prime 24 pagine del libro

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prime 24 pagine del libro
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Carin Gerhardsen
La casa di pan di zenzero
TRADUZIONE DI
Renato Zatti e Gabriella Bonalumi
Dalai editore
www.bcdeditore.it - [email protected]
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Traduzione dallo svedese di Renato Zatti e Gabriella Bonalumi
Titolo originale: «Pepparkakshuset»
© 2008 Carin Gerhardsen
First published by Ordfront, Sweden
Published by arrangement with Nordin Agency, Sweden
© 2011 Baldini Castoldi Dalai editore S.p.A. - Milano
ISBN 978-88-6620-102-1
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KATRINEHOLM, OTTOBRE
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La villa marrone di fine secolo si staglia imponente sulla sommità
della collina erbosa, circondata da alti pini. Ma gli angoli bianchi
dell’edificio e gli infissi con gli spigoli smussati le conferiscono
un’aura fiabesca e allo stesso tempo invitante. D’estate gli alberi regalano l’ombra ai bambini che vi giocano intorno, ma adesso, in
autunno, sembrano quasi minacciosi, guardie severe incaricate di
proteggere l’asilo dal gelo dell’inverno e da altri ospiti sgraditi. La
prima neve copre i dintorni come uno straccio bagnato e non ha
ancora fatto in tempo a sciogliersi. Il silenzio è assoluto, fatta eccezione per un cane che abbaia in lontananza.
All’improvviso la porta d’ingresso si spalanca e un nugolo di
bambini si precipita fuori: bambini chiassosi con vestiti nuovi e intatti oppure vecchi e sdruciti, bambini alti e bambini bassi, bambini magri oppure paffuti, bambini biondi, bambine more con le
trecce, bambini con le lentiggini, con occhiali o berretti, bambini
che camminano e bambini che saltano, bambini rumorosi e bambini che ascoltano, bambini che corrono davanti a tutti e bambini
che inseguono.
La porta si chiude sbattendo, ma subito qualcuno la riapre e
appare una bambina con un berretto di pelliccia bianca e un piumino rosso. Appena dietro di lei c’è un bambino con un piumino
blu scuro, sciarpa e un berretto bianco, rosso e nero del Ksk; bisogna tifare Ksk, almeno in questa zona della città. I bambini non si
parlano, e la femmina, che si chiama Katarina, cammina a passo rapido giù per la collina finché non raggiunge il grande cancello nero. Non senza una certa fatica riesce ad aprirlo a sufficienza per
avere il tempo di sgusciare fuori dalla fessura prima che si richiuda
alle sue spalle. Subito dopo sopraggiunge il maschio, che si chiama
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Thomas, e che prima di aprire il cancello e varcarlo sfregandovi
contro si ferma per un istante e prende un profondo respiro.
Una volta sul marciapiede le sue paure trovano conferma: tutti i bambini si sono raggruppati all’angolo dall’altra parte della
strada. Katarina, apparentemente senza esitare, attraversa la carreggiata in diagonale e finisce direttamente nelle fauci dell’animale feroce. Thomas prende in fretta una decisione e, invece di attraversare anche lui la strada, svolta a sinistra per tornare a casa facendo il giro lungo. Fa appena in tempo a muovere qualche passo
che loro si avventano sulla bambina. Una delle femmine, l’ingegnosa Ann-Kristin – che ha sempre un sorriso stizzito e lo sguardo
cattivo – le strappa il cappello e lo lancia a Hans – Re Hans – mentre gli altri bambini approvano tra urla e risate.
Thomas si ferma e valuta se debba cercare di aiutare Katarina,
ma non riesce a finire il pensiero che vedono anche lui. A un segnale di Hans i più infervorati attraversano la strada correndo e si
scaraventano contro Thomas. Gli altri bambini li seguono come
cani assetati di sangue e Katarina rimane sola, sbalordita e sollevata: malgrado tutto non tocca a lei, stavolta. Si china e raccoglie il
cappello di pelliccia non più così bianca, lo indossa comunque, e
attraversa anche lei la strada per seguire lo spettacolo da vicino.
Da dove arriva tutta questa inventiva? E questo affiatamento
che coinvolge ventuno bambini, forse ventidue, su ventitré? E questa indiscussa autorità che fa sì che metà del gruppo i, improvvisamente e con un entusiasmo da adulti, si impegni a legare a un lampione, con sciarpe e corde per saltare, un bambinetto spaventato,
mentre l’altra metà raccoglie sassi per ferirlo?
Thomas, incapace di opporre resistenza, incapace di urlare, siede sull’asfalto bagnato e gelido. Immobile, silenzioso. Guarda i compagni rassegnato. Alcuni gli lanciano dei sassi: in testa, sul viso, sul
corpo. Altri gli sbattono ripetutamente la testa contro il lampione,
qualcuno lo frusta con una corda per saltare. Alcuni bambini ridono, altri si scambiano sussurri con un’espressione sprezzante e un
po’ maliziosa sulle loro faccine e altri ancora osservano soltanto, inespressivi. Ecco Katarina: adesso può stare con loro. Con i compagni.
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A un certo punto, durante il pestaggio, sul marciapiede passa
la maestra. Lancia un’occhiata rapida al bambino legato e ai suoi
compagni di gioco e alza la mano per salutare alcune delle bambine più vicine.
Con la stessa rapidità con cui è cominciato, tutto finisce. In
mezzo minuto i bambini si sono dispersi e sono di nuovo soltanto
normali bimbi meravigliosi che tornano a casa dall’asilo. Vanno
ciascuno per la propria strada, a uno a uno oppure in coppia, anche tre o quattro insieme. A terra, sul marciapiede, rimane un
bambino di sei anni, il corpo sofferente e un indicibile dolore.
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STOCCOLMA, NOVEMBRE
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Lunedì sera
Erano solo le quattro del pomeriggio, ma era già buio. La neve cadeva dal cielo a larghe falde umide che si scioglievano non appena
toccavano terra. Le macchine che passavano lo accecavano con i
fari, e doveva stare attento a non farsi schizzare quando camminava sul marciapiede. Perché le macchine vanno così forte da spruzzarlo con l’acqua sporca? Non è permesso schizzare i pedoni quando si guida la macchina, lo si impara a scuola guida. Ma forse non
lo vedevano; forse nessuno lo vedeva – il corpo insignificante, piuttosto basso, gli abiti scuri – mentre camminava nel buio. Il portamento non era dei migliori, e probabilmente aveva l’aria un po’ ridicola, perché i piedi non puntavano proprio dritti, ma un po’ all’infuori, come un clown. Ma non era un clown.
Era una persona taciturna, che non litigava mai, non contraddiceva mai nessuno. Nulla di strano in realtà, visto che non incontrava mai nessuno, se non al lavoro, naturalmente, là a Järfälla, dove faceva il postino in una grande azienda elettronica. Consegnava
tutta la posta interna ed esterna agli ingegneri, alle segretarie, ai dirigenti e a tutti i dipendenti dell’azienda. Era l’unica cosa che faceva, perché, ad esempio, non si fidavano a lasciargliela smistare.
Per questo c’erano altre persone più qualificate e altre ancora per
prendere le decisioni importanti, come ad esempio verificare che
gli indirizzi fossero scritti in modo corretto.
Lui non era bravo a prendere decisioni. E a pensarci bene, raramente aveva un’opinione su qualcosa. Le poche volte che restava a giocare con un altro bambino e se contro ogni aspettativa gli
ponevano una domanda su che cosa pensasse, be’, in effetti, lui
non pensava nulla di speciale. Perfino se chiedeva a se stesso qua8
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le fosse la sua opinione riguardo a una questione specifica, non sapeva dare una risposta sincera, perché il suo unico desiderio era
stare con gli altri bambini e fare quello che decidevano loro. In poche parole: compiacerli. Desiderava soltanto una cosa: essere accettato. Aveva quarantaquattro anni e non gli era mai successo.
Si chiedeva se quando questo suo unico desiderio fosse stato
esaudito sarebbe salito di un gradino nella scala dei bisogni e avrebbe improvvisamente cominciato ad avere opinioni proprie sulle cose: è una cosa automatica, quando si è una persona apprezzata?
Guardò in alto, verso le finestre sulla facciata della casa dall’altra
parte di Fleminggatan. Erano gradevolmente illuminate e risultavano invitanti nel buio dell’autunno, con piante in vaso e tende, lampade dai bei paralumi, ventagli del sud-est asiatico e altri oggetti ornamentali. Alcune finestre sfoggiavano già le luci dell’Avvento, come
a sottolineare ulteriormente l’idillio, e dietro ogni finestra illuminata
abitava una famiglia felice, una coppia felice o, in ogni caso, una persona felice. Lo si capiva dalla luce e dalla accogliente cornice.
La finestra della sua stanza era invece un buco nero, se non per
un ficus spoglio e per la corda della tapparella che faceva capolino.
Lo stesso valeva per la finestra della cucina, completamente vuota,
fatta eccezione per la vecchia radio a transistor, lì da sola come unica protagonista. In realtà qualche rivista d’arredamento la leggeva
con interesse. Non perché cercasse ispirazione per casa sua, visto
che non c’era alcun motivo per curare un appartamento in cui viveva solo lui. Solo lui: una persona insignificante, forse nessuno. Le
macchine che schizzavano l’acqua dal ciglio della strada nel crepuscolo autunnale non lo vedevano, e nessuno lo sentiva; e lui sentiva
a malapena se stesso. No, leggeva le riviste di arredamento per la
stessa ragione per cui sbirciava nelle case altrui. Per muoversi con la
fantasia in un altro mondo, un mondo di persone gentili dal sorriso
caldo e con grandi cuscini morbidi e colorati sui divani.
Oggi, in realtà, al lavoro era stato quasi invitato a mangiare una
fetta di torta. Non capita spesso, perché nel reparto posta non ci
sono molte occasioni speciali da festeggiare. Inoltre lui si ferma lì
solo qualche minuto quando va a prendere la posta da distribuire
ai diversi reparti.
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In ogni caso, quando aveva consegnato la posta all’11, erano
tutti seduti a mangiare una torta, per un motivo a lui sconosciuto.
Si sente sempre un po’ a disagio quando deve consegnare la posta
all’11, perché quando arriva lui, nella sua uniforme probabilmente ridicola, sono sempre seduti in pausa caffè. Uniforme forse è dir
troppo: si tratta di un paio di pantaloni blu e di una giacca dello
stesso colore, ma in ogni caso lui è l’unico a indossare quei vestiti,
e non è mai un bene dare nell’occhio.
E così loro lo vedono o, per meglio dire, una persona lo vede.
Un vero simpaticone, che scherza su tutto e tutti e ha un sacco di
opinioni su qualsiasi argomento. Gli altri ridono alle sue battute e
sembrano condividere la maggior parte dei suoi pareri, perché non
viene mai contraddetto. «Ciao, postino!» aveva detto oggi, mentre
sedeva con le braccia incrociate e le gambe allungate sotto il tavolo del divano. «Vuoi un po’ di torta?» Senza aspettare la risposta
aveva proseguito: «Allora prendi il tuo monopattino e portami
quel circuito integrato al Tx, come ti ho già detto ieri e l’altro ieri.
Siete tutti ritardati alla posta o soltanto tu?» Risate degli altri seduti al tavolo, forse per le parole che aveva scelto, forse per l’appellativo «postino» o forse solo per abitudine. Niente torta quindi,
perché lui non ha le competenze per fare il fattorino. Il suo compito è distribuire la posta.
Ritardato mentale non lo è. Certo, non è istruito ma legge parecchio, sia riviste sia romanzi. Difficilmente può essere classificato come normodotato, ma ritardato non lo è. I primi anni di scuola era stato perfino un bravo studente, ma non era servito a nulla.
A Katrineholm non si doveva essere bravi a scuola, era proibito. In
realtà non si doveva essere bravi in niente, a parte il bandy, il calcio e roba del genere. C’erano regole fisse non scritte per tutto: in
cosa si doveva essere bravi (ginnastica), in cosa non si doveva essere bravi (musica, lingua, cucito, comportamento), in cosa si doveva essere mediamente bravi (le altre materie), cosa bisognava indossare (vestiti delle marche giuste), cosa non si doveva indossare
(berretto, occhiali e vestiti confezionati in casa), dove si doveva
abitare (case in affitto), quali erano i valori politici giusti (socialdemocratici, ma assolutamente non comunisti), per quale squadra di
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bandy si doveva tifare (il Ksk, non il Värmbol). Soprattutto non ci
si doveva distinguere o essere diversi.
Per un uomo adulto, qui a Stoccolma, naturalmente valgono
altre regole. Qui le idee personali sono apprezzate, e un aspetto diverso viene spesso accolto positivamente. Soprattutto si ha bisogno di un’istruzione e di fiducia in se stessi.
È difficile vivere. Sua madre è morta quando lui era molto piccolo, il padre faceva i turni in una tipografia e non aveva molto tempo da dedicargli. Era stato un padre amorevole, ma gli mancavano
le competenze su come tenere una casa o educare un bambino. Dopo decenni da fumatore accanito, anche lui era andato incontro a
una morte precoce e aveva lasciato un grande vuoto dietro di sé.
Per lui tutto è stato diverso fin dal principio, ma non è mai riuscito a capirne il perché. È vero, parlava il dialetto sbagliato – aveva trascorso la prima infanzia a Huskvarna – ed era praticamente
obbligato a portare il berretto; tuttavia non erano quelle le ragioni
principali. C’era sicuramente qualcosa di sbagliato nella sua personalità. Da piccolo era stato un bambino allegro ed espansivo. Gli
piacevano le persone, ma aveva ben presto capito di non piacere a
loro nello stesso modo. E lo avevano privato in fretta della sua individualità e del suo buonumore. Era stato all’asilo che aveva iniziato a cambiare fino a diventare quello di oggi. I continui maltrattamenti fisici, alternati all’isolamento e alle prese in giro, non lo
avevano trasformato soltanto in un’ombra silenziosa, ma gli avevano anche sottratto tutta la fiducia in se stesso.
Non era senza entusiasmo che a sette anni aveva iniziato la
scuola, curioso e interessato. Ma alzare la mano per rispondere alle domande si era rivelato fin da subito impossibile, perché bisognava guardarsi bene dal credere di essere qualcuno. Quando capitava una domanda a cui sapeva rispondere, tutti gli altri si scambiavano occhiate e risatine. Se rispondeva in maniera sbagliata,
erano risate generali. Parecchi dei bambini che lo avevano tormentato all’asilo frequentavano la sua stessa classe, e quelli che
non lo conoscevano furono indottrinati in fretta su come bisognava trattarlo. Durante l’intervallo lo picchiavano, cantavano canzoncine su di lui oppure se ne stava da solo a guardare gli altri giocare. Già durante i primi anni delle elementari capitava che man11
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casse da scuola tutto il giorno, rimaneva a casa a letto malato – mal
di testa e mal di pancia – o fingeva di esserlo. I risultati scolastici
ne risentirono e giunto alla nona classe abbandonò la scuola. Ottenne un posto, non scelto da lui, come apprendista in una merceria, dove faceva ciò che gli veniva detto di fare.
Gli anni della scuola erano stati dieci anni buttati via, ma forse
per i bambini di adesso le cose andavano meglio. Qualche giorno
prima, al telegiornale, avevano trasmesso un servizio sul fortunato
«Progetto-Katrineholm», come l’aveva chiamato il conduttore, mentre nel corso dell’intervista il borioso assessore comunale Göran
Meijer lo aveva definito «Progetto Colle del Bosco», dal nome della
scuola elementare dove per la prima volta era stato introdotto il concetto positivo dell’antibullismo. Thomas si chiedeva se i nuovi metodi, descritti con paroloni quali «rispetto per l’individuo», «contatto fisico», «controllo da parte dell’adulto», «tutoring», tollerassero
anche il dialetto di Huskvarna e i berretti del Värmbol.
Dopo l’apprendistato alla merceria si era trasferito a Stoccolma,
dove aveva vissuto a pensione dal fratello della nonna paterna, che
abitava da solo in un monolocale a Kungsholmen, e aveva finito la
scuola dell’obbligo alle serali. Contro ogni previsione, e senza meriti particolari, era riuscito a ottenere il lavoro che aveva tuttora. Lo
zio Gunnar era morto da tempo e l’appartamento adesso era suo.
D’un tratto interruppe le proprie riflessioni e si irrigidì. Rimase fermo sulle strisce pedonali, in mezzo alla strada, davanti all’edificio dove si trovava il suo appartamento. C’era qualcosa di molto familiare nell’uomo che aveva appena incrociato, e senza sapere
perché fece dietrofront e lo seguì. Gli occhi azzurri e i riccioli
biondi, i modi un po’ irrequieti ma decisi, una cicatrice sul sopracciglio sinistro, l’andatura… Tutto coincideva. Ma era davvero
possibile che dopo tanto tempo riuscisse a riconoscere una persona che non vedeva da quando aveva sette anni? Probabilmente
erano le riflessioni che aveva appena fatto sul famoso Progetto-Katrineholm a fargli vedere i fantasmi.
Il dubbio era legittimo, ma si sentiva intimamente sicuro. Nella
propria mente lo aveva visto quasi ogni giorno. Era certamente lui.
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L’uomo scese le scale della metropolitana, camminò con passo rapido fino al tornello e lo varcò dopo aver strisciato con gesto abituale la tessera dell’abbonamento. Scese in fretta per la lunga scala mobile che portava sottoterra. Giunto sulla banchina prese un quotidiano della sera dalla tasca del giaccone e lo sfogliò in attesa del treno.
Lui si tenne sempre dieci, dodici metri dietro all’uomo, poi si
sedette sulla panca dandogli la schiena; l’altro era in piedi e leggeva il giornale. I pensieri gli turbinavano in testa e non riusciva a dare una spiegazione sensata al suo comportamento. Durante gli ultimi vent’anni non aveva mai fatto nulla fuori dal normale: era andato avanti e indietro dall’azienda, aveva lavorato, aveva mangiato,
aveva dormito, era andato al cinema e qualche volta aveva fatto
una passeggiata, aveva letto e aveva guardato la tv. E ora, all’improvviso, era in metropolitana, diretto verso una meta sconosciuta
a inseguire un uomo che non vedeva da quasi quarant’anni. Fu colto da un’inaspettata sensazione di benessere. Stava succedendo
qualcosa nella sua vita, un’avventura. E gli piaceva.
***
Era sempre bello sprofondare sul sedile del vagone della metropolitana, di ritorno dal lavoro, con un giornale della sera in mano. Iniziava a lavorare all’agenzia immobiliare già alle sette del
mattino per poter tornare a casa in tempo per vedere i bambini
prima che andassero a dormire. Doveva alzarsi alle cinque e mezzo, e raramente riusciva ad andare a letto prima delle undici e mezzo, dunque era costantemente in debito di sonno. Ma aveva imparato a conviverci, e fra un paio d’anni i bambini se la sarebbero cavata in un altro modo. Allora lui e Pia avrebbero potuto dormire
fino a tardi nel weekend.
Aveva tre figli, tre bambini meravigliosi che malgrado la loro
testardaggine, i pianti e l’inspiegabile energia lo facevano comunque stare molto bene. La stessa cosa valeva per Pia, che aveva conosciuto mentre già studiava all’università, ma con cui si era fidanzato solo otto anni più tardi, quando si erano rincontrati a una
festa. Lei lavorava part-time come assistente dentistica nel sobborgo in cui abitavano, e il rapporto funzionava ancora alla per13
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fezione dopo quindici anni. Erano grandi amici e potevano parlare di quasi tutto.
Nel complesso si trovava bene anche sul lavoro benché, naturalmente, non gli piacesse tanto far vedere le case durante il fine
settimana. L’agenzia andava bene, e questa era la cosa più importante. Il lavoro come agente immobiliare era piuttosto vario e gli
concedeva una certa libertà; lui e il suo socio riuscivano a racimolare un bel po’ di soldi ogni mese, quindi anche economicamente
poteva dirsi soddisfatto.
Vista la condizione da cui era partito, non era scontato che sarebbe diventato una persona felice. Figlio unico, era stato cresciuto da una madre mezza alcolizzata che si manteneva come
parrucchiera – quando lavorava – e il cui unico interesse sembravano essere gli uomini. Si erano trasferiti spesso e non avevano
mai messo le radici da nessuna parte. Nel corso degli anni si erano alternati diversi patrigni più o meno seri. Da piccolo era sempre stato considerato casinista e litigioso, e la sua infanzia era stata contraddistinta da innumerevoli risse e punizioni. Probabilmente era davvero una peste. Il rendimento scolastico ne aveva
ovviamente risentito, ma per qualche ragione aveva comunque deciso di frequentare il liceo.
Lì tutto era cambiato. La madre si era trasferita di nuovo, ma
lui aveva scelto di non seguirla, era andato a vivere da solo in un
monolocale e aveva dovuto imparare a cavarsela per conto proprio.
Nei weekend lavorava in una stazione di servizio e dedicava le serate allo studio, al calcio e ai mestieri di casa. In quel periodo era
maturato, ed era riuscito a concludere il liceo con dei voti davvero
buoni. Più che sufficienti per iscriversi alla facoltà di Economia.
E adesso era lì seduto. Di ritorno dal suo lavoro ben retribuito
nell’azienda che aveva costituito con il suo socio e diretto dalla sua
cara moglie e dai suoi amati figli nella sua accogliente villetta a
schiera. Si permetteva di pensare così, e la sensazione di benessere
si rafforzò ulteriormente quando vide i suoi compagni di viaggio
grigi e tristi con il naso affondato in qualche inutile giornale gratuito o con lo sguardo fisso fuori dal finestrino bagnato. Sul vetro
vide il riflesso della figura di un fallito che addirittura lo guardava
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in cagnesco. Si notava che era felice? Dava fastidio? In tal caso era
pronto a convivere con la cosa.
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Thomas si era seduto poco più avanti dell’uomo – Re Hans –
ma dando le spalle al senso di marcia del treno così da poterlo osservare. Non direttamente – aveva posto strategicamente alcune
persone tra lui e l’oggetto del proprio interesse – ma vedeva bene
la sua immagine riflessa sul vetro di un finestrino in diagonale rispetto al suo punto di osservazione.
Era alto e slanciato e appariva rilassato e sicuro di sé. Assorto
nei propri pensieri, con il giornale spiegato sulle ginocchia, guardava distrattamente fuori. Sembrava quasi che ogni tanto un sorrisetto gli solcasse il viso. Thomas lo fissava affascinato e si chiedeva
cosa potesse renderlo così allegro. Aveva qualcuno a casa che lo
aspettava? Qualcuno che era felice quando rientrava? Magari aveva le tende alle finestre e i cuscini sui divani?
L’uomo lasciò vagare lo sguardo sulle persone nel vagone e per
un attimo i loro occhi s’incrociarono sul finestrino. Era disprezzo
quello che vedeva nei suoi occhi azzurri? In tal caso non sarebbe
stato strano, considerata la sua postura curva, i capelli spettinati e
gli occhi impauriti. Lui era un poveraccio che guardava di nascosto le persone che incontrava, sempre che osasse guardarle.
D’un tratto la luce del vagone lampeggiò e per qualche secondo si fece completamente buio. Quando tornò la luce, l’uomo riprese a studiare con lo sguardo le gocce che si congiungevano sul
vetro del finestrino. Thomas continuò a esaminare indisturbato lo
spettro della propria infanzia.
Pensava a tutti i berretti che erano spariti tornando dall’asilo,
lanciati sui tetti o sui cassoni dei camion di passaggio. Pensava ai
disegni che avrebbe dovuto far vedere a casa alla fine del semestre,
ma che per la felicità di tutti i bambini erano finiti uno dopo l’altro in un tombino. Pensava ai pantaloni strappati, ai giubbotti infangati e alle ginocchia sbucciate, e pensava a Carina Ahonen, che
poteva stare sempre seduta sulle ginocchia della maestra e intona15
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re per prima le canzoncine, mentre gli altri bambini dovevano accompagnarla. Se lei decideva che bisognava disegnare cavalli, tutti
i bambini disegnavano cavalli, cavalli e cavalli, era l’unica cosa che
si potesse disegnare. Quelli di Thomas erano così brutti che venivano mostrati in giro, con grande gioia di tutti quanti.
Pensava alla grande macchina verde nel cortile, che poteva contenere almeno sei bambini. Due dovevano spingere, e lui e Katarina
spingevano sempre, ogni santo giorno, nella speranza di poterci salire anche loro prima o poi. La maestra faceva molta attenzione a che
tutti la utilizzassero, ma per qualche ragione si dimenticava sempre
di Thomas e Katarina. Qualche volta era successo che Thomas fosse salito per primo, ma era stato scaraventato giù e aveva dovuto
spingere, ed era evidente che doveva essere così, perché la maestra
si limitava a sfoggiare il suo solito sorriso gentile da maestra d’asilo.
Una volta, ricordava, Hans e Ann-Kristin gli avevano preso il
berretto e se l’erano lanciato sopra la sua testa. Thomas non era riuscito ad afferrarlo, ma l’ispirazione del momento gli aveva dato il coraggio di prendersi quello di Hans e scappare. Naturalmente lo avevano raggiunto, lo avevano fatto nero di botte e gli avevano strappato il berretto di mano. Quando poi era arrivato a casa, come al solito senza berretto, la mamma di Hans aveva telefonato al papà di
Thomas lamentandosi del fatto che Thomas avesse rovinato il berretto di suo figlio, e così Thomas era stato mandato a casa di Hans
con dieci corone per chiedere scusa. Del suo berretto scomparso,
per qualche motivo, nel corso della telefonata non si era parlato.
Il treno si fermò distogliendolo dai suoi pensieri e l’uomo che
stava osservando si alzò per scendere. Anche Thomas si alzò, per
seguire quell’ombra del passato.
***
La villetta a schiera distava soltanto qualche minuto a piedi dalla fermata della metropolitana di Enskede Gård. Hans attraversò la
strada quasi di corsa, svoltò a sinistra all’altezza dell’Hantverksgymnasiet e poi tra gli edifici della Trädskolan. Poco dopo raggiunse il
parco con gli strani cespugli e gli alberi, che erano l’unica cosa ri16
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masta a ricordare il vecchio vivaio sostituito da edifici residenziali
alla fine degli anni Ottanta. Imboccò un passaggio pedonale che
passava davanti ad alcuni arbusti e raggiungeva il parco giochi del
quartiere delle villette a schiera. Nella sabbiera sedevano due bambini infangati, e il terzo – un bimbo di un anno e mezzo – stava appollaiato sull’ultimo gradino di uno scivolo.
«Moa cara, tieniti bene così non cadi e ti fai male», gridò prima di arrivare allo scivolo.
Il viso della piccola si aprì in un grande sorriso e la bambina
cominciò subito a scendere. I due figli più grandi corsero verso il
loro papà e lui cercò, per quanto potesse, di abbracciarli e allo stesso tempo di tenerli lontani.
«Ciao a tutti!» disse. «Fate attenzione, ho gli abiti da lavoro. Ci
tocchiamo solo con le guance. Venite che entriamo dalla mamma!»
Nello stesso istante Moa si lanciò contro di lui dalla scaletta e
fu costretto a sacrificare la giacca pulita, ma in cambio ricevette un
bacio umido sul mento. In un disperato tentativo di salvare la giacca, sollevò la figlia tenendo le braccia distese di fronte a sé e si diresse a passo deciso e con i due bambini più grandi alle calcagna
verso il portico di casa, dove rimise a terra la piccola.
«Ehilà!» gridò quando aprì la porta d’ingresso. «Sto arrivando
con tre maialini, mi devi aiutare! Toglietevi gli stivali prima di entrare», ordinò ai due più grandi mentre si accucciava e cominciava
a spogliare la piccola.
Pia comparve sulla soglia sorridendo; indossava un paio di
jeans e una camicia bianca allacciata in vita e aveva i folti capelli
scuri legati in una coda di cavallo.
«Ciao, tesoro», disse, si chinò e lo baciò sul collo. «Com’è andata la giornata?»
«Bene, ma devo uscire di nuovo un attimo per guardare una casa. È qui nei paraggi, starò via solo un’oretta. Diamo da mangiare ai
bambini adesso, così possiamo cenare quando sono andati a letto?»
«Ok, a che ora vai?»
«Prima ti do una mano con i bambini, così esco tra un’ora.»
Riuscì a sfilare i pantaloni alla piccola, e lei si precipitò in casa
con grida di gioia. Gli altri bambini sgattaiolarono dentro dopo essersi svestiti da soli, e adesso i loro abiti erano sparsi per tutto il
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portico. L’uomo si alzò e fece un disperato tentativo di togliere le
macchie di fango dalla giacca. Non ottenne alcun risultato. Pia raccolse gli stivali e i vestiti ed entrò in casa. Hans chiuse la porta facendo sbattere il batacchio.
Nessuno di loro aveva fatto caso all’uomo che li stava attentamente osservando attraverso i rami dello spoglio pergolato di lillà
dall’altra parte del parco giochi.
***
Thomas non sapeva quanto tempo fosse rimasto nel buio a spiare, ma con la fantasia si trovava già nella loro calda e accogliente cucina. C’era profumo di burro fuso e carne alla piastra, e tutti correvano avanti e indietro da una stanza all’altra impegnati nelle più diverse attività, dopo un po’ tutto si calmò e si sedettero a tavola.
Non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva mangiato con
altre persone. Al lavoro mangiava alla mensa, c’era tanta gente intorno a lui, ma era sempre solo. Non aveva più i genitori, non aveva fratelli, nessun altro parente e nessun amico. Che bello quando
hai qualcuno che ti aspetta a casa! Che bello sarebbe avere un
amico, una persona con cui parlare delle piccole e delle grandi cose, qualcuno con cui poter mangiare qualche volta. E quanto sarebbe più divertente cucinare se lo si facesse per qualcun altro oltre che per se stessi.
La cena era finita, e all’improvviso la cucina era deserta quanto prima era piena di vita. La porta d’ingresso si aprì e un padre di
famiglia amato e apprezzato uscì di casa e si chiuse per l’ultima volta la porta dietro di sé.
***
Con le mani sprofondate nelle tasche del giaccone, e il bavero
alzato per proteggersi dal vento autunnale, attraversò a passo spedito il quartiere delle ville. Le foglie appassite turbinavano alla luce dei lampioni, e a ogni suo passo si udiva un debole risucchio
quando la scarpa perdeva contatto col marciapiede. Una delle
scarpe era bucata e la calza era già umida. Avrebbe dovuto mettersi
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le scarpe invernali, ma non aveva tempo di tornare indietro. Avrebbe impiegato al massimo un quarto d’ora per arrivare alla casa che
doveva esaminare, e forse, con quel tempaccio, poteva anche permettersi di tornare in taxi.
Attraversò in diagonale una strada più larga e svoltò nella via
dove doveva trovarsi l’edificio. La maggior parte delle ville di quel
quartiere era stata costruita negli anni Venti e Trenta e aveva dei
giardini rigogliosi con alberi da frutto e pergolati. Eccola: una vecchia casa in legno rosa con dei bei bovindi. La proprietà, molto più
estesa delle altre nel quartiere, digradava dalla casa verso la strada
ed era circondata da una siepe ben curata, ma troppo alta, che non
si sposava affatto con la piccola costruzione e con il giardino. Nella siepe c’era un cancello di ferro nero ancora più fuori posto, da
cui si raggiungeva la casa attraverso un vialetto in ghiaia. Diede
un’occhiata alla cassetta delle lettere e constatò di essere davanti
all’indirizzo giusto, Åkerbärsvägen 31, poi spinse il pesante cancello quanto bastava per poter passare. Il cancello si chiuse pesantemente alle sue spalle con un clangore.
Si affrettò su per il vialetto, senza notare il profumo corposo
dei frutti caduti umidi d’autunno. Non notò neppure l’ombra
che, senza far rumore, scavalcò agilmente il grande cancello alle
sue spalle atterrando sul prato bagnato a fianco del vialetto in
ghiaia. Salì le scale del portico e suonò il campanello. Un din don
echeggiò all’interno della casa, ma fu l’unico rumore. Attese qualche minuto prima di suonare di nuovo. Anche stavolta nessun segno di vita. Dopo un’occhiata all’orologio, che gli confermò di essere in ritardo solo di un paio di minuti, raggiunse il prato per girare intorno alla vecchia villa. C’era soltanto una stanza illuminata nella casa. Era la cucina, la cui finestra dava sul retro e sulla
parte di siepe che segnava il confine della proprietà. Alla finestra
della cucina non riusciva ad arrivare, ma si chinò e da terra prese
un bastoncino che gettò contro il vetro, ma non ottenne risposta
nemmeno così. Decise di tornare sul lato anteriore e di controllare se la porta d’ingresso fosse aperta. Quando con prudenza abbassò la maniglia, si accorse con stupore che effettivamente lo
era. La persona che abitava in quella casa forse era anziana e aveva problemi di udito?
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«Ehilà, c’è nessuno?» urlò, ma nessuno rispose. «Ehilà!» riprovò, stavolta a voce più alta.
Poi prese una decisione: entrò in casa, si pulì accuratamente le
scarpe sul tappeto del vestibolo e si chiuse la porta alle spalle.
Martedì sera
Dopo tante settimane in ospedale finalmente poteva tornare a casa.
Finalmente, perché non vedeva l’ora di dormire nel proprio letto,
di starsene seduta da sola davanti alla televisione e decidere da sé
che programma guardare, con una bella tazza di caffè fumante appoggiata sul tavolino accanto al divano. Le era mancato anche l’odore della sua abitazione, il profumo di marmellata fatta in casa che
la pervadeva tutta, la fragranza del suo sapone e del suo detersivo.
D’altro canto, in realtà, non poteva affatto dire «finalmente», dato che faticava a camminare dopo la frattura al femore e avrebbe avuto qualche problema a cavarsela completamente da sola. L’interesse
per il cibo era diminuito con gli anni, niente aveva quasi più sapore.
Ma qualcosa doveva pur mangiare, e allora, dopotutto, in ospedale
non si stava poi così male, visto che si veniva sempre serviti e non ci
si doveva preoccupare della spesa, di cucinare o di lavare i piatti.
L’uomo dei trasporti sociali posò la piccola valigia davanti alla
porta d’ingresso e aspettò pazientemente fino a quando la signora
non ebbe tirato fuori il mazzo di chiavi dalla borsa. Lei inserì con
cautela la chiave nella toppa e dopo un clic la porta si aprì da sola.
«La aiuto a entrare?» domandò lui cortesemente.
«No, non è necessario. Ce la faccio. Grazie», rispose lei, e alzò
la mano per salutare.
«Stia attenta ora, e abbia cura di sé!» disse l’uomo agitando la
mano, e scese le scale all’indietro per vedere se lei riuscisse effettivamente a entrare in casa da sola.
Dopo aver acceso il lampadario, Ingrid si pulì le scarpe sul tappeto dell’ingresso, appoggiò la stampella nell’angolo dietro la porta e fece un passo verso l’attaccapanni, dove si tolse a fatica il cappotto, reggendosi sulla gamba sana. Si allungò per prendere l’omi20
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no rosso rivestito di velluto con le frange dorate e appese il cappotto. Poi fece altri due passi verso un piccolo sgabello su cui si accasciò. Si levò gli stivali di pelle e li posò simmetricamente sotto
l’attaccapanni, si allungò verso la piccola valigia e aprì la cerniera
che correva lungo tutto il perimetro. Dalla valigia estrasse un paio
di ciabatte ortopediche e lasciò che i piedi vi scivolassero dentro.
Appoggiandosi al muro, riuscì di nuovo ad alzarsi.
Con l’aiuto della stampella attraversò claudicando il vestibolo,
lanciò una rapida occhiata insoddisfatta alla sua immagine nello specchio dell’ingresso e proseguì verso la cucina. Si fermò sulla soglia e si
chinò per raggiungere l’interruttore della luce sulla parete interna.
A metà movimento, d’un tratto, percepì uno strano odore. I
soliti vecchi odori erano sempre presenti, ma nelle sue narici se
n’era insinuato uno diverso. Sapeva di pelle. Pelle e… escrementi?
Accese la luce.
In un primo momento le mancò il fiato e rimase come pietrificata, senza capire cosa aveva di fronte. Dopo alcuni secondi il
cervello riuscì a captare l’immagine dell’uomo morto sul pavimento, e la donna andò in iperventilazione. Barcollò fino a una
delle sedie del tavolo, la tirò fuori e vi si lasciò cadere. Non riusciva a staccare gli occhi dalla massa sanguinolenta che era stata
una faccia, e rimase seduta a lungo pensando solamente a inspirare ed espirare, inspirare ed espirare, bene e con calma. Le ci vollero diversi minuti prima che il suo respiro si regolarizzasse, poi
notò che tutto il resto era in ordine, niente era stato toccato sul
piano di lavoro e tutte e sei le sedie della cucina erano posizionate simmetricamente intorno al tavolo rotondo. Nessuna traccia di
risse o scenate, soltanto un uomo massacrato sul pavimento. Un
uomo morto. Cristo, chi poteva mai essere? E perché giaceva lì,
sul pavimento della sua cucina?
Si rialzò a fatica e raggiunse il telefono a muro nel vestibolo.
Prese la cornetta e rifletté un istante prima di comporre il numero
del taxi. Dopo aver richiesto una macchina, che secondo la centralinista sarebbe arrivata nel giro di dieci, dodici minuti, rifece al
contrario tutti i gesti che aveva compiuto entrando: via le ciabatte,
dentro in valigia, chiudere la cerniera, su gli stivali, infilare il cappotto, spegnere la luce, uscire e chiudere la porta a chiave. Poi s’in21
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camminò per il vialetto con la borsa sulla spalla, la valigia in una
mano e la stampella nell’altra e restò sul marciapiede ad aspettare.
«Ma Ingrid!» esclamò l’infermiera Margit, sorpresa. «Pensavo
fosse entusiasta di tornare a casa!»
Margit Olofsson era una donna di mezza età, alta e formosa,
con una cascata di capelli rosso scuro. Era quel tipo di persona che
irraggia tenerezza materna e amore per il prossimo.
«Infermiera Margit, una cosa orribile…»
«Ma cara Ingrid, si sieda, ha l’aria distrutta! È successo qualcosa? Non sta bene?»
Margit Olofsson prese l’anziana signora sottobraccio e l’accompagnò verso una delle poltrone della reception dell’ospedale.
Sotto il camice bianco si intravedeva un paio di jeans slavati.
«Non sapevo cosa fare», disse Ingrid implorante. «Sono un po’
confusa, ma mi è venuta in mente solo lei… C’è… Non rida di me,
adesso, ma… c’è un morto nella mia cucina.»
«Santo cielo! E chi è?»
«Non lo so. Non l’ho mai visto. Non si tratta di un ladro o roba
del genere, non hanno toccato niente. È solo lì sdraiato. Ed è morto.»
«Ma è pazzesco! È sicura che sia morto?»
«Assolutamente sì. È come… totalmente silenzioso e immobile.»
«Dev’essersi spaventata parecchio.»
«È naturale, è per questo che sono tornata qui.»
«Certo, naturalmente. Poveretta», la consolò l’infermiera Margit, e la cinse con un braccio. «Ha già chiamato la polizia?»
«Io… No», confessò Ingrid. «Mi sembrava tutto così irreale.
Non riuscivo…»
Il primo pensiero dell’infermiera Margit fu di chiamare la polizia, ma all’improvviso le venne il sospetto che magari Ingrid Olsson non fosse del tutto lucida. La studiò con attenzione per qualche secondo, poi lanciò un’occhiata all’orologio.
«Facciamo così. Io smonto tra due ore e mezzo. Poi andiamo a
casa sua insieme e decidiamo cosa fare. Ok?»
«Va bene.»
«Ce la fa ad aspettare così tanto?»
«Sì, nessun problema.»
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«Le farò avere del caffè. E una rivista.»
Poi si allontanò a passo svelto, con gli zoccoli che sbattevano sul
pavimento in pietra. Tornò con la stessa rapidità, con caffè, pasta danese, qualche biscotto e una pila di «Allers» e di «Hemmets Journal».
«Se la caverà, adesso?»
«Certo. Grazie, cara infermiera Margit!»
«Allora ci vediamo più tardi. Arrivederci!»
E così rimase seduta lì da sola, ma senza sentirsi abbandonata,
perché era sicura che l’infermiera Margit avrebbe sistemato tutto
nel migliore dei modi.
Quando l’infermiera Margit finalmente tornò, non indossava
più il camice bianco dell’ospedale, ma una tunica nera di cotone
sotto un piumino blu sbottonato che svolazzava mentre lei si affrettava a raggiungere Ingrid. Aveva sostituito gli zoccoli bianchi
con un paio di scarponcini da curling neri, e i suoi passi ora erano
quasi silenziosi.
«Ho la macchina parcheggiata qui fuori», disse, sorridendo a
Ingrid e offrendole il braccio per aiutarla ad alzarsi dalla poltrona.
«Si è stufata?»
«No, niente affatto. Sono rimasta sempre qui seduta a leggere.»
Uscirono dall’ospedale fianco a fianco e percorsero con la lentezza di una lumaca la breve discesa fino al vialetto lastricato che, attraverso dei cespugli di berberide, conduceva all’enorme parcheggio. Dopo aver superato alcune file di macchine si fermarono vicino
a una Mondeo bianca. L’infermiera Margit aprì la vettura con un clic
del telecomando e aiutò Ingrid a salire sul sedile del passeggero.
«Così ha fatto anche un po’ di moto. È un bene che si alleni a
camminare. Può considerarla una sessione di fisioterapia.»
Ingrid sorrise all’infermiera quando la donna prese posto al volante. Quasi non credeva nemmeno lei di avere un cadavere nella
cucina di casa. Si era immaginata tutto? Erano allucinazioni provocate dai tranquillanti che assumeva? Le sembrava impossibile
che qualcuno fosse stato assassinato in casa sua.
Più si avvicinavano a casa, più la sicurezza artificiosa in cui si
era cullata nelle ore passate a leggere «Allers» nella reception del23
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l’ospedale vacillava. C’era un cadavere nella cucina di casa sua.
Punto e basta. Come avrebbe influenzato la sua vita futura? La casa probabilmente sarebbe stata invasa da poliziotti e tecnici e perquisita alla ricerca di indizi e impronte digitali. Chi avrebbe pulito, dopo? Nastri segnaletici per delimitare la zona e vicini che spiano. Giornalisti, forse. Interrogatori.
No, ne sarebbe passato di tempo prima che la sua vita tornasse come prima. Ma sarebbe mai tornata come prima? Poteva
sentirsi sicura in una casa dove un ignoto assassino aveva ucciso
un estraneo? Be’, forse le probabilità che il fatto si ripetesse non
erano così grandi. Avrebbe pur dovuto mettere tutto da parte,
prima o poi, e continuare come se nulla fosse accaduto. In fin dei
conti lei non era coinvolta, era stata soltanto sfortunata. La gente
viene assassinata tutti i giorni, in Svezia e soprattutto altrove. Di
questo non ci si deve preoccupare, l’unica cosa singolare di quel
delitto era che aveva avuto luogo in casa sua. Stringi i denti, dimentica e vai avanti.
Fu una sensazione terribile risalire il vialetto, a braccetto nelle
compatte tenebre novembrine. La ghiaia scricchiolava sotto i loro
piedi, e le uniche luci che le guidavano erano quella fioca e gialla
di un lampione sul ciglio del vialetto e quella della lampada fissata
alla parete del portico. La temperatura era vicina allo zero e i venti autunnali provenienti da nord piegavano le corone spoglie degli
alberi da frutto facendo rabbrividire le due donne.
Non appena aprì la porta e mise il naso al calduccio, l’infermiera Margit sentì quell’odore asfissiante. Anche Ingrid lo percepì
subito. Strano che non ci avesse pensato subito la prima volta che
era entrata. Ingrid accese il lampadario e rimase in piedi sulla soglia, mentre Margit si toglieva velocemente gli scarponcini non allacciati e con passo deciso si dirigeva verso la cucina. Si fermò poco oltre la soglia e cercò a tentoni l’interruttore. Quando la luce si
accese, si guardò attorno per qualche secondo prima che gli occhi
trovassero ciò che cercavano. Si precipitò senza esitare verso il corpo esanime. Infilò le sue mani esperte sotto il colletto della camicia
in cerca della carotide, e constatò in fretta ciò che già sapeva: l’uomo era morto. Si alzò, uscì dalla stanza e andò verso il telefono.
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