. Un caratteraccio, stando a quello che disse in seguito la zia Antonietta e forse un primo amore finito male. Insomma nessuno 91 avrebbe mai pensato che avrebbe potuto essere la futura moglie di Pierino. Nessuno, tranne Ginetta. Ginetta aveva un fiuto infallibile per impicciarsi degli affari degli altri e dunque cosa le poteva capitare di meglio che plagiare una creatura tutto sommato ingenua e farla accoppiare a un fratello minore già totalmente plagiato? Ne parlò col marito, incominciò una guerra spietata contro Loredana andando anche contro la resistenza di Pierino che già sognava di affondare la bocca in quelle due enormi tette e che tutto sommato non era molto propenso ad adattarsi a Silvana, non perché fosse meno bella di Loredana, anzi! ma perché se la tirava troppo: stava sempre lì come una madonna di marmo, gelida e triste, come se fosse sempre in attesa di un fedele che andava a pregarla. Pierino fu sottoposto ad un vero e proprio lavaggio del cervello. Ma non lo vedi che viene tutti i giorni a trovare la zia? Secondo te perché sta sempre qua? Ma non lo vedi come ti guarda? Tu non te ne accorgi ma appena giri gli occhi lei ti guarda di sottecchi. Ma non lo capisci che si è innamorata? Mi sa che tu tieni sempre in testa quella mignotta di Torino. E insomma alla fine il cognato Desiderio sbottò: “Basta! O ci vai tu o ci penso io.” A Pierino non sarebbe dispiaciuto che ci andasse Desiderio e facesse tutto lui, così lui si trovava tutto pronto, ma quella minaccia era soltanto uno sprone e non aveva niente di reale. Il trattamento andò avanti per la 92 decina di giorni che durò il ricovero delle due malate; poi la cosa sembrò finire lì: sembrava che né Loredana né Silvana fossero riuscite a far breccia nel cuore di Pierino che tornò tranquillamente al suo lavoro senza immaginare gli stratagemmi messi in atto dalla sorella. Ginetta a quel tempo aveva già aperto da un bel po' il suo negozio e dunque le fu facile invitare spesso Silvana ad andare a farle compagnia e Silvana, anche lei ancora abbastanza ignara della trappola che la futura cognata le stava preparando, ci andava. Fu un plagio perfetto e senza ritorno. Silvana divenne la cagnolina di Ginetta: non aveva la coda altrimenti avrebbe scodinzolato ogni volta che la rivedeva. E lì nelle lunghe pause fra una cliente e l'altra, fra un regalo e un regalino, Ginetta ebbe modo di plasmare la mentalità di Silvana rispetto alla famiglia nella quale stava per entrare: Cettina era la primogenita e andava rispettata comunque anche se era una burina e un'ignorante. La bravura di Ginetta era costituita da questo procedimento dicotomico che lei applicava rigorosamente ad ogni persona: le qualità positive quando le voleva riavvicinare e quelle negative quando le voleva allontanare. Dunque: Cettina sì, ma era una burina; Assuntina no, perché si dava troppe arie ma alla fine era una tirchia che cercava solo di approfittare dei parenti (ovviamente come tutte le personalità rimaste infantili affibbiava a quelle adulte i propri errori), però ammucchiava soldi e dunque al 93 momento opportuno...; Angela no, perché era scorbutica e poi stava creando un sacco di problemi perché voleva sposarsi prima degli altri e quindi sottraeva soldi alla famiglia che invece era in debito con lei per via de “La Mèliga”: però anche lei, come Assuntina, era un bancomat sicuro; Giacomo era fuori discussione perché era un fedelissimo assolutamente affidabile; Gisa no, per lo stesso motivo di Angela, però era tanto brava nel lavoro e non temeva fatica. Io non contavo. Mia madre era la sua nemica giurata: una donna tirchia e senza cuore che però aveva sacrificato la sua vita per la famiglia. Insomma la povera Silvana fu ammaestrata a livelli che farebbero parlare di plagio anche chi nel plagio non crede. Finalmente Pierino si fece avanti, quasi preso a spintoni da Desiderio. Silvana non aspettava altro, aveva già 32 anni, non a caso uno più di Pierino che andava cercando la mamma tra le cui mammelle affondare il viso; forse un primo amore fallito e mai digerito; un carattere spigoloso che metteva fuori con tutti meno che con Ginetta: insomma se voleva sistemarsi, come si diceva allora, non si doveva lasciar scappare uno come Pierino. Si fidanzarono, ma erano da poco fidanzati, quando io e mia madre, nel recarci al cimitero sulla tomba di mio padre dove io la accompagnavo sempre, incontrammo (per caso? direi di no!) la zia Antonietta la quale ci trattenne per più di mezz'ora a dire tutte le malefatte di Silvana. Accrocchiava minimi episodi irrilevanti (tipo: va a 94 ballare con la gonna scampanata così quando gira mostra tutte le gambe e jje se vedeno perfino le mutande!) per descrivere la poverina come una specie di mezza-prostituta assolutamente non credibile perché Silvana invece aveva un carattere estremamente introverso e una mentalità ispirata alla cosiddetta onestà delle donne popolane. Mia madre non era affatto scema. Ascoltò attentamente quella stupida pettegola e quando si fu allontanata mi disse semplicemente: “Parla per invidia. Crede che la nipote farà un matrimonio di livello e teme che possa superarla in agiatezza.”. Fatica sprecata quella della Sora Antonietta; mia madre aveva già imparato a voler bene a quella strana ragazza che però sembrava quella giusta per rendere felice quel figlio per lei così problematico. Non si può dire lo stesso per Silvana. Caricata da Ginetta mostrò sempre una grande antipatia per mia madre che criticava in tutti i modi col solito metodo del “vuole più bene a questo che a quello” insegnatole da Ginetta. Una due e tre, anche mia madre finì per prenderla in antipatia, ma non per quello che aveva detto la zia Antonietta né per gli sgarbi che riceveva direttamente da lei, no! Solo per questo semplice motivo: spesso quando chiamava mio fratello, che in famiglia era stato ribattezzato Cavia, Silvana lo apostrofava dicendo Sor Cà con evidente allusione al genitale femminile, così come si chiama a Roma ritraendo l'accento. Ciò provocava il 95 risentimento di mia madre la quale non tollerava la minima deviazione linguistica in direzione oscena. Quell'appellativo le dava un fastidio tale che alla fine mise a fuoco la personalità sostanzialmente popolanocittadina di Silvana con la quale una donna come lei non poteva andare d'accordo. Non sapeva, la poverina, che era proprio su questo che faceva leva Ginetta per metterle contro la prima delle sue due nuore. Se Pierino e Silvana si erano lasciati abbindolare da Ginetta, non fu lo stesso per Loredana che non dimenticò mai lo sguardo di Pierino sulle sue tette la prima volta che si incontrarono. Analfabeta di ritorno, Loredana stava aspettando solo il principe azzurro che la portasse via dall'intollerabile routine di una famiglia dove non succedeva mai niente. E vedendo lo sguardo molto interessato di Pierino aveva creduto che fosse lui il principe azzurro che aveva aspettato per tanto tempo. Anzi per un certo periodo aspettò ma invano che Pierino si rifacesse vivo, ma niente da fare. Così quando Silvana annunciò che Pierino voleva venire in casa a parlare con i genitori, Loredana a tutta prima fu presa da uno sturbo, ma poi cominciò a tempestare di domande la sorella e le ci volle poco per capire che l'organizzatrice di tutto quel marchingegno era stata quella stronza della sorella di Pierino che se credeva, parole testuali, Frà cazzo da Velletri vestito da dottore. Le donne, in fatto d'amore, si sa, non perdonano e la sera stessa dell'invito a cena 96 di cui Pierino avrebbe dovuto approfittare per fare la richiesta Loredana riuscì a portare a termine la sua vendetta. La cena si svolse allegramente anche grazie alle barzellette di Pierino; il Sor Virgilio, padre delle tre ragazze, disse le solite parole di circostanza e, dopo preso il caffè, si scusò e se ne andò a dormire; Claudiana e la mamma si misero davanti alla tv che stava nell'altra stanza e a tavola rimasero solo Loredana e Pierino, seduti l'una di fronte all'altro, perché Silvana, su preciso ordine della madre, era andata in cucina a fare i piatti. Voleva dimostrare o no che sarebbe stata una brava moglie? C'era un silenzio imbarazzante. Loredana non sapeva che dire e tanto meno sapeva cosa dire il povero Pierino che però a un certo punto sentì qualcosa che gli si strofinava sulla patta: guardò Loredana che gli strizzò l'occhio e gli fece cenno di star zitto: praticamente aveva allungato sotto al tavolo una di quelle sue tornite gambone lunghe da togliere il fiato e lo stava masturbando col piede. Pierino guardava trasognato la scollatura della futura cognata e già sognava indimenticabili amplessi in barba alla lavapiatti, cioè Silvana, che stava in cucina. Loredana non fece in tempo a portare a termine l'operazione perché quella sera i piatti furono lavati per modo di dire: in un batter d'occhio Silvana si ripresentò e a quel punto, sempre su preciso invito della mamma, Loredana dovette smammare e andare a sedersi anche lei davanti alla tv per lasciare soli i due piccioncini; ma ormai fra quei due un patto 97 segreto era stato firmato: sia lei che Pierino sapevano che ad ogni minima occasione si sarebbero accartocciati in amplessi indimenticabili. Come descrivere Loredana? Partiamo da una Sandra Milo trentenne e con parrucca mora (ricordate “La visita”?). Il viso era meno volgare ma anche meno espressivo: mostrava una delicatezza di lineamenti estranei al viso di quell'attrice, ma erano appunto i lineamenti di chi non sa nulla e non ha che da offrire le proprie doti fisiche. Il corpo invece era identico: Loredana era quello che allora si chiamava una maggiorata fisica, nuda era una Venere di Milo leggermente più prosperosa e con un petto molto più abbondante di quello della dea; quanto al resto era perfettamente in linea con la celebre Venere callipigia. Insomma anche lei era titolare di una bellezza capace di far perdere la testa a più di un uomo e certamente la fece perdere a Pierino che la tenne come amante per quasi tutta la vita. La prima occasione di un loro incontro capitò quasi subito. Pierino arrivò a casa dei suoceri con un po' di anticipo; Silvana, che aveva accompagnato la madre a fare una visita, rientrò un po' più tardi e il gioco fu subito fatto. Non sapremo mai come fece Loredana a rimanere quasi nuda quando, avendo chiesto a porta chiusa chi era, si sentì rispondere che era Pierino. Non lo sapremo mai; ma fatto sta che quando Loredana vide che Pierino stava da solo con un solo gesto si sbottonò la leggera vestaglia che la 98 copriva scoprendola e rimase completamente nuda e Pierino ovviamente di fronte a quelle due tette enormi che nella penombra dell'ingresso sembravano ancora più grandi perse completamente la testa. Quando rientrarono gli altri alla spicciolata, io mammeta e tu, il giochetto era bell'e concluso e i due erano entrambi frastornati dal piacere immenso che ne avevano tratto: Loredana, che ostentava una sicurezza nota solo a chi non capisce niente al di là del proprio tornaconto; e Pierino, che invece era realmente frastornato da una serie di pensieri contraddittori dai quali come al solito non sapeva come venir fuori se non gettando tutto in caciara, come si dice a Roma. Rise e scherzò per tutta la serata come se l'accaduto non lo riguardasse e lasciò la casa festeggiatissimo e, una volta uscito, seguito dai complimenti che tutta la famiglia fece a Silvana. Ma com'è simpatico! Ma come è di conversazione! Se ti si sposa sei proprio fortunata! E così via. Anche Loredana si unì al coro, ma in cuor suo era sicura ormai che avrebbe strappato il marito alla sorella. Non sapeva la poverina che non combatteva contro una sola donna, ma contro due e che Ginetta non era tipo da arrendersi tanto facilmente. Dopo gli amplessi furibondi che aveva con Pierino, se restava del tempo per le tenerezze lei partiva subito all'attacco: “Tu Silvana non te la puoi sposà; ma nun lo capisci che so' io la donna pe' te? Che ce fai sotto le lenzola con quella gatta morta de mi' sorella? Quella nun è bona manco a fasse er bidè 99 prima de mettese a letto e vedrai che spesso manco te farà scopà. Ma non lo capisci? E' possibile che non lo capisci?” Non è che Pierino non capisse: è che non aveva il coraggio di opporsi alla scelta di Ginetta. Quando Loredana scoprì chi era il deus ex machina di quel complotto messo sù a suo danno, partì di nuovo all'attacco: “Ma come fai a da' retta a tu' sorella? Nun lo vedi che quelle due se so sposate loro; che so' du' lesbiche senza manco sapello? Lo so, sai, che tu' sorella a letto nun è bona e nun è bona manco mi' sorella. Ma perché te la devi sposà? Sarete due infelici.” A Pierino tornavano in mente le parole di Gigi, ma poi paragonava le tette di Loredana con quelle non meno prosperose di Silvana e si diceva “Ma che differenza fa? Queste o quelle per me pari sono. Io dovrei scontentare Ginetta, quando in questo modo mi posso tenere tutte e due le sorelle, sposandone una sola?” Era fatto così. Un realismo più realista del re lo aveva strangolato fin da ragazzetto impedendogli di elevarsi al di là dei suoi sedici anni, quando aveva deciso una volta per tutte che “Francia o Spagna purché se magna!” Non capiva per esempio che Ginetta lo teneva totalmente per le palle perché l'amore per Silvana, l'attrazione per Loredana, il rispetto per lei lo incatenavano in una ragnatela che si poteva dire che si era costruito da solo. Perciò quando Loredana sbraitava che la sorella non se la doveva sposare, e lui, che non capiva nulla della mente femminile, lui taceva oppure diceva sommessamente: 100 “Adesso vediamo.” lei gli rispondeva: “Vediamo un cazzo: dici sempre così e poi nun fai gnente per liberarti di quelle stronze. Te stanno a incastrà. Vedrai che tu' sorella te la farà sposà, mi' sorella, e noi nun ce potremo vedé più.” Diceva così, ma sapeva che si sarebbero visti sempre, comunque le cose fossero andate. La tresca durò a lungo, sia pure a lunghi intervalli di tempo fra un incontro e l'altro, e finì veramente quando lei, già sposata da tempo, perse un figlio sedicenne per un incidente di motorino e fu costretta ad intraprendere uno di quei percorsi, fra religione e superstizione, sempre vittima di maghi e di ciarlatani che le promettevano di farle re-incontrare prima o poi il figlio perduto. La giostra a tre, ma all'insaputa di Silvana, che altrimenti, da buona bigotta, avrebbe fatto il quarantotto, durò dunque a lungo. Gli incontri fra Pierino e Loredana furono sempre fuggevoli e frettolosi perché non avevano altro luogo in cui incontrarsi che non fosse la casa paterna di lei. Ciò fino a quando Loredana, ah le donne! non ebbe un'idea geniale. Cominciò a blaterare che la famiglia ormai aveva bisogno di una macchina, che lei avrebbe imparato facilmente a portarla, che avrebbe preso la patente, che la macchina di seconda mano non sarebbe costata tanto perché prima o poi Pierino avrebbe trovato una macchina usata in buono stato e ben collaudata da lui. E insomma fu tale il tormentone 101 a cui sottopose tutta la famiglia che alla fine il Sor Silio si decise ad andare a scuola guida con lei per prendere insieme la patente. Silvana, del tutto ignara delle mire della sorella, si rifiutò di andare a prendere la patente che poi non prese mai perché in realtà non ne era capace. Dopo un po' arrivò anche la macchina. Era uscita da qualche anno la famosa cinquecento fiat e già si incominciava a trovarne di seconda mano. Pierino fu bravo a cogliere al volo la volontà di un cliente affidabile che se la voleva cambiare e finalmente la famiglia di Silvana riuscì ad avere il suo mezzo di locomozione, praticamente requisito da Loredana che vedeva così realizzarsi in pieno la prima parte del suo piano. Vediamo la seconda parte. La cinquecento, essendo di seconda mano, un giorno sì e l'altro pure, si rompeva, guarda caso, sempre verso le sette e mezzo della sera quando l'officina di Pierino e di Gigi stava per chiudere. Loredana arrivava e con la solita litania “Pierì, guardeme 'n po' li freni a sta machina!” annunciava ai due soci che c'era dello straordinario da fare. Le prime volte Pierino faceva a Gigi il segno di filarsela perché avrebbe provveduto lui ad accontentare “la cliente” mettendole a posto freni e carrozzeria; poi, dopo due tre volte, Gigi, anche se incazzato, capiva da solo che doveva andarsene. “Adrià, portala dentro così posso lavorà mejjo!” diceva Pierino e Loredana obbediva: la serranda si abbassava e lì al chiuso succedeva di tutto. A 102 Loredana, prima di fare all'amore, piaceva di essere rincorsa e acchiappata e, una volta acchiappata, le piaceva di essere quasi costretta con la forza a sottostare alla libidine di Pierino. Fu così che tutti i cofani delle macchine di tutti i clienti prima o poi conobbero quelle due natiche carnose che era un piacere stringere e tormentare tra le mani durante il coito; anzi non pochi di quei cofani conobbero anche il meraviglioso vello pubico di Loredana la quale non conosceva limiti alle sue pulsioni ed era pronta ad accettare qualsiasi proposta di Pierino in fatto di sesso. Quando lei veniva presa diciamo in modo tradizionale, alla fine le bastava uno sguardo ammiccante per resuscitare gli stimoli di Pierino che immediatamente re-incominciava a correrle dietro ansimando fino a quando non finiva la corsa in mezzo al labirinto di macchine sempre presenti in officina; ma quando gli concedeva l'intimità posteriore, come dice Fellini in “Amarcord”, alla fine stremato da quell'accoppiamento per lui sommamente gratificante si accasciava a terra appoggiato alla ruota dell'autovettura utilizzata per il “sacrificio” e Loredana non riusciva più a farlo schiodare da lì prima che fosse trascorsa almeno una mezz'ora. Possederla in quella posizione era per Pierino l'equivalente di uno sballo. Era come se quelle natiche sode che gli sbattevano sugli inguini replicassero all'infinito l'amato petto che intanto stringeva fra le 103 sue rudi mani di meccanico, mentre Loredana uggiolava di piacere. Loredana non si concedeva sempre in quella posizione, ma quando lo faceva era perché un desiderio imprecisabile le invadeva la mente e lei godeva solo se sentiva il genitale di Pierino frugarle il retto con colpi secchi e ripetuti fino a quando lei quasi non sveniva, perché anche in questo Pierino era riuscito ad ottenere un notevole controllo sul proprio fisico. Si ricordava sempre quello che diceva lo zio fascistone con una celebre filastrocca che aveva poi risentito anche dentro ad uno degli ultimi bordelli aperti a Roma dove aveva fatto in tempo a recarsi compatibilmente con la sua età e con la legge dell'on. Merlin che li fece chiudere: “Né troppo lungo che tocchi / né troppo largo che atturi, / ma duro che duri: / questo è un cazzo coi fiocchi!”. Ma il suo era coi fiocchi anche per quanto riguardava le dimensioni. Una volta a Pierino, suggeritogli da Giacomo, venne in mente di cambiare canzone e di provare il cunnilinctus. E appena ebbe abbrancato Loredana finse di volerla possedere frontalmente ma in realtà la prese per i fianchi e la sollevò per metterla seduta sul cofano della sua cinquecento e per affondarle il viso fra le cosce. Sforzo notevole dato che Loredana non era un peso piuma e per di più contrastato per scherzo da lei. Di metterla seduta sul tettino della macchina gli riuscì, ma ahimè gli uscì anche irreprimibile un sonoro peto. Situazione molto imbarazzante, ma che 104 seppe risolvere brillantemente: “Adrià, si te vergogni, di' che so' stato io.” Loredana rise divertita e incominciò ad ansimare sotto le sleccazzate furibonde di Pierino che in quel modo si voleva anche premiare per la trovata geniale con cui se l'era cavata. Quando ebbero finito, Loredana riprese inopinatamente il gioco della seduzione e Pierino ci cascò e quando fece per avvicinarsi, lei lo respinse e andò a ripararsi dietro la macchina su cui era seduta fuggendo sempre nella direzione contraria a quella presa da Pierino e gridando: “Vattene via, porco! Sei un porco scoreggione!” E finiva sempre così. Alla fine si lasciava prendere e si ricominciava. Se lei voleva, Pierino avrebbe passato tutta la notte ad inseguirla e a sottoporla alla sua libidine: erano al chiuso di un'officina che mai nessuno avrebbe potuto pensare che ospitasse questi baccanali a due e dunque si sentivano assolutamente sicuri. Mai avrebbe creduto Pierino che il Sor Alceste, a serranda abbassata, si sarebbe permesso di entrare da solo in officina; ma quella sera alla moglie del Sor Alceste si era rotto il sifone del lavandino e lui, se non si voleva far allagare tutta casa, doveva assolutamente intervenire. Ma come, se gli mancava proprio la chiave giusta per la larga filettatura del sifone? L'unica soluzione escogitata dall'ignaro pover'uomo fu quella di andarla a prendere in officina, che del resto era la sua e nella quale a quell'ora non c'era nessuno. Quando tirò su la 105 serranda i due erano proprio al culmine della faccenda e a Loredana non rimase che rifugiarsi, nuda com'era, dentro una delle autovetture più vicine. Il Sor Alceste capì al volo, ma finse di non aver capito e disse non senza una sottile punta di ironia: “A Pierì, ancora stai a lavorà, te possino! Gigi nun m'ha detto gnente; so' venuto a prende la chiave numero 15 perché me s'è rotto il sifone del lavandino; me ne vado subito.” E così fece mentre mio fratello volgendogli le spalle cercava di risistemarsi alla meglio. Finito il giochetto, lei tornava a casa dove o mamma o papà le chiedevano il motivo del ritardo e lei dava tutte le spiegazioni che poteva dare, tranne ovviamente quelle che riguardavano i suoi rapporti intimi con Pierino, e quando le chiedevano quanto aveva speso per la riparazione e lei rispondeva “gnente”, c'era subito l'intervento di Silvana che a mo' di rimprovero diceva: “A mà, ma che te pare che Pierino la faceva pagà?” E ci amancherebbe puro, pensava la madre, che aveva cominciato a subodorare qualcosa, data la frequenza delle riparazioni, specialmente della carrozzeria. Dando seguito a tali sospetti la Sora Giovanna scoprì la tresca, convocò Loredana e le impose di porvi fine altrimenti avrebbe scatenato il putiferio in tutta la famiglia. Nessuno dei due amanti soffrì tanto per l'interruzione imposta. Nessuno dei due infatti coniugava quella passione incontrollabile con l'amore nel senso della caritas latino-cristiana; era il puro 106 sfogo giovanile di due che si erano incontrati grazie esclusivamente alle loro pulsioni: Pierino, attratto dalle meravigliose tette di Loredana, e Loredana, attratta dall'invidiabile dotazione di Pierino che le faceva perdere la testa ogni volta che la possedeva. Ma al di là del puro piacere sessuale i due non erano in grado di provare il benché minimo sentimento l'uno per l'altra e viceversa. Loredana era una specie di cagna costantemente in calore; Pierino era una specie di Pierrot ben dotato che placava la sua tristezza con qualsiasi gioco, compreso quello sessuale. Insomma, siccome le nozze si avvicinavano, entrambi ritennero in pieno accordo di dare un taglio, almeno per il momento, a quella tresca. E come Dio volle si arrivò alle nozze. Prima si sposò Angela; poi mia madre, accettando il criterio dell'ordine di nascita, ma anche per mettere a tacere Ginetta, acconsentì alle nozze di Pierino, tutte da raccontare perché furono una vera e propria sceneggiata. Silvana non gradì il vestito cucitole da Ginetta, del resto troppo sofisticato per una che si aspettava di sposare in gonna lunga e scampanata per fare la ruota nel caso che dopo il pranzo si fosse deciso di ballare, però non poteva esternarlo per non offendere Ginetta: dunque si preparò in preda ad una furia iconoclasta che quasi quasi stava per farle strappare il vestito. Ma a questo si aggiunse un fatto che non credo si sia mai verificato in un un matrimonio. 107 La nostra famiglia era quella che era da un punto di vista economico. Mia madre pensò bene di far viaggiare Pierino sulla bella auto di un amico di Giacomo, il già noto Tony, che allora aveva una giulia, naturalmente addobbata con qualche garofano e qualche merletto bianco. Quando la cosa fu risaputa da Ginetta, che allora non aveva ancora nulla a che fare con Tony, la scema si affrettò a telefonare a Silvana la quale fece altrettanto con Pierino minacciandolo di mandare a monte il matrimonio se si fosse presentato su quella macchina. Tragedia in casa nostra. Che si fa che non si fa: mio fratello Giacomo si impuntò e mia madre non sapeva che fare. A Pierino non gliene fregava niente e non aveva alcuna voglia di mettersi contro il fratello. Chiamiamo un taxi? Ma che sei scemo, con quello che costa! Conclusione: lo sposo partì con la macchina voluta da mia madre e da Giacomo, ma con tre quarti d'ora di ritardo e così quando la sposa arrivò non trovò nessuno e dovette stare una mezz'ora circa a girare per una strada secondaria rispetto alla chiesa fino a quando mio fratello non arrivò. Mi ricordo che i parenti di Silvana erano tutti schierati fra la chiesa e la strada su cui girava la sua macchina in modo da far sì, col passaparola, che fosse avvisata di quando lo sposo era arrivato: la zia Antonietta forse aveva ragione: non vedevano l'ora di liberarsi di quella ragazza ormai spigata, aveva trentadue anni, scorbutica e sempre pronta alla polemica e al litigio. 108 Mi ricordo che quando scese dalla macchina era una specie di capra recalcitrante che lanciava sbuffi dalle narici e guardava torvo chiunque si avvicinava. Sfogava così, la povera Silvana, tutto il rancore instillatole da Ginetta contro una famiglia di pazzi burini venuti dal paese per crearle quel po' po' di impiccio. Durante il pranzo il Sor Alceste, invitato di riguardo, prese da parte Pierino e gli disse: “Ma tu moglie nun è quella che te stavi a scopà in officina: quella era 'a sorella, quella che sta seduta al tavolo coi tu' soceri?” Pierino non disse né sì né no, il che voleva dire “sì”. Al che il povero padre commentò: “O vedi com'è mignotta la vita? A te due; a quello stronzo de mi fijo 'n antro po' neanche mezza!” “Ma che dite, Sor Alcè? Guardate che meraviglia è Nadia e che bella nipotina v'ha dato!” “A nipotina? Ma che nu lo vedi, Pierì, che quella regazzina nun assomiglia né a me né a mi fijjo né a nessuno della mia famiglia? Chissà da chi se l'è fatto fa' quello stronzo de Giggi.” E così dicendo ritornò al piatto di fettuccine fumanti che nel frattempo gli avevano servito e Pierino si allontanò per tornare vicino alla sposa, divertito dal fatto che il Sor Alceste quella sera in un attimo aveva capito e memorizzato tutto e, tutto sommato, contento che qualcuno avesse constatato con i suoi occhi almeno una delle sue bravate da seduttore. Bravate che col matrimonio, come ho già detto, non finirono del tutto, perché l'attrazione che lo legava a Loredana era veramente fatale. Una volta 109 Loredana capitò fuori orario in casa dei due sposini. Fatalità c'era solo Pierino, ma Loredana non l'aveva fatto apposta. Quando Pierino le aprì lei fece come per andarsene, ma lui l'afferrò per un braccio e le disse: “Viè qua, 'n do' vai?” e di nuovo si abbandonarono, sul letto nuziale di Silvana, ad uno dei loro amplessi forsennati e quasi estremi dai quali uscivano stremati. Concluso l'atto, lui, trovandosi in atmosfera pienamente nuziale e familiare, si assopì; lei, fuba, per fortuna si sforzò di restare sveglia, sicché quando Silvana bussò al citofono come era solita fare quando pensava di trovare in casa il marito, le aprì, si ricompose rapidamente e alle richieste della sorella disse che lei stava lì perché le aveva aperto Pierino che poi si era scusato per la stanchezza e se n'era andato a dormire dicendole: “Aspettala tu tu' sorella!” Silvana, alla quale in definitiva il sesso interessava solo superficialmente, non fece caso alle incongruenze delle spiegazioni datele dalla sorella e mise su il caffè per chiacchierare un bel po' con lei. Chiacchierare di chi e di cosa? Ma di Ginetta, naturalmente, e dei suoi regali. Loredana pensò che quello era il pegno che doveva pagare per quella scopata mozzafiato giocata fra attrazione sessuale e timore di essere sorpresi che è la migliore forma di scopata che ci possa essere al mondo, secondo me. In seguito il copione si ripeté, salvo i dettagli, quasi sempre nello stesso modo. Loredana aveva trovato anche lei il suo principe azzurro, un 110 viaggiatore di commercio che ogni tanto si assentava anche per giorni e così capitava non tanto di rado qualche occasione in cui i due potevano abbandonarsi a quelle loro favolose scapricciate in cui il sesso, diciamo così, tradizionale, fu esplorato in tutte le forme possibili e immaginabili. Naturalmente Ginetta sapeva tutto di quella relazione, ma si guardò bene dal renderla pubblica! Come tutti i giornali della gloriosa repubblica pubblicava solo quello che faceva piacere al padrone, cioè a se stessa. Per il resto il matrimonio andò bene, anzi andò bene per sempre, fino alla fine: Silvana si rivelò la migliore delle mogli, una madre impeccabile e una donna davvero innamorata di un uomo qual era mio fratello, a sua volta bello e innamorato fino a lasciar perdere l'amore di mia madre per dedicarsi tutto, o quasi, alla moglie e alla famiglia. Mia madre, come al solito comprensiva, diceva “Il bene del letto fa scordare il bene del petto.”, ma accettava volentieri le visite che mio fratello le faceva da solo scusandosi per quella moglie capricciosa che non vedeva altro che Ginetta e non aveva alcun rispetto per la suocera. Sembrava che mia madre capisse tutto e forse era proprio così. Guidata dal cuore più che dalla ragione riusciva mano a mano a sistemare quei figli affidandoli, almeno ante mortem, ad un destino quale lei lo aveva sognato per loro. Con me non ci riuscì per mancanza di tempo. Però morì sapendo che io ero in grado di crearmi la vita che volevo e di crearmela a 111 modo mio: quindi morì tranquilla, anche se avrebbe voluto vivere molto più a lungo per godersi quel figlio, io, che le stava dando così grandi soddisfazioni. La prima figlia di Pierino e Silvana, Melania, era di una bellezza singolare e di un carattere dolce che la fecero amare subito da tutta la famiglia. Mio fratello sembrava finalmente appagato, ma la sua ambizione di progredire sempre di più lo rodeva dentro senza lasciargli mai un attimo di tregua. Adesso che era diventato padre avrebbe voluto ancora di più migliorare le sue condizioni economiche per offrire a quella bella moglie e a quella creatura che lo catturava per intere serate, quando stanco del lavoro rientrava e non gli restava neanche il tempo, per giocare con lei, di lavarsi e di cenare. E lei era una bimba deliziosa. Personalmente le debbo una cosa molto importante. Lei inconsapevolmente mi diede la prova che esiste la scena parentale a cui Freud dà tanta importanza e che io ho potuto osservare proprio grazie all'ingenuità di Melania che quello che aveva in mente quello aveva sulle labbra. Si parlava noi grandi di questioni abbastanza serie e quindi avevamo tutti espressioni e toni molto di circostanza. Non si spiegherà mai perché a un certo punto la piccola, forse per dire qualcosa di importante assimilabile ai temi e ai toni della nostra conversazione, a un certo punto se ne uscì dicendo: “Anch'io stanotte ho visto mamma e papà che si arivotecavano dentro al letto.” 112 Attimo di surplace, poi grande risata di tutti e grande soddisfazione della piccola che ebbe così la prova di aver detto anche lei qualcosa di importante. Io non ebbi dubbi: sognata o no, Melania ci aveva raccontato la scena parentale o primaria come dice Freud. Da quel momento mi convinsi che effettivamente questa scena esiste nella memoria di ciascuno di noi, sia pure in forme diverse. Un mio studente per esempio mi disse che lui questa scena primaria ce l'aveva in mente ma che non sapeva dire se aveva sognato o se aveva visto realmente la madre che faceva un pompino al padre. Cara Melania, se un giorno potrò parlare con te vorrò dirti quanti bei regali mi hai fatto inconsapevolmente con la tua fanciullezza così graziosa e spontanea. Grazie a questa figlia Pierino era al settimo cielo ma non sapeva accontentarsi di quello che aveva. La moglie per altro lavorava a posto fisso come si diceva allora e dunque la famiglia si poteva considerare agiata. Pensavano già su suggerimento di mia madre ad acquistare la casa nella quale stavano a pigione. Una casa bella ma messa male: un primo piano in una di quelle costruzioni delinquenziali che gli architetti per il popolo riuscirono a pensare negli anni cinquanta. Affacciava su un cavedio intorno al quale si raccoglievano, per trovare un po' d'aria e un po' di luce, ben quattro palazzi tutti attruppati insieme all'inizio di una delle più note vie consolari di Roma sud. Era disposta male ma era stato il loro nido 113 d'amore e tanto bastava per esservisi affezionati senza ritorno. Pensate che mia cognata ci abita ancora da sola, dopo aver sistemato i due figli. Già, perché nel frattempo era nato anche il maschio, a cui fu imposto il nome del nonno, cioè mio padre. L'ambizione portò forse Pierino a dare una mano al suo infelice destino che però si accanì, prima che su lui, sul suo amico Gigi. Gigi incominciò a pretendere di riconsegnare sempre lui le macchine che, venute da fuori e andate in avaria a Roma, una volta aggiustate dovevano essere riportate ai rispettivi padroni sui luoghi di partenza. Pierino non aveva nulla in contrario visto che lui impazziva per tornare la sera a godersi quei due figli meravigliosi che Silvana gli aveva dato. Non aveva curiosità per gli affari degli altri, Pierino, non si chiedeva mai ma perché Gigi pretende questo? Ma che fa quando tarda uno o anche due giorni a rientrare? Non se lo chiedeva. Vedeva l'amico dimagrire giorno per giorno ed essere anche sempre più nervoso e irascibile e non riusciva a darsene una spiegazione. “A Gì, vai da un medico.” “E lasseme perde.” Fu la risposta secca e stizzita. Una volta che capitò il Sor Alceste, Pierino si fece coraggio e lo disse anche a lui: “Sor Alcè, ma perché nun lo fate vede da un medico?” “C'è andato dal medico, c'è andato.” Il giorno che Gigi non si presentò al lavoro e Pierino chiese spiegazioni alla famiglia gli dissero che era ricoverato al Forlanini. Gigi fu uno dei primi casi di aids; i medici non 114 sapevano che fare; in quindici giorni il male se lo portò via e fu così che Pierino dovette fare conoscenza definitivamente con l'omosessualità ma finì tutto nel tempo d'un funerale. Accompagnato Gigi alla tomba, nel giro di poco tempo Pierino digerì la perdita e già raccontava divertito una famosa barzelletta sull'aids. Il solito nonno e il solito nipotino impertinente: “Nonno, nonno, tu lo sai che con l'aids si muore?” “E perché? Te pare che con l'inps se campa?” Il Sor Alceste tentò di tenere in piedi lui l'officina, ma era evidente che per lui quello sforzo non era sostenibile. Era un uomo d'altri tempi e non voleva che Pierino subisse le conseguenze delle scelte sbagliate di quel figlio snaturato. Quando però Pierino, spinto da Ginetta, che mirava a più alti “introiti”, gli presentò il problema di un eventuale scioglimento, a lui non sembrò vero. Accettò subito e passò subito alle pratiche per devolvergli, dietro conguaglio, tutta l'officina. Pierino lasciò l'intera questione nella mani di Ginetta perché lui, che non era un grande affarista, si fidava ciecamente di quella sorella che era riuscita a costruire un piccolo dominio commerciale grazie al quale le era permesso di vivere con un certo benessere. Non avrebbe mai potuto capire, il povero Pierino, che Ginetta mai gli avrebbe permesso di raggiungere il suo livello economico; che sarebbe stata pronta a dar fuoco all'officina che stava per rilevare pur di non consentirgli di fare progressi 115 economici tali da insidiare la posizione da lei raggiunta. Affittò un locale, si comprò un ponte e cominciò a lavorare come un somaro. Lavorava, mio fratello, anche quindici ore al giorno e dunque doveva fare degli incassi proporzionati a tale mole di lavoro; ma alla fine della settimana, detratti dagli incassi i soldi necessari per mandare avanti la famiglia, il resto lo consegnava a Ginetta che li depositava sul suo, di lei, personale contro corrente. Si può capire che il pover'uomo avrebbe potuto lavorare anche 24 ore su 24: mai avrebbe visto il frutto del suo lavoro. I soldi che risparmiava li congelava su un conto corrente non suo dal quale non percepiva né interessi né benefici, ma anzi se li vedeva decurtati dalle spese del conto corrente che Ginetta regolarmente gli addebitava e lui, scioccamente, corrispondeva, senza rendersi conto; ma la cosa più grave era che il frutto del suo lavoro, denaro contante, non conosceva la forma del denaro di giro. L'affitto? Te lo pago io! Le tratte? Povera cosa, te le pago io. Le rate della nuova macchina? Te le pago io e così via. E così Pierino lavorava e Ginetta lucrava sul suo denaro con un rigore che mi lascerebbe interdetto se non pensassi che lei stessa non si rendeva conto del furto che stava facendo tramite malversazione a quel mio povero fratello. Lavora e lavora, Pierino non vedeva alcun risultato; anzi, a un certo punto si rese conto che 116 l'officina non rendeva come lui e Ginetta avevano creduto. Pensò di aver sbagliato a rompere con il socio che gli aveva permesso di risolvere il problema dopo la morte del Sor Giovanni e quindi cercò un nuovo socio, Mimmo, detto anche Yoghi, perché era identico ad un orso di questo nome che allora spopolava in tv sui cartoni animati dei bambini. Mimmo era più imbranato di Pierino. Non capiva assolutamente niente. Non parlava, ma ciancicava parole. Insomma mio fratello se l'era scelto più per tenere lui le leve di un comando, che in realtà, in ultima istanza, era delegato a Ginetta, che per dare una svolta a quell'officina che stava lentamente naufragando. Mimmo era quello che a Roma si definisce “uno scemo porta a casa”. Mi ricordo che una volta capitò in casa nostra e, vedendomi seduto a studiare, mi chiese: “ma tu stai sempre a studia'?” Io risposi col gesto di chi vuol dire “Che altro posso fare?” E lui di rimando: “Fai bene! Così noi rubbamo mille e tu diecimila.” Non aveva torto! In questo popolo di ladri che a quel tempo era molto ma molto più ladro di adesso non si concepiva il giusto scambio lavoro/merce/lavoro, ma quello furto/furto/furto: cioè nella vita di tutti i giorni la maggior parte degli Italiani cercava di fregare qualcosa all'altra parte; costume che dura tuttora: metà degli Italiani risparmia (bot, cct e quant'altro) e l'altra metà si mangia i propri soldi più gli interessi di quei risparmi. Alla faccia di Pulcinella! Ce ne sono di beoti a questo mondo! E in 117 questo modo abbiamo accumulato un debito pubblico del quale non frega niente a nessuno, e tanto meno ai nostri politici; tanto, a morire e a pagare c'è sempre tempo. La moglie di Mimmo però non era niente male!Piccoletta, cicciottella, con due tette che erano il doppio di lei, spigliata e, diciamo, anche disinvolta, Nunziatina. Una volta che fingendo di sbagliarmi le strinsi intenzionalmente una delle sue due chiappone si girò verso di me con un sorriso il cui significato era chiaramente quello di una disponibilità certa. Hai capito, Nunziatina? Non è scema come vuol far credere. Se le capita la botta non se la lascia scappare. Pierino peroo non la degnava neanche della minima attenzione; solo qualche volta gli occhi gli cadevano su quelle due tette che lei esibiva spudoratamente con scollature da capogiro. Era il solo vezzo apprezzabile che madre natura le avesse dato e lei ne approfittava. Come darle torto? Non nascondeva, Nunziatina, di avere una grande simpatia per Pierino; non la nascondeva neanche al marito, ma Mimmo non dava peso a questa faccenda; non conoscendo i gusti di mio fratello, contava sulla poca avvenenza di sua moglie e sulla bellezza indiscutibile della moglie di Pierino per non prendere neanche in considerazione una qualche possibile conseguenza di quella smaccata simpatia che la moglie mostrava per lui. Aveva ragione, ma non aveva contato le tette. Una sera che Pierino e Nunziatina erano rimasti soli 118 in officina lei con una scusa lo chiamò nel retro e spudoratamente gli disse, dando per contato tutto il pregresso: “Ma che sei frocio?” A Pierino, che era la calma in persona, non gli dovevi far saltare la mosca al naso perché, se no, diventava una bestia. Non le rispose neanche. La afferrò, la distese sul cofano della prima macchina e, incurante del fatto che poteva rientrare Mimmo, se la scopò selvaggiamente senza pensare a nulla. Dopo qualche mese, mia sorella Gisa che al tempo era già sposata e che abitava nello stesso stabile in cui mio fratello aveva l'officina si vide arrivare incontro Pierino e Mimmo con due facce da funerale che un altro po' sveniva. Parlò solo Pierino: Mimmo pareva che se ne stesse zitto per vergogna più che per altro. Insomma: “Nunziatina è in cinta e questi due” disse mio fratello alludendo al socio e alla moglie “un altro figlio non lo vogliono perché non se lo possono permettere.” “Embè?” chiese Gisa, facendo finta di non capire perché lo venissero a raccontare proprio a lei. Pensava infatti che nessuno sapesse che lei aveva “agevolato” altri aborti, allora solo clandestini, grazie a un indirizzo che aveva rimediato quando lavorava in uno dei grandi magazzini di Roma. “Beh, sappiamo che tu hai fatto abortire anche tua cognata. Non potresti aiutare anche Nunziatina?” Era Pierino che parlava. Mimmo aveva continuato sempre a stare zitto. Gisa ebbe come un'illuminazione: vuoi vedé che quella scema si è 119 fatta mettere in cinta da mio fratello. Poi scacciò via il pensiero come improponibile e già la complicità femminile si era attivata anche rafforzata da quel doloroso sospetto. Ma è possibile che sto cretino, con la moglie che ci ha, si va scopare quel cesso?” Anche questa domanda era più che lecita, ma improponibile; però ormai il tarlo era al lavoro. Gisa era alla guida. Caricò Nunziatina sulla macchina e la accompagnò dal ginecologo criminale che praticava aborti clandestini in uno studio fuori dimesso ma dentro supermegagalattico per giustificare i compensi straordinariamente esosi che chiedeva a ogni aborto. Le ricevette molto professionalmente. Fece alcune domande tecniche, invitò Nunziatina ad entrare nella sala operatoria, si fa per dire, e Nunziatina entrò. Poi inopinatamente invitò anche Gisa, che esitò per un attimo perché quando aveva accompagnato la cognata l'aveva perentoriamente invitata a restare nella sala d'attesa. Comunque entrò. E sulla porta, proprio prima di entrare nella camera operatoria, si fa sempre per dire, sentì la mano del chirurgo che le afferrava un gluteo intenzionalmente e tenacemente. Gisa non era tipo da sopportare insolenze di alcun tipo. Si girò di scatto e gli sferrò una ginocchiata alle palle che fece mugolare di dolore quel poveraccio: mugolava perch{ cercava di non farsene accorgere dall'assistente che intanto stava preparando Nunziatina mentre lui, piegato su se stesso, batteva i piedi per terra per cercare di alleviare 120 il dolore. La situazione si era fatta pesante: Gisa gongolava per la precisione con cui aveva assestato il colpo, ma gli altri stavano tutti un po' su di giri: Nunziatina per la paura, il ginecologo per il dolore e lo scorno di essersi fatto sorprendere da una scema, la sua assistente perché non capiva le esitazioni del dottore quando l'aborto si presentava benissimo e la cosa sembrava fattibile subito e senza incidenti. Non fu così. Finito l'intervento criminoso, passa un quarto d'ora, passa mezz'ora, Nunziatina non si risvegliava dall'anestesia. L'atmosfera si fece ancora più pesante perché era chiaro a tutti che se fosse successo qualcosa tutti e tre o anche tutti e quattro avrebbero rischiato la galera a vario titolo... di imputazione. Perso per perso, il manigoldo pensò bene di vendicarsi di Gisa e mentre lei con le lacrime agli occhi ma con determinazione chiamava e schiaffeggiava Nunziatina, la convocò nella sala d'attesa e le ordinò perentoriamente: “Questa bisogna che te la porti via anche così. Ce l'hai la macchina? Se no chiami un taxi. Se nun gliela fai da sola a portarla fino alla macchina t'aiuta la mia assistente perché io me ne devo andà. State attente a nun favve accorge dal condominio. Gisa, terrorizzata, obbedì e come Dio volle riuscì a caricare Nunziatina sulla macchina e a riportarla ancora viva a casa sua. Qui c'erano ad aspettarle Mimmo e Pierino che avevano addirittura chiuso l'officina. Ah, annamo bene, fu il pensiero di 121 Gisa. Mio fratello non me la racconta giusta. Poi vedremo. Intanto si dedicò a Nunziatina che alla fine rinvenne e tutto finì bene. Il giorno dopo Gisa aspettò Pierino fuori dell'officina e come al suo solito gli chiese all'improvviso: “Quer regazzino era tuo, dì la verità.” “Ma che stai a di'? “Te sei ammattita?” Le rispose sorridendo Pierino. Così Gisa sapeva ma non seppe mai di sapere. Mimmo sopportò per alcuni anni il predominio di Pierino (cioè, tra parentesi, di Ginetta), ma poi, trovato un posto fisso, giardiniere cimiteriale alle dipendenza del Comune di Roma, abbandonò anche lui l'impresa e Pierino dovette affrontare da solo la pericolosa situazione sobbarcandosi a un lavoro estenuante: giornate intere trascorse sdraiato sotto le macchine in un locale non ben chiuso e quindi afoso d'estate e freddo d'inverno; preoccupazioni infinite perché spesso il denaro incassato non era sufficiente a coprire tutte le spese della famiglia e dell'officina; primi dolorosi sospetti che la sorella magari involontariamente stesse approfittando di lui. Ne parlava con Giacomo, ma Giacomo di malversazione, come vedremo, ne capiva anche meno di lui. E soprattutto, a un certo punto, per ricostituire le energie che consumava fra sigarette, sesso e stress da lavoro, incominciò a mangiare non più in modo regolato come aveva sempre fatto, ma confondendo la fame con la gola e il tutto frullato con l'illusione che mangiando di più potesse recuperare tutte le energie 122 di cui faceva enorme profusione soprattutto sul lavoro. Mia cognata, lo so, lo amava sinceramente ma era troppo ignorante per avvertirlo che stava prendendo una brutta piega. Come ogni buona popolana romana, quelle che riporto sono parole sue, se la mattina non ne facevi almeno un chilo e mezzo, intendo di cacca, non stavi a posto con i principi nutritivi della gente di Roma. Chi non mi crede venga una volta a Roma e vada a mangiare in uno di quei ristoranti tradizionalmente romani come se ne trovano per esempio al ghetto e osservi di che cosa è capace una famiglia romana di sei persone a tavola. Una sera, erano in otto quella volta, si mangiarono antipasti a volontà, un primo di cannelloni al forno, un secondo primo di pasta al forno, trentadue, dico trentadue, filetti di baccalà, tre bacinelle di nissoise, un intero profiterolle di almeno un chilo e mezzo e alla fine, per digerire, poverini, quasi già ubriachi, chiesero al cameriere di portare una bottiglia di champagne che naturalmente si scolarono senza alcun ritegno. Tra parentesi va detto che pane ne fu consumato in quantità inenarrabile. Io lo sapevo da esperienze in case di privati che i Romani almeno fino a Craxi mangiavano come abbuffatori insaziabili ma quella sera ebbi la prova certa che era proprio così. Le donne della tavolata per esempio avevano degli avambracci che misuravano, a dir poco, sessanta centimetri di circonferenza. Insomma a Roma se magna, tanto le province pagheno e li schiavi laveno. Mi raccontò lui 123 stesso, Pierino, e poi mi fu confermato da Silvana, che un sabato sera rientrò alle undici con una fame da lupi perché stava con le sole pagnottelle preparategli la sera prima dalla moglie. La moglie non lo aveva aveva avvertito che il giorno dopo si sarebbe andati tutta la famiglia al mare ed era per questo che aveva preparato ben sedici fettine panate, il corrispettivo romano delle cotolette milanesi. Bene. Pierino se le mangiò tutte pensando che la moglie le avesse preparate per lui. Unì insomma ad un lavoro spropositato e fatto in pessime condizioni un consumo altrettanto spropositato di sigarette e di cibo, soprattutto carne di cui era particolarmente ghiotto. Per quella moglie amatissima, per quei figli adorati, aveva abbandonato il suo nobile equilibrio e si era venduto la vita. Letteralmente. Il male ebbe facile gioco anche se, grazie alla sua robusta complessione, impiegò cinque anni per ucciderlo. Ecco perché io dico, e ne sono convinto, che per stare meglio alla fine si dovette piegare al destino che ce lo portò via in poco tempo. A parte ciò, più passava il tempo e più la sua persona guadagnava in fascino e in bellezza, aggiungendo alle doti naturali gratuite quell'aria pensierosa che lo faceva apparire come un navigato uomo d'affari. Gli anni erano passati, ormai stava verso i quaranta, ed io, ormai diventato grande, avevo incominciato a lavorare. Fui mandato sull'isola di Ponza dove appena possibile mi raggiunse mia madre 124 ormai rimasta sola con me e, appena arrivati i primi mesi caldi, Pierino mi venne a trovare con tutta la famiglia. Si trattennero per tutto il weekend e poi ripartirono. Era di domenica. Il catamarano partì verso le diciotto e io, vistolo allontanarsi, raggiunsi i miei colleghi ed amici per trascorrere la mia serata come al solito fatta di gossip e di nulla. Verso le ventuno, esausti dalla noia e dal non far niente, stanchi per il continuo passeggiare “a coppa o puorto” e “abbascio o puorto”, cioè andata e ritorno, ci accingevamo a rincasare per andare a dormire, riposarci e riprendere il lavoro il giorno dopo, quando vedemmo Giuliano che stava attrezzando la sua barchetta, la Giannina, per andare in mare. “Dove vai a quest'ora, Giuliano?” “Vado a riprendere il catamarano in avaria.” Mi avesse dato una pugnalata mi avrebbe fatto meno male. Su quel catamarano viaggiavano mio fratello, mia cognata e i loro due figli ancora bambini. Dalle nove alle due della notte divorato dall'ansia passeggiai lungo il molo prima accompagnato da quei miei cari amici di allora, Mario, Raimonda, Annely, Tullia, Fabrizio e altri; poi da solo, dopo essere uscito di nuovo ingannando mia madre con una scusa, fino a quando non sentii il rumore del motore della Giannina di ritorno che si annunciava nella notte insieme ad una fievole luce. La piccola imbarcazione di Giuliano era riuscita a riportare il catamarano rimasto in panne in mezzo al canalone, così allora chiamavano i ponzesi 125 la parte di mare che sta tra la costa e l'Isola, lo aveva rimorchiato con una fune, ma, siccome il catamarano era più grande e pesante della Giannina e rischiava sbandando di risucchiarla all'indietro e di sommergerla, mio fratello si era offerto di uscire dall'abitacolo, di mettersi in piedi sul piccolo ponte e, tenendo tra le mani la fune che univa le due imbarcazioni indirizzarla in modo da correggere le sbandate del catamarano. Entrò in porto in piedi sull'imbarcazione portata in salvo, fiero come un ammiraglio che abbia condotto a buon fine la sua missione, di aver tratto in salvo, lui, l'intera sua famiglia, oltre al resto dei viaggiatori. Appena le due imbarcazioni arrivarono sotto le luci del porto, lo vidi, dritto come il capitano Achab, sul ponte del catamarano che sembrava un eroe dei film di avventura. Non ricordo altro di quella nottata se non l'ansia che mi aveva strangolato fino a notte fonda e la figura di mio fratello che si stagliava nella notte illuminato dalle luci del porto come fosse la madonna di Messina o la statua della Libertà. Ed è così che lui vivrà dentro di me per sempre: nel chiarore delle lampade che illuminavano il porto vedevo i suoi occhi, attenti ai movimenti del catamarano e intenti alla gestione della fune, guizzare orizzontalmente per controllare il tutto e del tutto indifferenti all'applauso che i pochi curiosi rimasti con me tributarono a Giuliano e naturalmente a lui che gli prendeva totalmente la scena. Questa, secondo me, e non solo, è 126 la vera bellezza: quella che si propone perché così è, senza ostentazione e senza consapevolezza. Hanno voglia oggi i truccatori della tv a costruire look, si dice così, mirabolanti: nulla può eguagliare il sorriso privo di significati ostensibili di una fanciulla che ride con gli angeli né quegli occhi di mio fratello che saettavano a destra e sinistra per controllare i movimenti delle due imbarcazioni. Si era nel 70; due anni dopo morì mia madre. Aveva fatto in tempo a portare a termine tutti i componenti della sua famiglia. A mio cognato Vittorio che le chiedeva se avesse paura, quando ancora il male non era così minaccioso, lei rispose tranquillamente che io ormai ero grande e sistemato, gli altri sposati, dunque lei sarebbe potuta morire serenamente senza alcun rimpianto. Dice un grande poeta che pochissimi o forse nessuno legge più: quello che noi gli dobbiamo soprattutto, ai nostri genitori, è l'averci insegnato a morire. Io dei miei lo posso dire senza alcun dubbio. Tanto lui quanto lei affrontarono il punto finale della loro esistenza con una rassegnazione che ancora ho nel cuore. Entrambi, avrebbe detto Marcello Marchesi, si fecero trovare vivi dalla morte. Mia madre sapeva anche che era riuscita a svezzare definitivamente Pierino e a convogliare tutte le energie di quel figlio verso la cura della sua nuova famiglia. Pierino, quando dovette prendere atto dell'inevitabile fine di mia madre, si chiuse in un muto silenzio. Le si avvicinava poco per 127 timore che il suo sguardo potesse tradire qualche emozione dalla quale lei potesse ricavare l'imminenza della fine e solo, la sera, a letto, si disperava, ma tra le braccia della moglie, consolandosi così dell'inevitabile che ormai doveva avere compimento. Quando ricevette la notizia della morte non ebbe reazioni; da maschio fortificato dalle vicende della vita riuscì a non tradire emozioni. Semplicemente chiuse dentro di sé l'immagine, non solo per lui ma per tutti noi, extratemporale di quella donna che aveva amato oltre ogni dire e da quel momento lasciò a quella spudorata di Ginetta il compito di condurre tutte le operazioni che si compiono quando il morto va via. Sono assolutamente convinto che Pierino non ebbe alcuna parte nella questione dell'eredità della casa. Le due sceme, Ginetta e Cettina, organizzarono tutto il programma che tendeva a colpire me in quanto colpevole di avere preso le parti di Gisa e di aver fatto comunella con Tony. Erano di fatto due povere donne che maneggiavano, sì e no, una decina di pensieri in tutto, ma molto molto confusi, e incapaci di osservare la realtà e di programmare coerentemente con i rilievi di tale osservazione. Si erano poste come capifamiglia l'una perché primogenita e l'altra perché traghettatrice della famiglia dall'Abruzzo a Roma. Ma era un inganno che prima di tutto ingannava loro stesse. Si credevano di poter gestire tutti noi; in realtà si erano guadagnate: uno, il risentimento di Angela, che vabbè 128 era come loro e quindi contava poco, ma il marito no; due, l'odio di Gisa che quella scema di Ginetta aveva irrazionalmente danneggiato; tre, la mia personale opposizione a qualsiasi cosa facessero o dicessero perché ormai avevamo capito che erano due sceme. L'unico che erano riuscite a re-infilarsi nella fica era il povero Pierino, non tanto perché non fosse in grado di capire, quanto perché non gliene poteva fregà de meno. Cominciò il solito battage pubblicitario sul giornalino di Ginetta dal quale la papessa di Roma faceva sapere quali erano le sue volontà coonestate dalla primogenita: siccome Pierino era il primo figlio maschio la casa toccava a lui. Quindi secondo le due sceme io dovevo andarmene ramengo per il mondo e consentire a Pierino di occupare la casa dove ero entrato come lui e che non avevo più abbandonato avendo cura di mia nonna, prima, rimasta allettata per sei anni, e di mia madre, poi, alla quale per fortuna il destino non riservò uguale trattamento: il male se la portò via in un mese. Io già lavoravo e a quei tempi avevo come colleghi avvocati e commercialisti che maneggiavano quotidianamente questa materia, ma a ben altri livelli, e in quattro e quattr'otto misi in chiaro il problema. Io restavo in casa perché era mio diritto; se tutti gli altri fratelli di comune accordo avessero voluto realizzare il valore di quella eredità avrebbero dovuto costringermi attraverso il tribunale allo scioglimento legale della proprietà stessa. Cioè il 129 tribunale, dopo aver riconosciuto, il diritto degli altri miei fratelli, avrebbe dovuto requisire la mia casa, con me dentro (che nel frattempo avrei potuto sposarmi e riempirla di tanti marmocchi), e ordinare di metterla all'asta ad un altro tribunale specificamente addetto a queste operazioni. Cioè, coi tempi della giustizia italiana, saremmo morti tutti prima di dirimere la faccenda. Le due sceme e i loro scherani (soprattutto Giacomo, perché Pierino se ne teneva al di fuori) non tenevano conto del fatto che l'azione giudiziaria non era per loro consigliabile in quanto io avevo ben tre sorelle dalla mia parte che quindi non avrebbero mai acconsentito a chiedere per via legale lo scioglimento dell'eredità né tenevano conto del fatto che io, quand'anche avessero voluto agire da soli, con i tempi della giustizia italiana, dentro quella casa, anche da single, ci sarei rimasto una trentina d'anni. Ma le due sceme che non avevano mai letto un libro per intero pensavano di saperne di più dei giovani di famiglia che avevano buttato il sangue sui banchi dell'università e così mi diedero l'opportunità di chiudere con loro e con una nutrita schiera di cretini. Non ebbi mai un chiarimento diretto né con Ginetta né con Pierino né, meno che meno, con la primogenita. Tutte persone che, sapendo di avere torto, si sottraevano al confronto e puntavano scioccamente solo sul ricatto affettivo. Secondo le regole di famiglia, il tutto si risolse con quella 130 infelice telefonata di Cettina. La cattiva abitudine di questa famiglia era quella di dare per scontato, ciascun membro, di essere così intelligente da capire, senza confrontarsi con lui, il pensiero dell'altro. Ora figuriamoci se due povere donnette cresciute durante il fascismo potevano comprendere il pensiero dei più giovani che avevano studiato e per di più nei tempi della prima repubblica. Fu un equivoco colossale. Il mio cinismo, lo confesso, si espresse in favore di un taglio netto con gente, sia pure fratelli e sorelle, che non sapeva nulla di nulla, il che poteva anche essere perdonabile, ma che pretendesse di sapere quello che c'era da fare, non sapendo nulla di nulla, questo non era tollerabile. Il mio cinismo, ripeto, venne fuori con tutta la forza iconoclasta di chi non ne poteva più di imbecilli che toccava di stare a sentire su temi dei quali non avevano alcun diritto di parlare. Insomma, secondo me, Cettina e Ginetta divennero le maggiori responsabili della mancata crescita della famiglia né più né meno di quanto il fascismo lo era stato per l'Italietta che ai miei tempi giovanili tentava faticosamente di riprendere a crescere. Dunque, tagliare i rami secchi e dato il mio mestiere tagliarli dopo un attendo esame: furono decisamente respinti Cettina, Ginetta, Pierino e Giacomo, responsabili di non aver studiato e di voler parlare pur sapendo di non aver studiato. Naturalmente con loro fui costretto a bocciare anche mogli mariti, figli, parenti e affini, complici della loro 131 inettitudine, perché altrimenti sarei ricaduto sotto il solito giochetto di Ginetta che, una volta sconfitta e passata alla muta ostilità, poi quando servivi ti raccattava mandando avanti uno dei suoi accoliti. Il che fece subito anche in questa occasione. Siccome nella sua folle illusione di fregarmi o chissà di riportarmi sulla buona strada della sua verità rivelata mi mandò in casa la sua prima figlia col marito, dei quali io ero diventato molto amico essendo quasi coetanei. I due vennero a dirmi che loro si dissociavano dalla posizione assunta dalla madre. In realtà dire “mandò” forse è inesatto. Gli accoliti di Ginetta si muovevano come se fossero telecomandati. Lei li invitava a cena, gli raccontava un po' di balle contro il malcapitato da punire o da perseguire, nella fattispecie io, e tra le righe gli faceva capire che in fondo quello era uno scemo e che doveva essere recuperato tra le fila della sua armata Brancaleone con grande onore e lode di chi vi fosse riuscito. Gli accoliti sentendosi investiti di un compito di alto valore morale si muovevano con motu proprio risibili, come io sapevo bene. La mia risposta ai due prevedibilissimi visitatori fu: “Casa mia per voi è sempre aperta. So benissimo che voi non c'entrate niente.” Se ne andarono via con la coda tra le gambe ma non ancora convinti. Tentarono un secondo blitz (ma l'assenza di Massimo, marito di Romina, era già di per sé illuminante) al quale seguì il silenzio più assoluto e definitivo. Cosa successe? Romina capì 132 parlando che io non avevo più alcuna intenzione di subire le chiacchiere idiote della madre. Aveva con sé i primi due figli, Sirena e Manuel, e asseriva, secondo lo standard conversazionale preferito dalla famiglia, che il maschietto era tutto spiccicato a suo padre, cioè a Desiderio, come diceva anche Ginetta. La mia fu una stroncatura brutale: “Tua madre, come al solito, dice stronzate; si vede chiaro che Manuel è spiccicato al padre!” Vogliamo scherzare? Come ti permetti di definire stronzate le verità del Vangelo secondo Ginetta? Non lo disse, ma lo pensò e da quel giorno non la vidi più né vidi più suo marito, più perspicace di lei. La cosa ovviamente non mi dispiaceva affatto: erano fastidi in meno che ti davano per questioni di lana caprina tenendoti sulla corda fino a quando non arrivavano con richieste di soldi. Infatti le primogeniture e investiture varie servivano alle mie prime sorelle semplicemente per sfruttare gli ultimi nati secondo una morale che non ho mai capito ma che comunque sembra essere comune non solo al popolo italiano ma anche a qualsiasi lebenswelt di qualsiasi paese. Quello che mi dispiacque fu l'allontanamento dei figli di Pierino, ormai grandicelli, ai quali mi ero sinceramente affezionato: a Melania, per la sua bellezza mozzafiato conservata almeno fino ai quarant'anni; e al piccolo Andrea che aveva un'intelligenza notevole poi tarpata dall'ambiente popolar-cittadino in cui fu costretto a 133 crescere. Due ragazzi splendidi che avrebbero meritato miglior sorte e che invece sono stati a loro volta convogliati verso il lebenswelt dove hanno addirittura ripetuto il nome dei nonni ai loro figli. Povere creature sempre a fare i conti con la fine del mese e sempre a partecipare a una corsa, quella dell'ambizione, della quale non conosceranno mai il traguardo. Chissà, penso, se avessero avuto la possibilità di frequentarmi forse avrebbero avuto un destino migliore; ma poi faccio il confronto con i figli di Gisa, da me praticamente cresciuti, e vedo che il risultato è sempre lo stesso. Dunque sono io che in qualche modo, e non so neanche bene perché, mi sono tirato fuori da questa famiglia che ha tentato di rovinarmi la vita senza per fortuna riuscirci. Melania, poverina, mi capitò a tiro poco prima che la questione esplodesse, mia madre ancora viva. Venne da noi parcheggiata per un intero pomeriggio e perciò si era portata qualcosa da leggere: l'ultimo numero di “Grand Hotel”, un settimanale a fumetti di contenuto sentimentale venduto soprattutto alle donne prima che fossero completamente fagocitate dalle soap opere o telenovelle. La cosa chissà perché mi irritò molto. Pensai che quella ragazzina, come poi avvenne, sarebbe stata distolta dalle buone letture a causa delle scemenze contenute sulle pagine di quel giornale inqualificabile. Glielo presi e glielo strappai in lungo e in largo riducendolo a pezzetti non ricomponibili. La ragazzina che era tanto bella quanto 134 mite di carattere rimase senza parole e sembrò non avere reazioni. Aveva su quel bel visetto chiaramente disegnato un punto interrogativo. Naturalmente io aggiunsi spiegazioni con voce molto decisa, ma la piccola sembrò non capire. Insomma sbagliai. Quell'intervento era più su me stesso che, da ragazzino, grazie alla stragrande maggioranza femminile della famiglia, quel giornale era una scadenza settimanale fissa, da me divorata né più né meno che dalle altre sorelle. Ancora me ne pento e non so se Melania se ne ricorda più, se no le chiederei scusa spigandole che fu un errore imperdonabile dal quale non so ancora assolvermi. La cosa naturalmente arrivò alle orecchie di mia cognata che aveva con i più forti (e io ero ritenuto da lei fra questi) un atteggiamento di soggezione, per cui tacque delegando a Ginetta la risposta, come con i più deboli un atteggiamento arrogante insopportabile; poi alle orecchie di Pierino che non se ne diede per inteso: per lui leggere, questo o quello, serviva a poco; poi a quelle di Ginetta che pubblicò vari articoli sul suo giornalino scatenandomi contro una vera e propria campagna stampa che tendeva ad accreditarmi come lo scemo di casa. So per certo infatti che quando i miei atteggiamenti la colpivano indirettamente Desiderio, l'alfiere incaricato nei casi più gravi, interveniva dicendo: “Sandro? Ma quello è scemo!” Qualche tempo dopo l'arroganza di Ginetta provocò da parte mia una risposta sbagliata perché 135 andava a colpire non lei ma sempre la povera Melania con una condotta che Desiderio bollò sempre col solito “ma quello è scemo!” Melania faceva la comunione e la madre, ammaestrata da Ginetta, non aveva invitato nessuno degli zii tranne Ginetta stessa e famiglia me perché dovevo accompagnare mia madre. La cosa ovviamente provocò le rimostranze di tutta la famiglia perché, secondo le regole dettate da Assuntina nel disperato tentativo di mettere un poà dàordine nel nostro branco di matti, o invitava tutti gli zii o non doveva invitare neanche Ginetta e me. La protesta si espresse attraverso mormorazioni che non dovevano pervenire alle orecchie della regina, cioè Ginetta sennò quella chissaà che vendette avrebbe perpetrato. E comunque la conclusione era solita. Va beà, sopportiamoò ma se invita pure Tony... E Tony naturalmente era stato invitato! Allora io che incominciavo a pormi come làavversario dichiarato di Ginetta accompagnai mia madre con la mia cinquecento e, avendo visto allàarrivo in chiesa che Tony era lì dissi a mia madre di scendere che io andavo a parcheggiare. In realtà girai la macchina e me ne andai. In una famiglia normale Pierino mi avrebbe dovuto chiedere spiegazioni, ma se ne guardò bene ben sapendo che se me le avesse chieste io avrei fatto una dura requisitoria su di lui sulla moglie e sul loro essere assolutamente succubi di lei. Solo Desiderio commentò col solito mantra e Ginetta pubblicò vari articoli sul suo giornaletto consumato 136 solo dai suoi lettori affezionati. Ma di tutto questo la piccola Melania non seppe nulla e non capiva nulla. Oggi a ragon veduta mi rendo conto di aver avuto torto nel comportarmi così in a festa che in fondo era solo la sua festa. Io non mi giustifico se non attribuendo la responsabilità della mia condotta alla dipendenza da Ginetta di cui a quel tempo non mi ero ancora liberato. Sempre a proposito di Melania, mi ricordo anche che alcuni anni prima quando, bambina, veniva parcheggiata in casa nostra, io e un mio nipote, di cui parlerò in seguito, quasi mio coetaneo, approfittando del fatto che la nonna materna, la sora Marianna, era un donnone di quelli antica Roma, novanta chili circa, facevamo un esperimento per vedere se la mente infantile fosse condizionabile. Ci armavamo entrambi di un grosso imbuto ricavato da un foglio intero di giornale e poi a due voci dicevamo utilizzandolo come amplificatore: “Com'è nonna Marianna?” “Trombona.” ripetendo il mantra tutte le volte che potevamo. Ma Melania, come il pappagallo di Enzo Tortora, non volle darci mai soddisfazione mandando a farsi fottere il nostro esperimento. Senonché in altro contesto, cioè nella casa di Ginetta, mentre la bambina era in braccio a Ginetta stessa, un giorno che arrivò la nonna Marianna, Ginetta ovviamente le disse con tono interrogativo: “Ecco nonna Marianna: non vai da nonna Marianna?” E la bambina, per tutta risposta, rivolta proprio alla nonna, disse con grande 137 chiarezza “Trombona!”. L'uscita fu il trionfo mio e di mio nipote e, con grande mia soddisfazione, uno scorno per Ginetta che non seppe come giustificare quel comportamento. Per fortuna che la nonna Marianna era una donna di una saggezza che dire popolare è dir poco. Confezionava piatti della cucina romana, come per esempio i peperoni ripieni e messi in forno, che erano una delle squisitezze più ambite dai buongustai di famiglia; ma io ebbi modo di assaggiare i suoi rigatoni con la pajjata e la trippa, piatti ormai quasi in disuso, ma di un gusto assolutamente unico. Il Sor Sirio e la Sora Marianna erano proprio romani romani de sette generazioni e della Roma del primo novecento conservavano usi e costumi. Si erano sposati ed erano andati ad abitare a palazzo Lamperini, lo stabile più celebre del quartiere San Lorenzo perché, a quei tempi, ricettacolo di gente di ogni risma, dal ladro professionista al tipografo antifascista. In quella temperie era nata e cresciuta Silvana insieme con le sorelle. Tre ragazze tirate su nel massimo rispetto della religione e della famigliaò solo che Loredana era troppo succube dei propri istinti, per cui, mamma e papà va bene, gesucristo e la madonna pure, però il cazzo è il cazzo e quando se tratta de scopà nun ve conosco più. Era, come detto, il contrario di Silvana che si era lasciata irretire e, per così dire, castrare dai dettami di quell'educazione per cui fu sempre ritrosa anche in regime matrimoniale 138 rispetto all'attività sessuale. Ma a Pierino era proprio questo che jje piaceva: doverla ogni volta riconquistare e indurla con tenerezza a lasciarsi andare e a concedersi: non era come quella troia de Loredana che appena la guardavi se spogliava e se metteva a disposizione. Insomma Sirio e Marianna avevano fatto di tutto per crescerle sane e educate e in fondo, a parte le sregolatezze di Loredana, c'erano riusciti. E con queste tre figlie avevano creato una specie di tìaso femminile nel quale Sirio si inseriva discretamente, basta che le cinque donne, vecchia suocera compresa, jje facessero trovà sempre il pranzo pronto e la biancheria lavata e stirata. E in effetti quella casa assomigliava più ad una tavola calda con lavanderia che a una casa vera e proprio ed entrando sentivi sempre un misto di profumi, cucina più pulizia, che fu proprio quello che fece innamorare Pierino. Ormai in casa nostra mia madre non era più in grado di creare da sola un'atmosfera simile e quindi quando Pierino la ritrovò in casa di Silvana non gli sembrò vero. Pierino non sposò solo Silvana, sposò tutta la famiglia che di buon grado accettò quel matrimonio. Ed ecco perché il comportamento di Loredana è spiegabile e in parte giustificabile. Quella tresca che fece da coté a un matrimonio ben riuscito non era che il necessario complemento che a Pierino toccava come necessaria compensazione del triste destino a cui dovette andare incontro. Gli ultimi due anni di officina mentre lavorava con grande fatica le 139 immagini di Loredana discinta che correva tra le macchine gli tornavano alla mente e gli rinforzavano la speranza che forse un giorno, guarito, si sarebbero potute ripetere, ma non fu così. E quando morì Loredana piangeva più disperata di Silvana, come se la vedova fosse lei e non la sorella. La famiglia, la nostra, intendo, venne dunque totalmente scompaginata da quello scemo che ero io. Io avevo letto anni prima il celebre saggio di Cooper per cui non solo procedevo alla diaspora dei componenti della mia famiglia ma divenni anche il teorico della distruzione della famiglia. E lo sarei tuttora; ma come si sa si nasce incendiari e si muore pompieri. Con gli anni, e ne sono passati tanti, mi sono reso conto che l'essere umano è naturalmente portato ad accompagnarsi con altri esseri umani sulla base di leggi naturali che in genere sono tutte quelle contenute nella parentela. E dunque ho pensato che non si può completamente distruggere il modello della famiglia; ma che un modello moderno e più efficiente va comunque elaborato. Ho già detto in altri luoghi di questi romanzo cosa penso in linea di massima. Né per altro son io un sociologo o un filosofo che si possa occupare autorevolmente di queste faccende. Però la facessero finita con questi elogi della famiglia senza criticarla così com'è perché oggi la famiglia è lo zoo di vetro di Tennessee Williams, cioè un orrendo contenitore in nome del quale vengono compiuti i peggiori crimini, ma 140 soprattutto viene impedito ai suoi componenti di crescere secondo le loro possibilità. Io che ho fatto l'insegnante sono in grado di affermare sulla base della mia personale esperienza che quando i ragazzi si rifiutavano di studiare non lo facevano perché non attrezzati o non dotati; lo facevano perché in casa trovavano una totale indifferenza, se non addirittura ostilità, verso lo studio. La società vuole che tu studi? Può essere che serva, ma tu fa come ti pare: se ti va bene, meglio; se no, è lo stesso. I figli di Pierino, tutti e due, sono rimasti fermi alla terza media e non sono riusciti a racimolare uno straccio di diploma di media superiore perché il padre e, peggio, la madre, avevano avuto un cattivo rapporto con la scuola, non l'avevano mai considerata come una possibile fonte di miglioramento anche economico e quindi non avevano mai incoraggiato quei due ragazzi a mettersi sotto e a studiare. D'altra parte, fuori della famiglia, incontravano la famiglia di Ginetta o di Giacomo, dove mejjo me sento, si dice a Roma. Mio fratello morì con la certezza che la figlia avesse preso il diploma che non aveva preso, ingannato in ciò da un complotto dell'intera famiglia. Questo è un caso evidente di come la famiglia può condizionarti in modo negativo; ma i casi e gli aneddoti possono essere tantissimi. A un certo punto la figlia femmina bella com'era andò troppo avanti con un primo amore pieno di passione e di trasporto e rimase in cinta. La madre 141 non esitò a nascondere il tutto a mio fratello e a far abortire la ragazza. Naturalmente in modo clandestino perché allora non erano ancora state varate le leggi sull'aborto. Personalmente non ho nulla contro l'aborto legale se si mette la donna in condizione di poter scegliere liberamente e a quel punto lasciarla scegliere; ma se le istituzioni non sono in grado di garantire ciò, dovrebbero almeno vietarlo almeno in certi casi. Invece ho sentito più di un caso in cui questa pratica viene oggi imposta dalle famiglie a ragazze minorenni che non hanno alcuna possibilità di difendere se stesse e il bambino che portano dentro. Dunque mi misi di buzzo buono a distruggere la famiglia. Ginetta era già fuori da tempo; Cettina fu fatta fuori dalla celebre telefonata; Giacomo, a causa della moglie, cioè la cagnolina di Ginetta, dovette per forza iscriversi nelle fila dell'esercito dei peracottari, come io li chiamavo. E Pierino? La famiglia di Pierino si tagliò fuori da sola perché era totalmente plagiata da Ginetta, e non solo quella di Pierino, ma anche nel frattempo quella di Sirio; Pierino come al solito non prese posizione e siccome la sua officina era vicina a casa mia e io non avevo niente da contestargli perché le autrici di quello stupido movimento erano solo le prime due continuammo a vederci per questioni di lavoro. Io allora avevo una cinquecento fiat che faceva ridere i polli e che ogni tanto andava in panne e allora andavo subito da Pierino per sapere che cosa dovevo fare. Pierino mi 142 faceva regolarmente il lavoro e mi faceva regolarmente pagare, dicendomi però “Per te”, il che significava che aveva fatto la cresta più che agli altri; ma a me la cosa non interessava. Non capivo e non ho mai capito nulla di meccanica e dunque a me bastava che la macchinetta, riparata da un meccanico di fiducia, ripartisse e continuasse a camminare fino al successivo intoppo. Strana situazione allora quella della nostra famiglia! Nello scontro fra peracottari, e non, si inserivano partiti trasversali come maschi e femmine (e io blateravo contro il matriarcato imbelle ed imbecille che imponeva quella separazione a tutta la famiglia) oppure come giovani e vecchi (e io blateravo contro le scelte anti-scolastiche di quelli che erano iscritti tra i peracottari) oppure pro o contro Tony (e io inveivo contro le due sceme che finché lo avevano accolto loro andava tutto bene; adesso che lo accoglieva Gisa con il beneplacito mio e del marito, Gisa invece era una mignotta). Insomma un gran pasticcio. Pierino se ne chiamava fuori perché a lui bastava che la sera rientrando trovasse il cantuccio accogliente della famiglia, cibo abbondante che gli forniva le energia per quei tour de force terribili ma al tempo stesso gli stava devastando il fisico dentro e fuori. In particolare faceva grande consumo di carne e in particolare carne fritta che, non è scientificamente provato ma quasi sicuramente è così, agevolò la deteriorazione delle cellule e la comparsa delle cellule 143 cancerogene. La rivelazione del male fu improvvisa e crudele, aveva poco più di quarantacinque anni. Un male insistente al fianco, la lastra e la rilevazione di una massa oscura al polmone sinistro. Incominciò per Pierino la via crucis delle operazioni e dei ricoveri successivi: le improvvise riaccensioni della speranza che fosse tutto finito. La crudeltà dell'intreccio delle menzogne che i peracottari gli intessevano intorno a che fine non si capisce perché. Lui era pronto ad affrontare il suo destino. Dal radiologo c'era andato da solo. Me lo raccontò lui stesso. Quando il radiologo gli rappresentò la gravità della situazione lui cadde a terra svenuto. Come poteva a quell'età e nella situazione in cui si trovava lui e la sua famiglia accogliere col dovuto sangue freddo una notizia così? Ma fu l'unico momento di defaillance forse raccontato solo a me. Poi raccolse le sue forze e cominciò a combattere come un leone mai dando a vedere che si era rassegnato. Mia sorella Assuntina mi disse che la sera prima di morire l'aveva salutata invitandola a tornare il giorno dopo per stappare una bottiglia e festeggiare l'avvenuto acquisto della casa che abitava con la moglie e i figli. Aveva perso i suoi bei capelli e in testa a destra era comparso di nuovo un bozzo che preannunciava l'ennesimo inutile intervento. Fra l'annuncio del male e quella tremenda manifestazione erano passati cinque anni. Il mio povero fratello a poco più di cinquant'anni doveva lasciare il mondo e 144 la vita che aveva amato senza metterli mai in discussione, accettandoli per così com'erano. Anche questa era un'eredità della sua prima formazione quando il rifiuto della scuola gli impedì di comprendere che né del mondo né della vita ci si può fidare: che avrebbe fatto bene a stare più sul chi va là, a non farsi manipolare da niente e da nessuno. Ma non volle accettare questo sacrificio iniziale per accettare quello finale. La sua morte sconvolse tutti. Nessuna delle morti precedenti, comprese quelle dei genitori, che in fondo tutti avevamo sentito, per quanto drammatiche, come iscritte nell'ordine naturale delle cose, ci aveva colto impreparati come ci colse quella di Pierino. Avevo avuto cinque anni per assuefarmi all'idea della sua scomparsa. Spesso lo avevamo assistito durante i ricoveri e qualche volta ci eravamo mossi per vedere se c'era consentita qualche alternativa: ma quando arrivò la notizia della sua morte io fui strangolato da un nodo alla gola che non mi consentì di telefonare agli altri per comunicare loro, come si dice, la ferale notizia. Morì a casa sua, nel suo letto, circondato dall'affetto di tutti noi, peracottari e no, e la sua morte fu seguita da un lungo mortorio in cui il litigio latente tornò subito a galla. Ginetta, come al solito, cercò di speculare sulle spese del funerale. Naturalmente mandò avanti la seconda cagnolina, cioè la moglie di Giacomo, Margherita, per chiedere a tutti i fratelli se 145 volessimo concorrere alle spese per i fiori. Io sapevo che fra le sue clienti c'erano delle fioraie cimiteriali e che quindi avrebbe avuto degli sconti dei quali noi mai avremmo usufruito. Perciò quando Margherita mi telefonò, la mia risposta fu durissima. No, io farò un cuscino per conto mio e solo a nome mio. La povera Margherita, che era più scema di Ginetta e Cettina messe insieme, mi rispose: “Voi Alessandri siete tutti matti.” “Ecco, brava. Adesso lo sai anche tu!” E così si concluse con un flop l'ennesimo tentativo di Ginetta di metterci in mezzo tutti facendo la cresta solo per sé. La sera precedente il funerale, mentre Pierino giaceva già nella sua bara sulla quale erano state fatte duemila discussioni sempre perché Ginetta cercava di guadagnare un po' dappertutto, accadde, non sembri irriverente dirlo, un episodio divertente. Del resto il proverbio dice “Non c'è nozze senza pianto né c'è morte senza riso.” Si era precipitata in casa di mio fratello una nostra cugina più ignorante, se possibile, delle mie sorelle. Diomira, ignorante quanto brutta, si dava però un gran da fare per assistere i convenuti che erano tanti. Quindi si era portata una bella scorta di caffè e ne faceva in continuazione per tutti. Per caso eravamo lì in cucina io, mia sorella Gisa e alcuni altri. Diomira stava distribuendo l'ennesima macchinetta di caffè quando entrò Isabella evidentemente turbata dalla vista dello zio morto. Diomira, compresa di quell'emozione, le porse una tazzina di caffè 146 dicendole: “Isabè, lo voleresti un po' de caffè?”. Le lacrime sgorgavano piovose: l'evidente errore non fece ridere nessuno; Isabella sorseggiò la sua tazzina di caffè e andò subito nell'altra stanza per evitare di commentare in qualsiasi modo il “voleresti” di Diomira. Senonché un po' di tempo dopo toccò a Gisa di fare una macchinetta di caffè e Gisa, non meno ignorante delle altre, aveva però il bel vezzo di prendere in giro chiunque, tipico di Bolano e in genere tipico di chi, ignorante per propria scelta, crede di poter sfottere, dal piccolo pulpito che si è scelto, chiunque si trovi in difetto. Gisa fece il caffè. Per caso rientrò Isabella e Gisa senza chiederle se lo volesse o no glielo porse dicendole: “Tiè, Isabè: svelta, sennò te vola.” Il gioco linguistico sottostante alla trovata era notevole e così nessuno poté trattenersi dal ridere; neanch'io, ma non ne ebbi gran piacere né provai alcun senso di colpa. Pensai che Pierino, a parti invertite, avrebbe riso anche lui, perché questo era il mondo che lui aveva amato senza discussione, un mondo in cui si è capaci di ridere sul serio, cioè anche sulla o nella morte. 147 148