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RASSEGNA STAMPA mercoledì 14 maggio 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO L’UNITÀ AVVENIRE IL FATTO REDATTORE SOCIALE PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA del 14/05/14, pag. 9 1000 miliardi di euro in 10 anni Raffaella Bolini Ucraina. Il budget «atomico» esposto nel libro di Hessel «Esigete! Un disarmo nucleare» In giro per il mondo, in ogni minuto della nostra vita e qualsiasi cosa stiamo facendo, ci sono 20.500 bombe atomiche, per un potere distruttivo totale pari a 600 mila volte quella di Hiroshima. Le possiedono i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza con diritto di veto delle Nazioni unite (Usa, Russia, Regno Unito, Francia e Cina) e anche India, Pakistan, Israele e Corea del Nord. Molti altri paesi le hanno sui propri territori, pronte all’uso o stoccate nei depositi. Circolano per terra e per mare trasportate su portaerei e via strada. In Europa armi nucleari sono installate nelle basi Nato in Germania, Belgio, Paesi Bassi, Turchia. In Italia i depositi sono ad Aviano e Ghedi. Dieci sono i porti italiani in cui possono attraccare navi armate di missili nucleari o sommergibili a propulsione nucleare: Augusta, Taranto, Livorno, Brindisi, Gaeta, Castellammare di Stabia, Cagliari, Napoli, Trieste, La Spezia. Il budget del nucleare militare nel mondo per i prossimi dieci anni è previsto in mille miliardi di euro. Una cifra che non include il grande comparto di spesa che finanzia l’intersezione fra nucleare militare e civile –con quest’ultimo che nutre la ricerca, la modernizzazione e la capacità di potenziale dei paesi che sono «sulla soglia», non possedendo armi nucleari ma essendo in condizione di produrla. Queste e molte altre informazioni sono contenute nel breve ma intenso libro postumo di Stephane Hessel Esigete! Un disarmo nucleare totale pubblicato in Italia da Ediesse a cura di Mario Agostinelli, Luigi Mosca e Alfonso Navarra. È l’ultimo appello che Hessel rivolge ai giovani del suo paese e del mondo intero. A differenza della Francia, paese dell’autore, in Italia ci sono generazioni di attivisti formati nella lotta contro il nucleare civile e militare. Grandi movimenti di massa nei decenni passati hanno fatto di questa battaglia una grande priorità politica e culturale. Molti dei dati che il libro riporta sono conservati nel codice genetico di migliaia e migliaia di persone nel nostro paese. Grazie anche a quel patrimonio di esperienza e consapevolezza, siamo stati in grado di vincere due referendum contro il nucleare civile. Eppure, o forse proprio per questo, il libro di Hessel va letto e diffuso, ovunque. È un grande aiuto a far sì che la coscienza antinucleare si rigeneri, si trasmetta, si riproduca. Hessel, insieme ai curatori del libro, ci ricorda che le armi atomiche sono un pericolo permanente, pervasivo, quotidiano. Un sottofondo di terrore che accompagna la vita di tutti e di ciascuno anche nei tempi o in luoghi in cui paiono non esplicitamente minacciose. Chernobyl è un deserto che ancora semina veleno nella terra e nelle vene delle persone, ventotto anni dopo. La radioattività di Fukushima naviga per gli oceani. Le conseguenze mortali degli esperimenti nucleari dei decenni passati chissà se mai sarà possibile misurarle. Le scorie radioattive riempiono il pianeta –terre dei fuochi sono seminate ovunque. Sono 146 i paesi che hanno votato all’Onu per una Convenzione di eliminazione delle armi nucleari. Ma la corsa non si ferma, e ci coinvolge direttamente. Le nuove bombe B61 saranno rese trasportabili entro il 2020 dagli F35. Viene fatto passare per un ammodernamento, in realtà si tratta di un grande salto di qualità: sono bombe che, una volta sganciate, non cadono per gravità ma possono dirigersi su obiettivi specifici. Il pacifismo è tornato in campo alla grande, con l’Arena di Verona. Ce n’è 2 bisogno, su tanti fronti dell’azione pacifista, mentre con l’Ucraina ritorna la guerra sul continente europeo insieme a una nuova guerra fredda. Disarmo e lotta al nucleare sono componenti fondanti di un nuovo progetto politico e sociale. Il Presidente della Repubblica ha recentemente tuonato contro l’antimilitarismo. Per fortuna, c’è l’articolo 11 della nostra Costituzione a sancire invece che esso è un valore. Grazie, partigiano Hessel. Da Adn Kronos del 13/05/14 Immigrati: Arci, aprire subito corridoi umanitari Roma, 13 mag. (Adnkronos) - "Vengano subito aperti dei corridoi umanitari per evitare che si rischi la vita per avere diritto d'asilo". È quanto chiede l'Arci, in una nota del responsabile immigrazione, Filippo Miraglia. "I morti nel Mediterraneo sono responsabilità di tutti scrive-. L'Italia e l'Europa non devono nascondersi: i viaggi sulle carrette del mare sono la diretta conseguenza dell'impossibilità di entrare legalmente nei paesi dell'UE a causa delle leggi che ne regolano gli ingressi in modo restrittivo". Un sistema di prima e seconda accoglienza dignitoso non può più essere derogato, sostiene Miralia, che chiede anche "la fine delle polemiche sui costi dell'operazione Mare Nostrum. Una polemica fatta per meri scopi elettorali e propagandistici che contraddice l'art. 10 della nostra Costituzione. Condividiamo il richiamo alle responsabilità indirizzato all'UE, ma denunciamo l'inadempienza dell'Italia nell'applicazione degli standard previsti dalle direttive europee nelle misure di accoglienza e tutela rivolte ai richiedenti protezione internazionale". L'Arci infine denuncia "il modo improvvisato con il quale è gestita l'accoglienza dei minori: nel comune di Augusta 25 sono attualmente alloggiati nella stessa struttura con persone affette da disagio mentale grave. Altri 170 minori sono all'interno di una scuola senza alcun servizio di mediazione e tutela. Gli ultimi sbarchi raccontano la presenza di sempre più minori e sempre più piccoli. È il segnale di una forte disperazione nei luoghi di partenza. Cosa aspettiamo -conclude la nota- a riconoscerli tutti come bisognosi di protezione?". Da Repubblica.it (Genova) del 13/05/14 De Gennaro alla Fondazione Ansaldo, per Vesco è "sconcertante" Anche SeL Genova si unisce all'appello contro la nomina del presidente di Finmeccanica, capo della polizia durante il G8 2001 De Gennaro alla Fondazione Ansaldo, per Vesco è "sconcertante"Gianni De Gennaro La nomina di Gianni de Gennaro, alla presidenza della Fondazione Ansaldo, "una delle più importanti istituzioni dedicate alla cultura industriale e lavorativa" della Liguria è "sconcertante". E' quanto afferma l'assessore regionale al Lavoro della regione Liguria Enrico Vesco, sottolineando che "nessuno ha dimenticato che De Gennaro era a capo della polizia nel periodo del G8 di Genova, delle violenze contro i manifestanti, degli abusi alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto". "Mi associo all'appello contro questa nomina e sono convinto che le istituzioni locali debbano respingere con forza questa assurda imposizione e costringere Finmeccanica a fare marcia indietro", ha affermato Vesco. 3 E anche Sinistra e Libertà genovese aderisce all'appello lanciato da Comunità di San Benedetto, Arci e cittadini contro la nomina che è vista, come scrive il coordinatore provinciale Massimiliano Milone, "come un atto provocatorio nei confronti della nostra città e delle centinaia di migliaia di persone che hanno pacificamente partecipato alle manifestazioni di Genova durante il G8 del 2001e che ancora oggi sono segnati dagli avvenimenti di quei giorni" . Sabato scorso il presidente della Fondazione per la Cultura palazzo Ducale, Luca Borzani, aveva rimesso il suo mandato di consigliere della Fondazione nelle mani del sindaco Marco Doria. Che però, con un lungo intervento postato sulla sua pagina Facebook, aveva chiarito l'intenzione di confermare la fiducia a Borzani, sottolineando altresì che "doveroso è rispettare le sentenze, tutte, quelle che hanno condannato e quelle che hanno assolto. E tale rispetto è assolutamente obbligato e giusto da parte di chi ricopre ruoli istituzionali. Le sentenze e i processi non sono comunque sufficienti per elaborare una valutazione storica e politica delle giornate genovesi del luglio 2001". Una posizione che è stata ritenuta insufficiente dai promotori della mobilitazione, che chiedono la revoca della nomina, condivisa anche dai pacifisti dell'ora in silenzio, che su questo tema hanno preparato il volantino che sarà distribuito domani dalle 18 alle 19 davanti al Ducale. http://genova.repubblica.it/cronaca/2014/05/13/news/de_gennaro_alla_fondazione_ansald o_per_vesco_sconcertante-86049653/ 4 ESTERI del 14/05/14, pag. 6 Rajoy e socialisti tremano, avanza Izquierda Unida Jacopo Rosatelli Spagna. Circola l’ipotesi di larghe intese, mentre i sondaggi danno i due partiti al minimo storico. Ma ieri la campagna elettorale si è fermata per l'uccisione della segretaria del Partido popular della provincia di León. E c’è chi strumentalizza Per un giorno, la campagna elettorale in Spagna si è fermata. Ieri tutto sospeso in segno di lutto per l’omicidio della segretaria del Partido popular (Pp) della provincia di León, nel nord del Paese. Un crimine non a sfondo politico, ma compiuto molto probabilmente da una donna di 35 anni, arrestata dalla polizia, per una sorta di vendetta. Non manca però, sullo sfondo della vicenda, lo scenario di crisi che in cui versa il Paese iberico: la presunta colpevole è una disoccupata, già lavoratrice precaria della provincia. E non mancano, di conseguenza, le strumentalizzazioni: isolate, ma rumorose. Come quella della sindaca di Valencia, Rita Barberá, esponente dell’ala più di destra del Pp: l’omicidio è certamente dovuto a questioni personali, ha dichiarato, «ma in Spagna si è creato un brodo di coltura di radicalismo e violenza» contro il quale le istituzioni devono agire «per recuperare uno spirito di convivenza civile». L’accusa di Barberá non è nemmeno troppo velata: i «mandanti morali» dell’omicidio della leader del Pp di León sono tutti coloro che, dall’acampada di Puerta del Sol (15 maggio 2011) in avanti, hanno manifestato in modo «illegale» contro le politiche antisociali dei governi di José Luís Zapatero, prima, e di Mariano Rajoy ora. Sul banco degli imputati dovrebbero finire, dunque, occupazioni di case, picchetti durante gli scioperi, manifestazioni non autorizzate intorno al Parlamento, azioni di resistenza nonviolenta contro gli sfratti. E forse, nella visione dell’arcireazionaria sindaca di Valencia, anche l’opposizione del partito socialista (Psoe), sempre accusati dagli avversari del Pp di «alzare troppo i toni». In realtà, negli ultimi giorni si sono moltiplicate le voci, anche nel seno dei socialisti, che ipotizzano per la Spagna (e l’Europa) un futuro di «larghe intese» sul modello tedesco. Un’idea rilanciata con forza dall’ex premier Felipe González, che ha costretto il segretario Alfredo Pérez Rubalcaba a correre ai ripari: «Finché sarò alla guida del Psoe — ha dichiarato — non ci sarà mai una grande coalizione con il Pp». Sulla stessa linea anchen la capolista alle europee, Elena Valenciano. Non potrebbe essere altrimenti: difficile mobilitare il proprio elettorato (e pescare fra gli astensionisti) se ciò che si prospetta è un accordo con l’impopolare forza attualmente al governo. Un sondaggio diffuso ieri (in Spagna la legge lo consente) ha messo in luce che la formazione del premier Rajoy il 25 maggio perderà consensi rispetto alle politiche del 2011: un risultato che si tradurrebbe in un quarto di eurodeputati in meno di quelli ottenuti cinque anni fa. Non farebbe molto meglio il Psoe, incapace di recuperare il consenso evaporato a causa delle scelte pro-austerità dell’ultimo anno di governo Zapatero: il numero di seggi a Strasburgo calerebbe, anche nel loro caso, di circa un quarto. Decisamente positive le previsioni che riguardano Izquierda unida, la lista che in Spagna sostiene la candidatura di Alexis Tsipras a presidente della Commissione Ue, che moltiplicherebbe i rappresentanti nell’Europarlamento dagli attuali 2 a 8. In salita i centristi laici di Upd, stabili i nazionalisti di centrodestra catalani e baschi, mentre sono un’incognita due liste che si affacciano all’appuntamento con le urne per la prima volta: podemos e il 5 partito x. Due forze che, in modo diverso, si richiamano all’esperienza degli indignados e di cui nessuno è in grado di prevedere l’impatto sul sistema politico iberico. Nemmeno i sondaggisti, come denunciano proprio gli esponenti del partito x, che lamentano il proprio oscuramento dalle rilevazioni di opinione: «Vedono solo quello che c’è già e non sono in grado di capire l’umore della strada». del 14/05/14, pag. 9 «Se la Nato si allarga, a Kiev guerra civile» Simone Pieranni Ucraina. Wikileaks rilascia un cable dell’ambasciatore americano a Mosca del 2008 Wikileaks ha rilasciato un cable del primo febbraio 2008, nel quale l’allora ambasciatore americano a Mosca, rende note le opinioni di esperti e di Lavrov, il ministro degli esteri russo, circa la possibilità di un allargamento della Nato a est e in particolare un’eventuale adesione dell’Ucraina. Gli esperti e Lavrov appaiono chiari — siamo nel 2008 — al riguardo: l’ipotesi di un coinvolgimento ucraino nell’Alleanza, scrive l’ambasciatore Usa, «potrebbe portare a una vera e propria guerra civile in Ucraina». Come puntualmente avvenuto, quest’anno. Come molti altri cable rilasciati da Wikileaks, non è tanto la novità degli argomenti ad essere rilevante, per lo più si tratta di aspetti già usciti nel corso del tempo, grazie a itnerviste, analisi, reportage. Quello che assume primaria rilevanza è invece la conferma di alcuni fatti, che abbiamo la fortuna di poter esaminare a posteriori, una volta accaduti. Oggi siamo di fronte a un vero e proprio conflitto civile in Ucraina, nato a seguito di un feroce scontro a Kiev tra le forze contro Yanukovich e la polizia. L’ex presidente è stato destituito, il governo ad interim di Majdan è stato acclamato dalla folla in piazza, vittoriosa grazie alla manolanza dell’estrema destra, dopo che l’originaria piazza — più composita — è stata «conquistata» dai paramilitari di Settore Destro. All’interno di questo primo scontro, che sarebbe poi tracimato nell’annessione russa della Crimea e all’attuale stato di conflitto tra Kiev e le regioni orientali, fin da subito è apparso chiaro il coinvolgimento degli Stati uniti e della Nato. La prima indiscrezione si ebbe a seguito della telefonata con cui Victoria Nuland insultava l’Unione europea («fuck the Eu») ed evidenziava l’impegno statunitense affinché Yatseniuk potesse diventare il nuovo primo ministro ucraino. Arseni Yatseniuk, considerato «l’uomo americano», poteva essere disponibile al prestito del Fondo monetario e ad un lieve e costante avanzamento della Nato ad est. Poter esaminare tutto quanto ha portato a questa situazione, attraverso la lettura, odierna, di conversazioni e analisi del 2008, permette di dare una linearità a tanti eventi accaduti negli ultimi due mesi. E non si tratta neanche degli unici cable che hanno a che vedere con l’Ucraina, la Nato e la Russia. Nel marzo scorso, alcuni leaks avevano anche consegnato la possibilità di interpretare l’annessione della Crimea alla Russia, a seguito di una costante sensazione di «accerchiamento» aumentata negli anni, da parte di Mosca nei confronti della Nato. Partiamo dall’ultimo cable rilasciato ieri da Wikileaks. L’ambasciatore americano a Mosca, William J. Burns, inizia il cable scrivendo che «a seguito di una blanda reazione alla prima richiesta dell’Ucraina di avviare il processo il Membership Action Plan della Nato al vertice di Bucarest, il ministro degli Esteri Lavrov e altri alti funzionari hanno sottolineato una forte opposizione, sottolineando che la Russia interpreterebbe un’ulteriore espansione verso est della Nato come una potenziale minaccia militare. L’allargamento della Nato, in particolare per l’Ucraina, resta un problema emotivo e nevralgico per la Russia». 6 Quali elementi possiamo prendere in considerazione? Innanzittutto che negli ambienti diplomatici Usa già nel 2008 si valuta l’idea, su richiesta ucraina, di avviare la cosiddetta Map, ovvero il Member Action Program, definito sul sito della Nato, «un programma dell’Alleanza di consulenza, assistenza e sostegno pratico su misura per le esigenze specifiche dei paesi che desiderano aderire all’Alleanza». Nel cable l’ambasciatore americano sottolinea come queste «pratiche» rischino di portare il paese nel caos, a causa del sentimento anti Nato, da parte di gran parte della popolazione filorussa. «La Russia — scrive Burns –è fortemente preoccupata che le spaccature in Ucraina circa il sentimento nei conronti della Nato possano portare a violenze, o peggio a una guerra civile». A questo si aggiunge il giudizio del ministro degli esteri di Mosca, sull’opera di allargamento della Nato a est. «Lavrov ha sottolineato che che alcuni paesi, sotto l’ombrello della Nato, rischiano di riscrivere la storia e glorificare i fascisti». del 14/05/14, pag. 15 Merkel: “Io parlo sempre con Putin Il dialogo è l’unica via praticabile” STEFAN HANS KLASENER MARTIN KORTE L’INTERVISTA BERLINO «LA crisi ucraina? Certo non ci sono soluzioni militari». «Putin e io riusciamo sempre a parlare, anche in questa difficile fase». Lo dice la cancelliera Angela Merkel. Crede nell’efficacia di sanzioni contro la Russia? «Dall’inizio seguiamo una strategia su tre punti per risolvere la crisi: primo, appoggiamo l’Ucraina nel suo percorso politico di autodeterminazione, e in questo senso le presidenziali del 25 sono un passo importante. Aiutiamo il paese e i suoi cittadini concretamente, consigliando riforme urgenti. Secondo, puntiamo al dialogo con la Russia e, insieme alla Osce, a una tavola rotonda in Ucraina, per una soluzione diplomatica. Terzo, siamo pronti a ulteriori sanzioni, se la Russia non s’impegnerà per la stabilizzazione. Noi europei dobbiamo anche pensare a medio termine e renderci più indipendenti dal gas russo. La proposta del premier polacco Tusk per un’unione europea dell’energia va nella giusta direzione». Ma se la Russia si mostrerà indifferente alle sanzioni? «La crisi non può avere soluzioni militari. Adesso può sembrare che in Crimea e altrove s’imponga la legge del più forte, ma se mostreremo ampio respiro alla fine s’imporrà la forza del diritto». Sanzioni più dure colpiranno anche noi… «Dopo le catastrofi del ventesimo secolo l’Europa si è data regole irrinunciabili fondate sul diritto internazionale, che danno sicurezza a tutti. Se diventa possibile violare l’integrità territoriale d’un paese, pagheremo tutti un alto prezzo, anche l’economia tedesca con i suoi interessi nell’export. Proprio per la nostra economia è centrale che non siano posti in discussione i fondamenti della coesistenza pacifica in Europa». Una buona parte dell’opinione pubblica tedesca ha comprensione per Putin: perché? «Quest’anno celebriamo i 100 anni dall’inizio della prima guerra mondiale, i 75 anni dallo scoppio della seconda, i 25 anni dalla caduta del Muro. Le esperienze amare del secolo 7 scorso hanno messo radici profonde nella memoria della gente. Ciò non significa che la gente accetti violazioni del diritto, bensì che spera come noi tutti in una soluzione diplomatica». Si fida ancora di Putin? «Putin e io possiamo sempre parlarci, anche in questa fase difficile. Lui e io vediamo molti aspetti della crisi ucraina in modi totalmente differenti. Non posso e non voglio tornare come se niente fosse all’ordine del giorno, perché se un simile comportamento tra Stati farà scuola avrebbe per conseguenza scontri imprevedibili in Europa. E l’Ucraina ha rinunciato alle sue atomiche in cambio di una garanzia russa sulla sua integrità territoriale». Davvero lei ha un canale speciale con Putin? «Anche altri lavorano intensamente per una soluzione costruttiva: il ministro degli Esteri Steinmeier, i responsabili della Osce, il presidente dell’esecutivo europeo Van Rompuy, lady Ashton, diversi capi di governo. La cosa importante è che l’Europa e i suoi partner transatlantici mostrino unità d’azione». La Ue ha premuto molto, troppo dicono alcuni, per l’accordo di associazione con l’Ucraina. Non è stato un errore? «Spesso si dimentica che fu l’ex presidente Yanukovich a negoziare per anni quell’accordo e a dire che lo voleva. Il suo improvviso dietrofront causò una profonda delusione in parte dell’opinione pubblica ucraina, là fu l’origine del movimento di Majdan. Negli anni scorsi la Ue e il governo federale sono stati in stretto dialogo anche con la Russia sul vicinato comune». I separatisti devono partecipare alla Tavola rotonda per risolvere la crisi? «Tutti i rappresentanti delle regioni e della società ucraina, che si identificano nella rinuncia alla violenza dovrebbero partecipare a questo dialogo nazionale ». Intanto nella Ue, con le elezioni imminenti, nazionalisti e antieuropei accrescono i loro consensi, e probabilmente meno del 50 per cento degli elettori andrà a votare. Come vuole rianimare lo spirito dell’Europa? «L’Europa unita — la crisi ucraina torna a mostrarcelo — ha per noi tutti valore inestimabile. Le generazioni prima di noi dovettero ancora andare in guerra. Noi costruiamo nella pace il futuro del nostro continente, e ogni elettore può esprimere la sua libera scelta il 25 maggio. È importante comunicare alla gente ogni giorno che viviamo in sicurezza, libertà e benessere. A noi tedeschi fu tesa la mano, dopo il 1945. Noi l’abbiamo accettata, e abbiamo dato il nostro contributo alla costruzione dell’Europa: soprattutto noi dovremmo dare grande valore alla costruzione di pace chiamata Europa. Senza stretti legami di amicizia coi vicini, non avremmo mai avuto la riunificazione. E anche economicamente, l’Europa è per noi un vantaggio enorme». del 14/05/14, pag. 14 Esplosione nell’impianto di Soma Centinaia di operai intrappolati Strage in miniera più di 150 vittime a due chilometri di profondità CORSA contro il tempo nella notte nella miniera di carbone di Soma, nella provincia di Manisa della Turchia nord-occidentale, con i soccorritori lanciati nel tentativo di salvare tra i 200 e i 300 minatori rimasti intrappolati a duemila metri di profondità, dopo un’esplosione 8 che ha provocato un incendio e il crollo di parte della struttura. Secondo le autorità, a tarda notte i corpi recuperati erano 104 e i feriti 54. Il sindaco di Manisa, Caner Erguen, ha parlato di almeno 157 morti e 75 feriti. Somiglia a un inferno quello ripreso dalle immagini delle televisioni turche: i soccorritori escono dalla miniera trasportando barelle, sopra i feriti con il volto nascosto dalle maschere a ossigeno, ma anche corpi senza vita, avvolti in coperte. Il timore che il numero delle vittime alla fine possa essere molto più alto deriva soprattutto dal fatto che già durante la notte le riserve di ossigeno erano probabilmente già agli sgoccioli. Per questo i soccorritori hanno continuato a pompare aria fresca verso le gallerie in profondità, ma senza certezza. Davanti alle proporzioni che sembra poter assumere il disastro di Soma (che ricorda drammaticamente la tragedia del 1956 a Marcinelle in Belgio, in cui morirono 262 minatori in gran parte italiani), il premier Recep Tayyip Erdogan ha annullato una visita prevista oggi in Albania. Secondo il governatore provinciale, Bahattin Atci, fra 200 e 300 minatori sono rimasti bloccati a quattro chilometri dalle uscite in fondo alla miniera di carbone di proprietà di una società privata, situata a circa 120 chilometri a nord-est di Smirne. Dalle 19 i soccorritori hanno iniziato a raggiungere alcuni degli uomini bloccati sotto terra. Ma hanno estratto anche molti corpi ormai senza vita. Secondo il fratello di uno dei minatori bloccati, le maschere antigas hanno un’autonomia fra 45 minuti e un’ora e mezza. L’incidente si è verificato nel pomeriggio di ieri durante un cambio di turno. Secondo l’emittente Ntv l’esplosione, avvenuta a due chilometri di profondità, sarebbe stata provocata da un cortocircuito. Le gallerie sono state invase da fiamme e fumo denso. Al momento dello scoppio in fondo alla miniera c’erano 580 minatori. Circa 300, che si trovavano in altre gallerie, sono riusciti a fuggire subito. I soccorritori sono stati divisi in quattro squadre, lavorando senza sosta nel disperato tentativo di estrarre dalle viscere della terra i sepolti vivi. Il fumo, l’incendio e il black-out elettrico hanno reso l’intervento pericoloso e diversi soccorritori hanno dovuto essere ricoverati. Centinaia i familiari dei minatori intrappolati che si sono riuniti davanti ai cancelli della miniera, in un’angosciante lunghissima attesa. del 14/05/14, pag. 7 Il ciclone Modi segna la fine di un’epoca Matteo Miavaldi NEW DELHI India. Exit poll, vince la National Democratic Alliance L’esito delle urne anticipato dagli exit poll indiani incorona all’unanimità il candidato del Bharatiya Janata Party (Bjp) Narendra Modi come prossimo primo ministro della Repubblica indiana, seppur con un’enorme incognita. Storicamente gli exit poll in India si sono rivelati strumenti poco affidabili per interpretare realisticamente l’esito finale del voto – atteso per venerdì 16 maggio – come provano le esperienze recenti delle elezioni locali di Delhi (nessuno aveva predetto l’emergere dell’Aam Aadmi Party come terzo partito nella capitale) o delle nazionali del 2009, quando tutte le proiezioni indicavano una vittoria schiacciante del Bjp, salvo poi essere ribaltate dalla riconferma al governo della coalizione guidata dall’Indian National Congress (Inc). Nonostante queste premesse, i media indiani hanno celebrato ampiamente l’effetto devastante della cosiddetta «Modi Wave», la marea pro Modi in grado di assicurare alla coalizione di destra della National Democratic Alliance (Nda) un numero di seggi da 9 record: tra i 250 e i 280, sicuramente intorno alla soglia di 273, la maggioranza parlamentare necessaria per la formazione dell’esecutivo. In una tornata elettorale per molti aspetti destinata ad entrare nella Storia – record di aventi diritto al voto, 815 milioni; record di affluenza, 66,38 per cento – il popolo indiano sembra aver premiato la meticolosa campagna elettorale architettata dagli strateghi al servizio di Modi, un connubio perfetto di propaganda mediatica indirizzata alle élite urbane – con social network e copertura televisiva inedita – e lavoro «sul campo» tra gli strati sociali tradizionalmente estranei al partito della destra hindu. Se nell’India meridionale, dove temi, lingua e istanze hanno creato un panorama politico a sé, il Bjp si è riconfermato largamente minoritario (virtualmente inesistente in Tamil Nadu, dove il partito regionale dravidico di Jayalalithaa ha fatto il pieno con oltre il 40 per cento delle preferenze), oltre a consolidare la propria presenza nel nord ovest indiano, Modi ha sbaragliato il resto dei partiti in Uttar Pradesh (Up) e Bihar, un bacino da oltre 140 milioni di voti rappresentato alla Lok Sabha (la Camera bassa del parlamento centrale) da 120 seggi. In una personalizzazione dello scontro politico, Modi aveva deciso di candidarsi – oltre che nel «suo» Gujarat – anche nella circoscrizione della città santa di Varanasi, legittimandosi agli occhi dell’elettorato di fede hindu come il candidato prescelto da una delle divinità del pantheon induista, territorio che, incidentalmente, il Bjp sapeva di dover fare proprio per aumentare il numero di seggi vinti strappandoli ai partiti locali: il Samajwadi Party (partito di governo in Uttar Pradesh, espressione delle caste basse) e il Bahujan Samaj Party (partito dei dalit). In Up il Bjp si sarebbe assicurato, come minimo, ben 50 seggi, mettendo di fatto un piede nella residenza di South Block, Raisina Hill, gli appartamenti riservati al primo ministro indiano a New Delhi. L’Inc, reduce da una campagna elettorale mal gestita affidata a un leader in perenne carenza di carisma com Rahul Gandhi, si prepara ad incassare la disfatta. Perdendo quasi ovunque nel paese il partito della dinastia Nehru-Gandhi si aggiudicherebbe, secondo gli exit poll, non più di 100 seggi, un risultato al di sotto delle aspettative più catastrofiche. Le alte sfere del partito ieri hanno disertato le dirette tv degli exit poll, uscendo solo oggi allo scoperto nel tentativo di salvaguardare la figura del delfino Rahul dall’ecatombe elettorale. In caso di conferma degli exit poll, hanno sottolineato, la debacle non sarà imputabile al figlio di Sonia Gandhi, bensì ai ministri e rappresentanti dell’esecutivo ora in carica (del quale il giovane Rahul non ha mai fatto parte). Aspettando i risultati di venerdì, l’euforia dell’elettorato pro Modi sembra annunciare davvero la fine di un’era. del 14/05/14, pag. 8 Cuba, ecco le riforme contro l’isolamento Roberto Livi L'AVANA Trattative con l'Ue. L’Europa ha avviato trattative ufficiali con il governo cubano per accordi bilaterali di natura politica e di cooperazione economica. L’Italia è il secondo partner commerciale europeo dell’Avana, con un giro d’affari di 340 milioni di euro L’Unione europea ha formalmente avviato alla fine di aprile trattative con il governo di Cuba, per giungere a un Accordo di dialogo politico e di cooperazione. Nella prima riunione, svoltasi all’Avana, il capo negoziatore del Servizio esteri della Ue, Christian Leffler e il viceministro degli Esteri cubano Abelardo Moreno hanno definito «positiva e 10 costruttiva» la linea adottata. Ovvero discutere di tutti i temi in questione (politici, economici commerciali e diritti umani) «senza porre precondizioni» e con l’obiettivo di giungere a un nuovo trattato bilaterale con l’isola che superi la cosidetta «Posizione comune», decisa dall’Unione nel 1996 e che subordinava le relazioni bilaterali con l’Avana alle acccuse che la destra europea rivolgeva al governo cubano riguardo al rispetto dei diritti umani. Le critiche si riferivano principalmente allo stato della libertà di espressione e associazione, ignorando altri aspetti dei diritti umani – scuola e sanità gratuite, ad esempio — per i quali Cuba era ben più avanti di altri paesi partner dell’Ue. Com’era accaduto – e continua a verificarsi– per il cinquantennale embargo unilaterale imposto dagli Stati Uniti, anche la «Posizione comune» non è servita a muovere di un solo millimetro il governo di Cuba dalle proprie posizioni. E se nell’isola da anni sono in corso riforme del modello socio– economico (socialista) che vanno nella direzione di un’economia mista– legalizzazione del lavoro privato, varo di una nuova legge sugli investimenti esteri che garantisce nuovi possibilità per il capitale straniero– e aprono spazi alla società civile – libertà di comprare e vendere case e auto, diritto di poter viaggiare, moratoria alla pena di morte, innanzi tutto– tutto questo è stato per scelta e decisione autonoma del governo cubano sotto la presidenza di Raúl Castro. Non solo, anche l’isolamento che Cuba ai tempi della «Posizione comune» (1996) doveva subire a livello del subcontinente latinoamericano, ispirato,se non imposto, dagli Stati uniti è ormai acqua passata. Il recente vertice dell’Avana della Comunità degli Stati latinoamericani e dei Caraibi (Celac) ha dimostrato che la situazione è radicalemente cambiata: ospiti del più giovane dei Castro erano più di trenta tra capi di Stato e di governo della regione. Inoltre, due grandi paesi latinoamericani, Brasile e Messico, hanno assunto un ruolo quasi da fratello maggiore che fa la guardia per garantire un ambiente non conflittuale attorno a Cuba – in riferimento alla questione dei diritti umani– oltre che a investire nello sviluppo dell’isola. Posizione non condivisa da altri stati latinoamericani, ma di fatto accettata perché oggi a tutti serve diporre di uno spazio (la Celac) in cui poter, in maggior o minor grado e secondo il momento, marcare una distanza dagli Stati Uniti. La linea di trattare con il governo di Raúl Castro per giungere a nuove aperture sociali e, un domani, anche politiche è sostenuta anche dalla Chiesa cattolica cubana. «A Cuba non vi sarà una primanera araba, ma una tranzione alla cubana centrata sul dialogo con il governo», hanno ripetuto il mese scorso a Madrid Roberto Veiga e Lenier González, direttore e vicedirettore di Espacio laical, rivista che ospita interventi non solo di intellettauli cattolici, ma anche di elementi di spicco del partito comunista, oltre che contributi di cubano-americani. Leffler, ha messo in chiaro che l’Unione ha preso atto di questi cambiamenti ed è disposta «ad accompagnare le riforme» cubane mediante trattative a tutto campo che favoriscano, appunto, nuove aperture economico-sociali nell’isola. Il negoziatore dell’Ue ha messo in risalto come un accordo di cooperazione e dialogo politico con l’Unione va nel senso delle priorità della politica estera cubana, in cerca di una maggiore autonomia attraverso la diversificazione dei propri partner (commerciali). Ma anche per gli impresari europei si prospettano nuove opportunità di investimenti nell’isola in base alle recenti aperture del governo dell’Avana e del suo interesse ad attrarre capitale estero, specie nella Zona speciale di sviluppo di Mariel, una zona franca con un porto in acque profonde a 45 chilometri dalla capitale. «L’Europa ha un tempo limitato per posizionarsi a Cuba prima che sfumi il vantaggio che le offre il fatto che l’embargo decretato dagli Usa impedisce alle imprese statunitensi di competere per il mercato dell’isola. Ma questa situazione potrebbe cambiare in un prossimo futuro, visto che cresce l’interesse per tale mercato da parte di forti gruppi imprenditoriali nordamericani», afferma l’analista Arturo López-Levy. «L’Italia è uno dei Paesi dell’Unione che ha favorito questa evoluzione della posizione comunitaria, cercando appunto di aumentare il margine di 11 consenso del mandato negoziale, pur tenendo ferma la questione dei diritti umani», afferma Pietro De Martin consigliere politico dell’Ambasciata italiana all’Avana. Il nostro paese è il secondo partner commerciale europeo di Cuba, con un giro di affari complessivo di 340 milioni di euro –270 milioni di esportazioni e circa 70 milioni di importazioni da Cuba, con un attivo per l’Italia di circa 200 milioni. Lo sviluppo di tali relazioni commerciali si basa anche «su una solida relazione tra i due Paesi» che, anticipando i tempi dell’Ue, «hanno già siglato (nel 2011 all’Avana, dall’allora sottosegretario Scotti) un accordo di Dialogo politico e cooperazione» che «prevede tre pilastri, quello, appunto, di politica estera, quello commerciale che registra un promettente incremento e quello della cooperazione, già attiva specialmente nel settore agricolo.», afferma De Martin. Due seessioni di dialogo politico sono state condotte dal sottosegretario Mario Giro, nell’ottobre dello scorso anno all’Avana e in aprile a Roma. «Che vi sia interesse nel mercato cubano da parte di imprese italiane lo dimostra la forte partecipazione italiana sia nella Fiera dell’Avana dell’autunno scorso dove, oltre a quelle già operanti nell’isola, hanno partecipato più di 70 nuove imprese e anche nella recente Fiera delle costruzioni vi è stata una nutrita presenza di imprenditori italiani che vogliono esplorare i vantaggi della nuova legge sugli investimenti». Secondo il consigliere politico, uno dei punti forti di questa legge è la possibilità di costituire imprese miste tra investitori stranieri e cooperative (anche non agricole) cubane. Dunque la possibilità di «investire nel settore non statale». Su questo punto, la collaborazione con il settore cooperativo italiano, afferma De Martin, «l’interesse cubano è forte. Per ora la richiesta è di una sorta di assitenza teorico-giuridica, in concreto di una commissione italiana a livello governativo composta di esperti in materia fiscale, giuridica e organizzativa del movimento cooperativo che dia informazioni ed eventualmente indicazioni pratiche alla controparte cubana. In seguito, speriamo che si passi a una collaborazione orizzontale, con accordi tra cooperative italiane e cubane». La settimana scorsa il quatidiano del Pc Granma metteva in luce come l’Italia sia uno dei paesi che più mostra interesse a investire nella Zona franca di Mariel. De Martin conferma questa tendenza «anche se, commenta, speriamo che il governo cubano ci aiuti di più a informare gli imprenditori italiani sulla realtà di Mariel. Ad esempio organizzando una visita alla Zona di sviluppo speciale per gli ambasciatori dei Paesi, come il nostro, che mostrano maggior interesse a investire». 12 INTERNI del 14/05/14, pag. 1/15 Il vestito su misura Livio Pepino Corruzione Expo. Decenni di malaffare dimostrano che non siamo di fronte a una corruzione nel sistema ma a una ben più grave corruzione del sistema. Se non si parte da qui, traendone le dovute conseguenze, le promesse di cambiamento sono pura ipocrisia Di nuovo arresti eccellenti e relazioni pericolose eclatanti. Addirittura – almeno in parte – gli stessi nomi di vent’anni fa. E, con essi, le forze politiche eredi dei partiti protagonisti di Tangentopoli. Vent’anni fa il terreno privilegiato della corruzione era il Metrò, oggi è Expo 2015, che si aggiunge al sistema sanitario lombardo, alle municipalizzate romane, all’alta velocità ferroviaria toscana, alla attività del Monte dei Paschi di Siena per limitarsi alle vicende più recenti e conosciute. Nulla è cambiato, anche se alcuni editorialisti indipendenti si affannano a spiegare che è diminuita l’entità delle percentuali richieste nel rapporto corruttivo e che gli arricchimenti personali prevalgono sul foraggiamento del sistema politico (sic!). A fronte di ciò il Presidente del Consiglio inanella banalità: «Se ci sono problemi con la giustizia, si devono fermare i responsabili e non le grandi opere»; «l’Italia è molto più grande delle nostre paure, è molto più bella delle nostre preoccupazioni». Incredibile ma vero, e, a seguire, l’ennesima operazione di maquillage, con la nomina di un commissario straordinario di cui, tra l’altro, non si conoscono i poteri. Benissimo: fermiamo i responsabili e non le grandi opere! Ma possono – per favore – il presidente del Consiglio e il suo brillante entourage spiegarci perché ciò non è stato fatto negli ultimi trent’anni (e si potrebbe andare molto più addietro, ché già nel 1916 Vilfredo Pareto denunciava che all’origine di tutti i grandi patrimoni ci sono attività illecite connesse con gli appalti governativi, le opere ferroviarie e le imprese pubbliche)? L’inerzia al riguardo è stata tale da indurre Piercamillo Davigo, uno dei pubblici ministeri protagonisti di Mani pulite a dichiarare che «per l’attività di contrasto alla corruzione in Italia potrebbe rivelarsi addirittura profetico quanto Joseph Roth scriveva a proposito della protagonista di uno dei suoi racconti: ’Nessuno aveva desiderato che restasse in vita e perciò era morta’». Abbiamo da decenni una corruzione che costa ai cittadini oltre sessanta miliardi di euro l’anno. Parallelamente i costi della politica sono aumentati in modo esponenziale e la campagna elettorale del 2008 è costata, nel nostro paese, dieci volte di più di quella del 1996. E così difficile ipotizzare che tra i due fenomeni ci sia un nesso? Non aveva eluso il problema – né aveva usato luoghi comuni rassicuranti – Enrico Berlinguer che, già in una famosa intervista del 1981, aveva segnalato, con efficacia e lungimiranza, che «la questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano». Difficile non cogliere l’abissale differenza tra l’analisi dell’allora segretario del Pci (avvalorata dalla 13 storia degli anni successivi) e le spensierate rassicurazioni dell’attuale segretario del Pd e presidente del Consiglio. Ma non è un caso. Ricordo due episodi. Il primo, poco più di un anno fa quando venne arrestata la presidente di Italferr ed ex presidente della Regione Umbria, Maria Rita Lorenzetti. Con l’accusa di essere al centro di uno scambio di favori illeciti (elargizione di incarichi, vantaggi per gli amici, attribuzioni di consulenze etc.) ruotanti intorno ai lavori per il tunnel destinato al passaggio dei treni superveloci sotto il centro di Firenze (in un contesto in cui – guarda caso – il costo delle linee Tav nel nostro paese supera di sei-sette volte quello di Francia, Spagna o Giappone). Nessuno parve sorprendersi: neppure del fatto che la potente notabile Pd definisse “terrorista” l’onesto funzionario regionale che si ostinava a chiamare i “rifiuti” con il loro nome… Il secondo si riferisce a qualche mese dopo quando mi accadde di partecipare a un seminario in cui Alberto Vannucci (autore di un prezioso “Atlante della corruzione”, pubblicato nel 2013 per le Edizioni Gruppo Abele) richiamò l’analisi di Berlinguer e citò, a sostegno, Sandro Pertini. Nel 1974, all’epoca del primo scandalo dei petroli, richiesto se riuscisse a rendere partecipi della propria intransigenza al riguardo i suoi compagni socialisti, Pertini rispose: «Mica sempre. Mi accusano di non avere souplesse. Dicono che un partito moderno si deve adeguare. Ma adeguarsi a cosa, santa madonna?». Ebbene, il commento regalato ai propri vicini da un politico emergente, oggi ministro del Governo Renzi, fu eloquente: «Che palle! Ancora citazioni di trenta o quaranta anni fa, come se da allora non fosse cambiato niente!». Decenni di malaffare dimostrano che non siamo di fronte a una corruzione nel sistema ma a una ben più grave corruzione del sistema. Se non si parte da qui, traendone le dovute conseguenze, le promesse di cambiamento sono pura ipocrisia. del 14/05/14, pag. 1/2 Quelle cinque volte nella villa di Silvio PIERO COLAPRICO EMILIO RANDACIO «C’È UNA busta indirizzata ad Angelo Paris? Dammela», dice Rodighiero al custode. Cattozzo: «Parla piano, parla piano! Quei nomi lì dilli piano, era su tutti i giornali anche lui». «È quella più leggera, portamele tutte», dice Rodighiero. Se Rodighiero si occupa abitualmente dei messaggi, per i pm lo fa anche andando ad Arcore. I contatti del faccendiere Gianstefano Frigerio, più volte condannato, con Silvio Berlusconi e con la Regione trovano ancora più credito leggendo 104 pagine, quelle con cui la procura chiede l’arresto del manager Expo Angelo Paris. Come per il caso Ruby e per il Bunga Bunga, così per il caso Expo: ai pubblici ministeri basta incrociare i telefonini degli indagati con la cella telefonica di Arcore per avere i riscontri che servono. In cinque date, ecco che Gianni Rodighiero, collaboratore di Frigerio, si trova ad Arcore. E, una volta, ci vanno Rodighiero e Frigerio insieme. «Tale dato — scrivono i pubblici ministeri — conferma la veridicità dei riferimenti effettuati da Frigerio ai suoi contatti con i massimi livelli politici del partito (...) per sponsorizzare ai massimi livelli la posizione di Angelo Paris». La ricostruzione dei fatti è limpida. Siamo a poche settimane fa. Il 28 marzo 2014 è un giorno importante per la «cupola». All’hotel Michelangelo, dove Berlusconi lancerà la campagna per le Europee, s’incontrano alle 11,35 Frigerio e Paris. Nel frattempo (poco dopo le 11) Rodighiero è con Sergio Cattozzo, democristiano, ora Udc, beccato giovedì, al momento delle perquisizioni, con alcuni post-it, che aveva tentato di nascondere. Non c’è riuscito, aveva segnato l’importo delle tangenti ricevute 14 dall’imprenditore Enrico Maltauro: 590mila euro in due anni, 490 più 100), con accanto lettere dell’alfabeto, date, suddivisioni, le percentuali dello 0,3 e dello 0,5 a seconda dell’appalto. I due parlano. Cattozzo: «Tieni conto che Gianstefano (incomprensibile) aver parlato di Berlusconi e Berlusconi...». Rodighiero: «Sì, e anzi gli ha parlato e in più gli ha anche scritto, perché l’ho visto io (inc.) andare ad Arcore. Sai che, non dico tutte le settimane, ma il lunedì e il venerdì (impreca), ci ho sempre la lettera da portare. Solo che adesso bisogna stare più abbottonati, c’è il cerchio magico di Berlusconi». I due passano dalla portineria dell’ufficio intitolato a Tommaso Moro e usato come base della cupola. I VERBALI SONO pertanto effettivamente emersi i seguenti dati: Rodighiero, dicono i detective, era ad Arcore il 22 novembre (venerdì), il 20 dicembre (venerdì), il 23 dicembre (lunedì), il giovedì 6 febbraio 2014 e il giovedì 27 febbraio 2014. Com’è noto, Paris il 3 febbraio 2014 aveva partecipato «a una cena ristretta presso Villa San Martino, evento collegabile a Frigerio ». Per quanto riguarda la Regione, si sa dalle intercettazioni e dalle carte giudiziarie che Frigerio incontra una volta per caso Roberto Maroni, che dice di mandargli messaggi per sollecitare «il lavoro delle vie d’Acqua», vantandosi subito dopo per gli interventi del governatore lombardo: «Lo vedi che ho scatenato Maroni sulle vie d’acqua». Ed ecco ancora una volta Rodighiero che compare in Regione per portare questi «pizzini». È lui che il 24 marzo 2014 manda un sms a Gianluigi Frigerio, il nipote prediletto di Gianstefano, dicendo: «Sono giù in Regione», e la cella telefonica si attiva due volte nella zona di Palazzo Lombardia. Con Mario Mantovani il rapporto è ancor più stretto, Frigerio senior e junior si sono impegnati «in coincidenza con la campagna elettorale regionale del 2013», scrivono i magistrati, e «fattivo» è stato il «contributo di Frigerio Gianluigi». Risulta a Repubblica che Gianlugi sia diventato un funzionario della Regione Lombardia. Sta nella «sottounità operativa delle politiche urbane e interventi per l’attrattività e la promozione integrata del territorio». Più che di millanterie, Frigerio sembra insomma disporre di «maniglie» solide. Uno dei suoi quartieri generali è una saletta del bar del Westin Palace. È qui che Frigerio incontra il direttore generale degli acquisti di Expo, Angelo Paris. Serve «una soluzione d’emergenza destinata a ripartire solo tra i principali appaltatori già assegnatari dei lavori da svolgere». Quindi: «Prendete le più grosse — ordina Frigerio a Paris — gli date dieci per una. Semplifica. Se è l’unica via!». Il professore chiede di esercitare pressioni anche sul commissario straordinario: «Con Sala insisti!». I diktat vengono eseguiti: il 21 febbraio Paris mette ansia a Simona Trapletti, responsabile area patrimonio Infrastrutture lombarde. Le dice che entro fine luglio devono concludersi i lavori «underground dei lotti ». Il progetto dev’essere inviato categoricamente entro il 30 aprile: «Se entro quella data non mi mandi il progetto — minaccia — lo faccio io d’ufficio ». Esattamente come da istruzione del «professore». Ma dentro la società Expo sale la tensione, e si scatena la battaglia tra “buoni” e “cattivi”. Il 25 febbraio il direttore generale della divisione partecipanti Expo, Stefano Gatti, contatta Paris per lamentarsi proprio della lettera inviata alla Trapletti. Da alcune parole di Gatti — scrivono i pm nell’integrazione d’arresto del manager Expo — «emerge la volontà di Paris di scavalcare in qualche modo Giuseppe Sala al fine di far prevalere le sue intenzioni sulla realizzazione dei padiglioni e sulla relativa tempistica». È categorico Gatti: «Mi arrivano in mano cose che sono totalmente diverse da quello che è stato deciso... io continuo a concordare delle cose con Peppe (Sala, ndr) e poi mi arrivano delle cose da te che sono completamente diverse ». Gatti avverte Paris: «Stai entrando in un circuito di una pericolosità pazzesca che finirà con incidenti pazzeschi 15 con i Paesi (espositori, ndr ) ». Il manager si scaglia contro il collega, accusandolo di voler «far saltare in aria l’intero progetto». I rimproveri proseguono con quella che Gatti considera l’anomalia della gestione del padiglione cinese: «Paese a cui viene lasciato un eccessivo margine di autonomia». «Perché — prosegue Gatti — diamo il messaggio al cinese “tana libera tutti”, se a un certo punto passa il messaggio che il cinese fa come cazzo gli pare, tutti gli altri dicono scusa, ma perché a me hai rotto i coglioni?». Non è casuale che proprio la gestione degli spazi di Pechino sia particolarmente agevole. Per i pm, infatti «rappresenta uno degli affari di massimo interesse per Primo Greganti, circostanza ben nota al Paris». del 14/05/14, pag. 4 Il procuratore: provvedimenti per tornare alla normalità Ma Pomarici lo attacca: anomalie su Ruby e Sallusti Bruti accusa Robledo “Su Expo ha intralciato” E al Csm è battaglia LIANA MILELLA «EMENTRE erano in corso servizi di pedinamento e videoriprese di incontri tra gli indagati. Ciò ha esposto a grave rischio il segreto dell’inchiesta». Un doppio pedinamento disposto dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo? «Solo la reciproca conoscenza del personale della Gdf, che si è incontrato sul terreno, ha consentito di evitare gravi danni». E comunque, scrive sempre Bruti, si è verificata «una situazione surreale». In sette pagine, e nove puntigliosi allegati, datati 12 maggio, Bruti scrive il suo atto d’accusa contro Alfredo Robledo, l’aggiunto responsabile del pool sulla pubblica amministrazione che il 12 marzo ha presentato a palazzo dei Marescialli un espostodenuncia contro di lui. Bruti ribadisce la sua verità e chiude così: «Mi permetto di confidare che i documenti e i chiarimenti forniti possano contribuire a una sollecita definizione della vicenda consentendo alla procura di Milano di svolgere il suo difficile compito in un clima di “normalità”, fuori dai riflettori sullo “scontro”». Ma al Csm, dopo due giorni in cui, nella prima (trasferimenti d’ufficio) e nella settima commissione (organizzazione degli uffici), sono stati ascoltati i procuratori aggiunti Ilda Boccassini, Nunzia Gatto, Francesco Greco, Ferdinando Pomarici, la querelle è aperta. La destra dei laici (Fi e Lega) e della magistratura (Mi) farà di tutto per ottenere altre audizioni. Le toghe di centro (Unicost) e di sinistra (Area) e i laici del Pd chiederanno di chiudere subito. Ma i numeri sono ballerini. E Robledo? Al Csm c’è chi ipotizza un possibile trasferimento d’ufficio, perché la sua figura ormai non sarebbe più compatibile col lavoro dei colleghi. È una bomba il dossier di Bruti. Mentre, a voce, Pomarici ribadisce che «fu anomalo assegnare l’inchiesta Ruby a Boccassini» perché era il capo del pool Antimafia, e ci fu un comportamento anomalo di Bruti su Sallusti, destinatario di una decisione «unica» solo dopo estesa ad altri (niente domiciliari), ecco che il capo della procura contesta di nuovo le affermazioni di Robledo. Innanzitutto il caso Expo, l’inchiesta che ha rischiato una discovery a sorpresa «per colpa » dell’aggiunto (così sostiene Bruti), il quale non può lamentare di essere stato escluso perché, scrive il procuratore, «il coordinamento aveva trovato puntuale attuazione attraverso la co-assegnazione a sostituti di diversi dipartimenti », i pm Gittardi (Antimafia di Boccassini) e D’Alessio (pubblica amministrazione di Robledo). Ma Robledo è di parere opposto e invia carte riservate al Csm che «nonostante la copertura (di dubbia efficacia) col tratto nero del numero di 16 registro e di alcune parti dei testi, con elevato grado di probabilità, avrebbero potuto consentire di individuare il fascicolo con grave danno per le indagini». Non basta. Robledo «ha ritenuto di poter autonomamente disporre di corrispondenza interna riservata e di un atto del procedimento decidendo autonomamente se e cosa dovesse essere omissato». Lo stesso è avvenuto per la vicenda San Raffaele dove Robledo, «senza alcuna interlocuzione né con il sottoscritto, né con il procuratore aggiunto Greco, né con i sostituti assegnatari del fascicolo, ha preso visione, estratto copia e trasmesso a codesto Csm atti di un procedimento di cui non era assegnatario». Qui Robledo accusa Bruti e Greco di un anno di ritardo nell'aver iscritto Formigoni nel registro degli indagati, ma Greco replica che quel ritardo non ci fu. Infine Sallusti, il direttore del Giornale condannato per diffamazione che non andò in carcere. Sconto ad personam? Bruti: il provvedimento su Sallusti è del 26 novembre 2012, ma diventa operativo il 4 dicembre, i criteri applicativi che valgono per tutti sono del 6 dicembre. Bruti: «La successione temporale dimostra che i tempi ristrettissimi del caso “unico” non ha prodotto discriminazione sui casi normali, ma è accaduto il contrario: il caso unico ha generato prassi e interpretazioni più adeguate». del 14/05/14, pag. 7 L’ex Cav, gli Usa e il golpe mai visto Federica Fantozzi Lo statunitense Geithner rivela:«Nel 2011 dall’Europa mi proposero un piano per far cadere Berlusconi». FI chiede Una commissione d’inchiesta. Alfano: «Valuteremo» Chiarimenti» al governo, il premier Matteo Renzi a riferire in Parlamento e l’istituzione di una commissione di indagine parlamentare urgente. Queste le richieste di Forza Italia dopo le rivelazioni dell’ex ministro del Tesoro americano Tim Geithner, secondo cui nell’autunno 2011 da «funzionari europei» fu proposto agli Usa «una trama» per far cadere il premier Silvio Berlusconi. Un piano che prevedeva, come armadi pressione, il rifiuto di sostenere i prestiti dell’Fmi all’Italia. Obama però respinse la richiesta e puntò sull’asse con Draghi. Il partito azzurro considera le rivelazioni del politico americano la conferma che sia stato un«complotto » a mandare via, poco dopo, il loro Leader da Palazzo Chigi. E chiede al governo di intervenire. Ottenendo dal ministro dell’Interno Alfano un’apertura sulla commissione d’indagine: «Valuteremo». «Questione del passato »chiude invece il ministro degli Esteri Federica Mogherini. Mentre Brunetta scrive a Napolitano: «Fatti gravi». «Non sono sorpreso, ho sempre detto che nel 2011 c’è stato un movimento partito dal nostro interno ma poi esteso all`esterno per tentare di sostituire il mio governo, eletto dai cittadini, con un altro», dice Berlusconi a proposito delle notizie. Mentre a proposito del risultato di Grillo alle europee, nel corso della Telefonata con Canale 5 dice: «In Europa verrà messo in un angolo. Un importante deputato europeo mi ha detto: stiamo allargando i cessi e li metteremo lì. Si tratta di un partito di protesta e distruzione. Qualcuno lo ha chiamato Adolf Grillo». LA «TRAMA» DEI FUNZIONARI Nell’autunno del 2011, con l’Europa in mezzo alla tempesta dello spread, l’amministrazione Obama fu contattata da alcuni «funzionari europei» con la proposta di un piano per far cadere Berlusconi. Lo rivela Geithner nel suo libro di memorie: questi “officials” (alti burocratiosherpa governativi) «ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano a cedere il potere. Volevano che noi rifiutassimo di sostenere 17 i prestiti dell’Fmi all’Italia fino a quando non se ne fosse andato». Nel memoriale del ministro Usa la proposta fu respinta:«Parlammo a Obama di questo invito sorprendente, ma per quanto sarebbe stato utile avere una leadership migliore in Europa non potevamo coinvolgerci in un complotto come quello.“ Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani” io dissi». Washington puntò invece sull’intervento della Bce, adoperandosi per piegare le resistenze di Angela Merkel, finché nel luglio 2012 arrivò l’impegno di Mario Draghi a fare «whatever it takes» per salvare l’euro. Il resto dei fatti è noto. A novembre ci fu il G20 di Cannes che segnò uno spartiacque nei rapporti internazionali. Il 12 novembre Napolitano accetta le dimissioni dell’ex Cavaliere e il giorno dopo - al termine di consultazioni lampo- viene nominato al suo posto l’ex commissario Europeo Mario Monti. E l’esistenza di un «complotto», come lo chiama esplicitamente Geithner, è stato più volte evocato - in contorni molto più vaghi - da Berlusconi. Che, prima di essere tacitato dalle limitazioni imposte dall’affidamento ai servizi sociali, si è sgolato nel denunciare il (quarto peraltro) «golpe» ai suoi danni. Forza Italia scende sul piede di guerra. Toti,Romani, Brunetta, insorgono: «È la prova che Silvio aveva ragione». Il partito aveva già reagito duramente alle rivelazioni del libro di Alan Freidman «Ammazziamo il gattopardo». Il Giornalista americano ha ricostruito, concentrandosi anche lui sulla rovente estate 2011, che il presidente della Repubblica aveva sondato Monti già in quel periodo - tre mesi prima del passo indietro di Berlusconi - sulla sua disponibilità come capo del governo. Ricostruzione confermata dallo stesso ex premier: «In quell' estate ho avuto dal presidente della Repubblica dei segnali: mi aveva fatto capire che in caso di necessità dovevo essere disponibile. Ma non è un’anomalia». In più, Friedman ha rivelato l'esistenza di un programma di governo stilato dall'exministro Corrado Passera e discusso con Monti e il Quirinale. Priorità indicate nel documento: ricostruire la credibilità dell'Italia, far ripartire la crescita, portare in pareggio i conti pubblici. Passera indicava anche alcune misure di politica economica, in parte riprese dal governo (a parte la patrimoniale): portare l'Iva al23%entro il 2012, tassare le rendite finanziarie al 20%, tassare la casa. Fatti che oggi, alla luce delle parole di Geithner, Berlusconi rilegge partendo dalla primavera in cui «non era scoppiato l`imbroglio degli spread». Chiamando in causa Napolitano,con cui i rapporti dopo la decadenza da senatore sono gelidi: «Il capo dello Stato riceveva Monti e Passera per scegliere i tecnici di un nuovo governo tecnico e stilare il documento programmatico... Io avevo contezza che stesse accadendo qualcosa e avevo ritenuto che ci fosse una precisa regia». Poi fa riferimento a quanto scritto dall’ex premier spagnolo Luis Zapatero: «AlG-20di Cannes colleghi mi dissero: 'Hai deciso di dare le dimissioni? Perché tra una settimana ci sarà il governo Monti…'». Mentre, in quell’occasione, Obama non lo tradì: «Si comportò bene con me. Fummo chiamati da Merkel e Sarkozy a due riunioni dove si tentò di farmi accettare un intervento dal Fmi. Io garantii che i nostri conti erano in ordine e non avevamo nessun bisogno di aiuti. Rifiutai questa offerta che avrebbe significato colonizzare l'Italia come la Grecia». 18 LEGALITA’DEMOCRATICA del 14/05/14, pag. 9 Ok dal procuratore, ora tocca al governo: decisione prevista entro pochi giorni Dell’Utri, primo sì all’estradizione FRANCESCO VIVIANO BEIRUT . La Procura Generale ha detto sì all’estradizione di Marcello Dell’Utri dal Libano in Italia. Sono bastati pochi giorni alla procuratrice aggiunta Nada Al Asmar, per decidere se la richiesta d’estradizione dell’ex senatore di Forza Italia, arrestato a Beirut il 9 aprile scorso all’Hotel Phoenicia, doveva essere accolta. Il magistrato ha letto le “carte” inviate dal nostro ministero di Giustizia e ha tenuto conto dell’interrogatorio di garanzia dell’altro ieri e forse anche delle pressioni del nostro governo e l’imbarazzo che il caso Dell’Utri ha creato in Libano (dove tra pochi giorni si eleggerà il nuovo Presidente): così la massima autorità giudiziaria, Samir Hammud, si è convinta ad accelerare i tempi per la procedura di estradizione. Il “si” della Procura generale al trasferimento di Dell’Utri sarà formalizzato oggi quando Hammud invierà il suo “parere” al ministro di Grazia e giustizia Nuhad Almasch che a sua volta lo trasferirà al primo ministro libanese, Tamam Salam che dovrà controfirmare insieme al Presidente della Repubblica, l’atto finale che consentirà eventualmente alle autorità italiane di prendere “in consegna” l’ex senatore. Dell’Utri intanto rimane agli arresti nel reparto detenuti della clinica Al Ayat, dov’è sorvegliato da militari armati di mitra e pistole: porta d’ingresso sprangata, a seguito delle “irruzioni” di due giorni fa di Sky e Repubblica nella stanza 410. La decisione “politica” per l’estradizione di Dell’Utri potrebbe essere già presa venerdì quando si riunirà il Consiglio dei ministri. Ma il suo avvocato libanese, Akram Azoury, sta tentando ancora di bloccare tutto annunciando che se il governo libanese dovesse accogliere il “parere” del procuratore generale presenterà subito ricorso. «Qualsiasi decisione potrà essere impugnata presso il Consiglio di Stato — dice l’avvocato Azoury — e presso la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo perché Dell’Utri è innocente e la sentenza italiana è una sentenza politica». «Un ricorso che — dice un’autorevole fonte giudiziaria — in ogni caso non bloccherà la procedura di estradizione del condannato”». Sarebbe infatti un ricorso “amministrativo” fatto al Consiglio della “Shura”, equivalente del Tar italiano che chissà quando deciderà. E che il caso Dell’Utri sia “urgente” per le autorità libanesi è testimoniato anche dal fatto che ieri mattina un ufficiale di collegamento dell’Interpol italiano si è incontrato con la procuratrice aggiunta Nada Al Asmar per preparare il viaggio di ritorno di Marcello Dell’Utri: da Beirut a Roma. 19 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 14/05/14, pag. 18 Migranti, scontro con l’Ue “L’Italia dica cosa vuole” “Ridicoli, basta letterine” Polemica tra la commissaria Malmstrom e Alfano Poi la telefonata tra i due: “Nessuna critica a Roma” VLADIMIRO POLCHI ROMA . Dopo la tragedia, le polemiche. Con le navi della Marina militare ancora in mare a prestare soccorso, è di nuovo scontro tra Italia e Unione europea. A riaccendere la miccia, il ministro dell’Interno, Angelino Alfano: «L’Europa ha due strade: o issa la bandiera europea sull’operazione Mare Nostrum oppure una volta che avremo definito lo status dei migranti e accertato che vogliono andare in altri Paesi, li lasceremo andar via». La replica delle Commissione Ue non si fa attendere: «Siamo qui per ascoltare le autorità italiane, ma ci devono dire cosa si attendono da noi», dichiara Michele Cercone, portavoce della commissaria Ue agli Affari interni, Cecilia Malmstrom. Poi il giallo della lettera: «La commissaria ha inviato una lettera alle autorità italiane per verificare quali misure concrete possano essere messe in campo. Ma non abbiamo ricevuto indicazioni precise». Il botta e risposta prosegue. Alfano parla di «dichiarazioni tra il provocatorio e il ridicolo. Vogliono che gli scriviamo una letterina?». Poi rivendica di aver dato sempre quattro indicazioni. Primo: «Assistenza umanitaria in Africa». Secondo: «Il soccorso in mare lo deve fare l’Europa con Frontex ». Terzo: «Frontex abbia sede in Italia». Quarto: «I migranti devono esercitare il diritto d’asilo anche in altri Paesi europei». Alle 19.30, Alfano e Malmstrom si parlano al telefono e tentano una riconciliazione: «Ho detto al ministro che la Commissione non ha mosso alcuna critica all’Italia spiega la commissaria Ue - e che la lettera del 14 aprile aveva il solo scopo di fornire ulteriore assistenza ». Sul fronte accoglienza, i Comuni chiedono nuovi criteri di distribuzione dei rifugiati e incassano la promessa del sottosegretario Delrio che, in una lettera del 6 maggio all’Anci, si impegna ad avviare tavoli regionali di confronto. Intanto al porto di Catania attracca la fregata Grecale. A bordo le salme di 17 migranti e i 206 superstiti dell’ultimo naufragio. del 14/05/14, pag. 5 Immigrati, una strage di donne e bambine Carlo Lania ROMA Immigrazione. 17 i corpi recuperati, tra i quali anche due bimbe Una strage di donne e di bambine. E’ sempre più drammatico il bilancio dell’ultimo naufragio di migranti nel Mediterraneo. Delle 17 salme recuperate fino a ieri dai militari dell’operazione Mare nostrum 12 appartengono a donne e due ad altrettante bambine, una di pochi mesi e una di massimo due anni, a ulteriore prova di come a pagare i costi più alti di queste fughe da guerra e disperazione siano soprattutto i più deboli. Tre sono invece i 20 corpi degli uomini recuperati. Unica nota positiva, se così si può dire, è che a bordo dell’imbarcazione affondata lunedì potrebbero non esserci state 400 persone, come si riteneva all’inizio, ma molte meno. «Sui dispersi non vi posso dare certezze, ma questa barca è come quelle che si vedono spesso e i numeri su questi natanti vanno dai 200 ai 250 passeggeri al massimo per volta», ha detto ieri il comandante della nave Grecale, Stefano Frumento, ridimensionando così il numero dei dispersi. L’immigrazione diventa intanto terreno di scontro tra Roma e Bruxelles che si rimpallano la responsabilità degli interventi a favore dei migranti insufficienti ad evitare nuove morti. E i toni crescono per tutta la giornata, con il portavoce della commissaria per gli Affari interni Cecilia Malmstrom che rivela di aver chiesto più volte all’Italia di cosa avesse bisogno per far fronte ai numerosi barconi che arrivano lungo le coste siciliane e il ministro degli Interni Alfano che replica definendo «parole fra il provocatorio e il ridicolo» quelle che arrivano da Bruxelles. Fino a sera quando una telefonata tra Alfano e la stessa Malmstrom sancisce la tregua. Almeno ufficialmente e almeno fino al prossimo scontro. E’ chiaro ormai da tempo che l’immigrazione sarà uno dei temi caldi che caratterizzerà il semestre di presidenza italiana che comincerà dal prossimo mese di luglio. Del resto Roma ha più volte chiesto a Bruxelles di rivedere la politica troppo rigida adottata finora dall’Unione europea nei confronti dei disperati che vedono proprio nell’Europa una possibilità di salvezza da guerre, persecuzioni e miseria. Lunedì, giorno in cui l’ultimo barcone è naufragato a poche miglia dalle coste libiche, per la verità un cambio di marcia da parte della stessa Malmstrom c’è stato. Mentre Alfano denunciava per l’ennesima volta come l’Italia fosse stata lasciata sola ad accogliere i migranti, la commissaria ha chiesto ai paesi membri di «impegnarsi nella ricollocazione dei rifugiati direttamente dai campi fuori la Ue e nell’apertura di canali legali» di ingresso. E anche se è vero che dopo la tragedia che si è consumata a Lampedusa il 3 ottobre scorso, alle tante promesse non è seguito neanche un fatto, l’apertura della Malmstrom potrebbe significare un importante cambio di linea. A fare infuriare Alfano sono le dichiarazioni rilasciate dal portavoce della Malmstrom, Michele Cercone: «La commissaria a marzo ha inviato una lettera alle autorità italiane dando la disponibilità della Commissione per verificare quali altri misure concrete possano essere messe in campo. Ma non abbiamo ricevuto indicazioni precise», spiega. E per quanto riguarda la possibilità che altri Paesi accolgano i richiedenti asilo sbarcati in Italia, come sollecitato da Alfano, «noi all’Ue possiamo finanziare il ricollocamento dei rifugiati ma non possiamo obbligare i paesi ad accoglierli». Immediata la replica del ministro, che ricorda di aver presentato all’Ue quattro richieste precise: «La prima: accoglienza umanitaria in Africa, in particolare in Libia. La seconda: il soccorso in mare deve farlo l’Europa attraverso Frontex. La terza è che Frontex abbia una sede in Italia e non a Varsavia. Infine, elemento importantissimo — conclude Alfano — siccome i migranti non vogliono stare in Italia, devono avere la possibilità di esercitare il diritto di asilo politico anche nel resto di Europa. Altrimenti trasformiamo l’Italia nella prigione dei rifugiati politici». Una possibilità quest’ultima sollecitata anche dal ministro della Difesa Roberta Pinotti. «Sia l’Europa ad assumersi una responsabilità — spiega il ministro al Copasir — e noi pensiamo che sia importante anche l’intervento dell’Onu, perché i due terzi di coloro che fuggono lo fanno da situazioni di difficoltà e di guerra, in particolare da Centro Africa, Mali e Siria, sono persone che hanno diritto di asilo». 21 del 14/05/14, pag. 19 A Catania i sopravvissuti dell’ultima strage Le bare sul molo davanti ai turisti di una crociera poi lo sbarco dei corpi delle vittime: una neonata e una bimba di due anni, dodici donne e tre uomini. “Forse non ci sono altri dispersi” Il dramma dei due fratellini “Papà e mamma spariti tra le onde” ALESSANDRA ZINITI DAL NOSTRO INVIATO CATANIA . Scendono dalla passerella in braccio a due donne del personale della fregata Grecale tenendosi per mano. Sono orfani e ancora non lo sanno questi due fratellini eritrei, un maschietto e una femminuccia che sembrano avere 4 e 6 anni. La mamma e due fratelli più grandi, poco più che ragazzi, sono stati pietosamente ricomposti in tre sacchi che, quando è ormai notte, vengono portati giù dalla nave della Marina militare e affidati al personale delle pompe funebri che per tutto il pomeriggio, con i loro carri e le bare, hanno atteso pazientemente sul molo dei croceristi del porto di Catania. A pochi metri c’è la Star pride Nassau, la grande nave da crociera che alle sei del pomeriggio, con la sua musica festante diffusa sui ponti e i turisti che salutavano con la mano la folla di cronisti e cineoperatori, ha lasciato il posto al mesto arrivo della Grecale con il suo dolente carico di vivi e di morti: 206 i superstiti (16 sono bambini), 17 le salme recuperate e tra queste quelle di due batuffoli dalla pelle nera, due bambine, una di pochi mesi, l’altra di poco più di un anno. Nessuno, tra gli uomini e le donne salvati dell’ultimo naufragio nel Canale di Sicilia, ha cercato quelle due piccole, segno che i loro genitori, o quantomeno le loro mamme, sono tra le dodici donne (una era incinta) annegate sotto gli occhi disperati degli uomini dell’equipaggio di quel rimorchiatore di una piattaforma petrolifera, che era stato incaricato dal comando dell’operazione Mare nostrum di seguire da vicino quel barcone che non era stato intercettato. Quel che sembra scongiurato è che il bilancio di questa nuova tragedia del mare sia così pesante come era sembrato nelle prime ore quando, dalle testimonianze dei superstiti, sembrava che i dispersi fossero quasi duecento. «Impossibile che su quella barca di 15 metri vi potessero essere stipate tante persone — dice il comandante della nave Grecale Stefano Frumento — anche perché proprio io, poco prima, avevo recuperato i migranti a bordo di un barcone gemello partito, quasi contemporaneamente dalle coste libiche, e a bordo vi erano 224 persone». Dunque, considerato che i superstiti del naufragio sono 206 e le vittime recuperate 17, non si dovrebbe andare oltre qualche decina. Gli scafisti, probabilmente due, sarebbero già stati individuati dalla squadra mobile di Catania salita a bordo insieme al sostituto procuratore Monia Di Marco. La storia dei due fratellini eritrei ha emozionato tutto il personale di bordo della Grecale. «Quando li abbiamo presi a bordo facendoli salire dal rimorchiatore che li aveva salvati avevano il terrore negli occhi — racconta il comandante Frumento — una donna che diceva di essere una parente ha fatto capire che i loro genitori erano morti, loro non parlavano, ogni tanto chiamavano la mamma. Se ne sono presi cura le nostre donne dell’equipaggio che sono riuscite a farli addormentare e già questa mattina sembravano più sereni». Quando racconta di quelle altre due bambine, “piccolissime e con la pelle scura”, probabilmente di origine subsahariana come buona parte dei migranti salvati, al 22 comandante si velano gli occhi. «Noi lo facciamo per missione, ma quando assistiamo a drammi di questo genere, ci viene una forza di volontà ancora più grande». I due piccoli eritrei, affidati alle cure della comunità di Sant’Egidio, ieri sera sono stati ospitati insieme a tutti gli altri profughi al Palarcidiacono, il palazzetto dello sport utilizzato di solito per la scherma, che ieri il Comune ha riempito di brandine. «Catania non si tira indietro e anche oggi faremo la nostra parte, con la dignità della nostra gente, ma va detto che siamo al collasso », dice il sindaco Enzo Bianco già di mattina sulla banchina per sincerarsi che si stia facendo il meglio per accogliere i migranti. Quando è già buio, sulla nave sale anche l’imam Kheit Abdelhafid, presidente della Comunità islamica di Sicilia. Al sottosegretario all’Interno Domenico Manzione, presente allo sbarco, ha chiesto un funerale dignitoso per le vittime. «Che non si ripeta l’indecenza di ottobre scorso, quando a tanti dei morti di Lampedusa non si è riusciti né a dare un nome né a riportarli a casa». del 14/05/14, pag. 9 Per arginare la crisi Bruxelles punta sul «reinsediamento» Marco Mongello Per la Commissione l’emergenza potrebbe essere tamponata se i governi accettassero direttamente i profughi nei loro Paese di origine Accettare i rifugiati direttamente nei campi profughi per evitargli traversate pericolose può essere fatto subito, ma tocca agli Stati membri fare il primo passo. La Commissione europea lo ha detto chiaramente: non servono altre riunioni straordinarie. Per affrontare l'emergenza immigrazione bisogna passare dalle parole ai fatti. L’occasione per i governi dei 28 Stati membri dell'Ue arriverà il mese prossimo. Il 5 e 6 giugno infatti il ministro dell'Interno Angelino Alfano si troverà a Lussemburgo con i suoi colleghi europei per la riunione del Consiglio Affari Interni e il 26 e 27 giugno si terrà a Bruxelles il Summit Ue dei capi di Stato e di Governo. In entrambe le riunioni la questione immigrazione è in cima all'agenda, anche se la riforma di un tema così sensibile e di competenza nazionale sarà un processo lungo. Secondo la Commissione europea però l’emergenza potrebbe essere tamponata subito se i singoli governi accettassero i rifugiati direttamente nei Paesi di origine o di transito. «Se ogni Paese dell’Ue si facesse carico di qualche migliaio di rifiutati si potrebbero cambiare le cose e diminuirebbe la pressione sull'Italia», ha spiegato ieri Michele Cercone, portavoce della commissaria Ue agli Affari interni Cecilia Malmstrom. La questione era già stata messa nero su bianco a dicembre quando la task force della Commissione per l'immigrazione, istituita dopo la tragedia di Lampedusa dello scorso ottobre, aveva stilato una lista di azioni concrete per affrontare l'emergenza. In particolare, scriveva a dicembre la Commissione, è il reinsediamento «l' ambito dove gli Stati membri possono fare di più per garantire che chi ha bisogno di protezione arrivi nell’Ue senza correre rischi». Il programma di resettlement è gestito attualmente dall' Unhcr, l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Questo sistema però è usato raramente dagli Stati membri. Nel 2012 solo 4930 persone sono state reinsediate in dodici Stati membri, tra cui manca l'Italia. «Se tutti gli Stati membri partecipassero al reinsediamento e mettessero a disposizione un numero proporzionato di posti, l’Unione sarebbe in grado di accogliere migliaia di persone in più dai campi profughi - si legge nel documento della Commissione - per dare impulso al reinsediamento nel 2014-2020 saranno messi a 23 disposizione fondi per sostenere sforzi e impegni aggiuntivi in questo senso. La Commissione europea prevede di mettere a disposizione un importo forfettario fino a 6000 euro per ogni rifugiato reinsediato ». In molti Paesi del mondo il reinsediamento è il sistema privilegiato per accogliere i rifugiati. La percentuale di asili accordati attraverso programmi di resettlement è dell'85% in Nuova Zelanda, del 72% negli Stati Uniti e del 55% in Australia. Tra i Paesi europei la Finlandia è al 34% e la Danimarca al 27%. L'Italia invece, che non partecipa in modo stabile al programma dell'Unhcr, ha una percentuale di rifugiati accolti con il reinsediamento minore dello 0,01% nel periodo 2008-2012. La questione sarà sul tavolo dei ministri degli Interni europei a giugno, insieme a quella dei salvataggi. L'agenzia europea per le frontiere esterne, Frontex, sarebbe l'ente deputato a controllare le coste e a salvare i barconi in mare. In realtà però mancano le risorse e le operazioni di Frontex sono fatte con i mezzi che gli Stati membri mettono a disposizione su base volontaria. Di fatto i soccorsi sono lasciati all'Italia, attraverso l'operazione Mare Nostrum, che comunque per questo riceve dei finanziamenti comunitari. Ieri il Consiglio Affari generali, a cui ha partecipato il sottosegretario per gli Affari europei Sandro Gozi, ha approvato delle nuove regole operative per le operazioni coordinate da Frontex. Lo scopo, si legge in una nota, è quello di «migliorare l'efficacia e la certezza giuridica delle operazioni». Il vero passo avanti però dovrebbe arrivare con il summit di fine giugno, quando i leader dell'Ue metteranno mano alle normative di base che disciplinano l'intera materia. Sandro Gozi, che nella riunione di ieri ha preparato con i colleghi europei il summit di giugno, ha spiegato gli obiettivi dell'Italia. «Vogliamo – ha detto - delle vere politiche di gestione comune delle frontiere e di gestione dell’immigrazione legale, e anche un vero sistema europeo sul diritto d’asilo ». In particolare, ha precisato il sottosegretario, «vogliamo un ruolo più forte di Frontex, sia in termini operativi che di risorse per quanto riguarda la gestione comune delle frontiere esterne, vogliamo arrivare ad un mutuo riconoscimento delle decisioni in materia di asilo, vogliamo rafforzare i partenariati per la mobilità, cioè gli accordi tra Unione europea e Stati di origine e di transito» e «vorremmo maggiore cooperazione da parte degli Stati membri nella lotta contro i trafficanti». del 14/05/14, pag. 5 In 98 nascosti in due tir sul traghetto dalla Grecia Mario Di Vito La stima ufficiale della questura si ferma a quota 98, ma c’è anche chi ne conta qualche decina in più. Tanti sono i migranti sbarcati nel tardo pomeriggio di lunedì al porto di Ancona a bordo del traghetto Cruise Olympia della Minoan Lines, partito dal porto greco di Igoumenitsa. Siriani, per lo più, ma anche somali e altri dalla nazionalità incerta: alla fine sono riusciti a rimanere in Italia appena in otto tra richiedenti asilo, minori e feriti, trasportati con le ambulanze all’ospedale Torrette. A questi va aggiunto chi è riuscito a scavalcare le reti metalliche, dileguandosi poi nella notte. La tensione è esplosa alle nove di lunedì sera, davanti al varco Da Chio della dogana portuale di Ancona. Durante i controlli di routine, la polizia ha trovato decine di persone nascoste dentro a due tir, ammassate, in preda al panico. Poi qualcuno ha squarciato i teloni dei rimorchi e così è cominciata la fuga generale. Alcuni sono riusciti a superare gli uomini in divisa e a scappare in strada. Altri hanno provato ad aggrapparsi alle cime della nave per poi cercare di saltare sulla banchina, altri ancora, decisamente provati dalle oltre 24 venti ore di viaggio, non avevano le forze nemmeno per cercare di fuggire. Gli autisti dei due mezzi pesanti — uno con il passaporto turco, un altro greco — sono stati arrestati e accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Per tutta la notte la polizia di frontiera marittima ha perlustrato le acque davanti al porto, senza trovare eventuali dispersi, mentre gli uomini della guardia di finanza hanno battuto in lungo e in largo le strade di Ancona alla ricerca dei fuggiaschi. La Polmare ha trattenuto per ore sulla barca ormeggiata alla banchina 14 i superstiti, per identificarli e capire chi avesse i requisiti per restare e chi, invece, sarebbe stato rimandato verso la Igoumenitsa. Fuori una ventina di attivisti dell’Ambasciata dei Diritti di Ancona urlava forte: «Ask for asylum!» — chiedete asilo politico -, nel tentativo di non far incappare i migranti nelle maglie del Dublino II, che regola gli ingressi in Europa dei rifugiati. Alla fine non c’è stato nulla da fare: chi non si è dichiarato rifugiato, è stato affidato al capitano della Cruise Olympia e rispedito verso la Grecia. «Il problema — spiega Danilo Burattini dell’Ambasciata dei Diritti — è che chi non richiede formalmente asilo si vede preclusa la possibilità di rimanere qui. Tanti di quelli sbarcati lunedì proveranno a imbarcarsi nuovamente, poi magari ci sarà anche chi riuscirà a fuggire, ma sono colpi di fortuna». Sono mesi ormai che l’Ambasciata chiede l’apertura di un canale umanitario con la Siria per consentire ai migranti di circolare liberamente nei paesi dell’Ue, ma, al momento, non sembrano esserci spiragli in questo senso. Non è la prima volta, d’altra parte, che il porto di Ancona diventa teatro di situazioni del genere: ad aprile in tredici sono stati trovati nascosti dentro dei sacchi di ghiaia, ammassati nel vano di un camion. La reazione della politica locale è stata, al solito, tremenda, con il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Giovanni Zinni che chiedeva di reprimere con maggiore veemenza gli sbarchi, rilanciando pure la bufala su una nuova ondata di Ebola. «Il porto di Ancona è diventato un fortino dal quale respingere donne e uomini in fuga da fame e guerre», dice Francesco Rubini, consigliere comunale di Sel. «Una storia che si ripete da anni — prosegue — malgrado le ripetute denunce di associazioni e movimenti per i diritti dei migranti. Il mix legislativo italiano ed europeo in tema di immigrazione è repressivo, disumano e inefficace. Occorre ripensare il sistema d’accoglienza, uscendo dalla logica securitaria di questi anni». del 14/05/14, pag. 5 Addio «Lampedusa in Berlin», tendopoli della contraddizione Sebastiano Canetta, Ernesto Milanesi BERLINO Oranienplatz, due mezzi della polizia stazionano a bordo strada. Di fronte, una dozzina di immigrati africani, gli irriducibili di ciò che resta di «Lampedusa in Berlin». Materassini, sacchi a pelo, cartoni per terra e sotto gli alberi testimoniano la volontà di non abbandonare la trincea di Kreuzberg. Hanno puntato i piedi: sciopero della fame, una piattaforma «politica», trattativa ad oltranza fin dentro le stanze del ministero dell’Interno. Alle spalle i campi di concentramento equivalenti ai Cie introdotti dalla Turco-Napolitano e un futuro senza prospettiva né diritti. Una sola certezza: non arrendersi al gioco del nascondino delle autorità tedesche. Dall’altra parte della piazza, il simulacro della tendopoli che per mesi ha ospitato centinaia di rifugiati e «rianimato» la solidarietà del quartiere turco. Avevano iniziato lo scorso autunno a piantare picchetti e ad assemblare bancali, mentre la gente portava cibo, vestiti, 25 ombrelli, libri. Un autentico villaggio africano a 5 km dalla Cancelleria di Angela Merkel, Frontex nella capitale dell’Europa, un’emergenza ostica da governare perfino dal punto di vista rosso-verde. Erano i naufraghi di Lampedusa, i fuggitivi dai campi profughi del sud della Germania, migranti senza permesso di soggiorno. Tutti uniti contro il nuovo «muro» di Berlino, alla ricerca di una soluzione dignitosa. Invece, è scattata la trappola del divide et impera con l’offerta di un vero alloggio in cambio dell’autodemolizione dell’isola di Oranienplatz. Migranti contro migranti, con frau Napuli Langa arrampicata sulla cima di un platano pur di rimanere ancorata all’ultima zattera comune, tra chi si faceva strada senza tanti complimenti per «incassare» il tetto promesso. Una brutta storia, una cicatrice insanabile, la guerra tra disperati. Ha lasciato il segno anche fra chi (gruppi antirazzisti, volontari del teatro Buhnenwatch, associazioni di quartiere) per mesi ha sostenuto la protesta. Adesso l’impatto visivo della tendopoli è svanito. La massa degli immigrati è stata diluita nella Berlino per ausländer. A presidiare la piazza resta solo il pugno di irriducibili. Eppure qualche settimana prima lo scenario era diametralmente opposto con Karim, 30 anni, rifugiato del Mali, che riassumeva così le ragioni della lotta. «Siamo arrivati dalla Sicilia nel novembre 2012 e abbiamo tutti documenti rilasciati dalle autorità italiane. Cosa vogliamo? La possibilità di cercare un lavoro e costruirci un futuro. E che finiscano le deportazioni». Non è una metafora né un problema di traduzione. Parla proprio di «deportazione, una parola-tabù nella coscienza collettiva tedesca. Del resto il 5 marzo sul sito malijet.com Abdoulaye Ouattara scolpiva nome e cognome degli specialisti dell’espulsione; a cominciare dall’ambasciatrice del Mali a Berlino Ba Hawa Keita «complice nella deportazione dei propri cittadini». Funzionava così: «L’ufficio migranti tedesco offre 800 euro a chi lascia la Germania, ma é una compensazione ridicola per chi ha sacrificato tutto». Alla base, l’inquietante patto di scambio così simile a quello di Berlusconi con Gheddafi o alla cooperazione sussidiaria in Africa. «La Germania versa 100 milioni di euro al Mali, in cambio si aspetta che regoli il flusso dei propri migranti». I risultati dell’accordo sono riassunti da una giovane maliana. «Quando ho chiamato la mia ambasciata per avere un numero di telefono mi hanno risposto: «sister sarebbe meglio che tu lasciassi l’Europa, se torni a casa ti paghiamo». Un altro africano denuncia: «Mi hanno chiesto di firmare le carte per il rimpatrio, mi sono rifiutato: “Bene, allora lascia la Germania” ha tagliato corto il funzionario». Storie di normale amministrazione quando la burocrazia e l’Ue vanno in corto circuito. Così la tendopoli delle contraddizioni: rifugiati, ma senza ottenere un vero asilo politico; regolarmente certificati a Lampedusa, di fatto carta straccia in Germania; «residenti» nel centro immigrati eppure impossibilitati a ricongiungersi con la famiglia già diventata tedesca. In mezzo, i berlinesi che incollano sui vagoni della metro gli adesivi «Refugees welcome». In centinaia il 16 marzo erano a Oranienplatz per fermare il rally razzista di Pro Deutschland, partito di estrema destra che pretendeva la distruzione di Lampedusa. La piazza è stata circondata dalla polizia, ma non c’è stato alcuno scontro. Gli xenofobi erano solo in tre, compreso quello con il megafono. Oggi, senza più tende e baracche, per le autorità il problema si riduce all’inflessibile rispetto della destinazione d’uso del suolo. Un’area verde deve rimanere tale, le norme anticendio bruciano i diritti umani, il regolamento comunale non fa sconti né eccezioni. E scatta l’arresto anche per chi piscia sui cespugli, come Patras Bwansi. 26 BENI COMUNI/AMBIENTE del 14/05/14, pag. 27 QUEL NUOVO FEUDALESIMO NELLE NOSTRE CAMPAGNE CARLO PETRINI ALL’ORIZZONTE delle nostre campagne si preannuncia un nuovo feudalesimo. Lo chiamano proprio così i giovani agricoltori che con sconcerto stanno constatando come la nuova Politica agricola comunitaria (Pac) possa, ancora una volta, trasformarsi in uno straordinario strumento di disuguaglianza e speculazione, invece di essere ciò che i padri fondatori dell’Europa vollero che fosse: un mezzo per limitare la distanza tra le opportunità di chi vive e lavora in città e di chi fatica sulla Terra Madre per produrre il cibo. Il programma di aiuti europei che sono destinati al settore primario è appena stato varato e varrà dal 2014 al 2020. Ne abbiamo già parlato altre volte, sforzandoci di avere una visione più equilibrata di chi, da un lato voleva che la Pac rimanesse uguale a ciò che era stata in passato, quando aveva prodotto eccedenze e distorsioni importanti del mercato, e chi sosteneva che dovesse essere abolita, per dare sfogo al libero mercato, considerato la panacea di tutti i mali. L’agricoltura europea è la più controllata del mondo, retta da istituzioni che finora si sono mosse con prudenza (e anche lentezza); è custode del 90% della superficie del vecchio continente, con un patrimonio di cultura e tradizioni unico per varietà e ricchezza. Aiutare i nostri contadini a rimanere tali, e i giovani che lo desiderano a ritornare alla terra, è un obiettivo meritorio e diventa un uso intelligente delle risorse (ingenti: oltre un terzo del bilancio europeo) che l’Unione europea mette a disposizione del settore: zone rurali curate e popolose sono, a tacer d’altro, la migliore garanzia contro i disastri idrogeologici. Ma queste risorse devono andare a chi davvero coltiva la terra e alleva professionalmente: non a speculatori che vivono a centinaia di chilometri dalla terra che conducono solo sulla carta o si danno un pedigree zootecnico liberando qualche decina di asini su latifondi. Una Pac che finanzia questi fenomeni replica gli errori del passato, rinverdisce il mito della Regina d’Inghilterra, un tempo prima beneficiaria della Pac ma non certo contadina, e ripropone logiche che ci paiono degne del Gattopardo, non del XXI secolo! Il meccanismo è semplice e approfitta abilmente (fatta la legge, trovato l’inganno...) di una piega legale. Dal 2000 in poi il contributo agli agricoltori non è più stato collegato a quanto essi producessero: si voleva evitare di ripetere ciò che avveniva in precedenza, quando erano nate aziende per produrre beni non destinate al mercato, ma solo ai fini di ottenere il contributo pubblico. Era certamente una distorsione inaccettabile: la terra coltivata per produrre cibo che nessuno avrebbe consumato, di cattiva qualità, destinato magari a essere esportato sotto costo nel terzo mondo (producendo altri gravissimi guasti). Una vergogna cui si è posto rimedio separando l’aiuto agli agricoltori da quanto essi producessero: in gergo, si chiama disaccoppiamento. Tuttavia, poiché il vecchio sistema era una cuccia comoda e aveva fondato delle economie in cui prosperavano non solo certi agricoltori di grossa taglia, ma anche consulenti e organizzazioni, il disaccoppiamento non è stato totale: si è preso un certo anno di riferimento della produzione aziendale e si è stabilito di collegare a quelle quantità e varietà prodotte un titolo (come le azioni di una società, per capirci, che maturano delle cedole) su cui basare per il futuro l’erogazione del connati tributo. Insomma, si è detto: d’ora in avanti non guarderemo più quanto hai prodotto per decidere quanto pagarti, ma ci baseremo sull’anno X. Un metodo discutibile, 27 a cui si aggiunge un ulteriore dettaglio: questi titoli, proprio come le azioni, si possono comprare e vendere. Inoltre i titoli danno diritto a contributi diversi, a seconda del tipo di coltura censito nell’anno X. Un esempio vi chiarirà il tutto. Un imprenditore agricolo lombardo acquista titoli Pac relativi alla produzione del tabacco in Toscana (che valgono un contributo molto alto per ettaro) per 100 ettari. Dopodiché affitta i terreni di un Comune montano in provincia di Cuneo, che da secoli servono per portarci al pascolo gli animali nei tre mesi estivi in cui c’è l’erba invece della neve. Così, l’imprenditore riceverà il contributo dell’Unione europea come se su quei pascoli coltivasse il tabacco (ma non importa che non lo faccia: l’aiuto è disaccoppiato...). Ovvio che non sarà un problema pagare un profumatissmo canone di affitto al Comune proprietario dei pascoli, che prima, dagli allevatori che davvero li usavano per il loro scopo naturale, incassava molto meno, e di soprammercato potrà subaffittare i pascoli all’allevatore rimasto senza erba, che sarà ben lieto di portare le proprie bestie a pascolare nei luoghi di sempre. Così ecco all’opera il nuovo feudalesimo: l’Unione europea fornisce le risorse che rendono arbitro della vicenda un soggetto che si accaparra la terra, senza che sia un vero agricoltore, asservendogli, pur di continuare a lavorare e sopravvivere, coloro che sono davvero contadini e dovrebbero essere davvero sostenuti da Bruxelles. È questo che vogliamo? È questa concorrenza sleale e inaccettabile tra agricoltori e allevatori veri, che conducono davvero la terra, e questi imprenditori delle carte e delle domande Pac, arricchiti con i soldi di tutti i cittadini europei? Lo chiedo in modo ultimativo ai nostri politici, al ministro Martina, che è competente e quindi perfettamente capace di capire quanto scrivo; lo chiedo a tutti i parlamentari e i consiglieri regionali che si riempiono la bocca della rappresentanza dell’agricoltura, in ogni occasione pubblica; lo chiedo ai sindaci, che in queste settimane chiudono i bandi (che i Comuni approvano) per i pascoli: chiarite se state con l’agricoltura vera oppure con l’agricoltura degli squali speculatori. E se dite di stare con la prima, fate qualcosa di chiaro. Subito. 28 CULTURA E SCUOLA del 14/05/14, pag. 2 Invalsi, disobbedienza civile con tweet, ironie, test in bianco Roberto Ciccarelli Studenti. Larga adesione alla campagna di boicottaggio. Per i Cobas il 30% delle classi ha boicottato la prova, per il Miur l’1,79% A metà pomeriggio, l’hashtag #invalsi2014 aveva superato #veritàpirandelliane. Una coincidenza molto più che simbolica che ieri ha fatto esplodere la rete italiana dove, a migliaia, si sono riversati i tweet ironici e di protesta contro le prove Invalsi che hanno coinvolto 562 mila studenti in seconda superiore. Tra foto di prove boicottate nelle maniere più fantasiose, e alcuni disegni ingegnosi, gli studenti italiani hanno mostrato di avere appreso la lezione pirandelliana sull’ironia. Lo sberleffo, il segno grafico, la battuta anche pesante sul personaggio di «Nello» — l’incolpevole astrazione che verrà ricordata per tutta la prossima generazione — hanno fatto percepire l’estraneità degli studenti rispetto ai valori di una società neoliberale che affida alla valutazione di questi test la distribuzione delle risorse alle scuole e l’aumento degli stipendi dei docenti «meritevoli». Meritevoli di avere modificato la loro didattica e permettere ai loro studenti di scegliere la risposta giusta con una crocetta. Non sono mancate le frecciate agli esperti che hanno stilato il test. A cominciare dall’indicazione che imponeva di «non girare pagina finchè non ti sarà detto di farlo». Qualcuno ha risposto, «Dobby non ha padroni, Dobby è un elfo libero». Oppure: «Non girare il foglio altrimenti arrivano i partigiani in classe». Il migliore è stato chi ha risposto a questa ingiunzione così: «Genny ’a Carogna ha detto che posso girarla!». Alla domanda «metti una sola crocetta« tra maschio e femmina i ragazzi si sono scatenati, dimostrando tra l’altro una certa conoscenza sul dibattito sul Queer. «Pensavo di metterne due», ha scritto qualcuno. Oppure: «Sono un periodo di transizione». E ancora: «Signori e signore, pensavo fossimo ibridi». Lo spirito irriverente ha colto il punto: i ragazzi vivono i test come un’imposizione dall’alto. Non sopportano di essere le cavie della didattica neoliberale e ribadiscono i dubbi espressi da illustri accademici in tutto il mondo sulla validità pedagogica e conoscitiva dei test. In molte città ci sono state anche manifestazioni e cortei partecipati. Abbiamo scritto ieri dell’occupazione dell’ex teatro Lirico a Milano, ribattezzato «Boycott Invalsi Space» dagli agguerriti studenti milanesi. Senz’altro l’azione politica più riuscita della settimana di boicottaggio lanciata da tutte le organizzazioni studentesche (l’Uds. la rete degli studenti medi, l’Udu e numerosissimi collettivi). «Gli studenti — hanno sostenuto i Cobas — hanno ridicolizzato in mille modi i quiz annullandone ogni validità o impedendone l’effettuazione e inficiando ogni credibilità dei risultati in circa il 30% delle classi». Negli istituti di Venezia e Mestre centinaia di studenti hanno organizzato cortei selvaggi. A Napoli in 500 tra studenti e professori hanno sfilato tra fumogeni e con le maschere, non di Anonymous ma con la «X» del test stampata sul volto. Così poi a Vicenza, Rimini e Padova, mentre a Bologna è stata scelta una forma di protesta «ermetica». Così l’hanno definita quegli studenti che hanno «chiuso» con il silicone e catene le serrature dei portoni, accompagnando l’azione con un massiccio volantinaggio contro «l’inutilità e la danosità» della somministrazione dei test. Una mobilitazione diffusa e capillare che ha sorpreso gli stessi organizzatori della protesta. L’Uds ha anche promosso uno «sportello SOS #invalsi2014»: «Il prof valuta le invalsi? è 29 illegale!». L’invito agli studenti è scrivere a [email protected] o telefonare allo 06/69770332. INTERESSE ASSOCIAZIONE del 14/05/14, pag. 3 La «sussidiarietà» di Renzi A. Mas. Terzo settore. Servizio civile e 5 per 1000, la riforma che volevano le associazioni. Alle linee guida ha lavorato Edoardo Patriarca, ex presidente dell’Agenzia tagliata dal governo Monti È la riforma che chiedevano le associazioni: servizio civile aperto anche agli immigrati, potenziamento del 5 per mille ed eliminazione del tetto di spesa, la creazione di un’authority del terzo settore. In un colpo solo il governo Renzi riconsegna il welfare alle organizzazioni del privato sociale – il premier lo definisce «welfare partecipativo», un misto tra il servizio civile ante-abolizione della leva e la sussidiarietà formigoniana che tanto piace a Cl e a molte organizzazioni del privato sociale cattolico – e incassa il sostegno del terzo settore, che ha contribuito materialmente alla stesura delle linee guida attraverso alcuni parlamentari “amici” quali Edoardo Patriarca, senatore Pd e presidente del Centro nazionale per il volontariato. Un colpo ben assestato, in piena campagna elettorale, che fa seguito al lavoro svolto dal ministro Giuliano Poletti – diventato un punto di riferimento per le associazioni — fin dal suo insediamento. Non a caso le linee guida sono state presentate ieri, alla vigilia delle elezioni, mentre la legge delega vera e propria è prevista per il prossimo 27 giugno. È dall’abolizione della leva obbligatoria, infatti, che il terzo settore soffriva di una crisi di “militanza”, sia pure forzata, che rendeva più difficile gestire progetti di volontariato e di assistenza. Ma nella riforma non c’è solo questo, anche se le linee guida di Palazzo Chigi prevedono infatti Servizio civile universale aperto a 100 mila giovani, nel primo anno, della durata di otto mesi, prorogabili per quattro. Una «opportunità di servizio alla comunità e un primo approccio all’inserimento professionale», per Matteo Renzi. La riforma viene incontro, infatti, alle richieste di agevolazioni fiscali e all’idea di potenziare la sussidiarietà, cavallo di battaglia di Comunione e liberazione e di una parte del solidarismo cattolico. Che vuol dire, tradotto in uno slogan, meno Stato, più privato sociale. Per quanto riguarda il primo aspetto, è previsto il potenziamento del 5 per mille, con l’eliminazione del tetto massimo di spesa «onde evitare che esso si riveli in realtà 4 per mille o anche meno». Inoltre, ci sarà un riordino delle forme di fiscalità di vantaggio, l’obbligo per i beneficiari del 5 per mille di pubblicare on line i bilanci e la semplificazione delle procedure amministrative in modo da «superare gli attuali tempi di erogazione delle quote spettanti», un toccasana quest’ultimo per le casse delle associazioni. Per quanto riguarda il welfare, è prevista la sperimentazione di un «voucher universale per i servizi alla persona e alla famiglia», mentre sarà definito un trattamento di favore per «titoli finanziari etici», al fine di incentivare gli investimenti dei cittadini nella finanza etica. Infine, il terzo settore sarà maggiormente coinvolto nella gestione dei beni confiscati alle mafie: i criteri con i quali essi vengono concessi in comodato d’uso saranno rivisti. Per Renzi la riforma si propone, oltre alla costruzione di un nuovo welfare, di «valorizzare lo straordinario potenziale di crescita e di occupazione insito nell’economia sociale e nelle 30 attività svolte dal terzo settore» e di «premiare con adeguati incentivi e strumenti di sostegno tutti i comportamenti donativi dei cittadini e delle imprese». Il Forum del terzo settore da giorni scalpitava per l’annuncio in arrivo. Il portavoce Pietro Barbieri commenta entusiasta: «È un testo nel quale ci riconosciamo e al quale abbiamo attivamente e costruttivamente contribuito. Nel documento sono presenti i nostri principi ispiratori, la valorizzazione della sussidiarietà verticale e orizzontale e dell’economia sociale, la costruzione di un welfare partecipativo, l’incentivo alla partecipazione, alla donazione e alla prosocialità». Anche l’economista Stefano Zamagni, ultimo presidente dell’Agenzia per il terzo settore prima che essa fosse tagliata due anni fa dal governo Monti, si spertica in elogi: «Renzi ha fatto quello che nessun altro governo ha mai fatto». Facendo capire a chi ha strizzato l’occhio il premier con questa riforma. del 14/05/14, pag. 1/12 Troppi giovani disoccupati servizio civile per 100mila LUISA GRION DALLA garanzia giovani al servizio civile: per arginare il dilagante fenomeno della disoccupazione under 30 e dare una scossa ai “neet” (un paio di milioni di ragazzi che non studiano e non lavorano) il governo punta alla versione riveduta e corretta della vecchia “obiezione di coscienza”. ITEMPI dell’opposizione alla leva obbligatoria sono finiti da un pezzo e il servizio civile, da anni, è un’occasione data ai giovani, maschi e femmine, che nel volontariato vedono sì, un’occasione formativa, ma anche la possibilità di trasformare quell’esperienza in lavoro. Ogni anno i bilanci dello Stato dedicano al servizio civile un budget che va a finanziare i bandi e i programmi degli enti che partecipano all’operazione. Oggi i volontari in servizio sono poco più di 14 mila, lavorano in 3.293 enti accreditati e incassano ogni mese (il servizio civile dura un anno e la domanda per entrarne a far parte si fa direttamente all’associazione che propone il piano) un rimborso spese di 433 euro netti. Se le condizioni economiche resteranno invariate, l’obiettivo di Renzi di impegnare con questa formula centomila giovani l’anno richiederà quindi un investimento fra i 400 e i 600 milioni di euro. Il costo annuo per persona è valutato infatti in 6 mila euro circa, ma il nuovo servizio civile dovrebbe durare 8 mesi eventualmente allungabile di altri 4, non più direttamente 12. Ad occuparsi della partita che sfocerà in un disegno di legge delega varato dal Consiglio dei ministri il prossimo 27 giugno (anche in questo caso Palazzo Chigi non incontra le parti sociali, ma invita chi vuole a dire la sua online mandando, entro il 13 giugno, una mail a terzosettorelavoltabuona@ lavoro.gov.it) è il sottosegretario al Lavoro Luigi Bobba, deputato Pd ed ex obiettore di coscienza. «Rispetto al modello attuale di servizio civile - precisa - noi vogliamo passare dai 14 mila al 100 giovani coinvolti, ma intendiamo ridurre la durata dell’esperienza e coinvolgere in maggior modo le Regioni, le province autonome e probabilmente anche gli enti che offriranno la possibilità di effettualo». Una maggiore partecipazione, spiega Bobba, che potrebbe tradursi in un contributo alla spesa alleviando, anche se in piccola misura, il peso degli investimenti a carico dello Stato. Un altro abbattimento della spesa potrebbe derivare dalla possibilità già riconosciuta dal Consiglio di Stato - di rinunciare all’Irpef del 10 per cento oggi versata sul rimborso spesa. «Parte dei fondi necessari a impegnare il tetto dei 100 mila giovani potrà essere recuperata dal miliardo e mezzo di euro investiti sul progetto Garanzia 31 giovani, visto che il servizio civile è appunto una delle nove possibilità indicate per l’impiego». Certo è che comunque sia l’entità dello sforzo richiesto è enorme rispetto agli attuali investimenti. Al servizio civile, negli ultimi anni, sono state dedicate risorse decrescenti: nel 2013 ai bandi sono stati riservati 70 milioni scarsi, ma va pur detto che a volte , nel passato, i contributi sono rimasti inutilizzati per mancanza di progetti idonei. I tanti soggetti interessati alla partita, dalle coopertive sociale alle Acli, plaudono all’idea di Renzi. Giuseppe Guerini, portavoce di Alleanza Cooperative Sociali, fa notare che «uno su tre dei giovani impegnati da noi nel servizio civile viene poi assunto». Secondo Maurizio Gardini, presidente di Confcooperative, sarà però fondamentale esercitare una attenta attività di controllo: «Quando le risorse si moltiplicano bisogna vigilare affinché nessuno ne approfitti: gli enti ammessi al servizio civile dovranno essere accreditati e di provata esperienza, non lasciamo spazi ai soggetti dell’ultima ora». In realtà il governo Renzi, guardando al semestre di presidenza europea, già svolge lo sguardo altrove: ha in mente un servizio civile allargato a tutta l’area Ue. del 14/05/14, pag. 8 Il servizio civile sarà con benefit e crediti formativi Le linee guida della riforma Impegnati ogni anno fino a 100mila giovani. Il governo: «Leva universale per la difesa della Patria» ● Aperto agli stranieri e darà possibilità nel mondo del lavoro Adriana Comaschi Una riforma epocale, per un settore «che chiamano il Terzo ma che in realtà è il primo». Con un’Authority ad hoc, un Testo Unico chiamato a raccogliere e semplificare le norme vigenti e un rinnovato Servizio civile nazionale universale, aperto anche agli stranieri, anticamera per l’ingresso nel mondo del lavoro. Questo il succo delle linee guida sulla riforma del Terzo Settore, twittate tra lunedì e martedì da Renzi per lanciare una raccolta di pareri da qui al 13 giugno. Il testo integrato dalle osservazioni delle associazioni confluirà in un disegno di legge delega, da portare in Consiglio dei ministri il 27 giugno. Dopo anni di oblìo mediatico dunque Renzi riporta il Servizio civile sotto i riflettori. Istituto il 6 marzo 2001 con la legge n° 64, dal 2005 solo su base volontaria, il Servizio civile si rivolge a giovani tra i 18 e 28 anni «ed è un modo di difendere la patria - si legge sul sito del governo - quanto alla condivisione di valori comuni e fondanti l’ordinamento democratico». Il premier ne sottolinea proprio il carattere di «impegno civile, per la formazione di una coscienza pubblica e civica». E lo ridisegna con obiettivi ambiziosi. Anzitutto nei numeri: dovranno poterlo svolgere, su richiesta, «fino a 100 mila giovani l’anno per il primo triennio», per 8 mesi (meno dell’anno di servizio militare e dell’attuale Servizio civile, comunque prorogabili a 12), un modo per «fare un’esperienza significativa che non li tenga bloccati per troppo tempo». Già questo dà l’idea della nuova rilevanza che il Servizio civile «universale» dovrebbe acquisire, Renzi parla di «assicurare una leva di giovani per la difesa della Patria» accanto al servizio in divisa. Per dare un termine di paragone l’ultimo turno dell’attuale Servizio Civile coinvolge 1.541 fra ragazzi e ragazze, impegnati in 198 progetti che fanno capo a enti diversi: moltissimi i Comuni, che li impiegano dall’assistenza agli anziani alla tutela del patrimonio artistico, e poi Asl, associazioni ambientaliste o attive nel sociale. Le proporzioni del Servizio universale 32 immaginato da Renzi sono dunque ben diverse e affiancate da novità rilevanti. Spicca quella dell’apertura anche agli stranieri, un segnale forte anche in vista di un confronto politico sullo ius soli. A renderlo più appetibile dovrebbero poi contribuire la «previsione di benefit per i volontari, quali crediti formativi universitari; tirocini universitari e professionali; riconoscimento delle competenze acquisite durante il servizio». L’ingresso dei volontari nel mondo del lavoro verrà poi facilitato da «accordi» con le associazioni di imprenditori e cooperative del terzo settore, che garantiscano anche corsi di formazione. Le linee guida hanno però una portata ben più ampia. Si punta certo a «valorizzare lo straordinario potenziale di crescita e occupazione insito nell’economia sociale del terzo settore, l’unico che negli anni della crisi ha continuato a crescere». Ma «delineando i confini, separando il grano dal loglio». Ecco allora il riordino giuridico, per fare chiarezza su alcune ambiguità ancora presenti ad esempio tra volontariato e impresa sociale, con la modifica del titolo II del libro I del Codice civile ovvero delle norme sulla costituzione degli enti no profit e sulla loro gestione economica. Previsti poi «forme di controllo e accertamento dell’autenticità sostanziale dell’attivita realizzata» e «un regime di contabilità separata tra attivita istituzionale e imprenditoriale».Ma anche una «codificazione dell’impresa sociale » e procedure più semplici e «digitalizzate » per il riconoscimento della personalità giuridica». 5 PER MILLE E VOUCHER Tra le facilitazioni, anche quelle economiche con un «potenziamento del 5 per mille», sempre all’insegna della trasparenza con un elenco visibile a tutti delle realtà che ne beneficiano. Da notare poi l’introduzione di «voucher o detrazioni fiscali» per chi «sceglie liberamente un’impresa sociale». Un impianto subito accolto «molto bene» da Forum del Terzo settore, che raccoglie 80 reti nazionali: «Il documento contiene molti dei nostri princìpi ispiratori, anzitutto quello della valorizzazione della sussidiarietà verticale e orizzontale - spiega il portavoce Pietro Barbieri -, l’idea di costruire un welfare partecipativo e di investimenti per creare una vera economia dal Terzo settore. Forse questa è davvero #lavoltabuona». del 14/05/14, pag. 1/15 La privatizzata gioventù Giulio Marcon Servizio civile . Servono 400 milioni, aspettiamo di vederli L’annuncio di ieri di Renzi sulle «Linee guida per una riforma del terzo settore» contiene una serie di annunci, di ipotesi generali — alcune sbagliate — sulle quali, al pari di altri spot, il tempo ci dirà cosa c’è di concreto e cosa no. È bellissimo dire che si vuole fare un servizio civile con 100mila giovani, ma perché Renzi non finanzia intanto quello che già c’è? Ai tempi di Prodi partivano oltre 70mila giovani e c’era un finanziamento di 300 milioni di euro. Ai tempi di Renzi ne partono 18mila ed il finanziamento è intorno ai 70 milioni di euro. Se Renzi crede nel servizio civile non faccia annunci su leggi che devono essere ancora scritte, discusse e approvate (chissà quando) ma sostenga la legge che già c’è, magari prevedendo nuovi finanziamenti a partire dal decreto sull’Irpef in discussione al Parlamento. E poi perché dire “massimo” 100mila giovani? Perché togliere agli altri questo diritto e questa possibilità? Per fare un servizio civile per 100mila giovani servono almeno 400milioni di euro. Vediamo se Renzi li troverà, visto che fino ad oggi per l’edilizia scolastica –suo cavallo di battaglia– ne ha trovati per il 2014 solo 122 (aveva promesso 3miliardi e 700 milioni solo un mese fa). Ci sono poi elementi che non possono essere certo sottovalutati, come l’accesso degli stranieri al servizio civile, la possibilità di maturare 33 crediti formativi, ecc, anche se manca paradossalmente qualsiasi riferimento ai “corpi civili di pace” che un emendamento nella scorsa legge di stabilità ha deciso di finanziare per i prossimi tre anni. Comunque sfidiamo Renzi: dimostri che non si tratta di uno spot e ci faccia vedere qualcosa per la legge di stabilità. E inoltre: un conto è dire che che i giovani del servizio civile devono svolgere un ruolo integrativo al settore pubblico, un altro è prevedere che svolgano un ruolo sostitutivo, sorte che è toccata ad una parte del terzo settore. E un’idea di privatizzazione del welfare aleggia in queste “linee guida”. Quando si dice nel testo di Renzi che le organizzazioni non profit che svolgano una qualsiasi attività economica debbano diventare “imprese sociali” (sulla base di una fallimentare legge, i cui decreti attuativi sono stati scritti dal governo Berlusconi) questo induce qualche sospetto. Quando poi ci si ricorda che la normativa sulle “imprese sociali” prevede che possano esserlo anche le società profit che gestiscono attività nel settore sanitario, del l’istruzione, dell’assistenza, allora il sospetto diventa realtà. E’ la nuova frontiera dei mercati sociali, dove impera il business e non i diritti. Perché obbligare un’organizzazione di volontariato o un’associazione a diventare “impresa sociale” solo perché gestiscono un servizio per i cittadini, che magari ha una qualche rilevanza economica? E’ una torsione economicistica del terzo settore che si coniuga con quella della privatizzazione del welfare, mascherata dalla “scelta dell’utente”: la decisione , nelle linee guida, di incentivare i voucher gia’ previsti dalla legge 328 del 2000 (quella sui servizi sociali) va esattamente in questa direzione, quella dei nuovi mercati sociali. Nelle linee guida si parla poi tanto di 5 per mille per il volontariato, ma mai si usa la parola “stabilizzazione” di questa misura. Attualmente, ogni anno, la legge di stabilità rinnova lo stanziamento. L’associazionismo da anni chiede che ci sia una legge che renda stabile e permanente lo stanziamento del 5 per mille, ma Renzi non da’ risposte a questa richiesta. Si ripropone un’Authority per il terzo settore, che già c’era (abrogata dal governo Monti) e che non ha brillato per il suo lavoro. Un’Authority per fare cosa? Per controllare il terzo settore o per sostenerlo? Non si capisce. Superflua è poi la prima parte del documento dedicata –come fosse una grande novità– alla riforma del codice civile per la parte che riguarda le associazioni, le fondazioni, i comitati e le cooperative. Se ne sono occupati gli ultimi tre governi, senza grandi risultati. Nulla di nuovo. Vedremo, dunque cosa succederà. Per il momento questo governo produce tantissime “linee guida”, e non tutte sono buone. Almeno però sul servizio civile, che e’ una cosa seria, non si faccia del marketing. 34 ECONOMIA E LAVORO del 14/05/14, pag. 2 C’è fiducia nel precariato Roberto Ciccarelli Anche la Camera ieri ha dato il via libera al «decreto precari per sempre» che porta il nome del ministro del lavoro Giuliano Poletti. 333 deputati hanno votato a favore, 159 contro. Il governo Renzi ha così incassato la nona fiducia del suo mandato, la terza su un testo che è cambiato altrettante volte nella navetta tra Camera-Senato-Camera. Una decisione presa per evitare trappole, tranelli e ripensamenti dell’ultim’ora da parte di una maggioranza eterogenea, di cui il presidente del Consiglio si fida poco, evidentemente. Tutti, alla fine, si sono detti soddisfatti. Il Partito Democratico con Cesare Damiano, presidente della commissione lavoro alla Camera, secondo il quale il Decreto Poletti «è un compromesso accettabile» perché mantiene inalterata la sostanza delle correzioni apportate in prima lettura alla Camera. Anche il Nuovo Centro Destra canta vittoria perché ritiene di avere «smontato» la riforma Fornero e sottratto il provvedimento dalle grinfie della Cgil. Una posizione surreale per giustificare il peggioramento del testo, in particolare sulla multa alle aziende che non rispettano il limite massimo di contratti di lavoro a termine pari al 20% dell’organico stabile. La destra al governo celebra il fatto che «ora ci sono meno rigidità per le imprese», svincolate da uno dei pochi obblighi imposti dalla riforma Fornero. Di tutt’altro avviso i deputati di Sel che ieri hanno indossato una maschera bianca contro un provvedimento «che rende ineluttabile e naturale la condizione precaria per tutti i giovani» ha detto Titti Di Salvo. Per Marco Revelli, portavoce dell’Altra Europa con Tsipras, presente a un presidio in piazza Montecitorio organizzato da precari, studenti e sindacati di base, il decreto Poletti è «una grande beffa, non produrrà lavoro, ma avrà il solo effetto di sostituire in modo permanente quel pò che resta del lavoro “buono”, ossia stabile, con quello “cattivo”, ossia precario». Per Francesco Raparelli, tra i portavoce delle Clap, Camere del lavoro autonomo e precario di Roma «il decreto rappresenta l’inizio di una nuova politica postsalariale del lavoro,sempre più precarizzato che osteggeremo». L’appuntamento è per sabato 17 maggio dove le ragioni contro questo primo scampolo di «JobsAct» sfileranno insieme a quelle dei movimenti per i beni comuni, contro il Fiscal Compact e il patto di stabilità.Tra le novità del decreto Poletti c’è anche l’esclusione degli enti di ricerca dal limite del 20% sui contratti a termine. Per tutti gli altri casi è stata introdotta una «norma ponte» per cui l’obbligo di adeguamento alla soglia scatterà dal 2015, sempre che la contrattazione collettiva non fissi un altro limite. Per le lavoratrici madri viene rafforzato il diritto di precedenza delle donne in congedo maternità per le assunzioni. Sull’apprendistato sono stati ridotti gli obblighi di assunzione dei lavoratori nelle aziende oltre i 50 addetti. Il ministro del lavoro Poletti è stato contestato ieri mattina ad un convegno di presentazione della «Garanzia giovani» a Porta Futuro a Roma. Nonostante un fitto schieramento di polizia, i manifestanti sono riusciti ad esporre lo striscion «#stopjobsact. Reddito, welfare, diritti per tutti», intervenendo in un’assise dove c’erano anche la presidente della Camera Blodrini e il presidente della regione Lazio Zingaretti. Per gli attivisti, i 900 mila posti promessi dalla «garanzia giovani» sono tutt’al più dei «mini jobs» o semplici ammortizzatori sociali. All’opposto, per i governanti sono un’«occasione» da non perdere per stagisti e apprendisti. Poletti ha ribadito che il suo decreto «non aumenta la precarietà» Il ministro sostiene che la criticatissima norma che cancella per tre anni la causale sui contratti a termine permetterà «all’impresa di rinnovare allo stesso 35 lavoratore il contratto». Di parere opposto, e con solidi argomenti, sono i giuristi democratici che hanno annunciato di ricorrere in Europa contro un provvedimento che viola le normative europee sui contratti a termine. «Se i numeri ci daranno torto — ha aggiunto Poletti — prenderemo atto di avere preso una strada non giusta». Qualcuno ha sincronizzato gli orologi, ieri, a piazza Montecitorio. Acampada al Senato Nelle stesse ore del presidio alla Camera, i movimenti della casa hanno sfilato per il centro di Roma contro l’approvazione in corso del piano Lupi sull’emergenza abitativa. Il voto finale dovrebbe esserci oggi al Senato su un provvedimento che contiene misure che metteranno il turbo ai lavori dell’Expo a Milano: spese per manutenzuione del verde, 25 milioni di euro al comune di Milano, agevolazioni fiscali. Ciò che inquieta di più i movimenti che si sono accampati a Sant’Andrea della Valle, a pochi metri da piazza Madama, è l’articolo 5 che taglierà le utenze a tutte le occupazioni abitative in Italia. Per i movimenti si tratta di un vero e proprio atto di rappresaglia. «Solo a Roma ci sono centinaia di sfrattati, 100 mila appartamenti vuoti, — ha detto Paolo Di Vetta (Blocchi Precari Metropolitani) — vogliamo vedere in faccia chi ucciderà il diritto alla casa». del 14/05/14, pag. 5 «Basta dimissioni in bianco» Rachele Gonnelli L’Organizzazione internazionale del lavoro, agenzia delle Nazioni Unite che promuove gli standard minimi di diritto del lavoro in tutto il mondo, nel suo Rapporto sulla tutela della maternità pubblicato ieri, si rivolge direttamente al governo italiano perché elimini la deleteria pratica della richiesta di dimissioni in bianco. L’indagine del Centro studi dell’Ilo, diretto per questo settore da Mauela Tomei, non nasconde che l’Italia rispetto a Paesi come il Mozambico o la Malesia brilla per tutele delle lavoratrici in gravidanza. La legislazione italiana brilla ancora persino in Europa, dove pure i Paesi membri sono chiamati a osservare la Direttiva comunitaria del ‘92 che prevede 14 settimane di astensione dal lavoro assistita per le puerpere. Persino la Grecia riluce in questo campo avendo dalle 13 alle 17 settimane di maternità pagata (l’Italia ne riconosce 22 settimane), anche se - precisa il Rapporto - con la crisi, l’adozione di misure di austerità, l’impennata di disoccupazione e il peggioramento delle condizioni di lavoro si è notevolmente ridotta la platea delle lavoratrici che possono effettivamente usufrire dei benefici. Così in Serbia, dove il sindacato Nezavisnost denuncia che, con l’aumento vertiginoso dei contratti atipici, solo le dipendenti a tempo indeterminato sono di fatto coperte dalle tutele di legge, cioè appena il 7,8 per cento delle donne. Anche in Spagna le ong denunciano fenomeni di «mobbing contro le madri» ma è un’anomalia tutta italiana quella del ricatto delle dimissioni in bianco al momento dell’assunzione. La convalida richiesta davanti all’Ufficio del lavoro - precisa l’Ilo - non è un deterrente efficace e le dimissioni in bianco continuano a colpire le donne tra i 26 e i 35 anni ed è aumentato nel biennio 2011-2012 del 9 per cento. Perciò l’Ilo chiede esplicitamente al governo di eliminare l’autorizzazione prevista nel 2012. Una proposta di legge volta a ripristinare e aggiornare, tramite dichiarazione digitale, le norme della legge 188, risalente all’ultimo governo Prodi, è passata alla Camera il mese scorso. Ma il presidente della commissione Lavoro al Senato, Maurizio Sacconi, lo stesso che da ministro di Berlusconi abrogò la legge 188, ha ora assorbito la proposta nella legge delega nota come Jobs Act, stemperandone di fatto le procedure di tutela. 36