Quel pasticciaccio brutto della declinazione scomparsa

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Quel pasticciaccio brutto della declinazione scomparsa
Quel pasticciaccio brutto della declinazione scomparsa
Il latino aveva una declinazione nominale, le lingue romanze (con la parziale eccezione del rumeno) no. L’osservazione è banale, mi si dirà. Lo è esattamente nella
misura in cui lo è la risposta alla domanda: come mai? Rispondere a questo quesito dal punto di vista romanzo è infatti tutt’altro che facile. Provarci è un modo
per tentare di capire al contempo che cosa sia accaduto al latino. Una sua caratteristica importante si è dispersa. Le sue eredi non l’hanno avuta che sotto forma di
retaggi relittuali e non più vitali. Ciò potrà certo parere poco rilevante alla linguistica latina. Potrà parere poco rilevante anche all’indoeuropeistica che considera
le lingue romanze fuori dal suo campo di interesse. Ma quel che segue è costruito
sulla convinzione che l’analisi teorica dell’esito permetta di capire qualcosa dello
svolgimento e forse dell’inizio della vicenda: un contributo modesto e servile a un
dibattito più ampio e importante.
L’idea di una semplificazione grammaticale è la prima che si presenta allo spirito del linguista romanzo, per rendere conto della scomparsa della declinazione
latina. Ma si tratta almeno in parte di un malinteso. Basta una piccola riflessione
per capirlo. Se si osserva la coniugazione invece della declinazione, diventa arduo
sostenere che la struttura grammaticale delle lingue romanze e le sue manifestazioni sono versioni semplificate e degradate di una mitica perfezione latina, bella
e complessa. Ma i miti sono duri a morire, tra gli scienziati non meno che tra la
gente comune. Può sembrare che un mito sia stato dissolto dall’acume critico della
scienza e abbia finito di esercitare il suo potere ipnotico. Si smette così di tenerlo
d’occhio. Ed eccolo andare di nuovo a spasso sotto spoglie nuove: mettiamo, quelle dell’ipotesi di un romanzo come effetto d’una creolizzazione del latino. In realtà,
la struttura grammaticale romanza sarebbe una ben strana versione semplificata
di quella latina. Vi fioriscono modi e tempi verbali. Vi si impongono nuove, numerose e varie forme diatetiche. Vi si moltiplicano ausiliari e clitici. Infine e per non
trascurare completamente il nome, vi appare anche una categoria funzionale come
l’articolo.
Ma come escludere d’altra parte che la scomparsa della declinazione sia correlata con una semplificazione? La flessione nominale romanza si è molto semplificata proprio in conseguenza di quella scomparsa. Se si tratta di una semplificazione si tratta allora di una semplificazione mirata. E una semplificazione mirata alla
declinazione non fa che rimandarci alla questione di partenza. Perché proprio la
declinazione?
Spesso si è chiamata in causa allora la responsabilità di mutamenti fonetici. Certo, la debolezza di /m/ finale, la perdita della distinzione tra /a/ e /a:/, la confusione
tra /u/ e /o:/ hanno prodotto larghe omofonie: tra legem e lege, tra populum e po-
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pulo, tra via, viam e viñ. Ma l’effetto catastrofico che segue a questi mutamenti
pare l’inevitabile degrado di un edificio ormai abbandonato all’incuria. Lì e non
altrove i mutamenti hanno prodotto effetti catastrofici per un sistema funzionale
e formale. Il sospetto è che proprio quel sistema e non altri doveva essere stato
svuotato della sua essenza formale, ma non funzionale.
La portata funzionale della declinazione latina poggia sopra una partizione
grammaticale di enorme importanza: la partizione tra elementi nominali ed elementi verbali. Nessuna lingua romanza ha rimesso in discussione tale partizione:
nomi e verbi permangono ben distinti. Del resto, in latino, la manifestazione correlata a tale partizione era sostenuta dal lato del nome non da una sola, ma da ben
tre distinte categorie grammaticali.
La declinazione determina grammaticalmente i nomi. Meglio, l’intera impalcatura della sintassi nominale latina è caratterizzata fenomenicamente dalla declinazione. Nella struttura della proposizione i nomi svolgono una funzione argomentale:
[1]
Inter quas . . . Dido / errabat silva in magna. (Verg. Aen. 6, 450)
come predicativa:
[2]
Amphitruonis ego sum servus Sosia. (Plaut. Amph. 394)
La declinazione marca i nomi nell’una come nell’altra funzione: in quest’ultima,
per via del sistema dell’accordo (sistema che permane nelle lingue romanze)1. Il
sistema dell’accordo copre d’altra parte anche gli aggettivi.Anch’essi cadono quindi sotto la portata funzionale della declinazione, come attributi all’interno del
sintagma nominale allo stesso modo che come predicati nella struttura proposizionale:
[3]
[4]
. . . recens a vulnere Dido errabat . . .
Ego vivo miserrimus. (Cic. Att. 3,5)
Facile osservare che la partizione tra sintassi nominale e sintassi verbale non è
certo stata rimessa in discussione nel passaggio dal latino al romanzo, come si diceva. Eppure la declinazione è scomparsa. Ancora una volta, perché?
Le tre categorie che riempivano funzionalmente e fenomenicamente la declinazione latina erano Caso, Numero e Genere.
Dal latino al romanzo, il Genere ha subìto qualche importante riassestamento,
soprattutto con la scomparsa del neutro e con il rimescolamento di classi flessive.
Esso ha tuttavia mantenuto salde opposizioni e manifestazioni di tali opposizioni.
1 Diversamente da quanto è accaduto tra le lingue indoeuropee alle lingue germaniche, per
esempio.
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Maschile e femminile sono ancora cardini intorno a cui ruota la manifestazione
della struttura linguistica romanza.
Il Numero ha attraversato indenne la crisi. Nulla o pochissimo dal suo punto di
vista è cambiato. Romanzo e latino si articolano allo stesso modo sull’opposizione
tra singolare e plurale.
Resta il Caso. Ed il Caso è sicuramente l’ipocentro del sommovimento che ha devastato la declinazione. Ma che tipo di categoria grammaticale è appunto il Caso?
Sul tema, la linguistica teorica novecentesca tiene aperto un dibattito da numerosi decenni. Il fatto non stupisce. Tra le categorie nominali, il Caso manifesta
l’organizzazione autonoma e formale della lingua. Per quanto riguarda il trattamento grammaticale del Caso, si distinguono due orientamenti di fondo.
C’è chi ipostatizza il Caso e ne fa una categoria linguistica indipendente. In tale
prospettiva il Caso determina la struttura sintattica. Può trattarsi d’una entità
semantica profonda, come nella famosa teoria fillmoriana (Fillmore 1968), o d’un
linker sintattico, l’anello di congiunzione tra semantica e morfologia, come si propone recentemente (cf. Smith 1997 e la bibliografia ivi ricordata).
C’è d’altra parte chi vede il Caso in funzione di una struttura sintattica autonomamente organizzata. In tale prospettiva è la struttura sintattica che determina il
Caso. A sua volta, il Caso manifesta la struttura sintattica, la rende per così dire
meno opaca e ne organizza l’aspetto epifenomenico.
Chi scrive inclina verso questa seconda idea. Il Caso ha una sua manifestazione
morfologica. Esso non è quindi direttamente una categoria fenomenica. Parlando
del latino, la manifestazione del Caso è costituita dalle desinenze di nominativo,
genitivo, dativo e così via. Ma il Caso stesso è manifestazione organizzata della
struttura sintattica.
In ambedue le prospettive, il caso morfologico come lo possedeva il latino, secondo il modello dependent marking, è un puro accidente della categoria. Dovunque il caso morfologico non sia (più) disponibile, altre manifestazioni provvedono
a rendere visibile l’organizzazione sintattica. Il Caso-categoria grammaticale organizza tali sistemi. La serializzazione e altri sistemi di collegamento degli elementi
sintattici sono le risorse fenomeniche di tali manifestazioni.
Si tratta di osservazioni tradizionali negli studi latino-romanzi. Da tempo immemorabile, i grammatici (soprattutto quelli francesi e pour cause) hanno correlato la degradazione della declinazione e il fissarsi dell’ordine degli elementi.
La questione diventa più delicata quando a questa pacifica osservazione si vuole attribuire un valore teorico. C’è un’idea presso che universale. Segnalare le funzioni sintattiche per via di serializzazione degli elementi e non per via di caso
morfologico sarebbe l’innovazione romanza per eccellenza. Essa renderebbe
finalmente il romanzo diverso dal latino. L’idea ha l’innegabile peso dell’evidenza, ma il suo limite sta proprio nell’eccesso di evidenza. Se bastasse rendere conto
semplicemente del rapporto tra due livelli, la struttura sintattica e la sua codificazione superficiale, non ci sarebbe da aggiungere nient’altro. Ma il Caso-categoria
grammaticale è esso stesso un sistema organizzatore, indipendentemente dal fatto
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che esso sia autonomo o manifestazione d’una struttura sintattica. Il Caso è un’interfaccia tra ciò che è celato e ciò che appare. Il Caso è insomma un modulo grammaticale e quindi una questione ulteriore si pone.
Nella prospettiva qui adottata, il modulo casuale va appunto distinto dall’organizzazione sintattica universale. Quest’ultima opera appunto su funzioni universali. Qui e nel seguito ci riferiremo alle principali funzioni con i nomi di Soggetto e
di Oggetto (cf. La Fauci 2000a). Il modulo casuale va poi districato dalla sua manifestazione (declinazione, serializzazione o altro ancora). Ciò posto, c’è da chiedersi: il funzionamento romanzo del modulo casuale è differente dal suo funzionamento latino?
La risposta è no. Il sistema organizzatore della declinazione latina era Accusativo/Nominativo2. Mi riferisco ovviamente alla sintassi delle funzioni grammaticali nucleari nella proposizione indipendente. In tale ambito, il soggetto di strutture
intransitive e di strutture transitive, o meglio il soggetto di strutture medie (ivi
comprese le passive: cf. La Fauci 1988) e di strutture attive stava invariabilmente
al nominativo. L’accusativo era invece il caso dell’oggetto.
La sintassi romanza ripete l’organizzazione del modulo, attribuendole solo contenuti fenomenici diversi. I soggetti di ogni tipo di costrutto sono tendenzialmente
preposti, l’oggetto è invece posposto al nucleo predicativo. Per questa ragione il
cambiamento dalla declinazione all’ordine degli elementi è da definire un’innovazione conservativa. Si tratta di un’innovazione fenomenica che conserva l’organizzazione del modulo casuale. Tutto cambia, perché in realtà nulla cambia. L’intera
questione è stata trattata così in un quadro grammaticale formalizzato da La Fauci
1988 e non vi si tornerà su in questa sede.
Ma se, con funzione immutata, la serializzazione degli elementi sostituisce la declinazione, basta questo per attribuire alla prima la fine della seconda? Anche questa volta la risposta è no. La declinazione latina non forniva manifestazione soltanto all’opposizione tra oggetto e soggetto. Questa è certo l’opposizione fondamentale per la sintassi proposizionale. Si tratta infatti dell’opposizione che permette di osservare al meglio l’interazione tra sintassi verbale e sintassi nominale
nel passaggio latino-romanzo. Ma tutto il resto? Il genitivo e il dativo, soprattutto? In che modo la serializzazione è potuta intervenire sul sistema di manifestazione di questi casi?
Anche quest’ultimo aspetto del problema ha una soluzione tradizionale, fondata su un’osservazione innegabile. Dove l’ordine ha efficacia sostitutiva minore,
emergono nuovi giri preposizionali, soprattutto di quelli in de e in ad. Questi sanzionano l’obsolescenza di genitivo e dativo.
A questo punto si può riassumere. Tra i principali fattori di mutamento tradizionalmente correlati con la scomparsa della declinazione nominale latina sono
stati proposti (almeno): 1) una parziale semplificazione della struttura grammati2 Le designazioni tipologiche sono qui e nel seguito maiuscole, mentre i nomi che la tradizione grammaticale ha dato ai casi latini sono minuscoli.
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cale; 2) un’usura fonetica delle desinenze; 3) la concorrenza del coagulo dell’ordine degli elementi; 4) la concorrenza di nuovi giri preposizionali.
Insomma, la vicenda della declinazione latina pare un caso esemplare per la
teoria della causalità di Francesco Ingravallo. Don Ciccio Ingravallo, funzionario
di polizia comandato alla mobile
. . . sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che
dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto
di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che
alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferibilmente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse «riformare in noi il
senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele
Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi . . . La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto
di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della
rosa dei venti quando si avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito
per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo». Come si storce il collo
a un pollo. (Gadda 1957:2s.)
Ritengo però che, se la declinazione ha il ruolo di vittima in questo Pasticciaccio
latino-romanzo, l’autorità di Carlo Emilio Gadda, come di qualche moderno teorico della complessità, vi sarebbe utilizzata speciosamente. Essa servirebbe infatti
soltanto a spacciare la nostra sostanziale incomprensione per una sofisticata attitudine a quella complessità. Due ragioni mi inducono a fare questa affermazione.
La prima ragione è che il frettoloso elenco non è composto soltanto di «causali». E se di «causali» si tratta, si tratta di «causali» apparenti. Si tratta piuttosto di
una lista di coincidenze. Una cosa è dire che la declinazione deperisce e si affermano i giri preposizionali, gli elementi si serializzano in modo rigido, le desinenze
vanno incontro ad una usura e così via. Una cosa ben diversa è dire che la declinazione deperisce perché si affermano i giri preposizionali, gli elementi si serializzano in modo rigido e così via. Chi sarebbe oggi pronto a sottoscrivere questa
seconda formulazione? O eventualmente la sua conversa? Ci si limita quindi di
norma a una formulazione apparentemente neutra. Questa formulazione dice
meno di quanto lascia intendere e lascia intendere più di quanto sappia argomentare: si tratta di un’insinuazione più che di una spiegazione.
La seconda ragione è che, a ben guardare, la teoria Ingravallo è sì una teoria
della molteplicità delle cause, ma è anche una teoria della integrazione razionale
di tale molteplicità. Essa è infatti una teoria del «vortice» o della «depressione
ciclonica», per usare le metafore meteorologiche di Gadda. Le «causali» vi convergono sistematicamente. La loro interazione è ragionevolmente comprensibile.
Non si tratta quindi di una teoria dell’accumulo di spiegazioni ad hoc per ciascun
fenomeno, ma di una teoria della causalità complessa e integrata.
Ecco perché non è banale domandarsi «come mai?» dopo avere osservato che
«il latino ha una declinazione nominale e le lingue romanze no».
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La declinazione latina era un oggetto grammaticalmente complesso. Che cosa
serve al linguista romanzo per costruire un quadro adatto a trattarne la scomparsa? In altri termini, come l’insieme di solide osservazioni tradizionali è utilizzabile
per penetrare nel mistero di un processo diacronico e per farlo diventare un problema? L’elenco dei punti di vista necessari è costituito da almeno tre elementi:
funzione sintattica, forma fenomenica, orientamento tipologico.
La declinazione va anzitutto considerata in riferimento alla sua funzionalità
sintattica. Nel caso del latino, questo significa che essa deve essere messa in rapporto con le dipendenze dei due nuclei categoriali della sintassi proposizionale, il
nucleo nominale e il nucleo verbale, e con le dipendenze esterne a tali nuclei.
La considerazione fenomenica della declinazione, la lista dei casi va quindi
rapportata alle funzioni sintattiche.
L’interazione di considerazione funzionale e considerazione fenomenica permette la valutazione tipologica della declinazione.
Ecco allora alcune semplici osservazioni rese possibili dall’uso combinato dei
tre criteri.
In latino la dipendenza sintattica del nucleo nominale trovava manifestazione
privilegiata nel genitivo.
D’altra parte, le dipendenze sintattiche del nucleo verbale avevano manifestazione nei casi accusativo e nominativo. Per questa via, accusativo e nominativo erano complessivamente i casi delle dipendenze del nucleo proposizionale.
Si osservi che la compatibilità di accusativo e nominativo con le dipendenze del
nucleo nominale era possibile (e ci riferiamo al primo dei due) solo a condizioni
di rilevante marcatezza3.
Dal medesimo punto di vista, la non-marcatezza era invece la caratteristica del
dativo e, ancora una volta, del genitivo. Ambedue questi casi si prestavano alla
manifestazione di dipendenze del nucleo verbale come del nucleo nominale. Ma si
osservi che alcune dipendenze adverbali manifestate dal genitivo sono state tradizionalmente interpretate come originate da una funzione partitiva, quindi da una
fondamentale e più antica adnominalità.
È noto poi che ablativo è una designazione cumulativa di un ampio numero di
funzioni semantico-sintattiche. Vi trovavano manifestazione soprattutto dipendenze extra-nucleari. Esso entrava anche in numerosi giri preposizionali.
3 Si tratta dei noti casi dell’accusativo di relazione, da interpretare sintatticamente nei termini di una generale sintassi dei costrutti pluripredicativi meronimici, e della reggenza dell’accusativo da parte di nomi di azione (un’antica forma sintattica attestata in Plauto, relitto d’una fase
del latino in cui il sistema era ancora sensibile alla funzione predicativa, priva delle determinazioni e distinzioni categoriali tra nomi e verbi (su questi e altri problemi di dettaglio si tornerà
presto). D’altra parte, il nominativo non era certo estraneo al dominio della frase nominale, ma
(lo si precisa solo per scrupolo di massima chiarezza) quello a cui qui ci si riferisce è appunto il
nucleo nominale e non la frase nominale: Nucleo nominale: ortus solis; Frase nominale: non
semper temeritas felix.
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La stessa caratteristica riguardava l’accusativo. È una delle ragioni che possono
indurre a vedere nell’accusativo il caso di default in latino, in concorrenza con
l’ablativo, naturalmente, come ha poi dimostrato un’evoluzione formale di cui tra
breve diremo.
Si osservi tuttavia che i giri preposizionali avevano ruolo marginale nella manifestazione delle dipendenze nominali e delle dipendenze verbali. Infatti le manifestazioni delle dipendenze verbali e nominali erano per l’essenziale apreposizionali.
L’insieme di queste pacifiche osservazioni grammaticali va strutturato. Un metodo per farlo consiste nel trasporle in un sistema di tratti binari. Tali tratti hanno
canonicamente un valore marcato e uno non-marcato.
Per le osservazioni funzionali, si sono adoperati i tratti [± extra-nucleare], [± adnominale], [± adverbale]. L’ordine non è casuale. Dal punto di vista fenomenico,
si è adoperato il tratto [± preposizionale] e si sono adoperate le designazioni tradizionali dei casi latini. Esse riassumono grossolanamente le relative forme suffissali.
I tratti funzionali sono disposti gerarchicamente, dal più interno rispetto alla
struttura proposizionale, [± adverbale], al più esterno [± extra-nucleare].
Ne risulta il quadro seguente:
[+ extra-nucleare]
[- extra-nucleare]
[- adnominale]
[- adverbale]
[+ adverbale]
[+ adnominale]
Prep +
abl/acc
oggetto
soggetto
tipo:
Accusat.
tipo:
Nominat.
⇐
abl
gen
dat’ e gen
⇒
acc
nom
[+ preposizionale]
[- preposizionale]
Fig. 1: Il sistema della declinazione latina.
Abbiamo sovrapposto a questo quadro delle frecce. Esse indicano i vettori presi dalle spinte d’una tendenza evolutiva testimoniata dal latino sin dalle sue fasi
più arcaiche. Queste spinte hanno annichilito la declinazione nominale.
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Osservato dalla prospettiva del romanzo, il latino tende verso una generalizzazione dell’opposizione tra adverbalità e non-adverbalità nella manifestazione
flessiva delle dipendenze sintattiche (è quanto indica la freccia posta in alto della
tabella). Non più un sistema tripartito, con manifestazioni che riflettono i tre gradi
della tripartizione, ma un sistema che espelle progressivamente ogni distinzione
che non riguardi la sintassi verbale.
Questa tendenza è del resto facilmente collegabile con il mutamento tipologico
del modulo casuale. Il larghissimo prevalere della forma retta a scapito della forma
soggetto dovunque ciò sia verificabile (cioè non sparsi fatti residuali, ma lo stato
generale del lessico romanzo) dimostra inequivocabilmente quanto segue. Lo
schema oppositivo scivolava da un orientamento Accusativo/Nominativo verso un
orientamento Attivo/Stativo, se non addirittura Ergativo/Assolutivo4, in cui sempre più ristretto era il ruolo dell’antica forma del nominativo e sempre più largo
era il ruolo dell’antica forma dell’accusativo, dal punto di vista fenomenico perché
dal punto di vista funzionale (frecce poste nella parte inferiore della tabella). La
relazione grammaticale più intrinsecamente connessa con la sintassi verbale è del
resto la relazione di oggetto. La manifestazione destinata a questa relazione riceveva di conseguenza il massimo della forza espansiva.
La generalizzazione dell’opposizione categoriale adverbale/non-adverbale è
quindi coerente col mutamento tipologico. Non è per altro da escludere che ambedue siano l’effetto di una causa ancora più generale.
È al contrario sicuro e lampante che la generalizzazione dell’opposizione tra adverbale e non-adverbale si combina alla perfezione con l’uso d’una forma casuale
di default, quella della relazione adverbale per eccellenza (la relazione di oggetto),
fenomenicamente accusativa, senza più esserlo tipologicamente.
Veniamo velocemente alle conseguenze, a questo punto. Quelle pertinenti allo
sviluppo di diversi sistemi romanzi sono state tracciate in La Fauci 1997, 2000a,
2000b. Qui ci interessa soprattutto quel che è successo prima della catastrofe.
La distinzione tra manifestazione dell’opposizione adverbale/non-adverbale e
dell’opposizione adnominale/non-adnominale era immediatamente insidiata. Le
dipendenze adnominali non potevano che essere così spinte verso il modello
fenomenico delle manifestazioni delle dipendenze extranucleari.
La declinazione nominale cominciava a proiettare uno schema funzionale di
opposizioni ridondanti. Uno dei segni più chiari e più antichi di questa tendenza è
rappresentato dai casi di sovrapposizione funzionale di genitivo e dativo5.
Dove la flessione nominale disperdeva la fenomenicità d’una partizione categoriale tra le dipendenze, una diversa manifestazione si installava: i giri preposizionali. Tale manifestazione equiparava fenomenicamente dipendenze non adverbali e dipendenze adnominali con dipendenze extra-nucleari.
Rimando a La Fauci 1988, 1990, 1998, Zamboni 1998, 2000.
Cf. in proposito, da un punto di vista certo squisitamente fenomenico, il recente Dardel
1999.
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Si tratta di segni di una vicenda colta tradizionalmente solo nel suo aspetto superficiale di espansione del ruolo dei giri preposizionali. Il quadro concettuale è
quello dello sviluppo di una sintassi analitica a scapito della sintassi sintetica del
latino. Ma basta prendere un punto di vista un po’ più sofisticato e ci si accorge che
si tratta di un processo di allineamento tra partizioni categoriali e partizioni fenomeniche e che tale processo avviene sotto l’influsso di spinte sistematiche. La permanenza di una manifestazione specifica delle dipendenze adnominali era sotto
queste spinte altamente a rischio. Il genitivo e il dativo, i casi che manifestano
d’elezione l’adnominalità e la non-adverbalità tendono a confondersi. Subiscono
in contemporanea la concorrenza dei giri preposizionali con de e con ad, vedono
poi trasferita a questi ultimi la loro portata funzionale6. Questi sono un’autentica
novità, ma non per il loro carattere fenomenico, come si ritiene di norma. In effetti,
i giri preposizionali erano tutt’altro che estranei al latino. Essi rientravano tuttavia largamente nell’ambito della manifestazione delle dipendenze extra-nucleari.
La radicale novità costituita dai giri preposizionali con de e con ad consiste allora
nel fatto che si tratta di manifestazioni di dipendenze non-extranucleari. Una breccia gigantesca si era aperta.
D’altra parte, la forza espansiva della forma casuale di default era già da tempo
penetrata nel dominio fenomenico delle dipendenze extranucleari, con l’accusativo. L’usura delle desinenze non è altro che la presa d’atto fonetica di un mutamento funzionale. Che cosa avrebbero dovuto distinguere le desinenze se c’era
molto poco o forse più nulla da distinguere? Le preposizioni si accompagnavano
così con nomi posti sotto una generica forma non-marcata. Questa forma non-marcata era l’esito frequente, ma non esclusivo, della confusione tra le forme dell’accusativo e dell’ablativo.
La deriva si accompagnava con l’evoluzione della flessione verbale, dove l’instaurarsi di un sistema di forme perifrastiche e la nascita di una specifica diatesi
passiva sosteneva in modo specifico la strutturazione di un’opposizione diversa da
quella Accusativo/Nominativo. Si trattava appunto di un’opposizione Attivo/Stativo per la distinzione dell’ausiliare e per i due sistemi di accordo, forme verbali
finite e participio (rimando ancora una volta a La Fauci 1988).
L’antica opposizione tipologica Accusativo/Nominativo fuggiva nella serializzazione degli elementi. Un ridotto a partire dal quale tentare una rinascita. Una rinascita riuscita. La spinta interna dell’opposizione adverbale-non adverbale ha
condotto da secoli alcune varietà romanze verso una codifica preposizionale
dell’oggetto sotto specifiche condizioni. Con l’oggetto preposizionale è così rinato
l’Accusativo.
È questa la prova che anche per le forze dell’evoluzione linguistica vale forse il
paradosso costante dell’eteronomia, non si dica dei fini, ma degli esiti. In un para6 Su questa evoluzione e sui suoi correlati sintattici, soprattutto per quel che concerne gli esiti
romanzi orientali cf. Iliescu/Macarie 1964. Una sintesi recente, con una larga documentazione
classificata per categorie fenomeniche superficiali, si trova nel recente Molinelli 1996.
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digma della complessità integrata delle forze evolutive, è bene immaginabile come
la spinta verso una diversa organizzazione conduca al fondo del percorso e per
l’interazione con altre forze al ripristino dell’organizzazione da cui si era partiti.
Zurigo
Nunzio La Fauci
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