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PREFAZIONE
è una diffusa tendenza a usare il termine
“edificante” come sinonimo di “consolatorio”, e questa tendenza porta a presentare
come “edificanti” certi libri, che di fatto si potrebbero
classificare in quella categoria un po’ tinta di rosa e imbevuta di melassa, cui appartengono le storie di buoni sentimenti, rassicuranti ma in realtà incapaci di edificare
alcunché, al massimo buone per “consolare”, appunto, il lettore (o lo spettatore, ché la stessa operazione avviene con
film e spettacoli televisivi): consolarlo, sì, ma di che cosa?
forse “dell’esser nato”, come con un crudo e fin provocatorio realismo, tacciato poi invariabilmente di “pessimismo”,
denunciava a suo tempo Giacomo Leopardi:
C’
«Nasce l’uomo a fatica,
ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
per prima cosa; e in sul principio stesso
la madre e il genitore
il prende a consolar dell’esser nato».
(cfr. il Canto notturno)
Questo non è un libro edificante. O meglio, non lo è secondo l’accezione che abbiamo appena descritto. Perché
quella di Luigi e di sua moglie Susi, che ci viene raccontata
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dalla protagonista, è una storia straziante e allegra, di “amore
e morte”, non secondo il cliché romantico e fuori da ogni
alone decadente, ma veramente edificante, come sanno esserlo le testimonianze che non pretendono di imporre un
punto di vista, ma si affermano con l’urgenza di una verità
che qualcuno ha vissuto e vuole comunicare agli altri. E la
nostra autrice lo ha voluto con tutte le sue forze, tanto da
vincere quel dolore che mentre tu racconti rialza la testa
per morderti ancora, perché sentiva che la “storia vera” che
ha vissuto è quella di tanti altri, e che raccontandola poteva
costruire (edificare) un abbraccio di parole per stringere
chi, dopo aver vissuto direttamente o indirettamente una
esperienza analoga, si scopra più solo, più indifeso, più
disperato. E in questa apertura alle storie e alla possibile
com-passione altrui, manifesta la sua distanza dai libri che
si presentano come l’edificazione di un monumento funebre nell’esclusiva memoria di un personaggio: alla Jacopo
Ortis, per intenderci.
Ecco, questo è un libro sulla morte che, paradossalmente,
può dare speranza a tanti, e può far capire come la “fede”
non possa confondersi con una ideologia, meno che mai una
ideologia ottimistica, oppure con una dottrina cui adeguarsi
in nome dell’ortodossia: ma è lotta dura e fiato corto e gioia
e dolore insieme: un’avventura per la vita, insomma. Perché
alla fine questo libro è un canto alla vita, che è breve eppure
eterna, nel segno di quello che è il contraddittorio e splendido destino dell’uomo – Ungaretti lo esprimeva in una
celebre sintesi lirica:
«Chiuso fra cose mortali
(anche il cielo stellato finirà)
perché bramo Dio?».
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È la stessa contraddizione, lo stesso “scandalo” della
croce sulla quale è inchiodato Gesù, «vero Dio e vero
uomo». Scandalo che Susanna Bo soffre e vive in prima persona, e poi racconta con una efficacissima alternanza di toni,
equivalente espressivo dell’oscillazione fra disperazione e
speranza, ribellione e accettazione.
Passando dal sarcasmo più acuto
«No, mamma. Non dirmi su con la vita. Io non ce
l’ho più una vita. Non ce l’ho più. Ho una bambina
piccola, sono incinta di quattro mesi e stanotte mio
marito si è svegliato con la bocca storta perché gli è
venuto il settimo tumore al cervello. La mia non è
una vita. È una telenovela brasiliana»
alla tenerezza più lancinante
«Ed ecco, Luigi era nato, era venuto al mondo. E
aveva imparato a camminare aggrappato al cane di
suo zio. E a sei anni aveva disegnato un maiale sulla
tappezzeria del salotto, prima che sua madre vedendolo gli tirasse una ciabatta. Poi era cresciuto [...] e
una volta era andato in biblioteca per cercare un libro
e ci aveva incontrato sua moglie, che conosceva già
ma non l’aveva mai considerata quella ragazza con
gli occhiali. E non perché avesse gli occhiali, a lui
le ragazze con gli occhiali lo avevano sempre affascinato. E poi aveva stretto fra le braccia la sua prima
figlia appena nata, e dopo un anno e mezzo la seconda. E poi gli avevano detto che doveva morire, e
lui aveva chiesto un gelato. Perché un gelato non si
nega a nessuno, aveva detto a sua moglie. Figuriamoci a uno che sta per morire»
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dal grido di ribellione
«Vedova, pensai, sono troppo giovane per diventare
vedova. Sono troppo giovane. Ho trent’anni, ma
potrei dimostrarne tranquillamente venticinque.
Non posso diventare vedova alla mia età. Per chi mi
vestirò così dopo? Per chi? Che senso avrà truccarsi,
vestirsi, essere bella, essere brutta, ridere, piangere,
vivere, che senso avrà tutto quanto dopo? Che ne
sarà di me dopo? E perché sta succedendo a noi?
Perché sono venuta qui, per sentirmi dire che a noi
deve andare così, che non ci meritiamo un miracolo?
Che siamo di quelli che devono rassegnarsi? Con che
diritto ci stanno dicendo questo?»
al mormorio della preghiera che nasce come un quieto zampillare interno
«Non riuscivo a smettere di guardarti. La vestaglia
blu e verde scuro. Le mani sulle ginocchia. Le ciabatte di pelle. E poi di nuovo il tuo volto, le linee
della bocca. Gli occhi velati dalla stanchezza. Fissavi
l’orizzonte, in silenzio. Sentii dentro di me le parole
di quel salmo che dice Alzo gli occhi verso i monti:
da dove mi verrà l’aiuto? E seppi che avrei ricordato
quel momento per tutta la vita. Il mio aiuto viene dal
Signore, che ha fatto cielo e terra».
E credo utile sottolineare che, nell’esemplificazione volutamente scarna, e volutamente polarizzata su alcuni
estremi, il tono sarcastico della prima citazione non è che la
variazione più acuta di quel basso continuo dell’ironia, che
della scrittura di questo libro costituisce forse il carattere più
spiccato, la figura cui l’autrice ricorre non solo per una quasi