UN ROMANZO DI ALESSANDRO D`ALESSANDRO

Transcript

UN ROMANZO DI ALESSANDRO D`ALESSANDRO
PIERINO
UN ROMANZO
DI
ALESSANDRO D’ALESSANDRO
1
concettina
+
vincenzo
rosina+costanzo
assuntina
+
delio
giacomo filippo
franco+(1)antonella+(2)myriam
paolo+flora
elissa
anna+(1)nuto+(2)enrico
emilio+roberta
alessandro
ginetta
+
desiderio
angela
+
alberto
andrea
+
antinea
vincenza+italo
pierluigi
eleyson
romina
(1)massimo
(2)francesco
sirena+alberto
manuel
dino (pupitto)
isabella
cerasani
gino
figlio
andrea
carla
giacomo [+ a 2 mesi]
pierino
+
silvana
giacomo
+
margherita
gisa
+
vittorio
Melania+mauro
jacopo tiziano
andrea+daniela
federica
Rita+ (1)cesare
(2)roberto
silvia+paolo
fabrizio+(1)claudiana
carlo
2 figli
matteo e valerio
2
PREMESSA
N.B.: Fatti e personaggi, narratore compreso, di questo e degli altri romanzi della serie sono
solo frutto di fantasia: qualsiasi coincidenza con fatti o personaggi della vita reale è puramente casuale.
Questo romanzo è il terzo dei sette che saranno raccolti sotto l'unico titolo “INFORMATIVE
DLL'ARCHIVIO DI FAMIGLIA”; ciascuno di essi invece avrà come titolo il nome della persona di cui si
racconta la vita. Si tratta di sette sorelle/fratelli, tutti nati in provincia dal 1923 al 1938 e tutti quindi
variamente segnati dal fascismo: le loro singole storie, tra loro intrecciate, dovrebbero consentire, nei
piani dell'autore, di far trasparire tra le righe quanto potente sia stata la fascistizzazione delle giovani
generazioni ad opera del Duce e dei suoi pifferai. “Il fascino del fascismo.” avrebbe potuto essere un
titolo altrettanto adatto alla serie.
L'ordine di nascita dei personaggi è, come appare dalla genealogia posta in ex-ergo: Cettina,
Assuntina, Ginetta, Angela, Pierino, Giacomo, Gisa; l'ordine di scrittura invece sarà Ginetta, Cettina,
Pierino, Giacomo, Angela, Assuntina, Gisa: il lettore curioso comprenderà da solo le ragioni del mancato
rispetto dell'ordine di nascita.
Infine non appaia troppo presuntuoso l'autore se fornisce al lettore una chiave per leggere più
agevolmente i sette romanzi. Ciascuno di essi è imperniato sulla figura e la personalità del personaggio
che è nel titolo, però l'autore si è voluto divertire a selezionare, dell'enorme materiale a disposizione, ciò
che riguarda eminentemente lui o lei e tutto ciò ha inserito nel romanzo di lui o di lei; ma, trattandosi di
fratelli e sorelle, è chiaro che gli altri, come anche i genitori, i parenti e gli affini, appaiono in esso come
comparse di secondo, terzo e anche ennesimo piano, così come gli episodi che riguardano loro ma non il
personaggio principale. Il lettore deve avere perciò la pazienza di leggersi tutti e sette i romanzi o, se non
gli va di leggerseli tutti, di tener presente che in quello o in quelli che legge molte cose e molti personaggi
appena accennati in un certo luogo torneranno a tutto tondo solo nel capitolo che li riguarda direttamente.
Questo per i personaggi principali; quelli secondari faranno comparsate più o meno in questo o quel
romanzo o in più romanzi e perciò sono stati trattati dall'autore come personaggi trasversali dei quali il
lettore non deve tener conto se non nella misura in cui essi sono tali.
3
Pierino
State contente, umane genti, al quia.
(Dante)
Il ricordo che io ho di Pierino non è un ricordo,
ma una vera e propria stigma che mi fu impressa da
lui e da Giacomo a Sulmona quando io avevo fra i
due o tre anni e già mi volevo impicciare di tutto.
Loro due erano dei ragazzetti cresciutelli: a conti fatti
Pierino era adolescente e Giacomo stava lì lì. Mi
dicono, e io mi immagino perfettamente, che era una
giornata di sole, forse già estate, e stavamo tutti e tre
sul piazzale del casello di Sulmona, dalla parte
retrostante. Loro due stavano facendo non so cosa con
tanto di martello e scalpello, come loro solito, e io
piccolissimo ma già in grado di stare in piedi da solo
e di camminare speditamente devo averli raggiunti
4
all'improvviso tendendo la manina destra per arraffare
quello che loro avevano fra le mani. Proprio in quel
momento Pierino menò la martellata che mi aprì
letteralmente l'indice all'altezza del tarso. Io
cominciai a strillare come un'aquila, loro due si
spaventarono a morte e cominciarono ad invocare
l'aiuto di mamma mentre il mio sangue scorreva
abbondantemente sporcando tutto. Mia madre mancò
poco che svenisse, ma poi, necessità fa virtù, si fece
coraggio, tamponò alla meglio la ferita e mi portò di
corsa all'ospedale dove mi misero uno o due punti in
modo così maldestro (Mo ce vò: lo sbrego era alla
mano destra!) che la cicatrice è ancora lì a
testimoniare questo evento di cui non ricordo nulla.
L'ho raccontata così come me l'hanno raccontata i più
grandi, ma io sono certo che a quell'età ero già in
grado di memorizzare lampi della realtà che poi ho
cercato di razionalizzare come archetipi (psicoanalisi)
o come miti (antica Grecia). E' sicuro però che io mi
ricordo esattamente di una volta che questi due
ragazzi agili come gazzelle, dopo aver preso il sole
quasi nudi sul piazzale abbastanza ben riparato,
all'improvviso balzarono in piedi e corsero chissà
verso quale meta o quale fine; forse avevano messo a
punto qualche loro piano “delinquenziale” ed erano
fuggiti per far perdere le loro tracce dal resto della
famiglia; mi ricordo esattamente il velluto nero di
Gisa con dei bottoni bianchi cuciti a “v” sul petto
mentre piangeva inconsolabile perché i miei non le
5
permettevano di uscire; e come all'improvviso mio
padre, innervosito da quella sua lagna, balzò fuori di
casa per picchiarla e la rincorse a lungo lungo il
viottolo che si inerpicava sulla balza costeggiante la
ferrovia, poi si fermò perché gli mancava il fiato; mi
ricordo soprattutto il buio della cantina di quel casello
in fondo alla quale qualcuno aveva gettato,
volontariamente o no, il mio bell'aeroplano avuto in
dono dalla befana; ho già detto del mio incontro
precoce con le mestruazioni delle mie sorelle o
addirittura di mia madre o forse anche di entrambe;
ma soprattutto mi ricordo le mattinate in cui mi
levavo prestissimo perché non vedevo l'ora di uscire e
andare a giocare dietro al palazzo. Ero piccolo
piccolo, ripeto due o tre anni, mia madre mi lasciava
poltrire un po', poi alle mie grida si alzava e mi
depositava su una sedia dove mi avrebbe messo e
allacciato le scarpe, cosa che io non sapevo ancora
fare. Sette figli, il cui numero in quel casello fu
accresciuto dagli sposalizi delle due sorelle più grandi
fino ad arrivare ad undici: povera donna, non sapeva a
chi dare i resti. Prepara colazioni, lava stira rassetta,
insomma mi lasciava lì anche le mezzore prima di
vestirmi e di mettermi le scarpe che mi avrebbero
consentito di uscire e di andare a giocare con gli altri
bambini. Io diventavo furibondo, strillavo
chiamandola con quanto più fiato avevo in gola,
piangevo, urlavo e, ahimè, quando capii che la cosa
aveva effetto perché l'avevo imparato da mio padre,
6
bestemmiavo. A mia discolpa va detto che ciò
accadeva solo di rado e solo quando mia madre mi
faceva uscire dai gangheri ritardando troppo il suo
intervento. Lei era una donna dolcissima e dotata di
una pazienza infinita e quando succedeva che io
bestemmiassi non mi puniva ma semplicemente mi
rimproverava con toni dolci e sommessi che
ovviamente ebbero poco effetto finché fui bambino
ma, una volta cresciuto, mi trapassavano il cuore in
modo tale che ancora mi duole e non bestemmio più
per nessun motivo. Basta, mia madre non aveva finito
di allacciare la seconda scarpa che io ero già saltato
giù dalla sedia dirigendomi come un fulmine dietro al
palazzo. Che cosa ci fosse di così attraente dietro al
palazzo non lo sapremo mai. Probabilmente una
squadra di ragazzini, come se ne vedevano in Italia
nei tardi anni quaranta e nei primi cinquanta: con essi
probabilmente intrecciavo i miei primi giochi dei
quali però non ricordo nulla. Ricordo solo questo
specialissimo rapporto con mia madre condizionato
dalla cultura di Bolano, meno che medievale, per la
quale il figlio maschio era tutto e poteva anche
bestemmiare all'indirizzo della madre come poi ho
visto fare più volte, mentre le femmine venivano
degnate, sì e no, di uno sguardo se frignavano troppo.
Probabilmente con la stessa foga sbattei la mia
manina destra sotto il martello di Pierino che
evidentemente non poté più fermare il colpo già
partito.
7
Pierino nacque a Serchio undici anni prima di
me e subito dopo quel primo maschio che la sorte
aveva fatto morire poco dopo che era nato. Mia madre
amava Pierino più di ogni altro di noi. Era venuto al
mondo a colmare vuoti che prima sembravano
incolmabili: portò nel mondo la leggerezza, la gioia,
l'allegria a compensare quel lutto inconsolabile che
aveva colpito la mia famiglia. Mia madre parlava
apertamente di compensazione. Mentre era incinta di
Giacomo primo, chiamerò così il bambino morto per
distinguerlo dal secondo Giacomo, aveva sognato la
Madonna che le si era presentata con in braccio un
bambino e le aveva detto: “Ti sto per portare questo
bambino, ma ricordati che non è tuo: è mio e dopo
qualche giorno me lo riprenderò.” Mamma non
raccontò a nessuno il sogno perché ne fu terrorizzata e
si consolava pensando che la Madonna non poteva
essere così cattiva. Ma quando poi il sogno di avverò,
si sfogò raccontando a tutti quell'orrenda
premonizione per cui durante i giorni del lutto
sembrava la più determinata a mandare avanti la vita
nonostante il dolore.
Incinta di Pierino passò intere notti insonni
lavorando a maglia o con l'uncinetto per fargli il
corredino, ma in realtà perché non voleva dormire,
terrorizzata dall'idea che la Madonna venisse una
seconda volta a visitarla in sogno. Quando diede alla
luce quel bambino di quattro chili, sano vispo e
sempre sorridente lei si sentì rinascere. Lo prendeva
8
in braccio e sembrava che lui volesse parlarle quando
con la manina le faceva capire chiaramente di
scoprirsi il seno perché lui voleva il latte. Lei gli
sorrideva e allora lui si concentrava sul suo sguardo
storcendo un po' gli occhi e la osservava attentamente.
Incipe, parve puer, risu cognoscere matrem. Non c'è
bisogno di tradurre, vero? E' Virgilio.
Il figlio maschio di Pierino, anticipo un po',
quando prendeva il latte dal biberon probabilmente lo
faceva con la stessa foga e la stessa, direi, violenza.
Mia cognata lo metteva in posizione. Con la sinistra
lo reggeva e allungando la destra prendeva il biberon
in precedenza preparato. Andrea non aspettava che
fosse la madre a imboccarlo: incrociava gli occhietti,
tendeva le manine con impazienza, afferrava il
biberon e se lo portava alla bocca rapidamente
incominciando a succhiare con la stessa foga e
vuotandolo in un battibaleno; per cui arrivava alla
fine sudato fradicio e pienamente soddisfatto. Ho
sempre pensato che quel desiderio di cibo così
concitato fosse un segno dell'amore per la vita sia del
padre che del figlio, ma mi auguro naturalmente che
la vita non gli presenti lo stesso conto salato che ha
presentato al padre.
Fra Pierino e mia madre si instaurò un legame
che fu più forte del cordone ombelicale e quando
arrivò il momento dello svezzamento che per Pierino
tardò fino alla fine del secondo anno di vita lui non ne
volle sapere. Niente il sale: Pierino prima si ciucciava
9
quello e poi giù con il latte; niente limone: pareva che
fosse ghiotto di limonate che gli provocavano
rigurgiti estenuanti; niente l'aceto: lo stesso. Non c'era
verso di staccarlo dal seno di mia madre. Di giorno si
riusciva a convincerlo con qualche surroga, ma la sera
e la notte non c'era verso. Allora mio padre a cui quel
primo maschio cominciava a stare antipatico se lo
abbracciava e in giro di notte per la campagna fino
alla capanna di qualche contadino dove Pierino si
calmava a contatto con le pecore o con i cani. Ma
appena mio padre innervosito e insonnolito cercava di
tornare al chiuso e si alzava in piedi gli strilli si
sentivano fino a casa. Il problema dello svezzamento
di Pierino fu un problema serio. Continuò a cercare il
latte di mia madre fino a sette anni e mia madre che
era una latteria domestica gratuita qualche volta
cedeva ai suoi garbati corteggiamenti. “Ma', vieni
qua, ascìdete, damme le latte!” E mia madre che nel
frattempo produceva latte per il figlio successivo non
sapeva resistere a quel garbato invito di un piccolo
gentiluomo.
Ad appena un anno, quando ancora non sapeva
camminare, raggiunse gattonando una bottiglia di
vermut che una delle mie sorelle aveva lasciato a terra
facendo pulizie; la rovesciò e si leccò tutto il vermut
che lentamente sgocciolò dalla bottiglia. Quando capì
che vermut non ne usciva più si allontanò
barcollando, si fa per dire, perché ancora gattonava, e
a un certo punto si addormentò profondamente sul
10
pavimento della cucina proprio sotto l'enorme
tavolino che mio padre aveva fatto costruire
appositamente per la numerosa famiglia che sognava.
Cettina lo vide, non capì nulla e lo adagiò nella culla
dove Pierino continuò a dormire profondamente
ignaro della tragedia che stava per scatenare.
Mia madre, al ritorno, si meravigliò che il suo
bambino non fosse già sveglio e urlante per avere il
suo latte. Prese atto del bel sonno in cui giaceva e
pensando “si sveglierà” si dedicò alle altre faccende.
Scaduto il tempo della ragionevole attesa però,
incominciò a preoccuparsi e decise di svegliarlo;
macché, Pierino continuava a “russare” come se non
fosse affar suo. Mia madre cominciò a sudare freddo.
Le sorelle, ancora delle ragazzine, avendo nel
frattempo scoperto la causa di quel sonno
ingiustificato, incominciarono a tremare per la paura
della punizione; insomma l'atmosfera tragica calò su
quella casa già così provata. Mia madre piangeva e
ripensava al terribile sogno che aveva fatto prima
della nascita del primo maschio. Mio padre non ci
pensò due volte, saltò sulla sua bicicletta, andò in
paese, si caricò il medico e lo portò giù. Il medico non
seppe che dire. Visitò Pierino, trovò che tutto era a
posto, disse che per lui quel sonno era inspiegabile e
se ne andò dicendo che sarebbe tornato tra due ore
perché fra due ore lo avrebbe trovato sicuramente
sveglio. I miei genitori, traumatizzati dalla precedente
esperienza, presero quella rassicurazione come un
11
preannuncio di morte e già in casa, dove era accorsa
gente, incominciava il cordoglio che per i bambini
allora era profondamente lugubre e cadenzato. Le mie
tre sorelle erano terrorizzate. Salite nella loro camera,
si stringevano tenendosi per mano pensando che
avrebbero vissuto giorni terribili come quelli che si
erano avuti dopo la morte di Giacomo primo. Abstulit
atra dies et funere mersit acerbo. Anche questo è
Virgilio ma rivisitato da Carducci. Ve lo traduco
perché è meno noto dell'altro: “Un giorno nero lo rapì
e lo consegnò a morte precoce.”. Ma per la fortuna di
tutti non andò così.
Bazzicava casa a quei tempi una contadina
delle campagne circostanti, tale Filumena (Filomena)
che di creature se ne intendeva. Capì che il mistero di
quel lungo sonno lo avrebbero potuto svelare solo le
tre sorelline a cui il bambino era stato affidato dai
genitori. Le prese da parte. Giurò e spergiurò che
qualsiasi cosa le avessero detto lei non lo avrebbe
riferito ai loro genitori e così riuscì a carpire loro il
segreto di quell'interminabile sonno. E quando riuscì
a sapere di che cosa si era trattato non ce la fece a
mantenere la promessa: incominciò a gridare fra le
lacrime e a chiamare mia madre e mio padre perché si
rassicurassero dato che il bambino era vittima di una
sbornia che presto gli sarebbe passata. Una sbornia?
Mio padre chiese spiegazioni e, avutele, rassicurò le
bambine spaventatissime che non ci sarebbe stata
nessuna punizione in quanto loro non erano
12
responsabili di quello che era accaduto. Ma allora chi
era responsabile? Mio padre era strano davvero. Nella
sua testa c'era che quel maschio rompiballe si sarebbe
succhiato questo mondo e quell'altro e che
sicuramente sarebbe divenuto un alcoolizzato. Niente
di tutto questo, ma intanto era stato seminato nel suo
cuore il germe di quella ostilità contro Pierino che,
più o meno dissimulata, durò per tutta la sua vita.
Si può dire che non sopportò mai quel
maschietto così intrigante che riusciva quasi sempre a
ottenere la soddisfazione di un desiderio innaturale (il
latte della madre anche oltre i due anni) e, quando
crebbe, se c'era qualcuno a cui dare un po' di botte,
quello era Pierino. Giacomo praticamente riusciva
sempre a sottrarsi alle punizioni niente montessoriane
di mio padre perché approfittava della indifferenza di
Pierino verso quell'uomo manesco e volgare. Quando
si inferociva (ma non più ai miei tempi!), si sfilava la
cinta e frustava i figli lasciando il segno fino a quando
mia madre non interveniva con la sua autorità di
donna che ormai lo teneva per le palle. Bene! Pierino
non capiva quell'accanimento da parte di un uomo a
cui voleva bene e che gli avrebbe dovuto voler bene, e
dopo i suoi scherzi terribili rimaneva sempre lì a
godersi lo spettacolo e a prendere le botte mentre
Giacomo riusciva sempre a svignarsela.
Pierino era un tipo buono nel significato più
ovvio del termine, e anche mio padre era buono, ma
fra quei due non corse mai buon sangue. Mio padre
13
proiettava su quel primo figlio maschio quello che
Pierino, come vedremo, non poteva dargli, cioè un
religioso, e Pierino pretendeva dal padre la
raffinatezza della famiglia di mia madre che mio
padre non conobbe mai. La famiglia di mio padre era
soprannominata, come si faceva a quei tempi nei
paesi, la famiglia “ 'e Scoreggione” (dei
“Scoreggione”) perché, probabilmente per una
genetica malformazione della pancia, tutti i
componenti, dal suo bisnonno fino a me, erano
costretti quando necessario a liberarsi di enormi
meteorismi spesso rumorosissimi. Ciò che mio padre
faceva regolarmente anche in nostra presenza e anche
in presenza delle figlie femmine privilegiando
sempre, anche a tavola, i discorsi di tipo scatologico
spesso conditi da emissioni poco piacevoli. Pierino
detestava tutto ciò e non potendo combatterlo
apertamente aveva trovato una forma molto garbata
per contestarlo. Era riuscito ad ottenere un controllo
notevole del suo corpo e a controllare quindi in se
stesso la formazione dell'aria nell'intestino che poi era
in grado di emettere quando voleva e nella quantità
che voleva. Una vera e propria arte sfoggiata a
richiesta in piccoli spettacoli che, quando era in
forma, ci facevano scompisciare dalle risate. Ma di
questo parlerò dopo.
Fra i due insomma si era instaurata una
antipatia che giustificava pienamente la predilezione
di mia madre per Pierino. Questo figlio era il figlio
14
suo, quello che la riportava alle delicatezze di suo
nonno o a quelle del mastro che da bambina le aveva
insegnato a costruire le macère, cioè dei contrafforti
di sassi contro i terreni franosi per le piogge. Lo
sentiva sempre vicino a sé, anche quando stava a
scuola o stava fuori a programmare i suoi scherzi
esilaranti. Sentiva sempre la dolcezza di quel modo di
suggere la mammella che solo lui tra gli altri figli
sapeva condire con un che di sensuale di cui lei non
sapeva darsi spiegazione. Amava la sua signorilità, il
suo senso della misura, la sua eleganza, il suo
portamento virile e deciso che solo a vederlo ti diceva
tutto su di lui. Certo che con papà non poteva andare
d'accordo! In particolare lo faceva imbestialire il
modo come mio padre mangiava. Papà era un
buongustaio vorace e onnivoro: una fame atavica lo
tormentava costantemente per cui certe volte mia
madre temeva che come Crono si volesse rimangiare
anche i suoi figli. Perciò quando si metteva a tavola
non mangiava esattamente come un lord inglese. Si
riempiva la bocca oltre il limite consentito e poi
assaporava il cibo a bocca aperta emettendo un
rumore che noi definivamo “sbattere”, ma “sbattere”
era un termine inappropriato e che non rendeva
minimamente il rumore che egli faceva. Era un suono
non facilmente descrivibile. Dichiaro di essere in
difficoltà. Immaginate uno che faccia con tutto
l'apparato orale “gnam, gnam, gnam” in
continuazione, ma non a bocca vuota, bensì con la
15
bocca piena di cibo. Solo lui ci riusciva non facendo
fuoruscire nemmeno un ette del cibo ingurgitato.
Emetteva in compenso un rumore simile a quello che
facevano una volta le lavandaie quando sbattevano i
panni nell'acqua per risciacquarli. Ecco, ci sono:
onomatopeicamente era uno “sciacquo sciacquo
sciacquo” senza interruzione col quale mio padre
coniugava la soddisfazione del gusto e quella della
fame in modo, diciamo così, musicale. Nessuno di noi
gradiva quei concerti. Ma mio padre era irremovibile:
lui o mangiava così o mangiava così. Mio fratello si
alzava imbufalito da tavola fra il nervosismo di mia
madre e l'indifferenza di lui, divertito da quel figlio
così signorino da non poter ascoltare come mangiano
i veri uomini. Era un patto, secondo me, stipulato da
loro tacitamente e di comune accordo, per
neutralizzare uno scontro ben più profondo. C'era in
palio il possesso di mia madre al quale mio padre non
avrebbe mai rinunciato a costo di ammazzare
qualsiasi contendente. Ma non ce ne fu bisogno. I due
contendenti furono capaci di trovare degli
accomodamenti. Questa indifferenza di mio padre
verso ogni nostro tentativo di fargli capire che aveva
ragione Pierino un po' ci faceva ridere e un po' si
sopportava tutti perché anche lui era un uomo
sostanzialmente buono e quel comportamento si
capiva che era un retaggio della famiglia di
provenienza, di origine contadina. Accomodamenti di
che tipo? Bene, pensate che Pierino ancora
16
adolescente aiutava le mie sorelle grandi, anche loro
delle vere e proprie latterie, quando, dopo sposate,
qualche eccesso di latte le infastidiva. Lui, senza
pensare né a Freud né a Jung, dei quali del resto non
sapeva niente, si attaccava tranquillamente al seno
delle sorelle e si saziava di quel latte di cui sembrava
insaziabile. E mio padre lasciava correre divertito. A
chi faceva male Pierino? A Freud e a Jung? Ma lui
non sapeva manco chi fossero e poi volete metterli
con Dante?
Questa grande confidenza di Pierino con
mamma e con le sorelle più grandi non fu corrisposta
sul piano del carattere da un'uguale intraprendenza nei
confronti delle donne non di famiglia. Pierino, bello,
spigliato, amante della compagnia, però con le donne
non ci sapeva fare. Anzi in generale era timido. Si
vergognò sempre di andare a comprare qualsiasi cosa
nei negozi e, divenuto adulto, quando la carne
premeva, a comprare i preservativi ci mandava
Giacomo che invece aveva il carattere opposto. Dove
andasse a fare sesso, onestamente, tranne che per un
paio di casi, non lo so, ma lo posso benissimo
immaginare. Le donne lo sconvolgevano nella stessa
misura in cui lui non sapeva trattarle. Quando sarà il
momento vedremo, per esempio, in che strano modo
trovò moglie.
Per sua fortuna subito dopo di lui nacque
Giacomo e i due crebbero insieme praticamente
alleati contro quel mondo di donne che li sovrastava
17
avvolgendoli e seducendoli continuamente. Pierino
era perdutamente innamorato di Ginetta e in
second'ordine di Cettina, Giacono di Cettina e in
second'ordine di Ginetta. Minore accoglienza trovava
in loro Assuntina che avendo un carattere molto duro
e legalitario non sempre era disposta alle smancerie
che alle altre piacevano tanto. In realtà Assuntina fu
l'unica che li amò veramente. Lei aveva sistemato fin
da subito la differenza maschio/femmina e quella
endo/esogamico e aveva per tutti i maschi un debole
che era incapace di camuffare. Quando si sposò lasciò
me e quei due ragazzi angosciata per i pericoli a cui
saremmo potuti andare incontro senza di lei. Delle
altre sorelle non gliene fregava niente: erano soltanto
delle donne, come diceva Fassbinder.
Fino ai cinque anni Pierino visse felicemente
perché poteva baloccarsi all'interno di quel castello di
Atlante in cui c'erano sei donne tutte per lui e un
padre da lui considerato un eunuco, abbastanza
indifferente, ma, tutto sommato, nei momenti buoni,
anche amorevole.
I problemi di Pierino incominciarono con la
scuola. E' come se lui fosse venuto al mondo con
precise idee innate su di sé, sul suo corpo, sul suo
destino: la sua intelligenza il DNA gliel'aveva messa
negli arti, non nel cervello; lui si rifiutò, per tutta la
vita, di concentrarsi su un problema teorico e di
riflettere su di esso; parlargli poi di libri era come
minacciarlo di tortura. Pierino non prese mai
18
posizione su nessuno dei temi che lo riguardavano. La
famiglia? Lui voleva bene e basta. La scuola? Una
scocciatura inutile. La società? E che è? La religione?
Va bene quella che c'e'. La politica? Di nuovo: e che
è? Insomma una di quelle esistenze che nel nostro
paese soltanto, credo, sono capaci di trascorrere
interamente al di sotto della storia.
Pierino visse a Roma gli ultimi trent'anni della
sua vita. Bene! Non si recò mai a piazza
Montecitorio; a Piazza Sant'Eustachio sì, ma di notte,
per andare a prendere il caffè in un bar di quella
piazza a quei tempi celebre e soprattutto per farsi un
giro in macchina. Non si girò comunque mai verso
Palazzo Madama né tanto meno verso Sant'Ivo alla
Sapienza. Qualche volta portò i figli piccoli a Piazza
Navona per le bancarelle della Befana, ma non si
accorse neanche di Sant'Agnese o della fontana dei
fiumi. Insomma in modo più colpevole di Cettina
aveva interrotto prima del tempo i suoi rapporti col
mondo e con la conoscenza di esso. Perché? Più in là
vi dirò la mia ipotesi. Intorno ai due anni vi fu il
primo abbandono del mondo e dei suoi problemi
perché tutto si risolveva nella ricerca del latte
materno; alla fine dei sei anni la rottura con la scuola
fu immediata: perché imparare a scrivere? A che
serviva? Perché imparare a leggere, cosa del tutto
inutile? Perché restare fermi e in silenzio per ore e ore
a sentire scempiaggini di cui non gli importava nulla
perché per lui non avevano alcuna utilità? Fino ai
19
quattordici anni la ricerca del seno femminile fu una
vaga ed opaca ricerca della donna, per cui tutto il
resto era assolutamente inutile; dopo l'adolescenza la
ricerca del seno si allargò alla ricerca della fica e lì,
nella fica, si concluse per sempre il mondo di questo
fratello che, se ne avesse avuto la volontà, avrebbe
potuto fare grandi cose. Inutili, va bene, perché alla
fine è morto lo stesso; ma almeno si sarebbe potuto
sottrarre alla nefasta influenza di Ginetta che se lo
era, per così dire, re-infilato nella sua, di fica, e lì se
lo tenne per tutta la vita allo stato di feto nuotante nel
liquido amniotico, che era la sola condizione che a
Pierino piaceva.
Sul finire dell'infanzia però, proprio per tramite
di Ginetta, egli aveva subito una specie di trauma che
lo condizionò credo per tutta la vita. Erano i primi
anni del dopoguerra e ovviamente i racconti del
quinquennio bellico fiorirono a iosa e si diffusero per
tutta la penisola. Un giorno che Ginetta stava
parlando con una sua amica, Orsolina, Pierino sentì
Orsolina che in dialetto diceva a Ginetta con l'aria di
dire una cosa di enorme gravità “Giné, a Napoli i
suldate viulinìvene i vagliulìtt!” volendo dire: “A
Napoli i soldati violentavano i ragazzini!” Ginetta
ebbe una specie di soprassalto e rispose all'amica:
“Oddio e quelle povere madri come la prendevano?”
“Macché povere! quelle erano loro che gli portavano i
figli piccoli per un po' di dollari. Giné, la fame!”
Pierino legò quel viulinìvene all'idea del violino e
20
come al solito elucubrò che i soldati americani di
stanza a Napoli durante la guerra obbligavano i
ragazzini a studiare il violino di cui per altro lui aveva
una certa conoscenza grazie a Delio allora già
fidanzato con Assuntina e sul punto di convolare. E si
chiedeva come fosse possibile che delle madri
snaturate potessero obbligare i loro figlioletti a
studiare uno strumento che in seguito non gli sarebbe
servito a niente. Intanto assillava di domande Delio,
amante del violino che suonava anche abbastanza
bene: era stato costretto a studiarlo? Lo aveva scelto
liberamente? Insomma non sapeva darsi ragione di
quel fatto strano: soldati di occupazione che
costringono i ragazzini dei paesi occupati a studiare il
violino. Pierino era così: non pensava mai al peggio e
forse per lui il peggio era solo un'idea riferibile al suo
personale giudizio. Sia come sia, era terrorizzato da
quell'idea che un giorno mia madre lo potesse portare
a forza a studiare il violino se fossero arrivati gli
Americani. Forse fu l'unica volta che Pierino prese
temporaneamente posizione: meglio i Tedeschi che gli
Americani, almeno quelli non ti costringevano a
suonare il violino! E lasciava spesso mia madre
stupita perché le chiedeva: “Tu non mi ci porteresti a
studiare il violino se arrivano gli Americani.” Mia
madre gli rispondeva divertita: “Pierino, gli
Americani sono già arrivati e se ne sono pure andati e
soprattutto non obbligano nessuno a studiare il
violino.” Parole chiare che lo avrebbero dovuto
21
sollevare da qualsiasi dubbio; ma lui non
approfondiva mai, non indagava e in fondo restava
sempre ancorato saldamente alle sue paure. E se
tornavano? E se quelli che tornavano magari volevano
insegnare davvero a suonare il violino? Insomma
come per tanti altri problemi la sua vita, come quella
di tutti i miei fratelli e sorelle, fu tormentata da paure
infondate che in qualche modo gliela condizionarono
gravemente, come nel caso di Cettina, fino al limite
dell'esistenza mancata.
Il rapporto di Pierino con la scuola fu il più
tormentato fra quelli avuti dagli altri fratelli e sorelle.
Visse per dieci anni nella condizione del ripetente. A
un certo punto non lo sapeva più neanche lui quale
classe stesse ripetendo. Bolano poi, dove frequentò le
elementari in piena seconda guerra mondiale, non era
certo l'humus più adatto. Scherzando lui diceva che
non aveva potuto studiare perché con tutte quelle
bombe che facevano rumore gli era impossibile
concentrarsi. Possedeva un humour irresistibile come
tutti quelli che debbono contenere dentro un dolore
inconfessabile.
In questo informativa cercherò di venire a capo
del problema. Che cosa voleva reprimere dentro di sé
questo fratello bello come Nembo Kid, un eroe dei
fumetti di allora? Ripeto, io un'ipotesi ce l'ho e piano
piano cercherò di farla venir fuori tra le righe.
Il suo compagno di sempre, il suo alter ego che
rimase con lui fino a quando non prese moglie fu
22
Giacomo, il fratello nato due anni dopo di lui e
dunque quasi suo coetaneo. Quasi tutte le bravate di
Giacomo portavano la firma di Pierino e quasi tutti gli
scherzi da Pierino organizzati avevano come complice
Giacomo. Insomma un tandem che essendo durato
trent'anni quando la vita lo scisse lasciò in ciascuno
dei due un vuoto incolmabile. Perché? Perché in
qualche modo si facevano la guardia l'uno con l'altro.
Ciascuno dei due aiutava l'altro a sopportare
l'angoscia
di
una
natura
sostanzialmente
contraddittoria
e
in
definitiva
nevrotica.
Incominciarono a fumare insieme all'età di otto anni,
Pierino; sei, Giacomo. E fumarono sempre per il resto
dei loro giorni, salvo un'interruzione di nove o dieci
anni prima che morisse, imposta a Giacomo dal
cardiologo. La sigaretta fu per loro, come del resto
per me fino a quando non ne capii la funzione
devastante, l'equivalente universale di ciascun loro
desiderio, anche infimo, ma soprattutto neutralizzava
quel desiderio inconscio che in loro non affiorò mai
perché troppo angoscioso. Presto forse riuscirò a dire
di che si trattava.
Abbiamo già raccontato degli scherzi a Cettina,
ma loro non erano autori soltanto di scherzi; erano
anche autori di bravate pericolosissime. Già
grandicelli, nelle loro scorribande nei dintorni di
Bolano scoprirono, interrata nel Fucino, una bomba
americana inesplosa. Fu uno o due anni dopo la fine
della guerra. Loro due, insieme a qualche altro
23
sciagurato, la dissotterrarono e la trasportarono a
spalla tutti insieme fino al paese. Avrebbe potuto
essere una carneficina: cinque o sei ragazzini
disintegrati dallo scoppio di un ordigno residuato di
guerra non disinnescato. Non occorre andare lontano.
Il futuro sposo di mia sorella Gisa, che era di Roma e
a Roma abitava con i suoi due fratelli, aveva il fratello
mezzano con due dita in meno nella mano destra per
l'esplosione di una bomba con la quale stava giocando
insieme a dei compagni.
Quando mio padre vide quei ragazzini, fra i
quali i suoi due figli, come era uso nella nostra
famiglia di allora, si inginocchiò e cominciò a gridare
invocando tutti i santi del paradiso affinché gli
risparmiassero
quella
strage
e
ordinando
immediatamente ai suoi figli e agli altri di depositare
delicatamente a terra quell'ordigno. Cosa che tutti
fecero, ma i primi furono Pierino e Giacomo per
potersi prendere un vantaggio su di lui fuggendo
all'impazzata. Corsa inutile perché mio padre si
dovette occupare subito della bomba rivolgendosi alle
autorità preposte e non pensò quindi minimamente a
inseguirli. Come tutti i ragazzini cresciuti durante la
guerra anche quei due miei fratelli avevano una
grande passione per le armi e così una volta tutti e due
furono autori di un'altra bravata che per poco non
costava la vita a Giacomo.
Presero la pistola che mio padre teneva non si
sa perché riposta in un cassetto del comò, quella che
24
impugnava la notte del sabba provocata da mia nonna
e raccontata nel romanzo di Ginetta, e insieme si
recarono in una cava convinti che lì avrebbero potuto
sparare senza conseguenze. Non sapevano niente di
bossoli o di traiettorie alternative che le pallottole
possono seguire quando il colpo incontra un corpo
resistente. Spararono, sì, ma Giacomo sentì un fruscio
in testa che gli fece la scriminatura fra i capelli. Sarà
stato il bossolo? Sarà stato il proiettile stesso? Non lo
sapremo mai. Fatto sta che i due incoscienti, vista
l'emozione che avevano provato, quando andarono a
riporre la pistola al loro posto, vollero provare di
nuovo. Uno dei due comodini della camera da letto
dei miei, ereditata da me, reca due fori: uno nello
sportello e l'altro nel fondo del comodino stesso; poi
per loro fortuna, incontrato il muro, il colpo sfiancato
già da due ostacoli non ebbe la forza di tornare
indietro. Ma la botta fu tremenda e l'intera casa
rimbombò: mia madre accorse disperata non capendo
che cosa stesse succedendo e quando arrivò in camera
li trovò bianchi come un cencio per lo spavento e li
riempì di botte. Ma le botte di mamma per quei due
diavoli erano carezze. Povera mamma! Stette tutto il
giorno a pensare se doveva o no informare mio padre.
Poi, temendo quelle sue scenate che disturbavano non
poco la sua innata signorilità, decise di non farne
niente e probabilmente questo suo difensivismo
unilaterale, che lei contrapponeva alla severità solo
estemporanea di mio padre, furono la causa prima
25
della crescita sballata di quasi tutti i componenti della
nostra famiglia, me compreso. Ma meno male,
verrebbe voglia di dire. Sette personalità, una diversa
dall'altra, eppure tutte sottese da un'uniformità che
oggi si direbbe trasversale, sono le fondamenta solide
di questo mio lavoro che io dedico a tutte loro nel
disperato tentativo di salvarle dalla seconda morte.
Fra uno scherzo e l'altro Pierino era arrivato a
sedici anni e ancora stava frequentando il secondo
avviamento professionale, un tipo di scuola che ora
non c'è più. Si vergognava di andare a scuola con
bambini di cui sembrava il padre e quindi ci andava
poco. Quando aveva i soldi, si comprava le sigarette e
se ne andava in giro per Sulmona sicuro che in una
città per lui così grande non avrebbe fatto “pericolosi”
incontri; ma quel giorno il diavolo ci mise la coda e
mentre camminava tranquillamente fumando per uno
dei vicoli di quella città, a un incrocio si incontrò
faccia a faccia con mio padre che non è escluso che
avesse ricevuto qualche spiata. O che fosse così o che
i riflessi di quel giovane padre fossero ancora
prontissimi, Pierino fu colpito da un ceffone
istantaneo sulla bocca che gli fece ingoiare la
sigaretta ancora accesa. Ci fu un po' di trambusto, una
semi-colluttazione... poi, siccome era sostanzialmente
un ragazzetto mite, Pierino senza versare neanche una
lacrima, mentre mio padre lo riportava a forza verso
casa, si espresse con estrema chiarezza: lui a scuola
non ci sarebbe andato più, non poteva tollerare che gli
26
altri stuenti lo salutassero scambiandolo per un
professore, che i professori lo mettessero
continuamente alla berlina perché non sapeva né
voleva sapere nulla. Rientrarono che il problema era
più di mio padre che di Pierino. Lo mandò di sopra,
cioè al piano di sopra dove Pierino si sarebbe gettato
sul letto aspettando indifferente il verdetto e,
convocata mia madre, le espose il problema nella
speranza di disfarsene. Mia madre quella volta pianse
amaramente. Che male aveva fatto perché quel figlio
amatissimo dovesse essere così ostile allo studio? Ne
avrebbe voluto fare un professore, un avvocato, un
giornalista, un ingegnere, insomma uno di quelli che
contano, ma non si può andare in paradiso a dispetto
dei santi.
La carriera scolastica di Pierino finì per
decisione unanime dei miei genitori i quali nel
frattempo avevano anche perso la pazienza con
Giacomo che ne combinava una appresso all'altra.
Posso dire che mentre Pierino la realtà non la vedeva
proprio, perso com'era dietro alla ricerca di una
donna, Giacomo la realtà la vedeva sempre secondo
un suo punto di vista falso. Tanto per fare un esempio:
quando fui verso i sedici anni anch'io, e cominciavo
ad andare al cinema da solo, dicevo a tutti che io non
aveva bisogno di leggere le critiche dei giornali per
scegliere un film: mi bastava consultare Giacomo: se
diceva che era bello, allora il film era assolutamente
da evitare; ma se diceva che era brutto bisognava
27
subito buttarsi a vederlo prima che lo ritirassero dai
circuiti cinematografici. I nipoti, più giovani di me,
erano ancora più drastici: dicevano che zio Giacomo
apriva bocca e gli dava fiato.
Cosa fece decidere i miei genitori a dare una
svolta alla vita dei due ragazzi fu il fumo. Pierino
fumava a più non posso perché la sigaretta, come
detto, per lui era l'equivalente universale di tutti i
piccoli desideri repressi e lui, l'unico desiderio che
aveva, era quello di attaccarsi al seno di mia madre
che gli si era fissato in testa e non lo abbandonava
mai; Giacomo fumava per imitare il fratello più
grande e trascorrevano così il loro tempo, fra il fumo
di una sigaretta e l'invenzione di stratagemmi per
rimediarle. Negli anni immediatamente dopo la guerra
il fumo era una specie di status symbol. Chi poteva
permettersi di fumare sfoggiava la sigaretta con gesti
codificati, oggi risibili, ma a quel tempo pieni di
fascino. Giacomo si inventò di vendere la gatta di
casa, per altro guercia a un occhio, al figlio scemo del
tabaccaio che la acquistò per un pacchetto di
nazionali, ovviamente sottratte di nascosto al padre.
La vendita si ripeté due volte perché naturalmente la
gatta tornava da noi e si sarebbe ripetuta ancora se
non se ne fossero accorti i grandi e non avessero
posto fine a quel vergognoso mercimonio. Giacomo
non fu punito da mio padre che naturalmente dette la
colpa a Pierino perché era lui che istigava il fratello
più piccolo a fumare. La guerra dei miei contro il
28
fumo fu una guerra persa in partenza. Mia madre
strepitava perché non poteva sopportare che i soldi
andassero letteralmente in fumo; mio padre perché
doveva obbedire ai suoi diktat perentori; ma quando
poi, dopo poco, la famiglia si trasferì a Roma, dato
che le due sorelle romane fumavano, i due manigoldi
pensarono bene che anche a loro sarebbe stata lasciata
via libera. E così fu.
Intanto a Bolano, dove eravamo tornati, i due
discoli stavano dissipando la loro vita senza
concludere niente. Pierino si divertiva inventando
scherzi rimasti nella memoria di tutti perché
particolarmente divertenti; Giacomo lo seguiva
guardando estatico una realtà di cui non capiva nulla,
ma tanto non ci faceva niente perché c'era Pierino. Il
quale un giorno, visto che un cantoniere procedeva
sempre sguardo a terra, anche quando andava in
bicicletta, nella speranza di trovare qualcosa di utile
da riportare a casa, architettò uno scherzo tanto
divertente quanto rivoltante. Prese un tubetto di
mastice, allora si usava per riparare le gomme bucate
delle bici, che era praticamente finito, lo vuotò del
tutto, ne ricompose l'involucro di latta come se fosse
nuovo, lo aprì dal fondo e dal fondo lo riempì di
cacca di gallina opportunamente fatta ammorbidire
fino a renderla molle come il mastice stesso. E quindi
lo richiuse per bene. Compiuta l'opera, quando arrivò
l'ora nella quale abitualmente il cantoniere rientrava
dal lavoro passando in bicicletta davanti al nostro
29
casello i due discoli misero il tubetto ristrutturato in
bella vista in mezzo alla strada e si appostarono in
attesa. La vittima arrivava in bicicletta e dunque loro
non fecero caso ai passi che si stavano avvicinando e
che erano di mio padre e dell'ingegnere che le
Ferrovie avevano mandato a fare un controllo lungo
la linea. Quando se ne accorsero era ormai troppo
tardi: l'ingegnere aveva già raccolto il tubetto e,
stupito che qualcuno l'avesse perso così nuovo, lo
aprì quasi automaticamente e se lo avvicinò al naso
per gustare il tipico odore dei mastici con cui gli
ingegneri hanno dimestichezza e che gli piace anche,
direi.
L'espressione nauseata di quel pover'uomo
avrebbe meritato una foto se i ragazzi avessero avuto
a disposizione una macchina fotografica, ma non ce
l'avevano e per anni ci siamo dovuti accontentare del
loro racconto.
Una cosa terribile nelle famiglie sono i racconti
ad uso della casa. La nostra per esempio si era
costruita nel tempo una specie di aneddotica
riguardante questo o quello di noi, che è poi quella di
cui io mi servo per raccontarvi i miei fratelli e sorelle,
una aneddotica che serviva a oscurare tutti i problemi
reali che un gruppo così folto in un periodo così nero
covava al suo interno senza rendersene né
volendosene rendere conto. E dunque estenuanti
pranzi o cene dove come dei matti continuavano a
raccontarsi questi insignificanti episodi ridendone
30
ogni volta, e sono state infinite, che qualcuno li
rievocava.
Più tardi venne in voga uno spettacolino serale
che aveva un musichetta nota a tutti gli italiani che
oggi hanno più di cinquant'anni. Si tratta di
“Carosello”. Bene, quando il marito di Rosetta a
tavola sentiva il primo di questi aneddoti
incominciava a intonare la musichetta di Carosello
volendo dire che la famiglia incominciava ad
incensarsi non si sa poi per quale motivo perché tutti i
protagonisti non ci facevano mai una bella figura.
Dopo i caroselli di Costanzo l'intollerabile
consuetudine mano a mano scomparve anche se ogni
tanto come l'idra di Lerna ritirava e ritira fuori una
delle sue teste e allora giù con aneddoti su aneddoti
per lo più già noti e quindi noiosissimi.
Non per me tuttavia, perché io mi divertivo a
studiare le varianti e soprattutto le discussioni fra i
miei fratelli sulle diverse versioni dei fatti raccontati.
Ma mamma c'era? Ma no, che dici? Mamma era
andata ad accompagnare Pierino a scuola. Non te lo
ricordi? E allora giù ad ammonticchiare particolari su
particolari per avvalorare la propria versione. Una
vera e propria tortura per chi non aveva l'interesse,
allora anche a me ignoto, di natura, diciamo così,
narratologico.
La sera del mastice i due scomparvero e ci fu
una grande scenata di mio padre che in questi casi
non li riconosceva come suoi figli e inveiva contro
31
mia madre: “I figli... i tuoi figli!” e tutti facevamo
finta di essere contriti per il comportamento
irresponsabile di quei due.
Fumo, scherzi, fannullaggine: alla fine i miei
non ne potevano più ma non avevano neanche la
possibilità di escogitare una qualche soluzione
possibile. Quando non ne poteva più mio padre, con
la scusa del lavoro, andava a Roma a parlarne con
Assuntina e con Ginetta, le quali non bastavano a se
stesse, figuriamoci se potevano trovare una soluzione
a un problema così; mentre mia madre, con la scusa
della spesa, si rifugiava da Cettina nella speranza di
trovare almeno un po' di consolazione, ma Cettina
non sapeva far altro che inveire contro quei due
manigoldi che pure amava perdutamente.
Alla fine ci pensò il caso. Molti tra parenti e
conoscenti cominciarono a interpretare gli
atteggiamenti estatici di Giacomo come un segno
della sua profonda religiosità e mio padre che aveva
sempre sognato un figlio maschio prete o frate
gongolava di questo nella speranza che si avverasse il
suo desiderio e si dava da fare per inculcare in quel
ragazzetto incorreggibile l'idea che si poteva anche
studiare tra le mura di un collegio insieme a tanti altri
compagni e guidati da sacerdoti che sapevano
veramente insegnare ai ragazzi. In quel periodo tornò
a Bolano a predicare, per la festa del santo patrono,
tale padre Pietro, che una quindicina di anni prima lo
aveva talmente affascinato che lui se ne era ispirato
32
per dare il nome a Pierino. Non gli sembrò vero, a
mio padre, di condurre tutte le sere i due ragazzi ad
ascoltare il predicatore e Giacomo, che del tutto
stupido non era, si lasciò affascinare dalla parola di
quel frate, ma soprattutto dal silenzio che essa
riusciva ad imporre su un uditorio sterminato.
Insomma arrivò per Giacomo la crisi mistica. Si
convinse che andare in convento a studiare con i frati
sarebbe stata per lui la cosa migliore. Fu un vero e
proprio colpo basso per Pierino ma i miei avevano
pronto anche per lui un piano, anche se diverso.
Quando Giacomo arrivò a Pietrelcina già vi
faceva il bello e il cattivo tempo un frate dalla
personalità portentosa che quando glielo presentarono
storse la bocca e mormorò al rettore: “Non è quello
che pensa il padre. Che non si vede che questo è nato
per andare puttaniando?” Il rettore si scandalizzò non
poco ma il santo frate aveva, come sempre, ragione. E
certo! Era ispirato da Dio che gli aveva concesso
anche le stimmate. A me solo ne aveva concessa una
sola e non nel posto proprio preciso e che comunque
non si sarebbe riaperta mai più!
Giacomo infatti non ci resistette molto in quella
vita cadenzata ora per ora; ogni volta che gli era
concesso tornava a casa senza però avere il coraggio
di dire che quella faccenda non gli garbava punto.
Una volta addirittura scappò ma fu riacciuffato.
Insomma tutta la famiglia alla fine capì che la cosa
non poteva durare. E infatti non durò. Giacomo che si
33
scalmanava nel gioco del pallone per distrarsi da
quella prigione, in uno scontro più duro ebbe un
ginocchio massacrato e da lì fu segnato per sempre il
suo destino. Divenne un valetudinario che passò la
sua vita fra letto e lettuccio, in casa o di ospedale,
sostituendosi ai medici per curarsi e quindi
arrecandosi più danni di quelli che erano già di per sé
inevitabili.
Intanto mentre lui era in collegio mio padre
aveva provveduto ad impegnare anche Pierino.
Avevano notato tutti la sua passione per il ciclismo.
Erano i tempi di Bartali e Coppi e della grande
passione per questo sport diffusa dalla radio. Inoltre
Pierino si può dire che ormai viveva sulla bicicletta di
mio padre per compiere, mentre lui lavorava, continue
scorribande nei dintorni del paese e spesso si vantava
di aver coperto lunghe distanze in poco tempo e senza
fatica. Mio padre pensò bene che sarebbe stato un
affare, anche se molto dispendioso, acquistare una
bicicletta da corsa per Pierino, anche per recuperare la
sua, di bicicletta, che ormai non vedeva più perché era
sempre impegnata da lui. Pierino quando la vide ne fu
entusiasta e subito si sognò come un novello Coppi, al
quale per altro somigliava, ma molto molto più in
bello. Incominciarono quindi allenamenti estenuanti,
sudate grondanti, fami insaziabili ma che lui
straordinariamente sapeva tenere a bada senza
conoscere nulla delle famose diete a cui gli sportivi
vengono assoggettati dai loro torturatori, cioè
34
nutrizionisti. Divenne ancora più bello: gli occhi che
da bambino storceva per concentrarsi sul volto di mia
madre avevano conservato un leggero strabismo,
quello che nelle donne viene chiamato “strabismo di
Venere”, che, unito ad una motilità impressionante
dello sguardo, ma dovrei dire della “guardatura”,
come si diceva in famiglia, facevano di lui un
giovanotto assolutamente affascinante. Le donne,
tutte, se lo mangiavano con gli occhi, ma lui
sembrava non accorgersene; totalmente invasato da
quella bicicletta sulla quale appoggiava tutte le sue
speranze rimaneva lontano da casa per intere giornate
impiegate in vere e proprie tappe come quelle, diceva,
che si facevano al giro d'Italia.
Ma poco tempo dopo l'incidente che aveva
stroncato la carriera religiosa di Giacomo una
rovinosa caduta stroncò anche quella sportiva di
Pierino. Rovinosa non tanto perché gli avesse
procurato danni gravi ma perché da quella caduta in
poi Pierino fu pervaso da una paura che non lo lasciò
più. Hai voglia a dirsi che non era successo niente,
che doveva ricominciare dimenticando quell'incidente
di per sé banale ma così scenografico da dargli tutto il
tempo, per accogliere dentro di sé un rifiuto, dovuto a
paura, di quello sport che lo aveva affascinato tanto
profondamente.
Era demoralizzato, ma quando tornò Giacomo
non poté resistere alla tentazione di accoglierlo con
uno scherzo anch'esso rimasto negli annali.
35
C'eravamo un po' tutti ad accoglierlo. E come stai? E
come e andata col ginocchio? Ma hai veramente
intenzione di non tornare più a Pietrelcina? Pierino
invece lo accolse con un festoso “Ho imparato un
trucco stupefacente che mi ha insegnato il mago di
Serchio (praticamente un ciarlatano che ingannava i
bolanesi ignoranti leggendo il loro destino sul libro
del Rutilio [sic!]). Io esco e se tu prendi una posizione
strana io da fuori senza vederti indovino esattamente
qual è la posizione che hai preso. D'accordo? Appena
sei pronto, tu chiamami e chiedimi ad alta voce: 'Pierì,
come sto?' e io indovino tutto.” La trovata incuriosiva
un po' tutti; alcuni di noi erano increduli conoscendo
il tipo; ma Giacomo, preso di contropiede anche dalla
situazione cadde nella trappola. Pierino uscì, in attesa
della sua chiamata che però tardava per le molte
prove che faceva nel cercare la postura più bizzarra
possibile e rendergli in tal modo impossibile la
soluzione; alla fine decise di rimanere seduto sulla
sedia e di mettersi l'indice e il medio della mano
destra sotto il naso. In quella posizione riuscì appena
a farfugliare: “Come sto?” che la risposta di Pierino
arrivò fulminante: “Come un cretino!” Nei racconti di
quello scherzo, io non c'ero o ero distratto da chissà
cosa, quello che più diverte ancora i miei fratelli, e li
divertì allora infinitamente, è l'espressione
indescrivibile del povero Giacomo che, dopo aver
impiegato qualche secondo per capire, cominciò a
piangere, perché non riusciva a sopportare il cinismo
36
di quel fratello, e amico oltre che fratello, che
approfittava di una situazione sentimentale così
particolare per rifilargli uno scherzo così stupido. Non
aveva torto. Pierino per uno scherzo avrebbe venduto
l'anima. Non sapeva resistere all'idea di mettere
qualcuno in difficoltà e di riderne poi allegramente.
Era, in tal senso, di un cinismo pari alla sua visione
disincantata della realtà e della vita.
I due fratelli dunque si riunirono contenti, ma
tutti e due, ormai segnati dalle rispettive “disgrazie”
capivano che non erano più gli stessi di prima: con
quelle due cadute era stato segnato il confine della
loro adolescenza: erano giovani, anzi giovanotti, e
dovevano incominciare seriamente a porsi il problema
del loro futuro. Intuizioni, naturalmente, percezioni,
ma non ancora niente di deciso. A loro due anzi
sembrava che tutto stesse continuando come prima;
tutto invece gli parlava di un cambiamento avvenuto
improvvisamente. Vedevano chiaramente che la fine
della guerra aveva cambiato tutti, vedevano che c'era
in giro un'atmosfera di libertà e di bellezza che più
nulla aveva a che fare col nero periodo della loro
infanzia e della loro adolescenza. Ogni tanto l'uno o
l'altro dei due si provava a fischiettare “Giovinezza” o
“Faccetta nera”, più per abitudine che per una reale
adesione ai contenuti di quelle canzonacce, ma il
tentativo gli moriva sulle labbra.
Vi fu un episodio a Bolano che segnò la fine del
sogno che riproponeva scioccamente il fascismo.
37
Arturo, un ex federale che aveva fatto il bello e il
cattivo tempo nell'epoca in cui i federali valevano
qualcosa non voleva rassegnarsi alla fine di
quell'epoca per lui felice. Se si entrava nella sua casa
si respirava un'aria tipicamente fascista: persiane
semichiuse, stanza in ombra o quasi nell'oscurità,
mobili chippendale con tanto di buffet e controbuffet
e annesse specchiere, soprammobili in gesso pensati e
realizzati naturalisticamente ma poi laccati nel modo
più stilizzato e inelegante possibile: una cagna che
allattava due cuccioli, un'enorme tigre distesa sul
pavimento, tappeto ricavato dalla pelliccia di qualche
povero animale, un lampadario con otto lampade che
si disponevano intorno a un lampione centrale più
grande, il tutto assemblato da un'orrenda struttura di
ferro nero. Naturalmente centrotavola in gesso
laccato, ma non mi ricordo più cosa rappresentava, e
dappertutto centri e centrini di merletto a incorniciare
quei capolavori e infine su un'angoliera più grande
del normale il grammofono a tromba sul quale Arturo
faceva girare gli amati 78 giri di un tempo.
Quel pomeriggio al gerarca nostalgico andava
di riascoltare “Faccetta nera” intonata dai nostri
soldati della guerra d'Africa al tempo del fascio. E va
bè! Ma Arturo non voleva sentirla solo lui, la voleva
imporre all'ascolto di tutto il quartiere. Passava di lì
un ex-partigiano che non aveva ancora riconsegnato
la pistola e quando sentì quella canzone per lui
insopportabile entrò in casa senza bussare e sparò
38
senza pensarci due volte al povero... grammofono che
saltò giù dall'angoliera, fatto a pezzi dai ripetuti colpi.
Ovviamente il fatto ebbe delle lunghe conseguenze
giudiziarie che non ricordo nei minimi dettagli ma
che non mancarono di tenere desta l'attenzione della
gente su quell'evento.
Parlandone, Pierino e Giacomo, riconoscevano
implicitamente che con la guerra e col fascismo anche
la loro adolescenza se n'era andata e questo li
induceva ad essere più assennati, ma non meno
giocherelloni. In particolare Pierino, appunto, che
trovò il modo di accogliere in casa una delle ultime
trovate di mio padre. “Imparate l'alfabeto Morse così
vi prendete un bel diploma di telegrafisti e prima o
poi troverete lavoro.” Giacomo nell'atteggiamento
estatico con cui si rapportava alla realtà neanche prese
in considerazione l'invito di mio padre, però ogni
tanto a tempo perso si dedicava anche lui a
trasmettere e a ricevere qualche messaggio, ma “a” e
“da” chi? Mio padre aveva chiesto ai capistazione di
Bolano di avere la pazienza di rispondere ai suoi due
figli quando questi si fossero dilettati a comunicare
con loro. Dunque era chiaro a tutti che il telegrafo
rimediato da mio padre non era collegato con una
rete, ma che era un semplice strumento per studiare
collegato solo con la stazione ferroviaria.
Al contrario di Giacomo, Pierino aveva una
vera e propria passione per tutto ciò che era
meccanico o tecnico o elettrotecnico. Dopo il
39
ciclismo, i suoi sogni si erano molto ridimensionati ed
egli sperava di poter fare un giorno il meccanico, ma
di auto. Intanto incominciò col telegrafo e scoprì che,
se avesse collegato un semplice filo a quello
strumento e lo avesse fatto passare nella stanza
attigua, da lì, procurandosi un altro trasmettitore,
avrebbe potuto fare col fratello quello che intanto tutti
e due facevano con i capistazione. E capitò che
quando aveva appena finito l'installazione della quale
per puro caso non aveva informato Giacomo,
altrettanto casualmente era scoppiato una specie di
nubifragio che aveva costretto Giacomo a rientrare e a
dedicarsi a tempo perso a quell'aggeggio di cui non
capiva bene l'utilità.
Le intenzioni di Pierino inizialmente erano
serie ma quella concomitanza di circostanze gli
suggerirono uno scherzo senza precedenti per
bellezza e riuscita. Appena sentì che Giacomo aveva
attivato il telegrafo si affrettò a mandargli lui un
messaggio terribile e per Giacomo inspiegabile:
“Zutaro fa l'amore con Rita.”, un segreto di cui
Giacomo credeva di essere lui solo a conoscenza.
Ognuno di noi in famiglia aveva un soprannome e
Zutaro era quello di Giacomo, perché da bambino
passava le ore ad accompagnare i cantonieri che
segavano le traverse di legno per la ferrovia
interpretando onomatopeicamente il rumore della
sega: “zu” all'andata, “ta” all'arrivo, “ro” al ritorno.
Come tutti noi in famiglia era assolutamente stonato:
40
sapevamo ascoltare solo rumori, mai dei suoni.
Zutaro sentendo che il suo telegrafo stava ricevendo
pensò che fosse una comunicazione della stazione ma
quando decifrò il messaggio fu colto dal panico. Chi
poteva conoscere il soprannome con cui lo
chiamavano in casa? E chi poteva mai sapere di
quell'amore che in quel momento lo intrigava? E altre
domande confuse che, unite ai tuoni e ai fulmini della
tempesta scatenatasi lo gettarono nel panico più
totale. Si precipitò giù per le scale urlando come un
tarantolato e gettandosi tra le braccia di mia madre
che con riusciva a capire che cosa potesse essere
successo. Fatto sta che quel figlio tremava, era bianco
come un lenzuolo appena lavato ed era così caldo che
sembrava avesse la febbre. Ce l'aveva davvero e si
fece tre giorni a letto assistito da mia madre o da uno
di noi perché non voleva rimanere solo, convinto
com'era che quel messaggio fosse opera del diavolo.
Pierino, viste le conseguenze, non aveva il coraggio
di rivelargli l'arcano: fra sé e sé rideva ma al tempo
stesso pensava con ansia a cosa sarebbe successo se
mio padre avesse scoperto la verità. E così il povero
Giacomo non si accostò più al telegrafo fino a
quando, passato il pericolo delle botte, Pierino non gli
disse la verità.
Giacomo ci rimaneva male, ma non si sentiva
mai ferito da quel fratello buontempone con cui
condivideva tutto della vita, compreso il rispetto e
l'affetto profondi che nutrivano per quelle due sorelle
41
e soprattutto per Ginetta. Non avevano voluto
studiare, non pensavano che al gioco più che allo
sport, avevano la convinzione profonda che solo
lavorando avrebbero potuto sbarcare il lunario e
realizzare i loro sogni minimi, cioè ripetere il modello
pre-modellato della famiglia, illudendosi di poter
ricreare, a loro volta, la bellezza della nostra famiglia.
Facevano parte insomma dell'infinita schiera dei molti
(οι πολλοι, come dice Platone, che verrebbe da
tradurre “i polli”, col significato che gli si dà a
Roma), i quali attaccano al chiodo la meravigliosa
dote che ci viene data alla nascita: pensare, e vivono
sulla base di conclusioni provvisorie che loro
ritengono definitive.
Perciò essi venivano assemblando i pezzi delle
loro personalità senza alcuna mediazione culturale,
completamente vittime degli agenti esterni che li
modellavano. Pierino in particolare si rivelava sempre
più taciturno e timido con le donne, anche se di
quando in quando cercava di mascherare tale
timidezza con i suoi scherzi esilaranti o con le sue
barzellette geniali. La loro fanciullezza vissuta a
Bolano al tempo del fascismo non offrì loro che un
solo modello, quello del maschio prepotente che si
appropria di una donna cercando di sottometterla con
le sue prerogative: il guadagno, l'autorità, la forza
fisica. Questo fu Pierino: un carattere timido, chiuso
in una struttura che non gli apparteneva e che egli
trasferì nella Roma della ricostruzione inconsapevole
42
di quello che la città e soprattutto Ginetta gli stavano
preparando. Pierino era stato la vittima designata
delle botte di mio padre che finiva per prendersela
sempre e solo con lui e sarà coerentemente la vittima
designata dal destino a subire primo fra noi la morte.
Per fortuna la scappatoia del cercare il divertimento
dovunque fosse possibile trovarlo lo compensò
minimamente di ciò, ma la sostanza è che la donna
che egli blindò dentro di sé per obbedire agli unici
modelli per lui vigenti lavorò al buio scatenando
dentro e contro di lui un cancro mortale.
Delle infinite barzellette che mi raccontò una in
particolare mi è rimasta impressa. Un nonno che porta
a spasso il nipotino si imbatte in due cani che si
stanno ingroppando. Il nipotino incuriosito da quello
che per lui può essere solo un gioco chiede al nonno:
“Che fanno?”. Il pover'uomo dopo un attimo di
imbarazzo ha una trovata straordinaria: “Vedi, caro,
quello che sta sopra è cieco e perciò l'altro se l'è preso
sulle spalle e lo porta a fare una passeggiata.” Il
bambino per il momento sembra soddisfatto mentre il
nonno si congratula con se stesso per aver escogitato
una risposta così convincente. Ma dopo qualche
secondo il bambino torna alla carica: “Nonno!”, “Che
c'è?”, “Sai che dice il mio amico Lorenzo?” “Che dice
il tuo amico Lorenzo?” “Dice che a questo mondo più
sei buono e più ti si inculano.”
Me la raccontò orgoglioso di potermi
comunicare una storiella così ben congegnata e rideva
43
soddisfatto del mio ridere. Anch'io ovviamente
ridevo, ma in quella complicità, in quell'intrecciarsi di
risate io, sicuramente, e lui, forse, percepimmo
qualcosa in più di quello che la storiella in sé e per sé
conteneva, qualcosa di inesprimibile e dunque
qualcosa che anche in questa sede debbo lasciare
inespressa se non voglio violare una legge ferrea del
raccontare.
Arrivati a Roma, i miei due fratelli adolescenti
e le due sorelle ancora nubili si misero subito alla
ricerca del lavoro. Angela e poi Gisa andarono a
mettere punti in una modesta sartoria di Piazza
Bologna; Pierino e poi Giacomo andarono a lavorare
in un'officina meccanica gestita da un torinese, tale
Sor Giovanni Sampò che, non avendo avuto figli,
prese a cuore soprattutto Pierino perché lavorava a
vita persa, come si dice, pur di riportare a casa un po'
di soldi. Con il Sor Giovanni per la prima volta
Pierino esportò fuori di casa la sua indimenticabile
tecnica della “scoreggia”. So che non è bello parlare
di scoregge; perciò vorrei citare immodestamente due
precedenti illustri che lo hanno fatto, non in
letteratura, ma nel cinema. Il primo è Fellini che
rappresenta la scoreggia sia nel “Satyricon” che in
“Amarcord” e il secondo è Bergmann in “Fanny e
Alexander”. Dunque con due precedenti così illustri
non esiterò a raccontare questo aspetto a suo modo
non poco significativo della personalità di mio
fratello.
44
Pierino aveva raggiunto una tale padronanza
del suo corpo che riusciva a controllare perfettamente
l'emissione dei peti. Perciò quando voleva ne faceva
dei veri e propri spettacoli. Per esempio riusciva a
modularne il rumore in modo da poter imitare i peti
delle persone che avevano contatti con la nostra
famiglia ovviamente da lui mai sentite scoreggiare,
ma modulando il peto in modo che comunicasse agli
ascoltatori-spettatori, di un vero e proprio teatrino si
trattava, una simbolizzazione iconofonica (sono
costretto a coniare un nuovo termine), della persona
stessa di cui egli imitava, per ricostruzione fantastica,
il peto. Se annunciava “Sentite come scoreggia
Asilde”, la maestrina cognata di Cettina, emetteva un
flebile prolungato lamento che ci faceva scompisciare
dalle risate; o se annunciava “Sentite come scoreggia
il capostazione”, che era un omaccio corpulento e
quasi obeso, sfornava un boato torbido e morbido che
era l'immagine stessa del pover'uomo. Il massimo del
successo in famiglia lo raggiungeva quando era in
vena di battere l'ora, come i campanili delle chiese.
Naturalmente noi tutti sfidavamo l'impossibile
chiedendo orari del tipo “dodici e un quarto” o simili,
ma lui era imbattibile. Quando una volta gli dicemmo
di battere l'ora prima del campanile che stava per
segnare le dodici e tre quarti, rimanemmo tutti a
lungo senza fiato perché non credevamo che sarebbe
stato capace di emettere dodici peti, diciamo così,
grandi, e tre peti piccoli, per segnare i tre quarti.
45
Naturalmente tutti a ridere e tutti in qualche modo ad
ammirare questa capacità che lui asseriva del tutto
innata e naturale. Che famiglia, la nostra! La
conversazione poteva vertere a lungo su argomenti
scatologici come la scoreggia o il culo o la merda, ma
guai a chi si azzardava a intavolare una discussione
sul sesso. I problemi sessuali se li doveva risolvere
ciascuno per conto suo: nessuna informazione,
neanche un semplice riferimento, erano ammessi in
famiglia.
Fuori di casa Pierino ebbe l'opportunità di
sfoggiare tale bravura una volta che fu sfidato
dall'ignaro principale. Stavano lavorando ciascuno al
proprio tornio quando il Sor Giovanni, gridando per
superare il rumore degli attrezzi, disse a Pierino in
piemontese: “Nè, Pierino, ciapa questa.” e mollò una
fragorosa scoreggia. Pierino lasciò immediatamente il
tornio, finse di inseguire la scoreggia ma in realtà per
correre fuori dell'officina e caricare un bel peto e,
rientrato di corsa, gridò a sua volta al Sor Giovanni:
“Eccola, Sor Giovà!” e mollò a sua volta il fragoroso
peto che aveva accumulato con la finzione di andare a
riprendere quello del principale. Il Sor Giovanni che
soffriva di cuore stramazzò a terra per il gran ridere e
tutti temettero veramente che dalle grandi risate non
ci restasse secco.
La ricerca del lavoro non era stata tanto
difficile per nessuno dei miei quattro fratelli, perché
tutti avevano una gran voglia di lavorare per sottrarsi
46
alla noia della scuola, ma le paghe erano basse; mia
madre però con la sua solita economia di guerra
riusciva comunque fortunatamente a mettere da parte
qualche lira. L'anno che soggiornammo nel casello
km 3, nel bel mezzo della periferia sud di Roma, le
cose andarono molto bene perché quel casello era una
dimora principesca. Sempre su due piani, aveva un
giardino a destra e dietro di esso un terreno dove il
precedente inquilino coltivava api che ci lasciò in
eredità perché era andato in pensione e non avrebbe
saputo dove metterle. Dietro aveva un'aia dove
razzolavano le galline e il porco che come al solito
mia madre allevava per sfamare noi ma soprattutto
per neutralizzare la fame pantagruelica di mio padre.
Sull'altro lato c'erano le stalle, il forno per fare il pane
e la fontana per lavare i panni. Appresso a queste
costruzioni, sempre sulla stesso lato, c'era un orto
enorme che si disponeva su due livelli: quello da cui
entravamo che era una striscia che correva lungo la
ferrovia e al disotto di questa di circa un metro l'orto
vero e proprio che sarà stato lungo un centinaio di
metri e che si chiudeva con un'enorme pianta di fico
che nell'unica estate che abitammo lì produsse dei
fichi dalla dolcezza indimenticabile.
Tutto ciò consentiva a mia madre di assicurare
la sopravvivenza della famiglia a costo zero e
l'accumulo dalle varie mensilità di un bel po' di
soldarelli che presto sarebbero stati utilizzati per
l'affare de “La Mèliga”. I miei quattro fratelli però
47
fecero un grande sacrificio: si dovevano collegare con
il centro prima con il treno e poi con i tram, e
specialmente le sorelle, dovendo rientrare tardi,
percorrevano con un po' di ansia a causa del buio il
tratto che dalla stazione conduceva al casello. Fu in
quell'anno che io potei perfezionare la mia idea di
aeroplano perché a qualche centinaio di metri dalla
nostra abitazione precipitò un aereo di grandi
proporzioni che fece una strage, nessun superstite. Di
fronte alla nostra casa cantoniera sorgeva quello che
per me resterà sempre il palazzo: a poca distanza dalla
casa cantoniera, bastava attraversare i binari, era stato
costruito un palazzo, anch'esso abitato da ferrovieri,
che ospitava varie famiglie e quindi ragazzi e ragazze
di tutti le età. Quelli sui dieci anni eravamo cinque o
sei e in tanti decidemmo appena fu possibile di andare
a vedere che cosa era successo dopo quell'enorme
schianto. Mi ricordo che si potevano vedere oggetti
personali non raccolti perché ormai rovinati e
addirittura qualche pezzo di lamiera con attaccati
poveri resti umani. Fu il mio primo impatto con la
dura realtà dell'esistenza, in un modo o nell'altro
destinata a finire, ma non mi emozionò più di tanto; o
forse sì, che ne so; se lo sto raccontando qui, nella
storia di Pierino, un suo significato per me ce l'avrà
pure avuto; ma nel mio ricordo io risposi con
indifferenza a quello spettacolo che oggi invece mi
appare dolorosissimo.
Per arrivare sul luogo della catastrofe bastava
48
uscire da un cancelletto apposito attraverso il quale si
entrava e si usciva dall'intera nostra area abitativa.
Quel cancelletto era lo strumento con cui i miei due
fratelli tormentavano un cagnolino, Zucchino, sempre
eredità del precedenti inquilino, che si chiamava così
perché era stato realmente trovato sotto una zucca.
Quel bastardello aveva una grande qualità: quando
passavano i treni in rallentamento perché si dovevano
fermare nella vicina stazione, lui li sfidava e vinceva
sempre: era veloce come un fulmine. Prima di trovare
lavoro quei due filibustieri si divertivano a
richiamarlo dopo queste lunghe corse e uno dei due,
nascosto, chiudeva il cancello all'ultimo momento
della corsa di rientro per vedere se la povera bestia
che arrivava come una freccia sarebbe riuscita a
fermarsi. Generalmente Zucchino come nei cartoni
animati scavava due solchi per terra ma riusciva quasi
sempre a fermarsi in tempo. Quando però non ci
riusciva si catapultava sul cancelletto che si apriva ma
lo lasciava interdetto perché lui lo aveva lasciato
aperto e, al momento del fischio di richiamo, lo aveva
visto ancora aperto. La povera bestiola si dimostrò
molto più intelligente di quei due filibustieri: dopo un
paio di scontri col cancelletto, quando Pierino o
Giacomo gli lanciavano il fischio di richiamo, lui
tornava passeggiando come se quel fischio non
l'avesse sentito.
Quando lasciammo quella casa cantoniera un
camion arrivò fin davanti al palazzo e i trasportatori
49
dovettero far attraversare tutta la mobilia a rischio di
ritrovarceli fracassati, loro e la mobilia, sotto un treno
imprevisto. Quando il carico fu pieno, anche noi
montammo chi da una parte chi da un'altra, chi, come
me e Gisa, che eravamo i più piccoli, nella cabina di
guida. Zucchino che aveva sicuramente capito saltava
verso il finestrino con balzi che non aveva mai fatto
mugolando come un bambino. Il camion partì, noi
avevamo tutti gli occhi gonfi di pianto e mia sorella
Gisa, la più piagnona, singhiozzava disperatamente.
A Roma ci aspettava la convivenza con Ginetta
e la sua famiglia di cui ho parlato a lungo nel
romanzo a lei dedicato. Devo dire che noi tre maschi
fummo i tre che soffrimmo di meno in quei tre anni di
disperazione. Chi era di più nel mirino di Ginetta
erano i miei e le due sorelle nubili. Quali fossero le
segrete ragioni per cui Ginetta preferiva vessare più
l'uno che l'altro non lo sapremo mai. Posso fare solo
un'ipotesi: probabilmente i due fratelli non si
ribellarono mai alle sue angherie perché erano
letteralmente innamorati di lei; mentre le due
femmine spesso battevano i piedi e ciò era per Ginetta
un'intollerabile ribellione e quindi un giusto motivo
per perseguitarle.
E poi entro breve Pierino sarebbe partito
militare, che allora era un servizio pubblico
obbligatorio, e dunque la sua presenza in casa sarebbe
finita. Lo mandarono a Taranto a fare il periodo di
premilitare che allora si chiamava car e, dopo un
50
mese, lo smistarono a Novi Ligure, in Piemonte. Si
salutò con i compagni che si era fatto con una grande
commozione che lui però controllava perfettamente,
non riuscendo a capire come alcuni di essi invece si
abbandonassero a dei pianti irrefrenabili. Tra i miei
ricordi più vividi di quell'età c'è il viaggio che feci
con mio padre per andare a trovarlo a Novi Ligure.
Perché lo ricordo tanto bene? Perché mio fratello era
riuscito ad ottenere una specie di volo premio per i
parenti. Fu il primo volo della mia vita, fatto su un
velivolo che, portato in alto da un aereo trainante,
venne poi abbandonato alle correnti d'aria e ai venti,
fino a quando il pilota non riuscì a riportarlo a terra.
Come si è incoscienti a quell'età! In seguito, tutte le
volte che ho volato, per viaggi brevi o lunghi, ho
sempre avuto una paura fottuta: quel giorno mi
sembrò la cosa più naturale del mondo essere
trasportato da un aggeggio che non aveva neanche il
motore. Certe volte, rimuginando questo ricordo, mi
sembra di aver sognato e che il suo contenuto non sia
vero. Non ci scommetterei insomma. Fatto sta che,
vero o immaginato, io debbo a Pierino anche il primo
volo della mia vita.
Il periodo militare trascorse senza traumi.
Pierino si asteneva dagli scherzi perché aveva paura
delle punizioni e tutto filava liscio: nelle libere uscite
si univa ad altri compagni e a gruppi si disperdevano
per quella bella cittadina alla ricerca di qualche
ragazza disponibile con la quale intrecciare un
51
discorso e poi, poi... Aveva capito da un brutto
episodio di nonnismo che se avesse preso dei giorni di
punizione li avrebbe poi scontati al momento del
congedo: tanti giorni, dopo quelli obbligatori della
leva, quanti ne aveva trascorso in prigione per
punizione. L'episodio riguardava un tale Valter
Mereu, un piccolo sardo che era partito con la precisa
intenzione di non tollerare nessuno sgarbo da
nessuno. E invece il nonno che si stava per congedare
lo accolse ordinandogli: tu stasera mi rifai la branda,
cioè mi rifai il letto. Valter capì subito che quello non
scherzava, ma tanto meno scherzava lui. Senza
scomporsi chiese quale fosse la branda del nonno e
quello gliela indicò. Bene, al calar della sera,
all'improvviso quella branda prese fuoco scatenando
il putiferio nella caserma. Ci furono le indagini. Il
nonno, cretino, dovette parlare e prese una bella
punizione: Valter subì delle severe indagini e si scoprì
che aveva sempre portato con sé una bottiglia di
spirito, una pistola, un coltello a serramanico e... una
bomba, di cui non volle dare spiegazioni e quindi non
sapremo mai come se l'era procurata. Si beccò non so
quanti giorni di prigione e la cosa finì lì perché si sa
che il nonnismo che ha imperversato nelle nostre
caserme, almeno fino a quando non è stato abolito il
servizio militare obbligatorio, ha potuto resistere
grazie all'omertà anche degli alti gradi che vedevano
in pericolo le loro mangiatoie se qualche scandalo
fosse venuto alla luce, come talvolta pure avveniva.
52
Quello che lo divertiva di più della vita
militare era il comportamento dei marescialli che
facevano creste paurose sulla spesa per la truppa
costringendo i poveri soldati semplici a ranci
immangiabili; ma uno soprattutto lo divertiva perché
quando, abbandonati a se stessi in giro per la caserma
senza far niente e senza il permesso per uscire, gli
chiedevano garbatamente con una sottile e
impercettibile ironia: “Che dobbiamo fare?” lui gli
rispondeva serio serio: “Dovete aspettare il congedo.”
Una cosa strana però accadde anche a lui,
rivelata solo a Giacomo per farsene spiegare il
significato.
Una
notte,
mentre
dormiva
profondamente fu svegliato da qualcosa che si
muoveva sotto le sue coperte. Fra le altre idiosincrasie
di Pierino, che ho già elencato, c'era anche quella dei
serpenti. Nelle campagne di Bolano di serpenti ne
trovi quanti ne vuoi, anche di quelli velenosi, in
particolare la vipera Ursini, la vipera insomma, il cui
morso, se non è tamponato subito, è mortale. Fu una
specie di incubo. Pierino si svegliò di soprassalto e
riconobbe nell'oscurità la faccia del sergente Ferrari,
uno che tutti sfottevano senza che lui, Pierino, ne
capisse il perché. “Che fai?” Gli chiese sibilando nel
silenzio della camerata, “Che fai?” “Niente, niente.”
rispose l'altro facendogli segno di stare zitto e
sibilando a sua volta “Ssssst” “Che vuoi?” “Niente,
niente.” e lo vide dileguarsi nel buio lasciando la
camerata nel silenzio più assoluto.
53
Pierino non capì. Si riaddormentò pensando di
aver sognato, ma così non era. Il giorno successivo fu
convocato dal tenente Mingoni che gli chiese
pacatamente che cosa era successo nella notte appena
passata. Pierino spiegò che gli era accaduto qualcosa
ma che lui non sapeva neanche dire se era una cosa
vera o era un sogno: aveva visto il sergente Ferrari
che... e raccontò quello che aveva visto. Il tenente lo
ascoltò attentamente e quando si rese conto che
Pierino non avrebbe dato alcun seguito a
quell'episodio lo congedò senza dargli spiegazioni. Né
Pierino si interrogò più di tanto sull'accaduto. Non si
chiese per esempio come mai il tenente fosse a
conoscenza del fatto e del suo sogno, addirittura. Non
si chiese come il sergente Ferrari avesse potuto
raccontare una cosa che era accaduta solo in sogno.
Insomma dopo qualche secondo di radotage
inconcludente Pierino archiviò il tutto e tornò alla sua
vita di soldato in attesa del congedo. Molto tempo
dopo, parlandone con Giacomo, ebbe tutte le
spiegazioni.
Pierino era fatto così. Non amava interrogarsi
su nulla. La vita era la cosa semplice che lui riteneva
tale e dunque era inutile stare a chiedersi se, dove,
come, quando, perché. Per lui la parola “frocio” non
ebbe mai un significato reale; tutt'al più significò
“persona particolare o strana” e tanto meno la parola
“omosessuale” che lui pronunciava addirittura
“uomosessuale” pensando ad un uomo che soffriva di
54
particolari eccessi in fatto di sesso. Ma che due
persone dello stesso sesso potessero far sesso insieme
era una cosa che non riuscì mai a concepire. E quando
Giacomo, più scaltro e smaliziato, cercava di
convincerlo, lui pensava che gli stesse facendo uno
scherzo come uno dei tanti di quelli che gli faceva lui.
Quando Pierino tornò dal militare Ginetta era
tutta zuccherosa con lui, era tutta un accordo. Perché
il Sor Giovanni lo aveva ripreso subito a lavorare e
con lui Pierino guadagnava bene: sicuramente lei
aveva già messo gli occhi su quella povera paga per i
suoi diabolici disegni. Che poi, a ragion veduta, tanto
diabolici non erano. Ginetta aveva una sua visione
della realtà non del tutto sbagliata: lavora, guadagna e
mangiati i tuoi guadagni per fare una vita bella. Mia
madre e mio padre invece contrapponevano a questa
visione avveniristica e postbellica la loro visione del
sacrificio e del risparmio a tutti i costi. Per mia
madre, parlando di economia domestica, non esisteva
la categoria del necessario; ma solo quella del
superfluo: mia madre fu un'antesignana della
decrescita felice di Georges Latouche e io che la porto
dentro da quando è morta porto dentro di me anche
questa rozza economia che però al momento giusto ti
fa trovare un bel po' di soldi da parte sufficienti per
agevolare qualche tua iniziativa.
Fu così che Pierino a un certo punto con grande
dolore di lei decise di acquistare in comproprietà con
Desiderio una topolino, cioè la 500 Fiat di una volta,
55
immettendo la famiglia nell'ambito dei possessori di
una macchina. Pierino sognava tutto ciò da quando
bambino a Bolano vedeva il gerarca Arturo Venditti
andare in giro con la sua Aprilia, con tanto di
predellino su cui qualche volta saliva per farsi portare
per un breve tratto. Era il sogno realizzato di un
meccanico che finalmente poteva possedere uno
strumento su cui aveva sempre lavorato per gli altri.
Sulla topolino coprimmo spesso il tragitto per andare
a “La Mèliga” per la costruzione della bifamiliare di
cui ho parlato spesso; sulla topolino facemmo le
prime gite a Ostia per andare a vedere il mare. Ma
nient'altro! Nessuno di noi sapeva perché dovevamo
spendere tutti quei soldi per andare a vedere il mare.
Forse perché essendo montanari, quel fenomeno ci
colpiva in particolare. Con la topolino forse Pierino
fece i suoi primi approcci amorosi probabilmente con
prostitute. Io a tal proposito non so niente perché,
salvo che con Giacomo, Pierino non si confidava con
nessuno. So solo che una volta Giacomo, che era un
chiacchierone pettegolo, disse a un loro amico
comune, ma io ero lì e li sentii, che doveva andare a
comperare i preservativi perché Pierino si
vergognava.
In realtà Pierino si vergognava di entrare in
qualsiasi negozio perché era di una timidezza
patologica e, oltre a questo, soffriva di alcune altre
idiosincrasie molto singolari: la peluria della pesca gli
faceva saltare i nervi così come le penne delle galline;
56
singolare no? un pezzetto di grasso di maiale dentro la
minestra, per insaporirla, per lui significava non
mangiare; e poi, come ho detto, quel rifiuto davvero
patologico dello “gnam gnam” che mio padre
emetteva quando mangiava di gusto. Generalmente si
alzava da tavola indispettito, ma senza dir niente,
oppure si recava nella sua stanza e prendeva a pugni
la testiera del letto che, essendo di latta, ne presenta
ancora la gobba.
Si consumava così questa copia formato
tessera, ma molto molto sbiadita, del complesso di
Edipo: l'ubriacone Laio è mio padre, per analogia un
mangione; l'infelice Giocasta è la mia povera madre
che aveva voluto sposare quell'uomo bello, ma rozzo,
solo un po' migliorato dal fronte e da un prete suo
amico che gli aveva insegnato qualcosa del sesso; e
Pierino è il povero Edipo che, non riuscendo a
uccidere il padre, chiude dentro di sé la madre e se la
porta con sé per sempre.
Mio padre fu uno dei ragazzi del '99, cioè uno
dei ragazzini che nel 1917 i signori criminali della
guerra richiamarono su uno dei fronti alpini per
continuare una guerra crudele e sanguinosa, inutile se
non per quelli che avevano il potere e ne traevano i
profitti. Durante quel terribile anno di trincea mio
padre divenne amico di un certo don Aldo Bacci, un
prete di Cesena che, trovandosi anche lui al fronte,
cercava di educare quei ragazzi come poteva e di
avviarli, qualora fossero riusciti a tirar via la pelle,
57
alla vita e alla ricostruzione di un Paese praticamente
decapitato prima dalla guerra e subito dopo dalla
terribile epidemia chiamata spagnola. Don Aldo
doveva essere un prete molto moderno perché
informava quelli che in fondo erano solo dei ragazzini
anche delle cose del sesso. Mio padre insomma tornò
dal fronte sapendo benissimo che cosa doveva fare e
che fece con mia madre. Profondamente cattolico e,
diciamolo pure, timidamente antifascista, non volle
mai prendere in considerazione il controllo delle
nascite. Io scherzando andavo sempre dicendo che
meno male che lui era così perché altrimenti io non
sarei mai nato. I miei genitori avevano
rispettivamente 45 anni lui e 40 lei quando io fui
concepito, dopo altri otto figli, a sette anni di distanza
dall'ultima; dunque fui concepito dai miei nonni non
dai miei genitori; ma fui concepito grazie all'assoluta
contrarietà di mio padre a qualsiasi tipo di controllo
delle nascite che per altro a quei tempi era del tutto
rozzo e rudimentale. Antifascista invece non rimase;
col solito pretesto del tengo-famiglia a un certo punto
prese la tessera del partito pur rimanendo
profondamente socialista perché convinto che il duce
e il fascismo erano anche loro profondamente
socialisti.
Dunque mio padre non avrebbe mai rinunciato
alla donna che aveva desiderato per un anno intero tra
le nevi del Podgora e che aveva potuto finalmente
possedere in barba alla morte che mieteva giovani
58
vite su quei monti infausti messi lì per difenderci e
che invece inghiottirono migliaia di giovani vite. Ma
neanche Pierino vi avrebbe rinunciato. Fu insomma
un complesso di Edipo in formato ridotto, ad uso di
contadini e medio ceto. Pierino si guadagnò la vita
lavorando duro e senza cercare vie traverse. Una volta
provai ad aiutarlo io in modo fraudolento in un
concorso per un posto fisso, ma fu un disastro. Alla
prova di dattilografia, nella quale non lo potei
sostituire, le sue grandi mani da meccanico
prendevano due tasti alla volta e il risultato di quella
prova compromise anche gli ottimi risultati conseguiti
da me nelle due prove precedenti. Quando Sor
Giovanni si allargò e creò la DE.BO, cioè una società
fra lui e i parenti della sua compagna, la signora
Anna, Pierino incominciò ad entrare nell'orizzonte di
questa donna innamoratissima del compagno, ma
ormai compagna solo per modo di dire perché il
pover'uomo si era ammalato al cuore e a quei tempi
non c'erano tutte le risorse mediche che ci sono
adesso. Anna stava sulla quarantina ed era una donna
del nord molto curata e ancora molto piacente. Non
era bellissima ma per Pierino non era tanto importante
la bellezza quanto il fatto che la signora aveva due
tette enormi che lui se le mangiava con gli occhi ogni
volta che la donna per qualche motivo capitava in
officina. Del resto prima che nascesse la DE.BO
(acronimo che non ricordo come si decrittava) la
piccola officina in cui Pierino aveva esordito era
59
attigua all'abitazione del Sor Giovanni e spesso la
signora Anna si affacciava anche in décolletée per
chiamare o chiedere qualcosa al marito in presenza di
Pierino. Sia la Signora che il Sor Giovanni si erano
accorti di quella simpatia. Il pover'uomo voleva
talmente bene a quel ragazzo bello, onesto e
lavoratore che quasi quasi agevolò lui stesso il suo
primo grande amore.
Alla Signora Pierino andava a sangue, come si
diceva allora, ma presa com'era dai lacci della
squallida cultura sessuale degli anni sessanta del 900,
reprimeva tutte le manifestazioni di simpatia che non
fossero gli sguardi ammirati per quel giovanotto di
notevole bellezza. Pierino era come Sergio Raimondi,
un attore a quei tempi specializzato proprio nelle parti
di meccanico nei film del tardo realismo; ma molto
molto più bello nel viso: mentre Raimondi aveva la
faccia seria del meccanico ultra-trentenne che ormai
aveva messo la testa a posto, mio fratello era sì ultratrentenne ma conservava un viso da bambino maschio
con tanto di strabismo di Venere che gli faceva
oscillare gli occhi orizzontalmente riempiendoli di
luci saettanti: insomma uno schianto come dicevano
le ragazze di allora.
Intanto gli scherzi continuavano. Quelli che lo
divertivano di più erano quelli agli animali, i quali,
povere bestie, non potevano stare dietro alle divertenti
pensate di Pierino che però non facevano mai del
male all'animale ma semplicemente cercavano di
60
coglierlo in momenti in cui non si poteva
assolutamente difendere dallo scherzo. Il cane del Sor
Giovanni si chiamava Black ed era un bulldog di
notevoli proporzioni ma buono come un pezzo di
pane; anche lui aveva preso a simpatia quel ragazzo
così caro ai suoi padroni e in particolare alla sua
padrona che adorava. Pierino pareva che stesse
sempre a pensare a Black. Una volta gli avvolse una
cipolla in una fettina di carne, sapeva che i cani non
sopportano le cipolle, e il povero animale ingannato
dall'odore della carne mandò giù il tutto in un solo
boccone. Senonché cominciò immediatamente ad
avere conati di vomito che prima preoccuparono un
po' Pierino, ma alla fine lo divertirono molto perché
Black rigettò... solo la cipolla... e per intero: della
carne neanche un pezzettino. Un'altra volta, mentre
Black dormiva tranquillamente, approfittando della
fiducia che il povero animale riponeva in lui, gli si
avvicinò con una sigaretta appena accesa e gliela
infilò fra due dita della zampa aspettando che il vento
la consumasse fino a fargli sentire un po' di bruciore
alla zampa. Mi pare di rivederlo ancora desso Pierino
che imita con la mano la zampa del povero Black
sbattuta a terra con violenza per eliminare il fastidio e
poi visto che non riusciva a liberarsene abbaiare
rabbiosamente contro la sua stessa zampa fino a
liberarsi definitivamente dell'increscioso bruciore. Ma
non nutriva nessuna cattiveria contro le bestie,
Pierino; amava solo divertirsi a vederle messe in
61
difficoltà dai suoi scherzi.
Quanto al fumo, inutile dire che Pierino fumò si
può dire per tutta la vita. Cominciò intorno ai nove
anni quando fumare era un segno di distinzione per
tutti ma per i ragazzi era anche il segno dell'essere
divenuti grandi. Non riuscì a smettere mai, neanche
quando i medici gli diagnosticarono il tumore.
L'infernale sigaretta sostituiva evidentemente il
desiderio del petto materno che non riuscì a
dimenticare mai. Le sigarette e il lavoro fortemente a
rischio del meccanico com'era a quei tempi ce lo
portarono via in quattro cinque anni senza dargli
alcuna possibilità di appello. Fu operato tre volte, ma
non perse, fino a quando non entrò in coma, cioè dieci
minuti prima di morire, la speranza di essere riuscito
a sconfiggere il male. E come si divertiva a raccontare
che tre giorni dopo la prima operazione aveva provato
ad abbrancare la moglie per fare l'amore ma mia
cognata che non era né tenera né piccola gli aveva
preso il braccio e glielo aveva rispedito rudemente al
mittente, con le migliori intenzioni, ovviamente.
Quante mogli di pazienti impazienti vanno a
lamentarsi dai medici perché i mariti in piena
convalescenza da malattie molto serie tentano di fare
l'amore esponendosi a sforzi poco consigliabili nelle
loro condizioni!
Amava la vita, Pierino, non ostante tutto. Aveva
visto la guerra, aveva sopportato un padre violento,
aveva tollerato insegnanti incapaci; ciononostante
62
continuò ad amare la vita: quelle nostre sei madri, in
costante odor di catamenio, ci insegnarono che la vita
è importante e che è un regalo che, una volta che te
l'hanno fatto, te lo devi tenere stretto e da conto
perché nessun altro mai te ne potrà più fare uno
uguale. E Pierino si era abbeverato voracemente alla
fonte della vita avendo l'intelligenza di capire che lì
ha inizio il tutto e che, comunque e dovunque noi
siamo, dentro, fuori, altrove, la vita la dobbiamo
amare perché ti concede, almeno, di giocare.
Proprio la sigaretta fu la pronuba che soffiò
sull'amore di Pierino per la signora Anna. “Pierino,
che hai?” gli chiese il Sor Giovanni, vedendolo
pensieroso; “Niente, Sorgiovà, ho finito le sigarette e
il tabaccaio a quest'ora è chiuso.” “Nè, Piero, mi pare
che ne ho comprato un pacchetto in più l'altra sera;
vai a vedere se c'è mia moglie in casa e fattelo dare!”
Intendeva il pacchetto naturalmente, ma Pierino che
con l'italiano ci faceva poco capì un'altra cosa. Come
non comprenderlo? “Pacchetto” fa rima con “petto”,
di cui è anche l'estensione grafica, e “fatte” è quasi
uguale a “fotti”. Del resto il sor Giovanni diceva “mia
moglie”, ma in realtà era la compagna. Pierino
balbettava, non sapeva cosa dire, mille fantasie e
altrettanti film si srotolavano nella sua testa, ma alla
fine si decise e andò. Nessuno mai, neanche io, potrà
sapere se il Sor Giovanni fece ciò intenzionalmente o
no. Sicuro è che di Pierino si fidava ciecamente e mai
avrebbe potuto pensare che avrebbe potuto
63
approfittare di quella incursione in casa sua per fare
l'amore con la signora Anna. Ma l'amore è subdolo e
ingannatore. Suonò, si fece riconoscere, la signora
disse: “Scusa un momentino, nè, Piero, che sono in
vestaglia.” Non era vero, era il solito trucco che le
donne usano più o meno ingenuamente per solleticare
la fantasia dei loro amanti e per darsi una rassettata e
rendersi presentabili. Non era vero neanche questo:
doveva soltanto togliersi le mutande perché aveva
deciso istantaneamente che o quella volta o mai più.
Se le tolse e si sbottonò due bottoni della camicetta,
poi: “Entra, Piero, che c'è? che vuoi? Ti manda
Giovanni?” A quel nome Pierino si riscosse e spiegò il
motivo ella sua visita. “Scusa ancora un momento,
Piero; stavo facendo da mangiare; spengo il gas e te le
cerco; intanto siediti.” gli disse con tono d'impero a
cui non si poteva disobbedire. Si sedette con qualche
difficoltà: la signora Anna, già così come si era
presentata, glielo aveva fatto addrizzare e sotto la
patta si vedeva un gonfiore imbarazzante che Pierino
non sapeva come gestire; nessun problema: la signora
tornò subito e quando vide la situazione, Pierino era
rosso per l'emozione e per l'eccitazione, gli si
avvicinò amorevolmente, gli liberò dai pantaloni il
sesso che saltò fuori come un cobra indispettito, con
grande naturalezza glielo prese in mano e dopo
esserglisi accomodata sulle gambe accavallandogliele
con le sue, se lo infilò dentro senza tanti complimenti.
Pierino era esterrefatto ma non riusciva a capire nulla
64
di quello che stava succedendo: le due tette della
donna gli si schiacciavano sul viso e lui non poteva
far altro che baciarle, leccarle, morderle alla disperata
ricerca dei capezzoli dai quali però questa volta non
usciva nulla. Ma a lui del latte ormai non gli
importava davvero più nulla, anche se in quel preciso
istante stava capendo che la sua felicità sessuale era
più legata alle tette delle donne che al resto e così
venne subito; ma anche lei, dopo un paio di anni di
astinenza, venne subito; si alzò accompagnandogli il
pene nello sfilarselo, corse in bagno e ne uscì subito,
già ricomposta come se non fosse accaduto nulla.
“Ecco le sigarette, Piero. Piero, né, di' a Giovanni che
non riuscivo a trovarle, altrimenti finisce che capisce
qualcosa.” “Sì, signora.” Non riuscì a dire altro; ma
Anna lo fermò sulla porta e aggiunse: “Nè, Piero,
tornerai!?” Piero, non capendo se era una domanda o
un ordine, fece di sì con la testa e stava di nuovo
imboccando la porta. “Nè, quando stacchi e Giovanni
si trattiene ancora un po' in officina tu passa qui senza
paura perché se anche dovesse tornare all'improvviso
tu fuggi dalla finestra sul cortile che è bassa bassa. Te
capì?” “Sì, sì.” E scappò via e non riusciva a credere
che quella cosa fosse accaduta proprio a lui. Ste
torinesi? Ammazzale oh! Le tette di Anna si erano
ormai incistate nel suo cervello e non lo volevano
abbandonare per nessun motivo. Tornò in officina,
consegnò le sigarette al Sor Giovanni e quando quello
gli disse: “Piero, prendi. Non volevi fumare?” Pierino
65
divenne così rosso che, sfilata in modo maldestro la
sigaretta dal pacchetto, scappò fuori anche perché in
officina non si poteva fumare ma soprattutto perché
non voleva che il principale capisse qualcosa di
quell'improvviso rossore.
Quella relazione di cui non si capacitava durò
un paio d'anni, fra la chiusura della vecchia officina e
l'apertura della DE.BO che comportò un piccolo
spostamento, però prezioso per i due amanti, perché
in quel modo, calcolato il breve tragitto a piedi e la
facile via di fuga, si potevano vedere in tutta
tranquillità. Non è escluso, come diceva mio fratello
Giacomo, che il Sor Giovanni fosse consenziente
perché si rendeva conto che l'astinenza imposta dalla
malattia penalizzava fortemente quella donna ancora
così giovane e bella... e con due tette così, aggiungeva
Giacomo, che era un lazzarone chiacchierone, come
vedremo.
Fra la vecchia officina e la DE.BO non c'era
confronto. La prima era una piccolissima sequenza di
tre locali dei quali quello frontale era molto ampio e
serviva a ricoverarvi le due o tre macchine su cui si
doveva lavorare; la seconda era un enorme magazzino
a ridosso del Verano davanti al quale veniva
convogliato su un gomito stradale gran parte delle
macchine che provenivano da Porta Maggiore. Dentro
quel magazzino il Sor Giovanni aveva messo vari
reparti di meccanica: carrozzeria, elettrauto, gomme,
banco per lo smontaggio dei motori ecc. Insomma una
66
vera e propria catena di montaggio che sembrava
l'imitazione della Fiat importata direttamente da
Torino. Lentamente il numero dei meccanici salì da
tre a trenta e la grande officina cominciò a lavorare a
pieno ritmo. Pierino aveva la piena fiducia del Sor
Giovanni che ne aveva fatto quasi un vice, nonostante
la giovane età, per l'invidia degli altri e l'ironia di
qualcuno sulla sua simpatia per la signora Anna.
L'affare si ingrandì a dismisura, l'impegno era
notevole, il Sor Giovanni cominciava ad accusare il
fiatone. La DE.BO fu un'idea geniale e il Sor
Giovanni si dimostrò un imprenditore di grandi
capacità; in poco tempo riuscì a dare lavoro a un
sacco di gente oltre che alla mia famiglia perché nel
frattempo Pierino era riuscito a far assumere anche
Giacomo. Purtroppo durò poco perché dopo un paio
d'anni il Sor Giovanni morì improvvisamente e la
signora Anna, che non era né meccanico né
imprenditrice, si vide costretta a vendere tutto e a
tornarsene a Torino da dove era venuta nonostante
Pierino la scongiurasse di restare e di far tentare a lui
la sorte: si sentiva ormai pronto per gestire un'officina
sia pure di quelle dimensioni e sarebbe bastato che lei
avesse il coraggio di rischiare i suoi capitali perché lui
glieli avrebbe fatti fruttare a dovere. Ma Anna non
riuscì ad avere fiducia in Pierino che vedeva troppo
giovane e lasciò perdere, nonostante lo amasse più di
se stessa. Morto il marito, sola a Roma, a parte quella
relazione precaria con un ragazzo molto più giovane
67
di lei, pochi soldi della modesta eredità, ebbe paura e
tutto finì: la DE.BO fu venduta e dopo un po' chiusa.
E trenta persone finirono senza lavoro. Pierino si vide
costretto a buttarsi negli affari: avrebbe aperto
un'officina sua, magari cercandosi un socio.
Quello fu sicuramente il periodo più brutto
della sua vita: il giorno si tormentava chiedendosi se
era meglio lavorare ancora alle dipendenze di
qualcuno o aprire lui stesso un buco di officina
meccanica; la notte si tormentava al pensiero delle
tette di Anna chiedendosi se non fosse il caso di
trasferirsi a Torino, raggiungerla e lì mettersi a
cercare lavoro come meccanico. Si telefonarono
qualche volta, si scrissero anche, ma poco, perché a
Pierino questa attività non piaceva: insomma ad
entrambi mancò il coraggio di fare un passo verso la
felicità. In realtà quella relazione era nata su basi
troppo fragili: lei era più grande di una quindicina
d'anni, lui era uno rimasto attaccato alle gonnelle,
meglio: alle tette, della madre. E per di più la madre
moltiplicato cinque: mamma più tre sorelle più una
nonna. Tutte, a tavola, lo guardavano mute
significando con quel loro silenzio triste “Non ci
lasciare!” oppure “Pierì, addò va?” oppure, nello
sguardo di Ginetta: “Che ce devi fa' de quella
mignotta?”
Spesso non aveva i soldi né per la benzina né
per le sigarette e allora rimaneva disteso sul divano in
corridoio senza chiudere occhio perché noi
68
passavamo e ripassavamo facendo rumore e spesso
chiamandolo per una cosa o l'altra. Povero Pierino!
Niente più scherzi né più sceneggiate con peti
modulati e sofisticati. Oscuramente sentiva che c'era
una forza più grande di lui che lo tratteneva a Roma:
quanto a dire qual era, gli era impossibile, ma che ci
fosse era chiaro come il sole. Una volta provò anche
ad andare a Torino, ma fu un disastro: Anna con una
scusa non lo ricevette e lui bighellonò per la città fino
a quando non decise di imbucarsi in uno dei primi
cinema a luci rosse che a Roma ancora non c'erano
per via del papa, in attesa che arrivasse l'orario del
treno per tornare a Roma e per avere almeno qualcosa
da raccontare a Giacomo. Quando arrivò a Roma capì
che non avrebbe mai potuto vivere senza quella
costellazione di affetti fra i quali il più potente era
quello della madre. Sentiva oscuramente che se se ne
fosse andato in un'altra città l'avrebbe perduta,
l'avrebbe lasciata fra le braccia di quell'uomo rozzo e
sguaiato (“mio padre” nella sua percezione) e forse
sarebbe morta prima ancora che lui avesse il tempo di
rientrare per salutarla per sempre. Insomma quando la
salutò (era mancato due notti e un giorno) l'abbracciò
come se fosse tornato dall'America e scoppiò in un
pianto dirotto che mia madre ovviamente interpretò
male. Piangeva per quella donna che lo faceva
soffrire: lei non avrebbe mai potuto capire che quella
donna non era Anna e che chi lo faceva soffrire era
un'altra donna.
69
In quella situazione difficile bisogna dire che
l'intervento di Ginetta fu provvidenziale. Era una
analfabeta scriteriata, ma di coraggio ne aveva da
vendere: aveva sentito dire che il marito di una delle
sue giovani clienti stava cercando un socio per aprire
un'officina meccanica: perché non andava a cercarlo?
Pierino andò e con sua grande sorpresa si trovò di
fronte un giovane più o meno della sua età, allora era
fra i venti e i trenta, pieno di buone intenzioni e con le
idee già chiare. Aveva fatto una scuola di meccanica e
la famiglia era disposta a finanziarlo: cosa poteva fare
Pierino? Ben poca cosa. I soldi che aveva guadagnato
li aveva tutti consegnati a mia madre che gli
razionava sigarette, benzina e divertimenti, ma che
non bastavano mai. Beni al sole non ne aveva. Che gli
poteva offrire? Il giovane futuro socio, capìta la
situazione, gli chiese le referenze e quando sentì
DE.BO non ebbe esitazioni: lo lasciasse parlare col
padre e quanto prima gli avrebbe dato buone notizie.
E così fu. Quel sant'uomo che si intendeva
anche lui di meccanica si accollò tutto l'onere
dell'investimento e propose a Pierino di lavorare a
percentuale. Era quello che l'intera famiglia aspettava.
Nessuna responsabilità e possibilità di vivere
modestamente senza tanti pensieri. Né mia madre né
Ginetta pensarono di esporre i loro soldi, pochi in
verità, per permettere a Pierino di iniziare un'attività
in proprio. La cosa comunque funzionò ugualmente e
per di più Pierino fece tesoro di tutta la problematica
70
imprenditoriale, elementare come poteva essere
elementare in quel momento e al suo livello, ma da
quel momento incominciò a lavorare alacremente con
la prospettiva di arrivare un giorno a mettersi da solo,
ma sempre restando con la “fissa” di trovare, come si
diceva allora, un posto fisso.
La nuova officina andava bene e i due fratelli,
Pierino col lavoro, Giacomo a spasso, si facevano
forza a vicenda: Giacomo a causa delle sue molteplici
malattie, ma soprattutto a causa di una spondilite che
gli stava rovinando il sistema osseo, ormai aveva
rinunciato a fare il meccanico e, in attesa di una
migliore sistemazione, si era messo a lavorare con un
elettrauto, lavoro che non prevedeva i defatiganti
esercizi ginnici dei meccanici che si sdraiavano su
lettini terraterra e con rotelle per spingersi sotto le
macchine e andare a visionarle da sotto. Cosa che
durò almeno fino a quando anche i più poveri non si
poterono permettere il così detto ponte, cioè un
supporto di ferro mastodontico che azionato con
l'elettricità sollevava l'autovettura e permetteva al
meccanico di osservarla da sotto senza bisogno di
sdraiarsi a terra.
Il lavoro di Pierino andava bene. La famiglia
pure perché i due maschi in casa non c'erano mai e
quindi a Ginetta non davano fastidio; neanche le due
sorelle stavano in casa durante il giorno ma le donne
si sa dentro casa diventano più litigiose degli uomini,
per cui nei rispettivi romanzi di Angela e di Gisa
71
racconteremo le loro vicende disastrose con la regina
della notte, cioè Ginetta. Poi finalmente ci fu la
separazione e il trasferimento nella nuova casa per cui
i due fratelli, che ebbero finalmente un letto ciascuno
in una camera tutta per loro, si misero un po' più
tranquilli e incominciarono seriamente a dedicarsi
agli amori.
Per il momento Pierino viveva dei racconti che
Giacomo gli faceva delle sue numerose conquiste,
perché Giacomo, come vedremo a suo tempo, aveva
una grande fortuna con le donne e quindi stava
sempre lì a raccontare a Pierino le sue avventure che
Pierino ascoltava non senza un po' di invidia ma
fiducioso che prima o poi sarebbe ritornato per lui il
suo turno. Che venne abbastanza presto ma non come
era nelle sue aspettative e nello spasso di Giacomo
che come al solito era sempre quello più smaliziato.
Gigi, il socio di Giacomo, era di un paio d'anni
più grande di lui, ma era già sposato e aveva avuto da
poco una bambina. Sembrava una persona pienamente
realizzata: aveva un padre che lo finanziava per
un'officina che andava abbastanza bene, una bella
moglie che lo adorava e una bambina che era una
delizia, tanto è vero che Pierino pensava sempre,
quando la madre la portava in officina, che avrebbe
voluto una figlia femmina così. Gigi però aveva dei
comportamenti strani. Spesso lasciava l'officina prima
della chiusura, pregava Pierino di chiudere lui e se
fosse passato qualcuno dei suoi parenti di dirgli che
72
era andato a provare una macchina appena riparata.
Pierino ne parlò con Giacomo il quale gli disse:
“Mah! Me pare strano; se è così, se vede che ci ha
qualcuna. Certo con una moglie così giovane e così
carina a quell'età avecce pure l'amante è proprio un
figlio di mignotta.”
Pierino se la cavò sempre bene anche da solo
fino al giorno in cui poco prima della chiusura passò
in officina il padre di Gigi nonché proprietario
dell'intera impresa. “Ohé, Sor Alcè!”, si chiamava
Alceste il pover'uomo! “Gigi non c'è: è andato a
provà 'na machina.” e così dicendo pensava che il Sor
Alceste dopo qualche chiacchiera se ne sarebbe
andato. Niente da fare. Quella sera il Sor Alceste si
insediò nel piccolo ufficetto che c'era in officina e
dava chiaramente ad intendere che avrebbe aspettato
lì il figlio. “Sor Alcè, andate che lo aspetto io Gigi:
dovemo da finì quell'Ottocentocinquanta, stasera.”
“La finite domani, Pierì. Va a casa che lo aspetto io a
Gigi.” Pierino era disperato. Non sapeva proprio che
fare, ma con la sua solita ingenua indifferenza si disse
beh, saranno affari de famiglia. Dove lo vado a
pescare adesso Gigi e anche se lo trovo che scusa jje
po' mette ar padre se rientra senza macchina? Mentre
tra questi pensieri stava rientrando ecco che incontra
Giacomo. Gli spiega tutto e Giacomo gli dice:
“Guarda che Gigi l'ho visto poco fa in via del
Poggetto, se corri lo trovi. Pierino sfoderò le sue
notevoli doti atletiche, lo raggiunse e gli raccontò
73
velocemente la situazione. Gigi tremava. Non aveva
previsto quell'imprevisto. Andarono subito da un
amico comune che aveva una macchina e con quella
Gigi si ripresentò in officina dove lo aspettava il
padre. “Beh, che j'avete fatto a 'sta machina?”
“Gnente, papà, dovevo solo fa un giro pe' vvede che
ci ha. Er padrone m'ha detto che nun frena più bene e
è vvero.” “E pe' controllà li freni te ce voleva più de
'n'ora? Domani parlo co' Pierino. Intanto dimmi dove
sei stato.” Gigi non parlò, si chiuse in un mutismo
ostinato e il Sor Alceste per quella sera dovette lasciar
perdere. Il giorno appresso, sempre quasi alla stessa
ora, si ripresentò in officina e sottopose i due a un
interrogatorio estenuante. Il povero Pierino, che però
non sapeva niente, niente poté dire se non ammettere
che quelle scuse Gigi le aveva addotte altre volte.
Quante volte? E chi se ricorda? Due, tre, nun lo so.
“Va bene”, fu la conclusione del Sor Alceste, “da
domani la chiusura la faccio io e quando arivo ve
vojjo trovà qui tutti e due.”
L'interrogatorio era stato martellante ed
insinuante e insomma Pierino anche nella sua ingenua
indifferenza intuì che sotto c'era qualcosa di grave e
forse di losco. Ma cosa? Non riusciva a capire. Lo
mise in pace Giacomo con la solita risposta: ci avrà
'n'altra donna.
L'interrogatorio ebbe anche un effetto
immediato. Da quel giorno Gigi non chiese più la
connivenza di Pierino e anzi chiudeva regolarmente
74
l'officina insieme a lui attardandosi se c'era da finire
qualche lavoro urgente. Ma non passò molto tempo
che Gigi incominciò a dare altri segni di malessere.
Era sempre triste, ascoltava distratto le barzellette di
Pierino e soprattutto non rideva più alle sue battute.
Non solo; spesso Pierino lo coglieva sovrappensiero o
che lo stava fissando in modo strano e troppo
prolungato. Comportamenti ripetuti spesso spesso,
altrimenti Pierino non li avrebbe neanche notati.
Sopratutto lo mettevano in difficoltà quegli sguardi
complici di cui lo gratificava in continuazione. Che
aveva Gigi? Che gli stava succedendo? E' possibile
che l'amore per una donna, diversa dalla moglie, lo
riducesse in quello stato?
Una sera all'improvviso Gigi gli disse: “Perché
stasera non ceni con me? Ti porto a un ristorante al
ghetto che tutti ne parlano bene.” “A Gigi, io la sera
so' stanco, vojjo andà a dormì.” “E dajje, pe' 'na sera!
Domanimmatina aprimo 'n'ora dopo.” “A Gì, lascia
perde, io nun ci ho voglia, nun me va de ripulimme,
nun me va de magnà in pubblico, insomma nun me
va.” “Ammazza che amico che sei! Pe' 'na vorta che
te 'nvito me dici de no. 'Na bella serata. Parlamo un
po' d'affari. L'officina va bene, ma potrebbe annà
meglio. E dajje, fa uno sforzo.” Pierino non se la sentì
di rifiutare ulteriormente, anche se già stava all'erta
perché quella cosa non gli sembrava una cosa fatta
bene. Con la moglie e la figlia che lo aspettavano a
casa, lui se n'annava a cena co' 'n amico! Bah!
75
A cena, in uno dei più esclusivi ristoranti della
capitale, l'imbarazzo di Pierino crebbe, se possibile,
ancora di più. Si era vestito giacca e cravatta ma si
vedeva che i suoi vestiti erano da quattro soldi nei
confronti degli altri avventori e insomma tutto
l'ambiente lo faceva sentire decisamente inadeguato.
A questo si aggiungeva l'imbarazzo per l'andamento
della conversazione così come la dirigeva Gigi.
Incominciò subito a parlare della moglie e dello
sbaglio che aveva fatto a sposarla. Non mi piace, non
sa fare l'amore, non sa baciare, non mi cerca mai e giù
contro quella povera Nadia che non sapeva nulla di
tutte le critiche che il marito le faceva e che
soprattutto si riteneva assolutamente fortunata di aver
trovato un uomo che l'amava e la desiderava. Pierino
si chiedeva: perché proprio a me? A Roma si dice: “E
'sti cazzi!”, sottinteso: “a me li racconti?” Pensava
questo ma non lo diceva perché in realtà non avrebbe
saputo cosa dire; annuiva, ogni tanto pronunciava
qualche monosillabo privo di significato; insomma
ascoltava con finta attenzione la confessione di un
uomo sul fallimento del proprio matrimonio;
mangiava, questo sì, delle cose con sapori straordinari
e appetitosi che non aveva mai mangiato: un timballo
di fettuccine al tartufo, saltimbocca alla romana con
contorno di carciofi alla giudìa, il tutto innaffiato da
champagne. Gigì, ma che sei impazzito? “Ma che
impazzito? Se campa 'na vorta sola!”. Esterrefatto,
Pierino come al solito cadeva dalle nuvole e non capì
76
neanche quando Gigi incominciò a fargli delle
domande sulle donne. Come mai non so niente di te?
Con chi te la fai? Dai che non me lo vuoi dire. E non
era più come sotto le armi che quando si passava a
parlare di donne si poteva inventare quello che si
voleva, tanto nessuno avrebbe mai potuto verificare.
Qui Gigi aveva possibilità di controllo e non gli si
potevano raccontare balle. Insomma, alla fine di
quella specie di interrogatorio, Gigi era venuto a
sapere che per ora Pierino non ci aveva nessuna, che
c'era una che jje piaceva ma che lui non ci aveva il
coraggio di farle la dichiarazione, si diceva così
allora; ma quale dichiarazione? diceva Gigi, portala in
macchina e mettiglielo in mano: vedrai che non lo
lascia e anche se lo lascia mica vola via.
Pierino rise. Non sapeva come fare per dire a
Gigi che lui cercava una sola cosa nelle donne: le
zinne, e che l'unione sessuale se non gli fosse servita
per chiudere il circuito egli neanche l'avrebbe attivata.
E' difficile per chiunque mettere a fuoco e poi
descrivere la specificità del proprio desiderio
sessuale, ma per uno come Pierino era addirittura
impossibile. Sapeva, ma non sapeva di sapere. Una
volta scioltosi dall'abbraccio della prostituta di turno
neanche si ricordava più che quella gli aveva imposto
di mettere il preservativo e che ora quel coso gli
pendeva tra le gambe in un lugubre scenario da
camera mortuaria. Con la signora Anna non gli
succedeva: la signora, espertissima, appena finito,
77
glielo toglieva lei, il preservativo, mentre Pierino
ancora frugava con la lingua fra le sue mammelle.
Però sentiva che tutto questo a Gigi non lo doveva
dire. C'era nella curiosità dell'amico qualcosa fuori di
luogo che lo disturbava. Preferì fare la figura del
verginello ingenuo piuttosto che quella dell'uomo
navigato, quale un po' già era. E poi era frastornato da
tutto quel lusso, dalla bontà dei cibi, dalla
conversazione stessa che, nonostante le riserve dette,
fece trascorrere piacevolmente le ore fino alla fine.
Insomma Pierino uscì dal ristorante così
entusiasta della serata di cui non aveva capito niente
che disse a Gigi: “Grazie, Gì. E' stata proprio bella.
La rifamo. Ma stavolta pago io.” proposta ingenua
dovuta più al desiderio di contraccambiare per
provinciale onestà la gentilezza dell'amico che perché
ci tenesse davvero. Esternata tale proposta, Pierino fu
perduto per sempre. Nei giorni seguenti, parlando
ancora di quella serata, Pierino scoprì quanto era
costata e allora decise che non avrebbe più rinnovato
quell'invito perché assolutamente non alla portata
delle sue tasche, e fece passare così molti giorni
sempre assillato dallo strano comportamento di Gigi,
che lui cominciava a considerare come frutto di una
malattia che prima o poi sarebbe venuta a galla.
Dopo un paio di mesi, Gigi tornò alla carica.
Pierino con grande imbarazzo si giustificò dicendo
che gli era passato di mente, ma anche Gigi tagliò
corto: quello, quando te pare; adesso te sto a invità io
78
e pago io. L'invito perentorio, dato il precedente, non
lasciava scampo e Pierino dovette assoggettarsi a quel
secondo capitolo della via crucis, che però non fu
terribile come il primo. Intanto perché un po' ormai
era preparato a tutto, ma poi perché Gigi,
stranamente, non intavolò discorsi imbarazzanti. Parlò
di macchine; parlò del suo sogno di cambiarsi al più
presto la sua per acquistarne una più bella; insomma
sembrava che volesse sempre sottolineare il suo stato
di persona benestante che si poteva permettere molte
cose che invece a Pierino, per un motivo o per l'altro,
erano precluse. In più Gigi insisteva sul fatto che gli
faceva piacere averlo a tavola con lui perché ogni
tanto si voleva liberare di quella rompiscatole della
moglie che, dicendo sempre le stesse cose, lo
annoiava mortalmente. Io e te invece... sembra che il
destino l'abbia fatto apposta a farci incontrare. Quella
bella officina! Pure i guadagni sono buoni. Tu lavori e
metti al pizzo perché ti vuoi sposare, dì la verità. Ma
chi te lo fa fare? Magari poi finisci come me, con una
rompicoglioni che ti rovina l'esistenza. Nun te sposa',
damme retta, e via con banalità di questo genere.
Pierino era divertito, ogni tanto interrompeva quando
il tema gli ricordava qualche barzelletta esilarante che
raccontava quasi ad alta voce per farla sentire agli
altri avventori; come a dire: vedete che anch'io,
poveraccio come sono, so far divertire la gente.
Insomma anche quella serata finì bene. Senonché nel
riaccompagnarlo a casa Gigi cadde in un silenzio
79
assoluto. Guidava attento e accigliato e sembrava
vittima di un improvviso cambiamento d'umore che
non gli consentiva più di essere brillante come era
stato fino all'uscita dal ristorante. E' matto, pensò
Pierino, e cominciò a sonnecchiare contento che quel
cicaleccio di Gigi fosse finito. Quando scese dalla
macchina e lo ringraziò salutandolo, Gigi lo salutò
con un ciao detto velocemente fra i denti e seguito da
uno sportello sbattuto e da una partenza a sgommata
che confermò Pierino nella sua diagnosi: è proprio
matto!
Poi però dimenticò quel saluto così strano
perché altra carne bolliva in pentola. Dopo qualche
mese che eravamo nella nuova casa le gambe di
nonna Francesca, già molto provate, cedettero e lei si
allettò definitivamente. Invocava spesso la morte, ma
in realtà ne aveva una paura fottuta perché si lagnava
in continuazione chiedendo l'intervento del dottore. Il
dottore qualche volta veniva ma la diagnosi era
sempre la stessa: per quelle gambe ormai non c'era
più alcun farmaco efficace: la poverina avrebbe
passato i suoi ultimi anni in quel letto di contenzione.
Un bel giorno un dottore... bello, giovane, alto
ed elegantissimo suonò alla porta per visitare la
povera malata. La riuscita dello scherzo spingeva ai
limiti il cinismo di Pierino: per lui era più che altro
una rappresentazione, uno spettacolo e certo si
sarebbe rivelato un attore provetto se ne avesse avuto
l'opportunità. Si era fatto dei baffi finti con la polvere
80
del caffè, si era messo un cappello a larghe tese che
gli davano un aspetto assolutamente signorile, al
punto da incutere rispetto a chiunque non fosse
informato dello scherzo come accadde all'amica di
mia sorella Angela che andò ad aprirgli. Indossava
sulla tuta da meccanico appena lavata da mia madre il
suo nuovo trence di un dignitosissimo bianco sporco.
Nonna non si accorse di nulla; si fece visitare senza
fare storie, assistette pensierosa alla prescrizione dei
medicinali (si era procurato un block-notes che per la
nonna era un ricettario più che cedibile), ascoltò in
religioso silenzio le consegne che quel giovane
medico così per bene le imponeva. Finita la visita,
guardando con severità quelli di noi che esageravano
a ridere, salutò cortesemente e se ne andò. Quando in
seguito a nonna fu rivelato lo scherzo lei si divertì
molto ma disse anche in dialetto: “Volevo dire che
aveva le unghie troppo sporche di nero per essere un
medico vero!”
Uno scherzo sciocco, come si vede, ma a
Pierino si perdonava tutto perché era simpatico e
sempre pronto a ridere. Intanto la sicurezza del lavoro
lo aveva spinto a dedicarsi un po' di più alla vita
sociale. Fra i suoi amici ricordiamo Erbacio, nome
non inventato da me, Lillo e Marcello. Pierino aveva
per essi una vera e propria venerazione: se durante il
giorno non lo andavano a trovare in officina, appena
staccava, si era tutti nello stesso quartiere, andava ad
accertarsi che tutto procedesse regolarmente: sentiva
81
di avere per loro un'affezione di cui non capiva il
senso, si sentiva un po' come il buon padre o meglio il
fratello maggiore che doveva avere cura di loro; ma
per Erbacio, che in romanesco significa “il bacio”,
sentiva una forma di protezione particolare che spesso
lo metteva a disagio. Erbacio era bello più o meno
come Alain Delon, ma piuttosto più che meno, in
quanto su di lui non si era stratificata la ricchezza e le
convenzioni borghesi dei cinematografari. Era di una
bellezza spontanea e naturale, una bellezza che
lasciava senza fiato quando abbozzava un sorriso di
intesa su questo o quell'argomento. Era una bellezza
esagerata, quasi femminea, e Pierino non poteva fare
a meno qualche volta di toccarlo secondo gli schemi
virili del tempo: braccio sulle spalle; accenni di
pugilato; qualche mossa di lotta: a quei contatti
provava con sgomento un piacere che non sapeva
riconoscere; e così, quando Erbacio morì per un
incidente d'auto la vita di Pierino cambiò
decisamente.
Un lutto per lui insopportabile, la sensazione
che tutto fosse finito, l'impossibilità di comprendere
perché una persona tanto giovane dovesse morire
improvvisamente e perché tanto dolore dovesse
provocare in lui. Prese a disertare le riunioni serali
degli amici, si chiudeva in casa a rimuginare sdraiato
sul letto dal quale non schiodava se non per mangiare.
E generalmente la cena era frugale e molto ridotta.
Pierino aveva un controllo perfetto sul suo corpo.
82
Quando diceva: “Mà, basta; mi sento sazio!” Era
proprio sazio; non era come me che, se quel cibo mi
piaceva, non mi alzavo da tavola fino a quando non
ne vedevo la fine, e invece, se non mi piaceva, lo
lasciavo tutto lì dicendo che non avevo fame.
Cominciò a frequentare la casa di Erbacio dove
trovava la madre, distrutta dal dolore e tuttavia
capace, con l'energia delle donne, di opporvi
resistenza, e una sorella di Erbacio che gli
assomigliava in modo impressionante. Pierino non
faceva caso tanto a questa somiglianza quanto al fatto
che tanto Erbacio era allegro e scherzoso quanto Lissa
era seria e taciturna. Qualche volta si risvegliava da
quella specie di torpore e gli faceva delle domande
strane non su Erbacio, ma sulla meccanica e i motori.
Pierino si recava in quella casa per cercare di
consolare quella madre che lo ricambiava con cortesia
ma dentro di sé si chiedeva “Perché mio figlio e non
lui?” Insomma alla fine Pierino si dovette convincere
che quell'incidente terribile si andava archiviando da
solo nell'animo di tutti quelli indirettamente ma anche
direttamente colpiti da esso. Il ricordo dell'amico era
quello del ritratto marmoreo e gelido della tomba e
nulla consentiva di pensare che si sarebbe potuto
tornare ai tempi belli di quella giovinezza ormai
perduta con Erbacio.
Si rifugiò nella famiglia... di Ginetta dove la
sorella lo aspettava a braccia aperte perché era l'unico
che alla fine della settimana riportava a casa la paga e
83
Desiderio, suo complice, lo allettava con una
benevolenza e con un'amicizia che ostentava
sottolineando che era riservata solo a lui e non a noi
altri poveretti. Avevano in mente i due marpioni di
acquistare a mezzi la topolino di cui ho già parlato.
Pierino sognava ad occhi aperti una macchina e per
quella proposta, in quel momento provvidenziale per
distoglierlo dal pensiero di Erbacio, cresceva in lui
spropositatamente l'ammirazione e l'amore per quella
magnifica sorella che era capace di aiutarlo in tutto,
anche a dimenticare Erbacio.
Ma ahimè Erbacio ritornava a lui come l'ombra
di Banco a Macbeth. La madre dell'amico infatti
quando si accorse che le sue visite si andavano
diradando, capì che la speranza di un matrimonio che
lei sognava fra la figlia e Pierino si stava dileguando.
E allora prese coraggio e venne a trovarlo lei in casa
nostra. Mia madre la ricevette con un certo imbarazzo
ma anche con un grande rispetto per il dolore che
quella donna era stata ed era costretta a sopportare.
Ma più grande fu l'imbarazzo di Pierino il quale non
sapeva cosa dire né sapeva nascondere lo sguardo
interrogativo che gli si dipingeva sul viso. La donna
fu molto franca: le sue frequenti visite dopo la perdita
del figlio le avevano come dato l'illusione che lei
potesse riversare su Pierino l'amore che aveva per
Erbacio, e che quindi riprendesse le sue visite che a
lei erano particolarmente gradite. “E anche a Lissa”
concluse con una particolare sottolineatura,
84
“farebbero molto piacere.” Pierino non era scemo:
capì che quella era una vera e propria spedizione, ma
non riuscì che a farfugliare una vaga promessa che
poi non mantenne lasciando cadere la cosa. Non
aveva mai pensato a Lissa come una probabile
compagna, il suo bel viso e la sua persona si
confondevano con quelli dell'amico scomparso e lui
non avrebbe mai potuto avvicinarsi a lei con
intenzioni più che fraterne. Dunque promise sapendo
che non avrebbe mai potuto mantenere. Anzi, da
allora in poi, quando incontrò qualche volta Lissa, il
loro imbarazzo era talmente evidente che alla fine la
ragazza svicolava piuttosto che affrontarlo e salutarlo.
Intanto in officina Gigi continuava a dar di
matto. Spesso lo accarezzava all'improvviso; spesso
gli faceva complimenti sul suo fisico. Chissà quante
donne ci hai: ci avrai la fila. Ma che distribuisci i
numeretti? Francamente quella specie di assedio fatto
per insinuazioni e di cui non capiva il senso lo
infastidiva molto e una volta che ne stava parlando
con Ginetta e con Giacomo Ginetta gli aprì
definitivamente gli occhi. “A Pierì, ma non lo hai
ancora capito che quello è frocio: quello te se vo' fa'.”
Pierino arrossì, aveva troppo rispetto per quella
sorella per chiederle spiegazioni più approfondite. Lo
fece però con Giacomo il quale gli tolse ogni dubbio
sia sulle mire di Gigi sia sul fatto che fosse frocio.
Una volta che nel negozio di Ginetta la moglie si era
lamentata anche lei dei comportamenti del marito,
85
appena uscita, una delle altre signore presenti svelò
l'arcano: “E' proprio vero che il cornuto è sempre
l'ultimo a saperlo. L'unica attenuante per quella
povera donna è che stavolta le corna so' speciali.” “E
che saranno mai? Corna de reggina?” “Ma che
reggina? De re, e più d'uno, a quello che se dice.”
Insomma tutti sapevano che Gigi era gay, persino il
padre, meno che la moglie e il povero Pierino che non
poteva credere a quello che gli stava dicendo
Giacomo. Ma come? Ci ha la moglie! “E che ne so!
Sembra che se pò fa' lo stesso.” E alle successive
richieste tecniche di Pierino, Giacomo, a un certo
punto, infastidito, gli rispose come avevo fatto io con
Assuntina. Pierino lo lasciò per seguire i suoi
pensieri, ma i suoi pensieri su quel tema gli
sembrarono subito una specie di scherzo e si spensero
incalzati da pensieri ben più importanti.
Quando Pierino parlò in casa dell'acquisto della
topolino trovò la recisa opposizione di mia madre che
vedeva i mezzi meccanici, dopo il fratello, dopo
Erbacio, come moderne ghigliottine per sottrarre i
figli alla madri. Ciò le avrebbe dato un grande dolore.
Allora Pierino si appellò a mio padre che come al
solito se ne lavò le mani. E alla fine fu costretto a
crescere e a prendersi personalmente la responsabilità
di concludere l'affare contro la volontà della famiglia.
Mia madre non volle mai salire su quella macchina
facendo pesare a Ginetta e a Pierino quella decisione
presa contro la sua volontà. Ma quella macchina per
86
Pierino rappresentò la libertà da molte cose: girava
per Roma, accompagnato da Giacomo, per
rimorchiare qualche ragazza disponibile o alla peggio
caricare qualche prostituta. Intanto si era sposata
anche la quarta delle sorelle, Angela. Insomma
Pierino era pronto ormai ad affrontare il tema del
matrimonio. Aveva un lavoro, stava abbastanza
tranquillo economicamente, la famiglia era a posto,
lui cominciava seriamente a pensare di prendere
moglie.
Ma Gigi? Che faceva Gigi? Si era rassegnato
alla irreversibile eterosessualità di Pierino o ancora ci
stava pensando? L'amore, si sa, non perdona. Pierino
era troppo bello e soprattutto era una tentazione
sempre là presente. C'era in officina, giù in fondo,
nascosta in un angolino appartato, una doccia che i
due utilizzavano alla fine della giornata per lavarsi,
cambiarsi e portare a casa solo il borsone con le tute
sporche. Quella sera, come ogni sera, Pierino si stava
facendo la doccia protetto solo dalla tenda di plastica
che lui manco chiudeva tanto era sicuro di essere al di
fuori di sguardi indiscreti. All'improvviso da dietro la
tenda gli entrò in doccia Gigi, anche lui nudo, cosa
che non aveva mai fatto prima. “A Gì, che fai?” “Ci
ho fretta, non posso aspettà. Dajje, insaponame la
schiena, che quella stronza nun me lo vo' mai fa'. E
più giù, più giù.” “A Gì, il culo te lo poi lava' da solo,
no?” Disse Pierino, ma non fece neanche in tempo a
dirlo, che Gigi si era portato una mano alle spalle e gli
87
stava afferrando il pisello. “A Gì, ma che fai? Sei
matto?” “Ma nun te s'addrizza?” “Ma che sei
impazzito? Perché me se dovrebbe addrizzà?” Gigi si
risciacquò velocemente senza dir niente, sgusciò via
dalla doccia e scomparve. A Pierino sembrò di essere
uscito da un incubo, ma solo per qualche secondo; poi
tornò alla sua solita calma olimpica, finì di lavarsi, si
asciugò, si rivestì e fu allora che vide Gigi
rincantucciato sul sedile della sua macchina, ancora
avvolto
nell'accappatoio,
che
piangeva
silenziosamente: le lacrime gli scendevano sul viso
abbondanti e sembrava che non avesse altro pensiero
che quelle perché se le asciugava continuamente col
palmo della mano. “A Gì, ma che ci hai?” L'amico
fece segno di no con la testa. “A Gì, ma guarda che
non è successo niente.” “E lasciami stare!” gli rispose
sgarbatamente e chiuse lo sportello con violenza
come a dirgli: “Vattene a fa' 'n culo!”
Pierino rientrò nell'incubo. Che doveva fare con
quel matto? Mo lo piglio e lo gonfio di botte. Pensò.
Ma poi fu assalito da un soprassalto di tenerezza. No,
mo riapro lo sportello e cerco di parlargli ancora.
Aveva già fatto qualche passo per allontanarsi dalla
macchina in cui l'amico si era chiuso. Tornò indietro
non visto da lui perché era in controluce rispetto alle
lampade dell'entrata e quando mise la mano sulla
maniglia della macchina vide inorridito che Gigi si
stava masturbando. Ritrasse la mano in preda ad una
vera e propria confusione mentale. A quel punto si
88
affrettò ad andarsene pensando lui questa volta: “Ma
vattene a fa' 'n culo, va'!” Se ne andò a casa con la
mente che ritornava ostinatamente su un episodio
raccontatogli spesso da Assuntina. Lei era già una
ragazzetta quando lui nacque e mia madre quando
aveva da fare glielo appioppava, d'estate anche
seminudo. Un giorno che il maiale riuscì a venir fuori
dal suo recinto inaspettatamente attaccò Assuntina,
seduta con Pierino in braccio, col chiro intento di
mangiarsi il pisellino del piccolo. Assuntina gridò
spaventata e mio padre che era poco distante perché
stava inseguendo il fuggitivo con una vanga in mano,
viste le brutte, lo fermò con un terribile fendente di
vanga che spezzò la spina dorsale del povero animale
per cui dovette essere abbattuto definitivamente da un
porcaro chiamato d'urgenza per non farlo soffrire
troppo.
Mio padre morì pochi giorni dopo che Gigi
aveva attentato al pisellino ormai cresciuto di Pierino.
Per Pierino la morte del Sor Giovanni era stata una
prova difficile da superare ma era come se quel
grand'uomo che gli aveva dato e insegnato tutto della
vita trattandolo come un figlio gli avesse anche voluto
far fare da spettatore all'anteprima della morte del
padre. Infatti mentre Pierino era tutto lanciato a
costruirsi un'esistenza decente ed era nello stesso
tempo incalzato da questa triste vicenda di Gigi
improvvisamente morì mio padre. E dunque punto e a
capo.
89
La famiglia si trovò nei guai che ho già
descritto, tutti e tre i miei fratelli sorelle rimasti in
casa, lui compreso, dovettero in qualche modo
segnare una pausa alla loro vita: Gisa, già fidanzata
da tempo, dovette ritardare il suo matrimonio; i miei
fratelli lo dovettero ritardare ancora di più perché mia
madre era assolutamente convinta che prima doveva
sistemare le figlie femmine e poi si sarebbe parlato
dei maschi. Io ero ancora fuori discussione: avevo, sì
e no, una quindicina di anni.
Intanto ecco riapparire la solita Ginetta. La
seconda delle sue figlie, Isabella, poco più che una
ragazzina, ebbe bisogno di un intervento alla
cistifellea che fu fatto eseguire in una clinica di lusso
dalle parti di piazza Bologna. Allora non era come
adesso. Un intervento banale com'è oggi la cistifellea
con i calcoli allora era considerato un'operazione
chirurgica vera e propria e quindi prima, durante e
dopo, medici e chirurghi dovevano tenere a bada
parenti e amici che andavano a visitare il malato. Per
Isabella fu una passeggiata e così per tutta la famiglia,
ma il caso volle 'il caso!' che nella stanza a due letti
in cui era ricoverata mia nipote fosse degente anche la
signora Antonietta.
Che signora poi tanto non era né nell'aspetto né
nel comportamento. Era una popolana capitata lì solo
a causa dell'emergenza clinica e incapace di rendersi
conto che si trovava in una villa di signori, scelta da
Ginetta perché lei doveva comunque distinguersi.
90
Il tutto nacque dunque da un equivoco. La Sora
Antonietta strinse l'amicizia con i parenti della sua
compagna di stanza pensando che fossero dei ricchi
signori abituati a frequentare cliniche di lusso;
Ginetta, invece, la lasciò fare pensando che se ne
sarebbe potuta fare una cliente. Tanto più che la Sora
Antonietta aveva tre nipoti una più bella dell'altra:
Silvana, Loredana e Claudiana. E dunque forse era
arrivato il momento di programmare la moglie per
Pierino che, fra Silvana e Loredana, Claudiana era
ancora troppo giovane, avrebbe sicuramente avuto
una facile scelta perché erano entrambe molto belle.
Pierino non ebbe dubbi: Loredana! Loredana
aveva una capigliatura fulva e riccia e due tette da far
invidia ad Anita Ekberg e inoltre era alta e slanciata,
insomma proprio la donna che ci voleva per lui. Sì,
certo, Loredana! Silvana che era altrettanto bella ma
di un tipo diverso, il riferimento più logico per il
lettore potrebbe essere un'attrice del tempo, Belinda
Lee, morta tragicamente in un incidente d'auto;
Silvana aveva un caratteraccio e, nonostante la sua
bellezza, era vittima di un'autostima di copertura, cioè
un'autostima
che
nascondeva
invece
la
consapevolezza di non valere niente e di non essere
niente. Insomma una papabile zitella, destinata ad
allevare i figli delle sorelle e a rimanere per sempre in
famiglia la povera zia Silvana. Un caratteraccio,
stando a quello che disse in seguito la zia Antonietta e
forse un primo amore finito male. Insomma nessuno
91
avrebbe mai pensato che avrebbe potuto essere la
futura moglie di Pierino. Nessuno, tranne Ginetta.
Ginetta aveva un fiuto infallibile per impicciarsi degli
affari degli altri e dunque cosa le poteva capitare di
meglio che plagiare una creatura tutto sommato
ingenua e farla accoppiare a un fratello minore già
totalmente plagiato? Ne parlò col marito, incominciò
una guerra spietata contro Loredana andando anche
contro la resistenza di Pierino che già sognava di
affondare la bocca in quelle due enormi tette e che
tutto sommato non era molto propenso ad adattarsi a
Silvana, non perché fosse meno bella di Loredana,
anzi! ma perché se la tirava troppo: stava sempre lì
come una madonna di marmo, gelida e triste, come se
fosse sempre in attesa di un fedele che andava a
pregarla.
Pierino fu sottoposto ad un vero e proprio
lavaggio del cervello. Ma non lo vedi che viene tutti i
giorni a trovare la zia? Secondo te perché sta sempre
qua? Ma non lo vedi come ti guarda? Tu non te ne
accorgi ma appena giri gli occhi lei ti guarda di
sottecchi. Ma non lo capisci che si è innamorata? Mi
sa che tu tieni sempre in testa quella mignotta di
Torino. E insomma alla fine il cognato Desiderio
sbottò: “Basta! O ci vai tu o ci penso io.” A Pierino
non sarebbe dispiaciuto che ci andasse Desiderio e
facesse tutto lui, così lui si trovava tutto pronto, ma
quella minaccia era soltanto uno sprone e non aveva
niente di reale. Il trattamento andò avanti per la
92
decina di giorni che durò il ricovero delle due malate;
poi la cosa sembrò finire lì: sembrava che né
Loredana né Silvana fossero riuscite a far breccia nel
cuore di Pierino che tornò tranquillamente al suo
lavoro senza immaginare gli stratagemmi messi in
atto dalla sorella. Ginetta a quel tempo aveva già
aperto da un bel po' il suo negozio e dunque le fu
facile invitare spesso Silvana ad andare a farle
compagnia e Silvana, anche lei ancora abbastanza
ignara della trappola che la futura cognata le stava
preparando, ci andava. Fu un plagio perfetto e senza
ritorno. Silvana divenne la cagnolina di Ginetta: non
aveva la coda altrimenti avrebbe scodinzolato ogni
volta che la rivedeva. E lì nelle lunghe pause fra una
cliente e l'altra, fra un regalo e un regalino, Ginetta
ebbe modo di plasmare la mentalità di Silvana
rispetto alla famiglia nella quale stava per entrare:
Cettina era la primogenita e andava rispettata
comunque anche se era una burina e un'ignorante. La
bravura di Ginetta era costituita da questo
procedimento dicotomico che lei applicava
rigorosamente ad ogni persona: le qualità positive
quando le voleva riavvicinare e quelle negative
quando le voleva allontanare. Dunque: Cettina sì, ma
era una burina; Assuntina no, perché si dava troppe
arie ma alla fine era una tirchia che cercava solo di
approfittare dei parenti (ovviamente come tutte le
personalità rimaste infantili affibbiava a quelle adulte
i propri errori), però ammucchiava soldi e dunque al
93
momento opportuno...; Angela no, perché era
scorbutica e poi stava creando un sacco di problemi
perché voleva sposarsi prima degli altri e quindi
sottraeva soldi alla famiglia che invece era in debito
con lei per via de “La Mèliga”: però anche lei, come
Assuntina, era un bancomat sicuro; Giacomo era fuori
discussione perché era un fedelissimo assolutamente
affidabile; Gisa no, per lo stesso motivo di Angela,
però era tanto brava nel lavoro e non temeva fatica. Io
non contavo. Mia madre era la sua nemica giurata:
una donna tirchia e senza cuore che però aveva
sacrificato la sua vita per la famiglia. Insomma la
povera Silvana fu ammaestrata a livelli che farebbero
parlare di plagio anche chi nel plagio non crede.
Finalmente Pierino si fece avanti, quasi preso a
spintoni da Desiderio. Silvana non aspettava altro,
aveva già 32 anni, non a caso uno più di Pierino che
andava cercando la mamma tra le cui mammelle
affondare il viso; forse un primo amore fallito e mai
digerito; un carattere spigoloso che metteva fuori con
tutti meno che con Ginetta: insomma se voleva
sistemarsi, come si diceva allora, non si doveva
lasciar scappare uno come Pierino. Si fidanzarono, ma
erano da poco fidanzati, quando io e mia madre, nel
recarci al cimitero sulla tomba di mio padre dove io la
accompagnavo sempre, incontrammo (per caso? direi
di no!) la zia Antonietta la quale ci trattenne per più di
mezz'ora a dire tutte le malefatte di Silvana.
Accrocchiava minimi episodi irrilevanti (tipo: va a
94
ballare con la gonna scampanata così quando gira
mostra tutte le gambe e jje se vedeno perfino le
mutande!) per descrivere la poverina come una specie
di mezza-prostituta assolutamente non credibile
perché Silvana invece aveva un carattere
estremamente introverso e una mentalità ispirata alla
cosiddetta onestà delle donne popolane. Mia madre
non era affatto scema. Ascoltò attentamente quella
stupida pettegola e quando si fu allontanata mi disse
semplicemente: “Parla per invidia. Crede che la
nipote farà un matrimonio di livello e teme che possa
superarla in agiatezza.”. Fatica sprecata quella della
Sora Antonietta; mia madre aveva già imparato a
voler bene a quella strana ragazza che però sembrava
quella giusta per rendere felice quel figlio per lei così
problematico.
Non si può dire lo stesso per Silvana. Caricata
da Ginetta mostrò sempre una grande antipatia per
mia madre che criticava in tutti i modi col solito
metodo del “vuole più bene a questo che a quello”
insegnatole da Ginetta. Una due e tre, anche mia
madre finì per prenderla in antipatia, ma non per
quello che aveva detto la zia Antonietta né per gli
sgarbi che riceveva direttamente da lei, no! Solo per
questo semplice motivo: spesso quando chiamava mio
fratello, che in famiglia era stato ribattezzato Cavia,
Silvana lo apostrofava dicendo Sor Cà con evidente
allusione al genitale femminile, così come si chiama a
Roma ritraendo l'accento. Ciò provocava il
95
risentimento di mia madre la quale non tollerava la
minima deviazione linguistica in direzione oscena.
Quell'appellativo le dava un fastidio tale che alla fine
mise a fuoco la personalità sostanzialmente popolanocittadina di Silvana con la quale una donna come lei
non poteva andare d'accordo. Non sapeva, la
poverina, che era proprio su questo che faceva leva
Ginetta per metterle contro la prima delle sue due
nuore.
Se Pierino e Silvana si erano lasciati
abbindolare da Ginetta, non fu lo stesso per Loredana
che non dimenticò mai lo sguardo di Pierino sulle sue
tette la prima volta che si incontrarono. Analfabeta di
ritorno, Loredana stava aspettando solo il principe
azzurro che la portasse via dall'intollerabile routine di
una famiglia dove non succedeva mai niente. E
vedendo lo sguardo molto interessato di Pierino aveva
creduto che fosse lui il principe azzurro che aveva
aspettato per tanto tempo. Anzi per un certo periodo
aspettò ma invano che Pierino si rifacesse vivo, ma
niente da fare. Così quando Silvana annunciò che
Pierino voleva venire in casa a parlare con i genitori,
Loredana a tutta prima fu presa da uno sturbo, ma poi
cominciò a tempestare di domande la sorella e le ci
volle poco per capire che l'organizzatrice di tutto quel
marchingegno era stata quella stronza della sorella di
Pierino che se credeva, parole testuali, Frà cazzo da
Velletri vestito da dottore. Le donne, in fatto d'amore,
si sa, non perdonano e la sera stessa dell'invito a cena
96
di cui Pierino avrebbe dovuto approfittare per fare la
richiesta Loredana riuscì a portare a termine la sua
vendetta. La cena si svolse allegramente anche grazie
alle barzellette di Pierino; il Sor Virgilio, padre delle
tre ragazze, disse le solite parole di circostanza e,
dopo preso il caffè, si scusò e se ne andò a dormire;
Claudiana e la mamma si misero davanti alla tv che
stava nell'altra stanza e a tavola rimasero solo
Loredana e Pierino, seduti l'una di fronte all'altro,
perché Silvana, su preciso ordine della madre, era
andata in cucina a fare i piatti. Voleva dimostrare o no
che sarebbe stata una brava moglie? C'era un silenzio
imbarazzante. Loredana non sapeva che dire e tanto
meno sapeva cosa dire il povero Pierino che però a un
certo punto sentì qualcosa che gli si strofinava sulla
patta: guardò Loredana che gli strizzò l'occhio e gli
fece cenno di star zitto: praticamente aveva allungato
sotto al tavolo una di quelle sue tornite gambone
lunghe da togliere il fiato e lo stava masturbando col
piede. Pierino guardava trasognato la scollatura della
futura cognata e già sognava indimenticabili amplessi
in barba alla lavapiatti, cioè Silvana, che stava in
cucina. Loredana non fece in tempo a portare a
termine l'operazione perché quella sera i piatti furono
lavati per modo di dire: in un batter d'occhio Silvana
si ripresentò e a quel punto, sempre su preciso invito
della mamma, Loredana dovette smammare e andare
a sedersi anche lei davanti alla tv per lasciare soli i
due piccioncini; ma ormai fra quei due un patto
97
segreto era stato firmato: sia lei che Pierino sapevano
che ad ogni minima occasione si sarebbero
accartocciati in amplessi indimenticabili.
Come descrivere Loredana? Partiamo da una
Sandra Milo trentenne e con parrucca mora (ricordate
“La visita”?). Il viso era meno volgare ma anche
meno espressivo: mostrava una delicatezza di
lineamenti estranei al viso di quell'attrice, ma erano
appunto i lineamenti di chi non sa nulla e non ha che
da offrire le proprie doti fisiche. Il corpo invece era
identico: Loredana era quello che allora si chiamava
una maggiorata fisica, nuda era una Venere di Milo
leggermente più prosperosa e con un petto molto più
abbondante di quello della dea; quanto al resto era
perfettamente in linea con la celebre Venere callipigia.
Insomma anche lei era titolare di una bellezza capace
di far perdere la testa a più di un uomo e certamente
la fece perdere a Pierino che la tenne come amante
per quasi tutta la vita.
La prima occasione di un loro incontro capitò
quasi subito. Pierino arrivò a casa dei suoceri con un
po' di anticipo; Silvana, che aveva accompagnato la
madre a fare una visita, rientrò un po' più tardi e il
gioco fu subito fatto. Non sapremo mai come fece
Loredana a rimanere quasi nuda quando, avendo
chiesto a porta chiusa chi era, si sentì rispondere che
era Pierino. Non lo sapremo mai; ma fatto sta che
quando Loredana vide che Pierino stava da solo con
un solo gesto si sbottonò la leggera vestaglia che la
98
copriva scoprendola e rimase completamente nuda e
Pierino ovviamente di fronte a quelle due tette enormi
che nella penombra dell'ingresso sembravano ancora
più grandi perse completamente la testa. Quando
rientrarono gli altri alla spicciolata, io mammeta e tu,
il giochetto era bell'e concluso e i due erano entrambi
frastornati dal piacere immenso che ne avevano tratto:
Loredana, che ostentava una sicurezza nota solo a chi
non capisce niente al di là del proprio tornaconto; e
Pierino, che invece era realmente frastornato da una
serie di pensieri contraddittori dai quali come al solito
non sapeva come venir fuori se non gettando tutto in
caciara, come si dice a Roma. Rise e scherzò per tutta
la serata come se l'accaduto non lo riguardasse e
lasciò la casa festeggiatissimo e, una volta uscito,
seguito dai complimenti che tutta la famiglia fece a
Silvana. Ma com'è simpatico! Ma come è di
conversazione! Se ti si sposa sei proprio fortunata! E
così via. Anche Loredana si unì al coro, ma in cuor
suo era sicura ormai che avrebbe strappato il marito
alla sorella. Non sapeva la poverina che non
combatteva contro una sola donna, ma contro due e
che Ginetta non era tipo da arrendersi tanto
facilmente. Dopo gli amplessi furibondi che aveva
con Pierino, se restava del tempo per le tenerezze lei
partiva subito all'attacco: “Tu Silvana non te la puoi
sposà; ma nun lo capisci che so' io la donna pe' te?
Che ce fai sotto le lenzola con quella gatta morta de
mi' sorella? Quella nun è bona manco a fasse er bidè
99
prima de mettese a letto e vedrai che spesso manco te
farà scopà. Ma non lo capisci? E' possibile che non lo
capisci?” Non è che Pierino non capisse: è che non
aveva il coraggio di opporsi alla scelta di Ginetta.
Quando Loredana scoprì chi era il deus ex machina di
quel complotto messo sù a suo danno, partì di nuovo
all'attacco: “Ma come fai a da' retta a tu' sorella? Nun
lo vedi che quelle due se so sposate loro; che so' du'
lesbiche senza manco sapello? Lo so, sai, che tu'
sorella a letto nun è bona e nun è bona manco mi'
sorella. Ma perché te la devi sposà? Sarete due
infelici.” A Pierino tornavano in mente le parole di
Gigi, ma poi paragonava le tette di Loredana con
quelle non meno prosperose di Silvana e si diceva
“Ma che differenza fa? Queste o quelle per me pari
sono. Io dovrei scontentare Ginetta, quando in questo
modo mi posso tenere tutte e due le sorelle,
sposandone una sola?” Era fatto così. Un realismo più
realista del re lo aveva strangolato fin da ragazzetto
impedendogli di elevarsi al di là dei suoi sedici anni,
quando aveva deciso una volta per tutte che “Francia
o Spagna purché se magna!” Non capiva per esempio
che Ginetta lo teneva totalmente per le palle perché
l'amore per Silvana, l'attrazione per Loredana, il
rispetto per lei lo incatenavano in una ragnatela che si
poteva dire che si era costruito da solo. Perciò quando
Loredana sbraitava che la sorella non se la doveva
sposare, e lui, che non capiva nulla della mente
femminile, lui taceva oppure diceva sommessamente:
100
“Adesso vediamo.” lei gli rispondeva: “Vediamo un
cazzo: dici sempre così e poi nun fai gnente per
liberarti di quelle stronze. Te stanno a incastrà. Vedrai
che tu' sorella te la farà sposà, mi' sorella, e noi nun ce
potremo vedé più.”
Diceva così, ma sapeva che si sarebbero visti
sempre, comunque le cose fossero andate. La tresca
durò a lungo, sia pure a lunghi intervalli di tempo fra
un incontro e l'altro, e finì veramente quando lei, già
sposata da tempo, perse un figlio sedicenne per un
incidente di motorino e fu costretta ad intraprendere
uno di quei percorsi, fra religione e superstizione,
sempre vittima di maghi e di ciarlatani che le
promettevano di farle re-incontrare prima o poi il
figlio perduto.
La giostra a tre, ma all'insaputa di Silvana, che
altrimenti, da buona bigotta, avrebbe fatto il
quarantotto, durò dunque a lungo. Gli incontri fra
Pierino e Loredana furono sempre fuggevoli e
frettolosi perché non avevano altro luogo in cui
incontrarsi che non fosse la casa paterna di lei. Ciò
fino a quando Loredana, ah le donne! non ebbe
un'idea geniale. Cominciò a blaterare che la famiglia
ormai aveva bisogno di una macchina, che lei avrebbe
imparato facilmente a portarla, che avrebbe preso la
patente, che la macchina di seconda mano non
sarebbe costata tanto perché prima o poi Pierino
avrebbe trovato una macchina usata in buono stato e
ben collaudata da lui. E insomma fu tale il tormentone
101
a cui sottopose tutta la famiglia che alla fine il Sor
Silio si decise ad andare a scuola guida con lei per
prendere insieme la patente. Silvana, del tutto ignara
delle mire della sorella, si rifiutò di andare a prendere
la patente che poi non prese mai perché in realtà non
ne era capace. Dopo un po' arrivò anche la macchina.
Era uscita da qualche anno la famosa cinquecento fiat
e già si incominciava a trovarne di seconda mano.
Pierino fu bravo a cogliere al volo la volontà di un
cliente affidabile che se la voleva cambiare e
finalmente la famiglia di Silvana riuscì ad avere il suo
mezzo di locomozione, praticamente requisito da
Loredana che vedeva così realizzarsi in pieno la
prima parte del suo piano.
Vediamo la seconda parte. La cinquecento,
essendo di seconda mano, un giorno sì e l'altro pure,
si rompeva, guarda caso, sempre verso le sette e
mezzo della sera quando l'officina di Pierino e di Gigi
stava per chiudere. Loredana arrivava e con la solita
litania “Pierì, guardeme 'n po' li freni a sta machina!”
annunciava ai due soci che c'era dello straordinario da
fare. Le prime volte Pierino faceva a Gigi il segno di
filarsela perché avrebbe provveduto lui ad
accontentare “la cliente” mettendole a posto freni e
carrozzeria; poi, dopo due tre volte, Gigi, anche se
incazzato, capiva da solo che doveva andarsene.
“Adrià, portala dentro così posso lavorà mejjo!”
diceva Pierino e Loredana obbediva: la serranda si
abbassava e lì al chiuso succedeva di tutto. A
102
Loredana, prima di fare all'amore, piaceva di essere
rincorsa e acchiappata e, una volta acchiappata, le
piaceva di essere quasi costretta con la forza a
sottostare alla libidine di Pierino. Fu così che tutti i
cofani delle macchine di tutti i clienti prima o poi
conobbero quelle due natiche carnose che era un
piacere stringere e tormentare tra le mani durante il
coito; anzi non pochi di quei cofani conobbero anche
il meraviglioso vello pubico di Loredana la quale non
conosceva limiti alle sue pulsioni ed era pronta ad
accettare qualsiasi proposta di Pierino in fatto di
sesso.
Quando lei veniva presa diciamo in modo
tradizionale, alla fine le bastava uno sguardo
ammiccante per resuscitare gli stimoli di Pierino che
immediatamente re-incominciava a correrle dietro
ansimando fino a quando non finiva la corsa in mezzo
al labirinto di macchine sempre presenti in officina;
ma quando gli concedeva l'intimità posteriore, come
dice Fellini in “Amarcord”, alla fine stremato da
quell'accoppiamento per lui sommamente gratificante
si accasciava a terra appoggiato alla ruota
dell'autovettura utilizzata per il “sacrificio” e
Loredana non riusciva più a farlo schiodare da lì
prima che fosse trascorsa almeno una mezz'ora.
Possederla in quella posizione era per Pierino
l'equivalente di uno sballo. Era come se quelle natiche
sode che gli sbattevano sugli inguini replicassero
all'infinito l'amato petto che intanto stringeva fra le
103
sue rudi mani di meccanico, mentre Loredana
uggiolava di piacere. Loredana non si concedeva
sempre in quella posizione, ma quando lo faceva era
perché un desiderio imprecisabile le invadeva la
mente e lei godeva solo se sentiva il genitale di
Pierino frugarle il retto con colpi secchi e ripetuti fino
a quando lei quasi non sveniva, perché anche in
questo Pierino era riuscito ad ottenere un notevole
controllo sul proprio fisico. Si ricordava sempre
quello che diceva lo zio fascistone con una celebre
filastrocca che aveva poi risentito anche dentro ad
uno degli ultimi bordelli aperti a Roma dove aveva
fatto in tempo a recarsi compatibilmente con la sua
età e con la legge dell'on. Merlin che li fece chiudere:
“Né troppo lungo che tocchi / né troppo largo che
atturi, / ma duro che duri: / questo è un cazzo coi
fiocchi!”. Ma il suo era coi fiocchi anche per quanto
riguardava le dimensioni.
Una volta a Pierino, suggeritogli da Giacomo,
venne in mente di cambiare canzone e di provare il
cunnilinctus. E appena ebbe abbrancato Loredana
finse di volerla possedere frontalmente ma in realtà la
prese per i fianchi e la sollevò per metterla seduta sul
cofano della sua cinquecento e per affondarle il viso
fra le cosce. Sforzo notevole dato che Loredana non
era un peso piuma e per di più contrastato per scherzo
da lei. Di metterla seduta sul tettino della macchina
gli riuscì, ma ahimè gli uscì anche irreprimibile un
sonoro peto. Situazione molto imbarazzante, ma che
104
seppe risolvere brillantemente: “Adrià, si te vergogni,
di' che so' stato io.” Loredana rise divertita e
incominciò ad ansimare sotto le sleccazzate furibonde
di Pierino che in quel modo si voleva anche premiare
per la trovata geniale con cui se l'era cavata. Quando
ebbero finito, Loredana riprese inopinatamente il
gioco della seduzione e Pierino ci cascò e quando fece
per avvicinarsi, lei lo respinse e andò a ripararsi dietro
la macchina su cui era seduta fuggendo sempre nella
direzione contraria a quella presa da Pierino e
gridando: “Vattene via, porco! Sei un porco
scoreggione!” E finiva sempre così. Alla fine si
lasciava prendere e si ricominciava. Se lei voleva,
Pierino avrebbe passato tutta la notte ad inseguirla e a
sottoporla alla sua libidine: erano al chiuso di
un'officina che mai nessuno avrebbe potuto pensare
che ospitasse questi baccanali a due e dunque si
sentivano assolutamente sicuri.
Mai avrebbe creduto Pierino che il Sor Alceste,
a serranda abbassata, si sarebbe permesso di entrare
da solo in officina; ma quella sera alla moglie del Sor
Alceste si era rotto il sifone del lavandino e lui, se
non si voleva far allagare tutta casa, doveva
assolutamente intervenire. Ma come, se gli mancava
proprio la chiave giusta per la larga filettatura del
sifone? L'unica soluzione escogitata dall'ignaro
pover'uomo fu quella di andarla a prendere in
officina, che del resto era la sua e nella quale a
quell'ora non c'era nessuno. Quando tirò su la
105
serranda i due erano proprio al culmine della faccenda
e a Loredana non rimase che rifugiarsi, nuda com'era,
dentro una delle autovetture più vicine. Il Sor Alceste
capì al volo, ma finse di non aver capito e disse non
senza una sottile punta di ironia: “A Pierì, ancora stai
a lavorà, te possino! Gigi nun m'ha detto gnente; so'
venuto a prende la chiave numero 15 perché me s'è
rotto il sifone del lavandino; me ne vado subito.” E
così fece mentre mio fratello volgendogli le spalle
cercava di risistemarsi alla meglio.
Finito il giochetto, lei tornava a casa dove o
mamma o papà le chiedevano il motivo del ritardo e
lei dava tutte le spiegazioni che poteva dare, tranne
ovviamente quelle che riguardavano i suoi rapporti
intimi con Pierino, e quando le chiedevano quanto
aveva speso per la riparazione e lei rispondeva
“gnente”, c'era subito l'intervento di Silvana che a mo'
di rimprovero diceva: “A mà, ma che te pare che
Pierino la faceva pagà?” E ci amancherebbe puro,
pensava la madre, che aveva cominciato a subodorare
qualcosa, data la frequenza delle riparazioni,
specialmente della carrozzeria.
Dando seguito a tali sospetti la Sora Giovanna
scoprì la tresca, convocò Loredana e le impose di
porvi fine altrimenti avrebbe scatenato il putiferio in
tutta la famiglia. Nessuno dei due amanti soffrì tanto
per l'interruzione imposta. Nessuno dei due infatti
coniugava quella passione incontrollabile con l'amore
nel senso della caritas latino-cristiana; era il puro
106
sfogo giovanile di due che si erano incontrati grazie
esclusivamente alle loro pulsioni: Pierino, attratto
dalle meravigliose tette di Loredana, e Loredana,
attratta dall'invidiabile dotazione di Pierino che le
faceva perdere la testa ogni volta che la possedeva.
Ma al di là del puro piacere sessuale i due non erano
in grado di provare il benché minimo sentimento l'uno
per l'altra e viceversa. Loredana era una specie di
cagna costantemente in calore; Pierino era una specie
di Pierrot ben dotato che placava la sua tristezza con
qualsiasi gioco, compreso quello sessuale. Insomma,
siccome le nozze si avvicinavano, entrambi ritennero
in pieno accordo di dare un taglio, almeno per il
momento, a quella tresca.
E come Dio volle si arrivò alle nozze. Prima si
sposò Angela; poi mia madre, accettando il criterio
dell'ordine di nascita, ma anche per mettere a tacere
Ginetta, acconsentì alle nozze di Pierino, tutte da
raccontare perché furono una vera e propria
sceneggiata. Silvana non gradì il vestito cucitole da
Ginetta, del resto troppo sofisticato per una che si
aspettava di sposare in gonna lunga e scampanata per
fare la ruota nel caso che dopo il pranzo si fosse
deciso di ballare, però non poteva esternarlo per non
offendere Ginetta: dunque si preparò in preda ad una
furia iconoclasta che quasi quasi stava per farle
strappare il vestito. Ma a questo si aggiunse un fatto
che non credo si sia mai verificato in un un
matrimonio.
107
La nostra famiglia era quella che era da un
punto di vista economico. Mia madre pensò bene di
far viaggiare Pierino sulla bella auto di un amico di
Giacomo, il già noto Tony, che allora aveva una
giulia, naturalmente addobbata con qualche garofano
e qualche merletto bianco. Quando la cosa fu risaputa
da Ginetta, che allora non aveva ancora nulla a che
fare con Tony, la scema si affrettò a telefonare a
Silvana la quale fece altrettanto con Pierino
minacciandolo di mandare a monte il matrimonio se
si fosse presentato su quella macchina. Tragedia in
casa nostra. Che si fa che non si fa: mio fratello
Giacomo si impuntò e mia madre non sapeva che
fare. A Pierino non gliene fregava niente e non aveva
alcuna voglia di mettersi contro il fratello.
Chiamiamo un taxi? Ma che sei scemo, con quello
che costa! Conclusione: lo sposo partì con la
macchina voluta da mia madre e da Giacomo, ma con
tre quarti d'ora di ritardo e così quando la sposa arrivò
non trovò nessuno e dovette stare una mezz'ora circa a
girare per una strada secondaria rispetto alla chiesa
fino a quando mio fratello non arrivò. Mi ricordo che
i parenti di Silvana erano tutti schierati fra la chiesa e
la strada su cui girava la sua macchina in modo da far
sì, col passaparola, che fosse avvisata di quando lo
sposo era arrivato: la zia Antonietta forse aveva
ragione: non vedevano l'ora di liberarsi di quella
ragazza ormai spigata, aveva trentadue anni,
scorbutica e sempre pronta alla polemica e al litigio.
108
Mi ricordo che quando scese dalla macchina
era una specie di capra recalcitrante che lanciava
sbuffi dalle narici e guardava torvo chiunque si
avvicinava. Sfogava così, la povera Silvana, tutto il
rancore instillatole da Ginetta contro una famiglia di
pazzi burini venuti dal paese per crearle quel po' po'
di impiccio. Durante il pranzo il Sor Alceste, invitato
di riguardo, prese da parte Pierino e gli disse: “Ma tu
moglie nun è quella che te stavi a scopà in officina:
quella era 'a sorella, quella che sta seduta al tavolo coi
tu' soceri?” Pierino non disse né sì né no, il che
voleva dire “sì”. Al che il povero padre commentò:
“O vedi com'è mignotta la vita? A te due; a quello
stronzo de mi fijo 'n antro po' neanche mezza!” “Ma
che dite, Sor Alcè? Guardate che meraviglia è Nadia e
che bella nipotina v'ha dato!” “A nipotina? Ma che nu
lo vedi, Pierì, che quella regazzina nun assomiglia né
a me né a mi fijjo né a nessuno della mia famiglia?
Chissà da chi se l'è fatto fa' quello stronzo de Giggi.”
E così dicendo ritornò al piatto di fettuccine fumanti
che nel frattempo gli avevano servito e Pierino si
allontanò per tornare vicino alla sposa, divertito dal
fatto che il Sor Alceste quella sera in un attimo aveva
capito e memorizzato tutto e, tutto sommato, contento
che qualcuno avesse constatato con i suoi occhi
almeno una delle sue bravate da seduttore.
Bravate che col matrimonio, come ho già detto,
non finirono del tutto, perché l'attrazione che lo
legava a Loredana era veramente fatale. Una volta
109
Loredana capitò fuori orario in casa dei due sposini.
Fatalità c'era solo Pierino, ma Loredana non l'aveva
fatto apposta. Quando Pierino le aprì lei fece come
per andarsene, ma lui l'afferrò per un braccio e le
disse: “Viè qua, 'n do' vai?” e di nuovo si
abbandonarono, sul letto nuziale di Silvana, ad uno
dei loro amplessi forsennati e quasi estremi dai quali
uscivano stremati. Concluso l'atto, lui, trovandosi in
atmosfera pienamente nuziale e familiare, si assopì;
lei, fuba, per fortuna si sforzò di restare sveglia,
sicché quando Silvana bussò al citofono come era
solita fare quando pensava di trovare in casa il marito,
le aprì, si ricompose rapidamente e alle richieste della
sorella disse che lei stava lì perché le aveva aperto
Pierino che poi si era scusato per la stanchezza e se
n'era andato a dormire dicendole: “Aspettala tu tu'
sorella!” Silvana, alla quale in definitiva il sesso
interessava solo superficialmente, non fece caso alle
incongruenze delle spiegazioni datele dalla sorella e
mise su il caffè per chiacchierare un bel po' con lei.
Chiacchierare di chi e di cosa? Ma di Ginetta,
naturalmente, e dei suoi regali. Loredana pensò che
quello era il pegno che doveva pagare per quella
scopata mozzafiato giocata fra attrazione sessuale e
timore di essere sorpresi che è la migliore forma di
scopata che ci possa essere al mondo, secondo me.
In seguito il copione si ripeté, salvo i dettagli,
quasi sempre nello stesso modo. Loredana aveva
trovato anche lei il suo principe azzurro, un
110
viaggiatore di commercio che ogni tanto si assentava
anche per giorni e così capitava non tanto di rado
qualche occasione in cui i due potevano abbandonarsi
a quelle loro favolose scapricciate in cui il sesso,
diciamo così, tradizionale, fu esplorato in tutte le
forme possibili e immaginabili. Naturalmente Ginetta
sapeva tutto di quella relazione, ma si guardò bene dal
renderla pubblica! Come tutti i giornali della gloriosa
repubblica pubblicava solo quello che faceva piacere
al padrone, cioè a se stessa.
Per il resto il matrimonio andò bene, anzi andò
bene per sempre, fino alla fine: Silvana si rivelò la
migliore delle mogli, una madre impeccabile e una
donna davvero innamorata di un uomo qual era mio
fratello, a sua volta bello e innamorato fino a lasciar
perdere l'amore di mia madre per dedicarsi tutto, o
quasi, alla moglie e alla famiglia. Mia madre, come al
solito comprensiva, diceva “Il bene del letto fa
scordare il bene del petto.”, ma accettava volentieri le
visite che mio fratello le faceva da solo scusandosi
per quella moglie capricciosa che non vedeva altro
che Ginetta e non aveva alcun rispetto per la suocera.
Sembrava che mia madre capisse tutto e forse era
proprio così. Guidata dal cuore più che dalla ragione
riusciva mano a mano a sistemare quei figli
affidandoli, almeno ante mortem, ad un destino quale
lei lo aveva sognato per loro. Con me non ci riuscì per
mancanza di tempo. Però morì sapendo che io ero in
grado di crearmi la vita che volevo e di crearmela a
111
modo mio: quindi morì tranquilla, anche se avrebbe
voluto vivere molto più a lungo per godersi quel
figlio, io, che le stava dando così grandi
soddisfazioni.
La prima figlia di Pierino e Silvana, Melania,
era di una bellezza singolare e di un carattere dolce
che la fecero amare subito da tutta la famiglia. Mio
fratello sembrava finalmente appagato, ma la sua
ambizione di progredire sempre di più lo rodeva
dentro senza lasciargli mai un attimo di tregua.
Adesso che era diventato padre avrebbe voluto ancora
di più migliorare le sue condizioni economiche per
offrire a quella bella moglie e a quella creatura che lo
catturava per intere serate, quando stanco del lavoro
rientrava e non gli restava neanche il tempo, per
giocare con lei, di lavarsi e di cenare. E lei era una
bimba deliziosa. Personalmente le debbo una cosa
molto importante. Lei inconsapevolmente mi diede la
prova che esiste la scena parentale a cui Freud dà
tanta importanza e che io ho potuto osservare proprio
grazie all'ingenuità di Melania che quello che aveva
in mente quello aveva sulle labbra. Si parlava noi
grandi di questioni abbastanza serie e quindi avevamo
tutti espressioni e toni molto di circostanza. Non si
spiegherà mai perché a un certo punto la piccola,
forse per dire qualcosa di importante assimilabile ai
temi e ai toni della nostra conversazione, a un certo
punto se ne uscì dicendo: “Anch'io stanotte ho visto
mamma e papà che si arivotecavano dentro al letto.”
112
Attimo di surplace, poi grande risata di tutti e grande
soddisfazione della piccola che ebbe così la prova di
aver detto anche lei qualcosa di importante. Io non
ebbi dubbi: sognata o no, Melania ci aveva raccontato
la scena parentale o primaria come dice Freud. Da
quel momento mi convinsi che effettivamente questa
scena esiste nella memoria di ciascuno di noi, sia pure
in forme diverse. Un mio studente per esempio mi
disse che lui questa scena primaria ce l'aveva in mente
ma che non sapeva dire se aveva sognato o se aveva
visto realmente la madre che faceva un pompino al
padre. Cara Melania, se un giorno potrò parlare con te
vorrò dirti quanti bei regali mi hai fatto
inconsapevolmente con la tua fanciullezza così
graziosa e spontanea.
Grazie a questa figlia Pierino era al settimo
cielo ma non sapeva accontentarsi di quello che
aveva. La moglie per altro lavorava a posto fisso
come si diceva allora e dunque la famiglia si poteva
considerare agiata. Pensavano già su suggerimento di
mia madre ad acquistare la casa nella quale stavano a
pigione. Una casa bella ma messa male: un primo
piano in una di quelle costruzioni delinquenziali che
gli architetti per il popolo riuscirono a pensare negli
anni cinquanta. Affacciava su un cavedio intorno al
quale si raccoglievano, per trovare un po' d'aria e un
po' di luce, ben quattro palazzi tutti attruppati insieme
all'inizio di una delle più note vie consolari di Roma
sud. Era disposta male ma era stato il loro nido
113
d'amore e tanto bastava per esservisi affezionati senza
ritorno. Pensate che mia cognata ci abita ancora da
sola, dopo aver sistemato i due figli. Già, perché nel
frattempo era nato anche il maschio, a cui fu imposto
il nome del nonno, cioè mio padre.
L'ambizione portò forse Pierino a dare una
mano al suo infelice destino che però si accanì, prima
che su lui, sul suo amico Gigi. Gigi incominciò a
pretendere di riconsegnare sempre lui le macchine
che, venute da fuori e andate in avaria a Roma, una
volta aggiustate dovevano essere riportate ai rispettivi
padroni sui luoghi di partenza. Pierino non aveva
nulla in contrario visto che lui impazziva per tornare
la sera a godersi quei due figli meravigliosi che
Silvana gli aveva dato. Non aveva curiosità per gli
affari degli altri, Pierino, non si chiedeva mai ma
perché Gigi pretende questo? Ma che fa quando tarda
uno o anche due giorni a rientrare? Non se lo
chiedeva. Vedeva l'amico dimagrire giorno per giorno
ed essere anche sempre più nervoso e irascibile e non
riusciva a darsene una spiegazione. “A Gì, vai da un
medico.” “E lasseme perde.” Fu la risposta secca e
stizzita. Una volta che capitò il Sor Alceste, Pierino si
fece coraggio e lo disse anche a lui: “Sor Alcè, ma
perché nun lo fate vede da un medico?” “C'è andato
dal medico, c'è andato.” Il giorno che Gigi non si
presentò al lavoro e Pierino chiese spiegazioni alla
famiglia gli dissero che era ricoverato al Forlanini.
Gigi fu uno dei primi casi di aids; i medici non
114
sapevano che fare; in quindici giorni il male se lo
portò via e fu così che Pierino dovette fare
conoscenza definitivamente con l'omosessualità ma
finì tutto nel tempo d'un funerale. Accompagnato Gigi
alla tomba, nel giro di poco tempo Pierino digerì la
perdita e già raccontava divertito una famosa
barzelletta sull'aids. Il solito nonno e il solito nipotino
impertinente: “Nonno, nonno, tu lo sai che con l'aids
si muore?” “E perché? Te pare che con l'inps se
campa?”
Il Sor Alceste tentò di tenere in piedi lui
l'officina, ma era evidente che per lui quello sforzo
non era sostenibile. Era un uomo d'altri tempi e non
voleva che Pierino subisse le conseguenze delle scelte
sbagliate di quel figlio snaturato. Quando però
Pierino, spinto da Ginetta, che mirava a più alti
“introiti”, gli presentò il problema di un eventuale
scioglimento, a lui non sembrò vero. Accettò subito e
passò subito alle pratiche per devolvergli, dietro
conguaglio, tutta l'officina. Pierino lasciò l'intera
questione nella mani di Ginetta perché lui, che non
era un grande affarista, si fidava ciecamente di quella
sorella che era riuscita a costruire un piccolo dominio
commerciale grazie al quale le era permesso di vivere
con un certo benessere. Non avrebbe mai potuto
capire, il povero Pierino, che Ginetta mai gli avrebbe
permesso di raggiungere il suo livello economico; che
sarebbe stata pronta a dar fuoco all'officina che stava
per rilevare pur di non consentirgli di fare progressi
115
economici tali da insidiare la posizione da lei
raggiunta.
Affittò un locale, si comprò un ponte e
cominciò a lavorare come un somaro. Lavorava, mio
fratello, anche quindici ore al giorno e dunque doveva
fare degli incassi proporzionati a tale mole di lavoro;
ma alla fine della settimana, detratti dagli incassi i
soldi necessari per mandare avanti la famiglia, il resto
lo consegnava a Ginetta che li depositava sul suo, di
lei, personale contro corrente. Si può capire che il
pover'uomo avrebbe potuto lavorare anche 24 ore su
24: mai avrebbe visto il frutto del suo lavoro. I soldi
che risparmiava li congelava su un conto corrente non
suo dal quale non percepiva né interessi né benefici,
ma anzi se li vedeva decurtati dalle spese del conto
corrente che Ginetta regolarmente gli addebitava e
lui, scioccamente, corrispondeva, senza rendersi
conto; ma la cosa più grave era che il frutto del suo
lavoro, denaro contante, non conosceva la forma del
denaro di giro. L'affitto? Te lo pago io! Le tratte?
Povera cosa, te le pago io. Le rate della nuova
macchina? Te le pago io e così via. E così Pierino
lavorava e Ginetta lucrava sul suo denaro con un
rigore che mi lascerebbe interdetto se non pensassi
che lei stessa non si rendeva conto del furto che stava
facendo tramite malversazione a quel mio povero
fratello.
Lavora e lavora, Pierino non vedeva alcun
risultato; anzi, a un certo punto si rese conto che
116
l'officina non rendeva come lui e Ginetta avevano
creduto. Pensò di aver sbagliato a rompere con il
socio che gli aveva permesso di risolvere il problema
dopo la morte del Sor Giovanni e quindi cercò un
nuovo socio, Mimmo, detto anche Yoghi, perché era
identico ad un orso di questo nome che allora
spopolava in tv sui cartoni animati dei bambini.
Mimmo era più imbranato di Pierino. Non
capiva assolutamente niente. Non parlava, ma
ciancicava parole. Insomma mio fratello se l'era scelto
più per tenere lui le leve di un comando, che in realtà,
in ultima istanza, era delegato a Ginetta, che per dare
una svolta a quell'officina che stava lentamente
naufragando. Mimmo era quello che a Roma si
definisce “uno scemo porta a casa”. Mi ricordo che
una volta capitò in casa nostra e, vedendomi seduto a
studiare, mi chiese: “ma tu stai sempre a studia'?” Io
risposi col gesto di chi vuol dire “Che altro posso
fare?” E lui di rimando: “Fai bene! Così noi rubbamo
mille e tu diecimila.” Non aveva torto! In questo
popolo di ladri che a quel tempo era molto ma molto
più ladro di adesso non si concepiva il giusto scambio
lavoro/merce/lavoro, ma quello furto/furto/furto: cioè
nella vita di tutti i giorni la maggior parte degli
Italiani cercava di fregare qualcosa all'altra parte;
costume che dura tuttora: metà degli Italiani risparmia
(bot, cct e quant'altro) e l'altra metà si mangia i propri
soldi più gli interessi di quei risparmi. Alla faccia di
Pulcinella! Ce ne sono di beoti a questo mondo! E in
117
questo modo abbiamo accumulato un debito pubblico
del quale non frega niente a nessuno, e tanto meno ai
nostri politici; tanto, a morire e a pagare c'è sempre
tempo.
La moglie di Mimmo però non era niente
male!Piccoletta, cicciottella, con due tette che erano il
doppio di lei, spigliata e, diciamo, anche disinvolta,
Nunziatina. Una volta che fingendo di sbagliarmi le
strinsi intenzionalmente una delle sue due chiappone
si girò verso di me con un sorriso il cui significato era
chiaramente quello di una disponibilità certa. Hai
capito, Nunziatina? Non è scema come vuol far
credere. Se le capita la botta non se la lascia scappare.
Pierino peroo non la degnava neanche della minima
attenzione; solo qualche volta gli occhi gli cadevano
su quelle due tette che lei esibiva spudoratamente con
scollature da capogiro. Era il solo vezzo apprezzabile
che madre natura le avesse dato e lei ne approfittava.
Come darle torto? Non nascondeva, Nunziatina, di
avere una grande simpatia per Pierino; non la
nascondeva neanche al marito, ma Mimmo non dava
peso a questa faccenda; non conoscendo i gusti di mio
fratello, contava sulla poca avvenenza di sua moglie e
sulla bellezza indiscutibile della moglie di Pierino per
non prendere neanche in considerazione una qualche
possibile conseguenza di quella smaccata simpatia
che la moglie mostrava per lui.
Aveva ragione, ma non aveva contato le tette.
Una sera che Pierino e Nunziatina erano rimasti soli
118
in officina lei con una scusa lo chiamò nel retro e
spudoratamente gli disse, dando per contato tutto il
pregresso: “Ma che sei frocio?” A Pierino, che era la
calma in persona, non gli dovevi far saltare la mosca
al naso perché, se no, diventava una bestia. Non le
rispose neanche. La afferrò, la distese sul cofano della
prima macchina e, incurante del fatto che poteva
rientrare Mimmo, se la scopò selvaggiamente senza
pensare a nulla.
Dopo qualche mese, mia sorella Gisa che al
tempo era già sposata e che abitava nello stesso
stabile in cui mio fratello aveva l'officina si vide
arrivare incontro Pierino e Mimmo con due facce da
funerale che un altro po' sveniva. Parlò solo Pierino:
Mimmo pareva che se ne stesse zitto per vergogna più
che per altro. Insomma: “Nunziatina è in cinta e
questi due” disse mio fratello alludendo al socio e alla
moglie “un altro figlio non lo vogliono perché non se
lo possono permettere.” “Embè?” chiese Gisa,
facendo finta di non capire perché lo venissero a
raccontare proprio a lei. Pensava infatti che nessuno
sapesse che lei aveva “agevolato” altri aborti, allora
solo clandestini, grazie a un indirizzo che aveva
rimediato quando lavorava in uno dei grandi
magazzini di Roma. “Beh, sappiamo che tu hai fatto
abortire anche tua cognata. Non potresti aiutare anche
Nunziatina?” Era Pierino che parlava. Mimmo aveva
continuato sempre a stare zitto. Gisa ebbe come
un'illuminazione: vuoi vedé che quella scema si è
119
fatta mettere in cinta da mio fratello. Poi scacciò via il
pensiero come improponibile e già la complicità
femminile si era attivata anche rafforzata da quel
doloroso sospetto. Ma è possibile che sto cretino, con
la moglie che ci ha, si va scopare quel cesso?” Anche
questa domanda era più che lecita, ma improponibile;
però ormai il tarlo era al lavoro.
Gisa era alla guida. Caricò Nunziatina sulla
macchina e la accompagnò dal ginecologo criminale
che praticava aborti clandestini in uno studio fuori
dimesso ma dentro supermegagalattico per
giustificare i compensi straordinariamente esosi che
chiedeva a ogni aborto. Le ricevette molto
professionalmente. Fece alcune domande tecniche,
invitò Nunziatina ad entrare nella sala operatoria, si fa
per dire, e Nunziatina entrò. Poi inopinatamente
invitò anche Gisa, che esitò per un attimo perché
quando aveva accompagnato la cognata l'aveva
perentoriamente invitata a restare nella sala d'attesa.
Comunque entrò. E sulla porta, proprio prima di
entrare nella camera operatoria, si fa sempre per dire,
sentì la mano del chirurgo che le afferrava un gluteo
intenzionalmente e tenacemente. Gisa non era tipo da
sopportare insolenze di alcun tipo. Si girò di scatto e
gli sferrò una ginocchiata alle palle che fece mugolare
di dolore quel poveraccio: mugolava perch{ cercava
di non farsene accorgere dall'assistente che intanto
stava preparando Nunziatina mentre lui, piegato su se
stesso, batteva i piedi per terra per cercare di alleviare
120
il dolore.
La situazione si era fatta pesante: Gisa
gongolava per la precisione con cui aveva assestato il
colpo, ma gli altri stavano tutti un po' su di giri:
Nunziatina per la paura, il ginecologo per il dolore e
lo scorno di essersi fatto sorprendere da una scema, la
sua assistente perché non capiva le esitazioni del
dottore quando l'aborto si presentava benissimo e la
cosa sembrava fattibile subito e senza incidenti. Non
fu così. Finito l'intervento criminoso, passa un quarto
d'ora, passa mezz'ora, Nunziatina non si risvegliava
dall'anestesia. L'atmosfera si fece ancora più pesante
perché era chiaro a tutti che se fosse successo
qualcosa tutti e tre o anche tutti e quattro avrebbero
rischiato la galera a vario titolo... di imputazione.
Perso per perso, il manigoldo pensò bene di
vendicarsi di Gisa e mentre lei con le lacrime agli
occhi ma con determinazione chiamava e
schiaffeggiava Nunziatina, la convocò nella sala
d'attesa e le ordinò perentoriamente: “Questa bisogna
che te la porti via anche così. Ce l'hai la macchina? Se
no chiami un taxi. Se nun gliela fai da sola a portarla
fino alla macchina t'aiuta la mia assistente perché io
me ne devo andà. State attente a nun favve accorge
dal condominio. Gisa, terrorizzata, obbedì e come
Dio volle riuscì a caricare Nunziatina sulla macchina
e a riportarla ancora viva a casa sua. Qui c'erano ad
aspettarle Mimmo e Pierino che avevano addirittura
chiuso l'officina. Ah, annamo bene, fu il pensiero di
121
Gisa. Mio fratello non me la racconta giusta. Poi
vedremo. Intanto si dedicò a Nunziatina che alla fine
rinvenne e tutto finì bene. Il giorno dopo Gisa aspettò
Pierino fuori dell'officina e come al suo solito gli
chiese all'improvviso: “Quer regazzino era tuo, dì la
verità.” “Ma che stai a di'? “Te sei ammattita?” Le
rispose sorridendo Pierino. Così Gisa sapeva ma non
seppe mai di sapere.
Mimmo sopportò per alcuni anni il predominio
di Pierino (cioè, tra parentesi, di Ginetta), ma poi,
trovato un posto fisso, giardiniere cimiteriale alle
dipendenza del Comune di Roma, abbandonò anche
lui l'impresa e Pierino dovette affrontare da solo la
pericolosa situazione sobbarcandosi a un lavoro
estenuante: giornate intere trascorse sdraiato sotto le
macchine in un locale non ben chiuso e quindi afoso
d'estate e freddo d'inverno; preoccupazioni infinite
perché spesso il denaro incassato non era sufficiente a
coprire tutte le spese della famiglia e dell'officina;
primi dolorosi sospetti che la sorella magari
involontariamente stesse approfittando di lui. Ne
parlava con Giacomo, ma Giacomo di malversazione,
come vedremo, ne capiva anche meno di lui. E
soprattutto, a un certo punto, per ricostituire le energie
che consumava fra sigarette, sesso e stress da lavoro,
incominciò a mangiare non più in modo regolato
come aveva sempre fatto, ma confondendo la fame
con la gola e il tutto frullato con l'illusione che
mangiando di più potesse recuperare tutte le energie
122
di cui faceva enorme profusione soprattutto sul
lavoro. Mia cognata, lo so, lo amava sinceramente ma
era troppo ignorante per avvertirlo che stava
prendendo una brutta piega. Come ogni buona
popolana romana, quelle che riporto sono parole sue,
se la mattina non ne facevi almeno un chilo e mezzo,
intendo di cacca, non stavi a posto con i principi
nutritivi della gente di Roma. Chi non mi crede venga
una volta a Roma e vada a mangiare in uno di quei
ristoranti tradizionalmente romani come se ne trovano
per esempio al ghetto e osservi di che cosa è capace
una famiglia romana di sei persone a tavola. Una sera,
erano in otto quella volta, si mangiarono antipasti a
volontà, un primo di cannelloni al forno, un secondo
primo di pasta al forno, trentadue, dico trentadue,
filetti di baccalà, tre bacinelle di nissoise, un intero
profiterolle di almeno un chilo e mezzo e alla fine, per
digerire, poverini, quasi già ubriachi, chiesero al
cameriere di portare una bottiglia di champagne che
naturalmente si scolarono senza alcun ritegno. Tra
parentesi va detto che pane ne fu consumato in
quantità inenarrabile. Io lo sapevo da esperienze in
case di privati che i Romani almeno fino a Craxi
mangiavano come abbuffatori insaziabili ma quella
sera ebbi la prova certa che era proprio così. Le donne
della tavolata per esempio avevano degli avambracci
che misuravano, a dir poco, sessanta centimetri di
circonferenza. Insomma a Roma se magna, tanto le
province pagheno e li schiavi laveno. Mi raccontò lui
123
stesso, Pierino, e poi mi fu confermato da Silvana,
che un sabato sera rientrò alle undici con una fame da
lupi perché stava con le sole pagnottelle preparategli
la sera prima dalla moglie. La moglie non lo aveva
aveva avvertito che il giorno dopo si sarebbe andati
tutta la famiglia al mare ed era per questo che aveva
preparato ben sedici fettine panate, il corrispettivo
romano delle cotolette milanesi. Bene. Pierino se le
mangiò tutte pensando che la moglie le avesse
preparate per lui. Unì insomma ad un lavoro
spropositato e fatto in pessime condizioni un consumo
altrettanto spropositato di sigarette e di cibo,
soprattutto carne di cui era particolarmente ghiotto.
Per quella moglie amatissima, per quei figli adorati,
aveva abbandonato il suo nobile equilibrio e si era
venduto la vita. Letteralmente. Il male ebbe facile
gioco anche se, grazie alla sua robusta complessione,
impiegò cinque anni per ucciderlo. Ecco perché io
dico, e ne sono convinto, che per stare meglio alla
fine si dovette piegare al destino che ce lo portò via in
poco tempo.
A parte ciò, più passava il tempo e più la sua
persona guadagnava in fascino e in bellezza,
aggiungendo alle doti naturali gratuite quell'aria
pensierosa che lo faceva apparire come un navigato
uomo d'affari. Gli anni erano passati, ormai stava
verso i quaranta, ed io, ormai diventato grande, avevo
incominciato a lavorare. Fui mandato sull'isola di
Ponza dove appena possibile mi raggiunse mia madre
124
ormai rimasta sola con me e, appena arrivati i primi
mesi caldi, Pierino mi venne a trovare con tutta la
famiglia. Si trattennero per tutto il weekend e poi
ripartirono. Era di domenica. Il catamarano partì
verso le diciotto e io, vistolo allontanarsi, raggiunsi i
miei colleghi ed amici per trascorrere la mia serata
come al solito fatta di gossip e di nulla. Verso le
ventuno, esausti dalla noia e dal non far niente,
stanchi per il continuo passeggiare “a coppa o puorto”
e “abbascio o puorto”, cioè andata e ritorno, ci
accingevamo a rincasare per andare a dormire,
riposarci e riprendere il lavoro il giorno dopo, quando
vedemmo Giuliano che stava attrezzando la sua
barchetta, la Giannina, per andare in mare. “Dove vai
a quest'ora, Giuliano?” “Vado a riprendere il
catamarano in avaria.” Mi avesse dato una pugnalata
mi avrebbe fatto meno male. Su quel catamarano
viaggiavano mio fratello, mia cognata e i loro due
figli ancora bambini. Dalle nove alle due della notte
divorato dall'ansia passeggiai lungo il molo prima
accompagnato da quei miei cari amici di allora,
Mario, Raimonda, Annely, Tullia, Fabrizio e altri; poi
da solo, dopo essere uscito di nuovo ingannando mia
madre con una scusa, fino a quando non sentii il
rumore del motore della Giannina di ritorno che si
annunciava nella notte insieme ad una fievole luce.
La piccola imbarcazione di Giuliano era
riuscita a riportare il catamarano rimasto in panne in
mezzo al canalone, così allora chiamavano i ponzesi
125
la parte di mare che sta tra la costa e l'Isola, lo aveva
rimorchiato con una fune, ma, siccome il catamarano
era più grande e pesante della Giannina e rischiava
sbandando di risucchiarla all'indietro e di
sommergerla, mio fratello si era offerto di uscire
dall'abitacolo, di mettersi in piedi sul piccolo ponte e,
tenendo tra le mani la fune che univa le due
imbarcazioni indirizzarla in modo da correggere le
sbandate del catamarano. Entrò in porto in piedi
sull'imbarcazione portata in salvo, fiero come un
ammiraglio che abbia condotto a buon fine la sua
missione, di aver tratto in salvo, lui, l'intera sua
famiglia, oltre al resto dei viaggiatori. Appena le due
imbarcazioni arrivarono sotto le luci del porto, lo vidi,
dritto come il capitano Achab, sul ponte del
catamarano che sembrava un eroe dei film di
avventura. Non ricordo altro di quella nottata se non
l'ansia che mi aveva strangolato fino a notte fonda e la
figura di mio fratello che si stagliava nella notte
illuminato dalle luci del porto come fosse la madonna
di Messina o la statua della Libertà. Ed è così che lui
vivrà dentro di me per sempre: nel chiarore delle
lampade che illuminavano il porto vedevo i suoi
occhi, attenti ai movimenti del catamarano e intenti
alla gestione della fune, guizzare orizzontalmente per
controllare il tutto e del tutto indifferenti all'applauso
che i pochi curiosi rimasti con me tributarono a
Giuliano e naturalmente a lui che gli prendeva
totalmente la scena. Questa, secondo me, e non solo, è
126
la vera bellezza: quella che si propone perché così è,
senza ostentazione e senza consapevolezza. Hanno
voglia oggi i truccatori della tv a costruire look, si
dice così, mirabolanti: nulla può eguagliare il sorriso
privo di significati ostensibili di una fanciulla che ride
con gli angeli né quegli occhi di mio fratello che
saettavano a destra e sinistra per controllare i
movimenti delle due imbarcazioni.
Si era nel 70; due anni dopo morì mia madre.
Aveva fatto in tempo a portare a termine tutti i
componenti della sua famiglia. A mio cognato Vittorio
che le chiedeva se avesse paura, quando ancora il
male non era così minaccioso, lei rispose
tranquillamente che io ormai ero grande e sistemato,
gli altri sposati, dunque lei sarebbe potuta morire
serenamente senza alcun rimpianto. Dice un grande
poeta che pochissimi o forse nessuno legge più:
quello che noi gli dobbiamo soprattutto, ai nostri
genitori, è l'averci insegnato a morire. Io dei miei lo
posso dire senza alcun dubbio. Tanto lui quanto lei
affrontarono il punto finale della loro esistenza con
una rassegnazione che ancora ho nel cuore. Entrambi,
avrebbe detto Marcello Marchesi, si fecero trovare
vivi dalla morte. Mia madre sapeva anche che era
riuscita a svezzare definitivamente Pierino e a
convogliare tutte le energie di quel figlio verso la cura
della sua nuova famiglia. Pierino, quando dovette
prendere atto dell'inevitabile fine di mia madre, si
chiuse in un muto silenzio. Le si avvicinava poco per
127
timore che il suo sguardo potesse tradire qualche
emozione dalla quale lei potesse ricavare l'imminenza
della fine e solo, la sera, a letto, si disperava, ma tra le
braccia
della
moglie,
consolandosi
così
dell'inevitabile che ormai doveva avere compimento.
Quando ricevette la notizia della morte non ebbe
reazioni; da maschio fortificato dalle vicende della
vita riuscì a non tradire emozioni. Semplicemente
chiuse dentro di sé l'immagine, non solo per lui ma
per tutti noi, extratemporale di quella donna che
aveva amato oltre ogni dire e da quel momento lasciò
a quella spudorata di Ginetta il compito di condurre
tutte le operazioni che si compiono quando il morto
va via.
Sono assolutamente convinto che Pierino non
ebbe alcuna parte nella questione dell'eredità della
casa. Le due sceme, Ginetta e Cettina, organizzarono
tutto il programma che tendeva a colpire me in quanto
colpevole di avere preso le parti di Gisa e di aver fatto
comunella con Tony. Erano di fatto due povere donne
che maneggiavano, sì e no, una decina di pensieri in
tutto, ma molto molto confusi, e incapaci di osservare
la realtà e di programmare coerentemente con i rilievi
di tale osservazione. Si erano poste come capifamiglia
l'una perché primogenita e l'altra perché traghettatrice
della famiglia dall'Abruzzo a Roma. Ma era un
inganno che prima di tutto ingannava loro stesse. Si
credevano di poter gestire tutti noi; in realtà si erano
guadagnate: uno, il risentimento di Angela, che vabbè
128
era come loro e quindi contava poco, ma il marito no;
due, l'odio di Gisa che quella scema di Ginetta aveva
irrazionalmente danneggiato; tre, la mia personale
opposizione a qualsiasi cosa facessero o dicessero
perché ormai avevamo capito che erano due sceme.
L'unico che erano riuscite a re-infilarsi nella fica era il
povero Pierino, non tanto perché non fosse in grado di
capire, quanto perché non gliene poteva fregà de
meno.
Cominciò il solito battage pubblicitario sul
giornalino di Ginetta dal quale la papessa di Roma
faceva sapere quali erano le sue volontà coonestate
dalla primogenita: siccome Pierino era il primo figlio
maschio la casa toccava a lui. Quindi secondo le due
sceme io dovevo andarmene ramengo per il mondo e
consentire a Pierino di occupare la casa dove ero
entrato come lui e che non avevo più abbandonato
avendo cura di mia nonna, prima, rimasta allettata per
sei anni, e di mia madre, poi, alla quale per fortuna il
destino non riservò uguale trattamento: il male se la
portò via in un mese. Io già lavoravo e a quei tempi
avevo come colleghi avvocati e commercialisti che
maneggiavano quotidianamente questa materia, ma a
ben altri livelli, e in quattro e quattr'otto misi in chiaro
il problema. Io restavo in casa perché era mio diritto;
se tutti gli altri fratelli di comune accordo avessero
voluto realizzare il valore di quella eredità avrebbero
dovuto costringermi attraverso il tribunale allo
scioglimento legale della proprietà stessa. Cioè il
129
tribunale, dopo aver riconosciuto, il diritto degli altri
miei fratelli, avrebbe dovuto requisire la mia casa,
con me dentro (che nel frattempo avrei potuto
sposarmi e riempirla di tanti marmocchi), e ordinare
di metterla all'asta ad un altro tribunale
specificamente addetto a queste operazioni. Cioè, coi
tempi della giustizia italiana, saremmo morti tutti
prima di dirimere la faccenda.
Le due sceme e i loro scherani (soprattutto
Giacomo, perché Pierino se ne teneva al di fuori) non
tenevano conto del fatto che l'azione giudiziaria non
era per loro consigliabile in quanto io avevo ben tre
sorelle dalla mia parte che quindi non avrebbero mai
acconsentito a chiedere per via legale lo scioglimento
dell'eredità né tenevano conto del fatto che io,
quand'anche avessero voluto agire da soli, con i tempi
della giustizia italiana, dentro quella casa, anche da
single, ci sarei rimasto una trentina d'anni. Ma le due
sceme che non avevano mai letto un libro per intero
pensavano di saperne di più dei giovani di famiglia
che avevano buttato il sangue sui banchi
dell'università e così mi diedero l'opportunità di
chiudere con loro e con una nutrita schiera di cretini.
Non ebbi mai un chiarimento diretto né con
Ginetta né con Pierino né, meno che meno, con la
primogenita. Tutte persone che, sapendo di avere
torto, si sottraevano al confronto e puntavano
scioccamente solo sul ricatto affettivo. Secondo le
regole di famiglia, il tutto si risolse con quella
130
infelice telefonata di Cettina. La cattiva abitudine di
questa famiglia era quella di dare per scontato,
ciascun membro, di essere così intelligente da capire,
senza confrontarsi con lui, il pensiero dell'altro. Ora
figuriamoci se due povere donnette cresciute durante
il fascismo potevano comprendere il pensiero dei più
giovani che avevano studiato e per di più nei tempi
della prima repubblica. Fu un equivoco colossale. Il
mio cinismo, lo confesso, si espresse in favore di un
taglio netto con gente, sia pure fratelli e sorelle, che
non sapeva nulla di nulla, il che poteva anche essere
perdonabile, ma che pretendesse di sapere quello che
c'era da fare, non sapendo nulla di nulla, questo non
era tollerabile. Il mio cinismo, ripeto, venne fuori con
tutta la forza iconoclasta di chi non ne poteva più di
imbecilli che toccava di stare a sentire su temi dei
quali non avevano alcun diritto di parlare. Insomma,
secondo me, Cettina e Ginetta divennero le maggiori
responsabili della mancata crescita della famiglia né
più né meno di quanto il fascismo lo era stato per
l'Italietta che ai miei tempi giovanili tentava
faticosamente di riprendere a crescere.
Dunque, tagliare i rami secchi e dato il mio
mestiere tagliarli dopo un attendo esame: furono
decisamente respinti Cettina, Ginetta, Pierino e
Giacomo, responsabili di non aver studiato e di voler
parlare pur sapendo di non aver studiato.
Naturalmente con loro fui costretto a bocciare anche
mogli mariti, figli, parenti e affini, complici della loro
131
inettitudine, perché altrimenti sarei ricaduto sotto il
solito giochetto di Ginetta che, una volta sconfitta e
passata alla muta ostilità, poi quando servivi ti
raccattava mandando avanti uno dei suoi accoliti.
Il che fece subito anche in questa occasione.
Siccome nella sua folle illusione di fregarmi o chissà
di riportarmi sulla buona strada della sua verità
rivelata mi mandò in casa la sua prima figlia col
marito, dei quali io ero diventato molto amico
essendo quasi coetanei. I due vennero a dirmi che loro
si dissociavano dalla posizione assunta dalla madre.
In realtà dire “mandò” forse è inesatto. Gli accoliti di
Ginetta si muovevano come se fossero telecomandati.
Lei li invitava a cena, gli raccontava un po' di balle
contro il malcapitato da punire o da perseguire, nella
fattispecie io, e tra le righe gli faceva capire che in
fondo quello era uno scemo e che doveva essere
recuperato tra le fila della sua armata Brancaleone
con grande onore e lode di chi vi fosse riuscito. Gli
accoliti sentendosi investiti di un compito di alto
valore morale si muovevano con motu proprio risibili,
come io sapevo bene. La mia risposta ai due
prevedibilissimi visitatori fu: “Casa mia per voi è
sempre aperta. So benissimo che voi non c'entrate
niente.” Se ne andarono via con la coda tra le gambe
ma non ancora convinti. Tentarono un secondo blitz
(ma l'assenza di Massimo, marito di Romina, era già
di per sé illuminante) al quale seguì il silenzio più
assoluto e definitivo. Cosa successe? Romina capì
132
parlando che io non avevo più alcuna intenzione di
subire le chiacchiere idiote della madre. Aveva con sé
i primi due figli, Sirena e Manuel, e asseriva, secondo
lo standard conversazionale preferito dalla famiglia,
che il maschietto era tutto spiccicato a suo padre, cioè
a Desiderio, come diceva anche Ginetta. La mia fu
una stroncatura brutale: “Tua madre, come al solito,
dice stronzate; si vede chiaro che Manuel è spiccicato
al padre!” Vogliamo scherzare? Come ti permetti di
definire stronzate le verità del Vangelo secondo
Ginetta? Non lo disse, ma lo pensò e da quel giorno
non la vidi più né vidi più suo marito, più perspicace
di lei.
La cosa ovviamente non mi dispiaceva affatto:
erano fastidi in meno che ti davano per questioni di
lana caprina tenendoti sulla corda fino a quando non
arrivavano con richieste di soldi. Infatti le
primogeniture e investiture varie servivano alle mie
prime sorelle semplicemente per sfruttare gli ultimi
nati secondo una morale che non ho mai capito ma
che comunque sembra essere comune non solo al
popolo italiano ma anche a qualsiasi lebenswelt di
qualsiasi paese. Quello che mi dispiacque fu
l'allontanamento dei figli di Pierino, ormai
grandicelli, ai quali mi ero sinceramente affezionato:
a Melania, per la sua bellezza mozzafiato conservata
almeno fino ai quarant'anni; e al piccolo Andrea che
aveva
un'intelligenza
notevole
poi
tarpata
dall'ambiente popolar-cittadino in cui fu costretto a
133
crescere. Due ragazzi splendidi che avrebbero
meritato miglior sorte e che invece sono stati a loro
volta convogliati verso il lebenswelt dove hanno
addirittura ripetuto il nome dei nonni ai loro figli.
Povere creature sempre a fare i conti con la fine del
mese e sempre a partecipare a una corsa, quella
dell'ambizione, della quale non conosceranno mai il
traguardo. Chissà, penso, se avessero avuto la
possibilità di frequentarmi forse avrebbero avuto un
destino migliore; ma poi faccio il confronto con i figli
di Gisa, da me praticamente cresciuti, e vedo che il
risultato è sempre lo stesso. Dunque sono io che in
qualche modo, e non so neanche bene perché, mi sono
tirato fuori da questa famiglia che ha tentato di
rovinarmi la vita senza per fortuna riuscirci.
Melania, poverina, mi capitò a tiro poco prima
che la questione esplodesse, mia madre ancora viva.
Venne da noi parcheggiata per un intero pomeriggio e
perciò si era portata qualcosa da leggere: l'ultimo
numero di “Grand Hotel”, un settimanale a fumetti di
contenuto sentimentale venduto soprattutto alle donne
prima che fossero completamente fagocitate dalle
soap opere o telenovelle. La cosa chissà perché mi
irritò molto. Pensai che quella ragazzina, come poi
avvenne, sarebbe stata distolta dalle buone letture a
causa delle scemenze contenute sulle pagine di quel
giornale inqualificabile. Glielo presi e glielo strappai
in lungo e in largo riducendolo a pezzetti non
ricomponibili. La ragazzina che era tanto bella quanto
134
mite di carattere rimase senza parole e sembrò non
avere reazioni. Aveva su quel bel visetto chiaramente
disegnato un punto interrogativo. Naturalmente io
aggiunsi spiegazioni con voce molto decisa, ma la
piccola sembrò non capire. Insomma sbagliai.
Quell'intervento era più su me stesso che, da
ragazzino, grazie alla stragrande maggioranza
femminile della famiglia, quel giornale era una
scadenza settimanale fissa, da me divorata né più né
meno che dalle altre sorelle. Ancora me ne pento e
non so se Melania se ne ricorda più, se no le chiederei
scusa spigandole che fu un errore imperdonabile dal
quale non so ancora assolvermi. La cosa naturalmente
arrivò alle orecchie di mia cognata che aveva con i
più forti (e io ero ritenuto da lei fra questi) un
atteggiamento di soggezione, per cui tacque
delegando a Ginetta la risposta, come con i più deboli
un atteggiamento arrogante insopportabile; poi alle
orecchie di Pierino che non se ne diede per inteso: per
lui leggere, questo o quello, serviva a poco; poi a
quelle di Ginetta che pubblicò vari articoli sul suo
giornalino scatenandomi contro una vera e propria
campagna stampa che tendeva ad accreditarmi come
lo scemo di casa. So per certo infatti che quando i
miei atteggiamenti la colpivano indirettamente
Desiderio, l'alfiere incaricato nei casi più gravi,
interveniva dicendo: “Sandro? Ma quello è scemo!”
Qualche tempo dopo l'arroganza di Ginetta
provocò da parte mia una risposta sbagliata perché
135
andava a colpire non lei ma sempre la povera Melania
con una condotta che Desiderio bollò sempre col
solito “ma quello è scemo!” Melania faceva la
comunione e la madre, ammaestrata da Ginetta, non
aveva invitato nessuno degli zii tranne Ginetta stessa
e famiglia me perché dovevo accompagnare mia
madre. La cosa ovviamente provocò le rimostranze di
tutta la famiglia perché, secondo le regole dettate da
Assuntina nel disperato tentativo di mettere un poà
dàordine nel nostro branco di matti, o invitava tutti gli
zii o non doveva invitare neanche Ginetta e me. La
protesta si espresse attraverso mormorazioni che non
dovevano pervenire alle orecchie della regina, cioè
Ginetta sennò quella chissaà che vendette avrebbe
perpetrato. E comunque la conclusione era solita. Va
beà, sopportiamoò ma se invita pure Tony... E Tony
naturalmente era stato invitato! Allora io che
incominciavo a pormi come làavversario dichiarato di
Ginetta accompagnai mia madre con la mia
cinquecento e, avendo visto allàarrivo in chiesa che
Tony era lì dissi a mia madre di scendere che io
andavo a parcheggiare. In realtà girai la macchina e
me ne andai. In una famiglia normale Pierino mi
avrebbe dovuto chiedere spiegazioni, ma se ne guardò
bene ben sapendo che se me le avesse chieste io avrei
fatto una dura requisitoria su di lui sulla moglie e sul
loro essere assolutamente succubi di lei. Solo
Desiderio commentò col solito mantra e Ginetta
pubblicò vari articoli sul suo giornaletto consumato
136
solo dai suoi lettori affezionati. Ma di tutto questo la
piccola Melania non seppe nulla e non capiva nulla.
Oggi a ragon veduta mi rendo conto di aver avuto
torto nel comportarmi così in a festa che in fondo era
solo la sua festa. Io non mi giustifico se non
attribuendo la responsabilità della mia condotta alla
dipendenza da Ginetta di cui a quel tempo non mi ero
ancora liberato.
Sempre a proposito di Melania, mi ricordo
anche che alcuni anni prima quando, bambina, veniva
parcheggiata in casa nostra, io e un mio nipote, di cui
parlerò in seguito, quasi mio coetaneo, approfittando
del fatto che la nonna materna, la sora Marianna, era
un donnone di quelli antica Roma, novanta chili circa,
facevamo un esperimento per vedere se la mente
infantile fosse condizionabile. Ci armavamo entrambi
di un grosso imbuto ricavato da un foglio intero di
giornale e poi a due voci dicevamo utilizzandolo
come amplificatore: “Com'è nonna Marianna?”
“Trombona.” ripetendo il mantra tutte le volte che
potevamo. Ma Melania, come il pappagallo di Enzo
Tortora, non volle darci mai soddisfazione mandando
a farsi fottere il nostro esperimento. Senonché in altro
contesto, cioè nella casa di Ginetta, mentre la
bambina era in braccio a Ginetta stessa, un giorno che
arrivò la nonna Marianna, Ginetta ovviamente le disse
con tono interrogativo: “Ecco nonna Marianna: non
vai da nonna Marianna?” E la bambina, per tutta
risposta, rivolta proprio alla nonna, disse con grande
137
chiarezza “Trombona!”. L'uscita fu il trionfo mio e di
mio nipote e, con grande mia soddisfazione, uno
scorno per Ginetta che non seppe come giustificare
quel comportamento. Per fortuna che la nonna
Marianna era una donna di una saggezza che dire
popolare è dir poco. Confezionava piatti della cucina
romana, come per esempio i peperoni ripieni e messi
in forno, che erano una delle squisitezze più ambite
dai buongustai di famiglia; ma io ebbi modo di
assaggiare i suoi rigatoni con la pajjata e la trippa,
piatti ormai quasi in disuso, ma di un gusto
assolutamente unico.
Il Sor Sirio e la Sora Marianna erano proprio
romani romani de sette generazioni e della Roma del
primo novecento conservavano usi e costumi. Si
erano sposati ed erano andati ad abitare a palazzo
Lamperini, lo stabile più celebre del quartiere San
Lorenzo perché, a quei tempi, ricettacolo di gente di
ogni risma, dal ladro professionista al tipografo
antifascista. In quella temperie era nata e cresciuta
Silvana insieme con le sorelle. Tre ragazze tirate su
nel massimo rispetto della religione e della famigliaò
solo che Loredana era troppo succube dei propri
istinti, per cui, mamma e papà va bene, gesucristo e la
madonna pure, però il cazzo è il cazzo e quando se
tratta de scopà nun ve conosco più. Era, come detto, il
contrario di Silvana che si era lasciata irretire e, per
così dire, castrare dai dettami di quell'educazione per
cui fu sempre ritrosa anche in regime matrimoniale
138
rispetto all'attività sessuale. Ma a Pierino era proprio
questo che jje piaceva: doverla ogni volta
riconquistare e indurla con tenerezza a lasciarsi
andare e a concedersi: non era come quella troia de
Loredana che appena la guardavi se spogliava e se
metteva a disposizione. Insomma Sirio e Marianna
avevano fatto di tutto per crescerle sane e educate e in
fondo, a parte le sregolatezze di Loredana, c'erano
riusciti. E con queste tre figlie avevano creato una
specie di tìaso femminile nel quale Sirio si inseriva
discretamente, basta che le cinque donne, vecchia
suocera compresa, jje facessero trovà sempre il
pranzo pronto e la biancheria lavata e stirata. E in
effetti quella casa assomigliava più ad una tavola
calda con lavanderia che a una casa vera e proprio ed
entrando sentivi sempre un misto di profumi, cucina
più pulizia, che fu proprio quello che fece innamorare
Pierino. Ormai in casa nostra mia madre non era più
in grado di creare da sola un'atmosfera simile e quindi
quando Pierino la ritrovò in casa di Silvana non gli
sembrò vero. Pierino non sposò solo Silvana, sposò
tutta la famiglia che di buon grado accettò quel
matrimonio. Ed ecco perché il comportamento di
Loredana è spiegabile e in parte giustificabile. Quella
tresca che fece da coté a un matrimonio ben riuscito
non era che il necessario complemento che a Pierino
toccava come necessaria compensazione del triste
destino a cui dovette andare incontro. Gli ultimi due
anni di officina mentre lavorava con grande fatica le
139
immagini di Loredana discinta che correva tra le
macchine gli tornavano alla mente e gli rinforzavano
la speranza che forse un giorno, guarito, si sarebbero
potute ripetere, ma non fu così. E quando morì
Loredana piangeva più disperata di Silvana, come se
la vedova fosse lei e non la sorella.
La famiglia, la nostra, intendo, venne dunque
totalmente scompaginata da quello scemo che ero io.
Io avevo letto anni prima il celebre saggio di Cooper
per cui non solo procedevo alla diaspora dei
componenti della mia famiglia ma divenni anche il
teorico della distruzione della famiglia. E lo sarei
tuttora; ma come si sa si nasce incendiari e si muore
pompieri. Con gli anni, e ne sono passati tanti, mi
sono reso conto che l'essere umano è naturalmente
portato ad accompagnarsi con altri esseri umani sulla
base di leggi naturali che in genere sono tutte quelle
contenute nella parentela. E dunque ho pensato che
non si può completamente distruggere il modello
della famiglia; ma che un modello moderno e più
efficiente va comunque elaborato. Ho già detto in altri
luoghi di questi romanzo cosa penso in linea di
massima. Né per altro son io un sociologo o un
filosofo che si possa occupare autorevolmente di
queste faccende. Però la facessero finita con questi
elogi della famiglia senza criticarla così com'è perché
oggi la famiglia è lo zoo di vetro di Tennessee
Williams, cioè un orrendo contenitore in nome del
quale vengono compiuti i peggiori crimini, ma
140
soprattutto viene impedito ai suoi componenti di
crescere secondo le loro possibilità. Io che ho fatto
l'insegnante sono in grado di affermare sulla base
della mia personale esperienza che quando i ragazzi si
rifiutavano di studiare non lo facevano perché non
attrezzati o non dotati; lo facevano perché in casa
trovavano una totale indifferenza, se non addirittura
ostilità, verso lo studio. La società vuole che tu studi?
Può essere che serva, ma tu fa come ti pare: se ti va
bene, meglio; se no, è lo stesso.
I figli di Pierino, tutti e due, sono rimasti fermi
alla terza media e non sono riusciti a racimolare uno
straccio di diploma di media superiore perché il padre
e, peggio, la madre, avevano avuto un cattivo
rapporto con la scuola, non l'avevano mai considerata
come una possibile fonte di miglioramento anche
economico e quindi non avevano mai incoraggiato
quei due ragazzi a mettersi sotto e a studiare. D'altra
parte, fuori della famiglia, incontravano la famiglia di
Ginetta o di Giacomo, dove mejjo me sento, si dice a
Roma. Mio fratello morì con la certezza che la figlia
avesse preso il diploma che non aveva preso,
ingannato in ciò da un complotto dell'intera famiglia.
Questo è un caso evidente di come la famiglia può
condizionarti in modo negativo; ma i casi e gli
aneddoti possono essere tantissimi.
A un certo punto la figlia femmina bella
com'era andò troppo avanti con un primo amore pieno
di passione e di trasporto e rimase in cinta. La madre
141
non esitò a nascondere il tutto a mio fratello e a far
abortire la ragazza. Naturalmente in modo clandestino
perché allora non erano ancora state varate le leggi
sull'aborto. Personalmente non ho nulla contro
l'aborto legale se si mette la donna in condizione di
poter scegliere liberamente e a quel punto lasciarla
scegliere; ma se le istituzioni non sono in grado di
garantire ciò, dovrebbero almeno vietarlo almeno in
certi casi. Invece ho sentito più di un caso in cui
questa pratica viene oggi imposta dalle famiglie a
ragazze minorenni che non hanno alcuna possibilità di
difendere se stesse e il bambino che portano dentro.
Dunque mi misi di buzzo buono a distruggere
la famiglia. Ginetta era già fuori da tempo; Cettina fu
fatta fuori dalla celebre telefonata; Giacomo, a causa
della moglie, cioè la cagnolina di Ginetta, dovette per
forza iscriversi nelle fila dell'esercito dei peracottari,
come io li chiamavo. E Pierino? La famiglia di
Pierino si tagliò fuori da sola perché era totalmente
plagiata da Ginetta, e non solo quella di Pierino, ma
anche nel frattempo quella di Sirio; Pierino come al
solito non prese posizione e siccome la sua officina
era vicina a casa mia e io non avevo niente da
contestargli perché le autrici di quello stupido
movimento erano solo le prime due continuammo a
vederci per questioni di lavoro. Io allora avevo una
cinquecento fiat che faceva ridere i polli e che ogni
tanto andava in panne e allora andavo subito da
Pierino per sapere che cosa dovevo fare. Pierino mi
142
faceva regolarmente il lavoro e mi faceva
regolarmente pagare, dicendomi però “Per te”, il che
significava che aveva fatto la cresta più che agli altri;
ma a me la cosa non interessava. Non capivo e non ho
mai capito nulla di meccanica e dunque a me bastava
che la macchinetta, riparata da un meccanico di
fiducia, ripartisse e continuasse a camminare fino al
successivo intoppo.
Strana situazione allora quella della nostra
famiglia! Nello scontro fra peracottari, e non, si
inserivano partiti trasversali come maschi e femmine
(e io blateravo contro il matriarcato imbelle ed
imbecille che imponeva quella separazione a tutta la
famiglia) oppure come giovani e vecchi (e io
blateravo contro le scelte anti-scolastiche di quelli che
erano iscritti tra i peracottari) oppure pro o contro
Tony (e io inveivo contro le due sceme che finché lo
avevano accolto loro andava tutto bene; adesso che lo
accoglieva Gisa con il beneplacito mio e del marito,
Gisa invece era una mignotta). Insomma un gran
pasticcio. Pierino se ne chiamava fuori perché a lui
bastava che la sera rientrando trovasse il cantuccio
accogliente della famiglia, cibo abbondante che gli
forniva le energia per quei tour de force terribili ma al
tempo stesso gli stava devastando il fisico dentro e
fuori. In particolare faceva grande consumo di carne e
in particolare carne fritta che, non è scientificamente
provato ma quasi sicuramente è così, agevolò la
deteriorazione delle cellule e la comparsa delle cellule
143
cancerogene.
La rivelazione del male fu improvvisa e
crudele, aveva poco più di quarantacinque anni. Un
male insistente al fianco, la lastra e la rilevazione di
una massa oscura al polmone sinistro. Incominciò per
Pierino la via crucis delle operazioni e dei ricoveri
successivi: le improvvise riaccensioni della speranza
che fosse tutto finito. La crudeltà dell'intreccio delle
menzogne che i peracottari gli intessevano intorno a
che fine non si capisce perché. Lui era pronto ad
affrontare il suo destino. Dal radiologo c'era andato da
solo. Me lo raccontò lui stesso. Quando il radiologo
gli rappresentò la gravità della situazione lui cadde a
terra svenuto. Come poteva a quell'età e nella
situazione in cui si trovava lui e la sua famiglia
accogliere col dovuto sangue freddo una notizia così?
Ma fu l'unico momento di defaillance forse raccontato
solo a me. Poi raccolse le sue forze e cominciò a
combattere come un leone mai dando a vedere che si
era rassegnato. Mia sorella Assuntina mi disse che la
sera prima di morire l'aveva salutata invitandola a
tornare il giorno dopo per stappare una bottiglia e
festeggiare l'avvenuto acquisto della casa che abitava
con la moglie e i figli. Aveva perso i suoi bei capelli e
in testa a destra era comparso di nuovo un bozzo che
preannunciava l'ennesimo inutile intervento. Fra
l'annuncio del male e quella tremenda manifestazione
erano passati cinque anni. Il mio povero fratello a
poco più di cinquant'anni doveva lasciare il mondo e
144
la vita che aveva amato senza metterli mai in
discussione, accettandoli per così com'erano. Anche
questa era un'eredità della sua prima formazione
quando il rifiuto della scuola gli impedì di
comprendere che né del mondo né della vita ci si può
fidare: che avrebbe fatto bene a stare più sul chi va là,
a non farsi manipolare da niente e da nessuno. Ma
non volle accettare questo sacrificio iniziale per
accettare quello finale.
La sua morte sconvolse tutti. Nessuna delle
morti precedenti, comprese quelle dei genitori, che in
fondo tutti avevamo sentito, per quanto drammatiche,
come iscritte nell'ordine naturale delle cose, ci aveva
colto impreparati come ci colse quella di Pierino.
Avevo avuto cinque anni per assuefarmi all'idea della
sua scomparsa. Spesso lo avevamo assistito durante i
ricoveri e qualche volta ci eravamo mossi per vedere
se c'era consentita qualche alternativa: ma quando
arrivò la notizia della sua morte io fui strangolato da
un nodo alla gola che non mi consentì di telefonare
agli altri per comunicare loro, come si dice, la ferale
notizia.
Morì a casa sua, nel suo letto, circondato
dall'affetto di tutti noi, peracottari e no, e la sua morte
fu seguita da un lungo mortorio in cui il litigio latente
tornò subito a galla. Ginetta, come al solito, cercò di
speculare sulle spese del funerale. Naturalmente
mandò avanti la seconda cagnolina, cioè la moglie di
Giacomo, Margherita, per chiedere a tutti i fratelli se
145
volessimo concorrere alle spese per i fiori. Io sapevo
che fra le sue clienti c'erano delle fioraie cimiteriali e
che quindi avrebbe avuto degli sconti dei quali noi
mai avremmo usufruito. Perciò quando Margherita mi
telefonò, la mia risposta fu durissima. No, io farò un
cuscino per conto mio e solo a nome mio. La povera
Margherita, che era più scema di Ginetta e Cettina
messe insieme, mi rispose: “Voi Alessandri siete tutti
matti.” “Ecco, brava. Adesso lo sai anche tu!” E così
si concluse con un flop l'ennesimo tentativo di Ginetta
di metterci in mezzo tutti facendo la cresta solo per
sé.
La sera precedente il funerale, mentre Pierino
giaceva già nella sua bara sulla quale erano state fatte
duemila discussioni sempre perché Ginetta cercava di
guadagnare un po' dappertutto, accadde, non sembri
irriverente dirlo, un episodio divertente. Del resto il
proverbio dice “Non c'è nozze senza pianto né c'è
morte senza riso.” Si era precipitata in casa di mio
fratello una nostra cugina più ignorante, se possibile,
delle mie sorelle. Diomira, ignorante quanto brutta, si
dava però un gran da fare per assistere i convenuti che
erano tanti. Quindi si era portata una bella scorta di
caffè e ne faceva in continuazione per tutti. Per caso
eravamo lì in cucina io, mia sorella Gisa e alcuni altri.
Diomira stava distribuendo l'ennesima macchinetta di
caffè quando entrò Isabella evidentemente turbata
dalla vista dello zio morto. Diomira, compresa di
quell'emozione, le porse una tazzina di caffè
146
dicendole: “Isabè, lo voleresti un po' de caffè?”. Le
lacrime sgorgavano piovose: l'evidente errore non
fece ridere nessuno; Isabella sorseggiò la sua tazzina
di caffè e andò subito nell'altra stanza per evitare di
commentare in qualsiasi modo il “voleresti” di
Diomira. Senonché un po' di tempo dopo toccò a Gisa
di fare una macchinetta di caffè e Gisa, non meno
ignorante delle altre, aveva però il bel vezzo di
prendere in giro chiunque, tipico di Bolano e in
genere tipico di chi, ignorante per propria scelta,
crede di poter sfottere, dal piccolo pulpito che si è
scelto, chiunque si trovi in difetto.
Gisa fece il caffè. Per caso rientrò Isabella e
Gisa senza chiederle se lo volesse o no glielo porse
dicendole: “Tiè, Isabè: svelta, sennò te vola.” Il gioco
linguistico sottostante alla trovata era notevole e così
nessuno poté trattenersi dal ridere; neanch'io, ma non
ne ebbi gran piacere né provai alcun senso di colpa.
Pensai che Pierino, a parti invertite, avrebbe riso
anche lui, perché questo era il mondo che lui aveva
amato senza discussione, un mondo in cui si è capaci
di ridere sul serio, cioè anche sulla o nella morte.
147
148