Clean label tra opportunità e rischi

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Clean label tra opportunità e rischi
Inchiesta
■ Stefania Milanello
Clean label
tra opportunità e rischi
L’interesse sempre maggiore dei consumatori verso il concetto di clean
label invoglia le aziende all’utilizzo delle etichette pulite. Opportunità e
insidie sono dietro l’angolo in mancanza di una normativa ad hoc
E
tichette pulite, trasparenti,
chiare, comprensibili diventano sempre più importanti per
i consumatori, molti dei quali
attenti nella scelta di ciò che
mangiano. Alcune aziende produttrici di generi alimentari sono molto sensibili a queste esigenze, convinte che ciò le aiuterà a continuare
ad essere presenti sul mercato. Il concetto di
clean label, ovvero di etichetta pulita, indica
che certi ingredienti non sono stati utilizzati
nella fabbricazione di quei prodotti alimentari.
Si tratta di messaggi tipo: “senza additivi”, “no
OGM”, “senza grassi idrogenati”, “senza aro-
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mi”, “senza zuccheri”, “senza coloranti”. La
tendenza dell’etichetta clean label viene rafforzata anche dal mercato in crescita dei prodotti biologici, così come dal crescente interesse
da parte dei consumatori verso la provenienza e l’affidabilità dei prodotti alimentari che
acquistano.
Clean label e il mito del naturale
La diffusione dell’utilizzo di etichette pulite
che richiamano all’origine naturale e genuina
dei prodotti, ha portato alcuni Paesi europei a
sperimentare codici di buone pratiche per un
utilizzo corretto dell’etichettatura. Nel Regno
Unito, per esempio, la Food Standards Agency ha pubblicato un report destinato agli operatori alimentari al fine di fornire indicazioni
sul corretto utilizzo delle clean label e in particolare sul riferimento a espressioni come
“fresh, natural, pure, traditional, original, authentic, real, genuine, home made, farmhouse, hand-made, premium, finest, quality, best”.
Tali espressioni si riferiscono a un prodotto
composto da ingredienti derivanti dalla natura, non trasformati nelle caratteristiche principali dall’intervento di processi industriali
che utilizzano o possono utilizzare prodotti
chimici. In determinati casi, poi, l’espressione
“natural” assume significati ancora più specifici: è il caso dei prodotti lattiero-caseari, nei
quali tale aggettivo è comunemente riferito
alle qualità organolettiche derivanti dal tradizionale processo di trasformazione del latte in formaggio, in assenza di additivi o con-
servanti. Per tutti gli altri prodotti, l’uso del
termine natural dovrebbe essere consentito
per descrivere alimenti nei quali nulla è stato aggiunto o modificato e che hanno subito
esclusivamente processi di trasformazione
necessari per rendere il prodotto adatto al
consumo umano, tra i quali cottura, fermentazione, pastorizzazione, sterilizzazione, taglio,
torrefazione. Sono considerati sempre non
naturali i prodotti OGM. In generale, è consigliabile utilizzare il termine naturale solo in
presenza di una trasformazione del prodotto
che non modifichi le caratteristiche essenziali
dell’alimento escludendo, al contrario, l’utilizzo di processi chimici che alterano la composizione originaria del prodotto.
Riferimenti giuridici
Spesso sono presenti sul mercato prodotti con
la denominazione “etichetta pulita”, per i quali
vengono tuttavia presi in considerazione criteri di valutazione molti vaghi, dal momento
che il concetto di etichetta pulita non è regolamentato da alcuna legislazione. Vero è che,
come tutte le etichette, anche le clean label
devono rispondere ai regolamenti comunitari
in materia di etichettatura. Nello specifico, sia
il Codice del Consumo sia la normativa sugli
alimenti (regolamento (CE) n. 178/2002, regolamento (UE) n. 1169/2011, regolamento (CE)
n. 1924/2006) vieta agli operatori alimentari di
veicolare messaggi pubblicitari idonei a indurre in errore il consumatore medio sulle caratteristiche di un alimento. Pertanto, l’etichetta
clean label non deve indicare l’assenza di determinati ingredienti (per es. aromi, additivi,
OGM) ove gli stessi sono presenti nel prodotto, anche se solo in tracce. Inoltre, è vietato
suggerire che un alimento possieda caratteristiche particolari, quando in realtà tutti gli
alimenti analoghi possiedono suddette caratteristiche. Quindi, se l’impiego di una determinata categoria di additivi (per es. conservanti
o coloranti) è vietato per legge in determinate
categorie di alimenti, non è consentito utilizzare il claim “senza coloranti” o “senza conservanti”, poiché tutti gli alimenti analoghi sono
privi di tali additivi. Sarebbe certamente preferibile utilizzare le clean label con cautela,
soprattutto nel caso in cui venga esplicitato il
richiamo alle origini naturali del prodotto. Nel
caso per esempio dei prodotti ortofrutticoli o
dei prodotti oggetto di una specifica regolamentazione comunitaria (come per esempio
Opportunità e sfida decisiva
per le aziende
Barbara Klaus, avvocato, partner di Roedl & Partner, specializzata
nel diritto alimentare europeo e degli Stati membri
Il concetto di clean label comprende l’etichettatura degli
alimenti che indica che certi ingredienti non sono stati utilizzati
nella fabbricazione, per esempio “senza additivi”, “senza
coloranti artificiali”, “senza aromi”, “senza zuccheri”. Tale
concetto non è né definito dalla normativa né regolamentato
da disposizioni specifiche in merito. Sussistono iniziative volte
a definire criteri di valutazione, orientandosi alle aspettative
del consumatore in relazione a tale tipo di messaggio. Sotto il profilo giuridico, la “clean label”
costituisce un’indicazione volontaria intesa a promuovere un alimento. Ciò risulta legittimo
purché siano rispettate una serie di disposizioni dirette a tutelare i consumatori da indicazioni
ingannevoli. L’utilizzo è soggetto a precise regole, il cui rispetto da parte degli operatori del settore
alimentare è controllato dalle autorità preposte, ivi compresa l’Autorità garante della Concorrenza
e del Mercato. Quando l’etichetta clean label è utilizzata in modo ingannevole, all’operatore
responsabile possono essere inflitte sanzioni anche considerevoli. La concreta realizzazione di
concetti di etichetta pulita è un’opportunità di valorizzare i propri prodotti, ma anche una sfida
decisiva per le aziende. In primo luogo, è necessario determinare quale specifico concetto è
opportuno pubblicizzare per una determinata gamma di prodotti e se sarà possibile realizzarlo per
tutti o solo per singoli prodotti appartenenti alla gamma.
Qualora si decidesse, per esempio, di reclamizzare il concetto “senza additivi” occorre verificare
quali alimenti possono, effettivamente, essere fabbricati senza l’utilizzo degli stessi e quali
sostanze possono o devono essere impiegate in alternativa, per garantire sia la sicurezza
alimentare che il mantenimento delle caratteristiche qualitative del prodotto (durabilità, aspetto,
consistenza e sapore). In effetti, poiché attraverso un’etichetta clean label al consumatore è
suggerita una qualità particolare dell’alimento, grazie all’assenza di determinati ingredienti (per
esempio additivi), è ovvio che la qualità dello stesso non deve venire meno in relazione ad altre
caratteristiche qualitative; altrimenti il consumatore verrebbe tratto in inganno.
il cioccolato), andrebbe evitato l’utilizzo di un
termine che potrebbe indurre il consumatore
a ritenere che un prodotto possegga qualità
superiori; in questi casi, infatti, i prodotti alimentari sono tra loro per definizione equivalenti. Infine, l’etichetta clean label contenente indicazioni nutrizionali quali per esempio
“senza zuccheri” o “senza grassi” è ammessa
soltanto se sono rispettati i requisiti specifici sanciti dal regolamento (CE) n. 1924/2006.
Pro e contro
L’utilizzo delle clean label è visto positivamente da molte aziende alimentari che hanno capito il grande interesse dell’opinione
pubblica, anche se l’obiettivo di soddisfare
la crescente esigenza di naturalità, spesso
non si concilia con altre richieste dei consumatori, quali la lunga shelf life e le carat-
teristiche organolettiche ineccepibili. Come
ogni medaglia, quindi, anche quella della clean label ha due facce, sia per i consumatori
che per le aziende produttrici di alimenti. Se
una clean label lo è davvero, il consumatore
avrà informazioni chiare e precise e saprà di
acquistare un alimento con pochi ingredienti, tutti di origine naturale e privi di prodotti
chimici. Sarà però disposto a pagarlo di più?
Sarà disposto a rinunciare a determinate caratteristiche organolettiche e di durata del
prodotto acquistato in favore di una maggiore naturalità? Inoltre, l’utilizzo di conservanti
rende alcuni alimenti più sicuri dal punto di
vista microbiologico. Altro fattore da prendere in considerazione. Il consumatore vorrà
ritrovare le stesse caratteristiche qualitative
a cui è abituato anche in assenza di determinati additivi. Il rischio per le aziende è di fab-
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Interesse commerciale
elevato
Spesso sfruttata
in modo improprio
Pietro Giordano, presidente nazionale di Adiconsum
Non essendo tutelata da nessuna legislazione in materia di marchi
la “clean label” è spesso sfruttata in modo improprio per soddisfare
unicamente un incremento di fatturato e di profitto. Essendo una
dichiarazione di trasparenza sui prodotti alimentari, dovrebbe
essere comprensibile e non statica, ma continuamente aggiornata
nel tempo. L’esigenza di una informazione sempre più corretta
e trasparente si coniuga con i comportamenti di consumo che,
nonostante la crisi, ha visto crescere una maggiore consapevolezza
e responsabilità negli acquisti, privilegiando quei prodotti dove il fattore etico e sostenibile dell’intera filiera
diventa una scelta vincente. Non si spiega altrimenti il boom di prodotti che, pur costando di più – per
esempio il biologico, l’equo e solidale solo per citarne alcuni – hanno avuto un incremento costante in questi
ultimi anni. In altre parole ridiventa centrale, il pro fondamentale della “clean label”, il ruolo del consumatore,
non oggetto passivo e disinformato del mercato e di politiche commerciali e pubblicitarie, ma soggetto
informato e consapevole che con le sue scelte di acquisto giornaliere, “votando con il portafoglio”, orienta
il mercato e sceglie i prodotti di quelle aziende che costruiscono un rapporto corretto con il cliente finale,
che scelgono la trasparenza e la certificazione dell’intera filiera sul versante della sostenibilità non solo
ambientale, ma anche economica e sociale.
bricare un prodotto con materie prime costose, senza ottenere alla vendita un prezzo più
elevato. Le aziende quindi dovranno capire
se la leva marketing è ancora valida o se lo
scetticismo di una fetta di consumatori, cresciuto anche grazie all’utilizzo distorto che alcuni produttori hanno fatto e fanno delle clean label, potrebbe rendere i loro sforzi vani.
Da uno studio condotto dal centro per la tutela dei consumatori di Amburgo è emer-
so, infatti, che l’etichetta clean label viene molto spesso utilizzata per ingannare il
consumatore non esperto. Inoltre, ciò che
sembra disturbare il consumatore è che alcuni prodotti denominati “clean label” vengono pubblicizzati per dichiarare quello che
non è contenuto nell’alimento. Il rischio per il
consumatore è che una presentazione dell’alimento che evoca genuinità, diventi una pratica commerciale ingannevole.
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Laura Costantino, ricercatrice e docente di diritto
agro-alimentare dell’Università degli Studi di Bari
L’espressione clean label fa riferimento all’etichettatura
dei prodotti alimentari composta da una lista di pochi
ingredienti, tutti di origine naturale e privi di prodotti
chimici. La recente diffusione delle clean label tra i
produttori alimentari nasce dalla rilevata tendenza dei
consumatori ad acquistare non alimenti provvisti di
un’etichettatura densa di informazioni, ma piuttosto quei
prodotti dotati di una lista di pochi ingredienti di origine
naturale. L’ampliamento del novero delle informazioni
obbligatorie da riportare in etichetta, legato all’entrata
in vigore delle più recenti normative comunitarie (reg.
1169/2011) non garantisce di per sé una maggiore
consapevolezza nell’acquisto da parte del consumatore,
anzi porta con sé il rischio di un sovraccarico di
informazioni che il consumatore sarà chiamato a decifrare.
Ecco dunque il motivo della diffusione nel mercato
alimentare di prodotti riportanti un’etichetta semplice
e breve, composti da ingredienti naturali, di immediata
comprensione per il consumatore.
Spesso le clean label sono accompagnate dall’utilizzo
di espressioni quali natural, pure, traditional ecc.
L’espressione “all-natural”, per esempio, è il secondo
claim più utilizzato dall’industria agroalimentare americana
con un giro d’affari di circa 22 miliardi di dollari. Alcuni
studi condotti da agenzie di marketing statunitensi hanno
dimostrato che il termine “naturale” crea affidamento nel
consumatore circa l’assenza di prodotti chimici e fiducia
nell’acquisto di un prodotto di maggiore qualità rispetto
a prodotti equivalenti. Al momento non ci sono dei criteri
uniformi per la valutazione di una clean label, in mancanza
di una normativa specifica. La valutazione andrà eseguita
caso per caso. Sarebbe certamente preferibile utilizzare le
clean label con cautela, soprattutto nel caso in cui venga
esplicitato il richiamo alle origini naturali del prodotto. Più
in generale, bisognerà attentamente valutare l’eventualità
che una presentazione del prodotto alimentare che evochi
genuinità non si traduca in una pratica commerciale
sleale o ingannevole. Per le aziende, gli aspetti positivi
sono legati sicuramente all’accresciuto interesse del
consumatore verso alimenti sani, e quindi non ottenuti
attraverso l’utilizzo di prodotti chimici o procedimenti
altamente sofisticati. D’altro canto, le clean label non
hanno la stessa tutela giuridica accordata ai marchi o
alle indicazioni di qualità, come le DOP o le IGP. Pertanto il
rischio è quello di fabbricare un prodotto che abbia materie
prime di particolare pregio, senza avere la certezza di poter
spuntare sul mercato un prezzo più elevato.