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Jim Kelly Trappola bianca Traduzione di Mauro Boncompagni Titolo originale: Death Wore White Copyright © Jim Kelly, 2008 All rights reserved Progetto grafico di collana: Yoshihito Furuya Progetto grafico di copertina: Adria Villa www.giunti.it © 2012, 2015 Giunti Editore S.p.A. Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – Italia Piazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia Prima edizione: febbraio 2012 Ristampa 6 5 4 3 2 1 0 Anno 2019 2018 2017 2016 2015 Per Bob 1 Lunedì 9 febbraio L’ Alfa Romeo avanzava come la macchia lasciata da un rossetto su un paesaggio color seppia. La neve punteggiava il terreno sabbioso sul bordo delle acque increspate del Wash. Verso l’interno si stendeva la palude salmastra, una trama di un nitore invernale intorno a una distesa di gelida acqua nera. Più in là, verso il mare, un convoglio di sei piccole imbarcazioni era avvolto in una chiazza porpora che sfumava nell’oro nel punto in cui il sole stava tramontando. L’ auto sportiva si avvicinò al limite di velocità mentre Sarah Baker-Sibley osservava il primo fiocco di neve cadere sul parabrezza. Lo spazzò via con un colpo di tergicristalli, spinse l’accendisigari e contò con le labbra fino a dieci, tenendo pronta una sigaretta tra i denti. Dieci secondi. Prese a tamburellare con le dita sul volante rivestito in pelle. Mancavano due minuti alle cinque e i fari dell’Alfa proiettavano la loro luce contro i catarifrangenti. Sarah estrasse l’accendisigari. Il cerchietto di metallo infuocato parve sollevarle il morale e lei rise tra sé, cominciando ad aspirare la nicotina. Uno spirografo di ghiaccio aveva invaso il parabrezza, così Sarah mise il riscaldamento al massimo. Il termometro che indicava la temperatura esterna sullo 0, in quel momento scese a -1. Lei 9 ridusse la velocità a 80 chilometri all’ora e diede un’occhiata allo specchietto retrovisore per controllare il traffico alle sue spalle; era stata superata una volta e il veicolo era ancora davanti a lei di circa ottocento metri. Dietro vide delle luci, ma più vicine, a un centinaio di metri o anche meno. Spazzò via altri fiocchi di neve dal parabrezza col tergicristallo. Attaccata al cruscotto con una ventosa c’era la piccola foto incorniciata di una ragazza con i capelli fino alla vita: indossava un costume da bagno e sullo sfondo c’era una spiaggia assolata. Sarah toccò l’immagine come se fosse un’icona. Affrontando una stretta curva sulla destra, vide le luci di coda davanti a sé per alcuni secondi. Poi, al centro della carreggiata, le apparve un cartello segnaletico luminoso, nero su sfondo giallo, con la sigla dell’Automobile Club, ac, nell’angolo in alto a sinistra. deviazione allagamenti Una freccia puntava bruscamente a sinistra, in direzione del mare, giù per un’angusta strada in terra battuta. «Accidenti.» Colpì il volante con la parte bassa del palmo. Rallentando ancora, diede un’occhiata all’orologio: le 17.01. Doveva passare a prendere la figlia a scuola alle 17.30. Non era mai mancata, puntuale come un orologio svizzero. Quello era uno dei principali vantaggi dello svolgere un’attività in proprio: poter disporre del tempo senza dover rendere conto a nessuno. Ecco perché prendeva sempre la vecchia strada costiera e non la nuova autostrada a doppia carreggiata: lì non c’erano mai ingorghi, nemmeno d’estate. Era sempre sgombra. Una volta, forse due, era rimasta bloccata al negozio per un contrattempo, così aveva telefonato per avvisare che sarebbe arrivata tardi. In quell’occasione Jillie era rincasata a 10 piedi, ma a Sarah dispiaceva sempre deluderla. Specie quella sera, dato che avevano annunciato neve. Sarebbe arrivata puntuale anche con la deviazione, sempre che non ci fosse nient’altro a farle perdere tempo. Guardando di nuovo nello specchietto retrovisore, si accorse che la macchina dopo di lei si era avvicinata, così innestò la prima e, sterzando, uscì dalla strada costiera per immettersi nel sentiero coperto di neve. I fari setacciarono il bosco mentre l’auto svoltava, ma Sarah non si accorse che la luce cadde per un fugace attimo anche su una sagoma immobile con indosso un giaccone scuro screziato di neve e la testa – incappucciata – girata da un’altra parte. Notò tuttavia un cartello stradale. siberia belt Davanti aveva le luci di coda del veicolo che stava seguendo. Ci fu un improvviso silenzio mentre si scatenava un turbine di neve che avviluppò il mondo esterno. Si levò di nuovo il vento soffiando con forza da destra, le raffiche erano come pugni attutiti dal guantone di un pugile. Sarah controllò lo specchietto retrovisore cercando la vista confortante dei fari alle sue spalle. Non ce n’erano. Le luci di coda davanti a lei però erano ancora visibili: calde, brillanti, sicure. Continuò in fretta l’inseguimento. 11 2 A circa ottocento metri di distanza, l’ispettore Peter Shaw stava in piedi sulla spiaggia mentre la neve cadeva, cercando di sorridere al vento dell’Artico che soffiava da nord. Il paesaggio marino era di un blu ghiaccio, e la spuma biancastra rompeva le onde prima che arrivassero a infrangersi sulla spiaggia. Al largo, un banco di sabbia era spolverato di neve: una distesa di zucchero a velo sul marzapane. La raffica era passata subito dopo il suo arrivo, ma Shaw sapeva che entro la notte si sarebbe scatenata una tempesta: le nuvole cariche di neve si erano già ammassate all’orizzonte come una catena montuosa. «Sta per salire la marea» disse, togliendosi un fiocco di neve dalle labbra con la lingua. «Perciò quella roba dovrebbe essere qui. Proprio qui.» Prese a battere in modo ritmico con la scarpa per terra, creando una piccola pozza simile a sabbie mobili intorno alla sua impronta, poi tirò su la zip del giaccone impermeabile giallo. «Un bidone giallo, di un giallo intenso, no?» chiese. «Color mostarda, come l’altro. E allora dov’è?» Il sergente George Valentine stava in piedi sottovento, a circa due metri dall’ispettore, il viso girato dalla parte opposta rispetto al mare. Soffocò uno sbadiglio digrignando i denti. I suoi occhi lacrimavano fortissimo: un’allergia, dovuta forse alle alghe marine o al sale nell’aria. Valentine si guardò i piedi, avvolti nei mocassini neri da cui stillava acqua salata. Era troppo vecchio per quelle 12 cose: gli mancavano cinque anni alla pensione ed era tormentato dai reumatismi. Avevano ricevuto la segnalazione della Guardia costiera un’ora prima: rifiuti tossici avvistati al largo di Scolt Head Island, che andavano alla deriva verso la costa. Sei settimane prima, tre bidoni erano finiti sulla spiaggia di Vinegar Middle, un banco di sabbia al largo della costa vicino a Castle Rising. Shaw era impegnato nel primo turno a St. James’s, la centrale di polizia di Lynn. Sua figlia Francesca veniva a giocare sulla spiaggia, a volte, perciò lui osservava il luogo con occhi da genitore. Quando era arrivato sul posto, una bambina di cinque anni stava infilando un bastoncino nella parte alta del bidone, nel punto in cui si era spaccato. Shaw le aveva detto di gettarlo, ma non era stato in grado di nascondere il tono di apprensione, quasi di comando, nella sua voce. Leggere il viso di un bambino non è uno di quegli esercizi che si imparano nei manuali. Lui aveva còlto l’espressione di improvvisa paura della piccola, ma gli era sfuggita l’altra, quella di rabbia. Alla bimba non piaceva sentirsi dire quello che doveva fare, così gli aveva agitato il bastoncino in faccia mentre Shaw le afferrava un braccio per toglierla dalla pozza liquida in cui aveva messo i piedi. La piccola non voleva colpirlo, ma mentre l’ispettore si piegava, l’aveva centrato all’occhio. La ferita era stata coperta da una garza e la medicazione fissata con una striscia di cerotto; i bordi rossi, infiammati, di una cicatrice fresca, erano appena visibili. Lui si toccò la fasciatura, muovendola leggermente per allentare la pressione. La sostanza chimica contenuta nel bidone si era rivelata un mistero: una miscela instabile di residui di acido nitrico e solforico, i sottoprodotti di un processo manifatturiero non controllato. Una sostanza «classe otto», altamente corrosiva, con una notevole capacità di aggredire il tessuto epiteliale, cioè la pelle. «Dove sarà?» chiese di nuovo Shaw. Doversene stare così, im13 mobile, era una specie di tortura. Avrebbe voluto correre lungo la riva, sentire il cuore che pulsava, il sangue che circolava veloce, la marea intossicante degli antidolorifici che gli sommergeva il cervello: lo sballo di chi ama la corsa. Sollevò un piccolo cannocchiale portandoselo all’occhio buono, che aveva l’iride di un azzurro pallido come l’acqua di una cascata, ed esplorò il panorama. Il viso di Shaw si rivolgeva al mare aperto; era quel tipo di viso che trova sempre un orizzonte da esplorare. Aveva gli zigomi alti, sembrava un intraprendente guerriero dell’orda mongola spinto a nord della costa del Norfolk per piantare la tenda accanto alle capanne sulla spiaggia. Il sergente Valentine diede un’occhiata all’orologio. L’ aveva comprato per una sterlina ed era piuttosto sicuro che il marchio rolex fosse falso. Il tic-tac dell’orologio era sospettosamente sonoro. Rabbrividì tenendo la testa bassa, quasi penzolante dal collo sottile, simile a quella di un avvoltoio. Tentò di tenere la bocca chiusa, perché sapeva che i denti avrebbero cominciato a dolergli se fossero venuti a contatto col vento. Una radio gracchiò e Valentine la tirò fuori dall’impermeabile informe che indossava. Si mise in ascolto, disse semplicemente «Bene» e, armeggiando di nuovo tra le pieghe dell’impermeabile, estrasse un tubetto di caramelle alla menta, ne fece schizzare fuori una e la masticò immediatamente. «Era la Guardia costiera. Hanno perso di vista il bidone un’ora fa. L’ acqua si sta agitando, ora che sale la marea.» Scrollò le spalle come se conoscesse gli umori dell’oceano. «Non c’è molto da sperare.» Shaw si passò una mano tra i capelli corti e biondi. I due rimasero così, in piedi, uno che guardava a sud e l’altro a nord, chiedendosi come fossero arrivati a quel punto: Shaw e Valentine, la più recente coppia di detective del Dipartimento di polizia del West Norfolk. 14 Qualche burlone nel settore amministrativo, aveva pensato Shaw, qualche vecchio idiota che conosceva il passato e a cui non importava niente del futuro. C’era bisogno di un nuovo partner per lui, che a trentatré anni era l’ispettore più giovane in servizio, l’enfant prodige con la sua bella laurea e un padre che, un tempo, era stato candidato al ruolo di capo della polizia. E gli avevano abbinato George Valentine, un relitto vivente che proveniva da un mondo del tutto diverso, un mondo in cui poliziotti cinici intraprendevano guerre senza speranza contro la criminalità di strada. Un uomo che da miglior detective della sua generazione, a causa di un errore, era finito sulla lista nera da cui stava ancora tentando di uscire. Un uomo la cui carriera pareva descrivere la traiettoria di un mattone sul punto di precipitare a terra. Era la loro prima settimana insieme, come partner, e a entrambi sembrava già una vita. Shaw si guardò in giro. Aveva giocato su quella spiaggia da bambino. «Andiamo lassù» disse, indicando una bassa collina tra le dune. «Gun Hill. Lì si sale a una certa altezza. Magari ci riesce anche di vederlo, quel bidone.» Valentine annuì senza entusiasmo. Diede la schiena al vento che proveniva dal mare e guardò verso l’interno, lungo la curva in cui era impresso il segno dell’acqua alta. «Là» disse, togliendo una mano nuda dalla tasca dell’impermeabile con una certa riluttanza. Un barile metallico di petrolio, di colore giallo, rotolava fra le onde. «Andiamo» disse Shaw, che era già partito correndo: teneva un’andatura al piccolo galoppo, compatta, quasi senza sforzo. Il coperchio del bidone era così arrugginito e arricciato che il contenuto aveva cominciato a fuoriuscire. Shaw riuscì a sentirne l’odore anche a due metri di distanza, con quel forte aroma quasi 15 corrosivo di ammoniaca. Il liquido che si spandeva lungo le pareti esterne del bidone era verde, sembrava fluorescente, gelatinoso. La vernice del fusto si sfogliava al contatto. «Chiamo la Guardia costiera» disse Valentine senza fiato, tirando fuori la radio. «L’ imbarcazione potrebbe essere là fuori. Chissà quanti altri barili avranno scaricato.» «Chiama anche la centrale» disse Shaw. «Devono mandarci un team di chimici per mettere in sicurezza questo bidone e portarlo via dalla spiaggia. Meglio che noi ce ne stiamo qui fino all’arrivo dei ragazzi. Dagli le coordinate.» Shaw lesse ad alta voce i numeri sul suo Gps. Mentre Valentine continuava a trafficare con la radio, Shaw si accovacciò, raccolse una decina di gusci di patelle giallastri e li allineò sulla sabbia. «Potremmo anche accendere un fuoco» disse ad alta voce. Il vento era calato e, con l’avanzare del buio, l’aria stava diventando gelida. Immaginò il breve crepuscolo, il fuoco che si accendeva sul segnale di acqua alta, e si sentì meglio. Dopo aver messo in tasca le conchiglie, cominciò a raccogliere dei relitti galleggianti, tra cui una cassetta di birra, alcuni pezzi di quercia di torbiera e i resti rinsecchiti di una copia del Telegraph, poi si voltò con le braccia cariche. Fu allora che vide qualcos’altro in mezzo alle onde. L’ acqua a Ingol Beach digradava dolcemente, così, sebbene quella cosa si trovasse a cento metri di distanza, toccava già il fondo, flettendosi e piegandosi leggermente tra le acque bianche. Un canotto, uno di quei giochi da bambini in colori disneyani. Shaw restò fermo per alcuni secondi, guardandolo venire lentamente a riva. Il gommone s’incagliò a una trentina di metri da lui, bloccandosi. Valentine vide il suo ispettore togliersi scarpe e calze. Gesù!, pensò guardandosi intorno, nella speranza che fossero ancora soli e, soprattutto, che Shaw si fermasse alle calze. L’ ispettore avanzò 16 a guado; il contatto con l’acqua gelida gli diede quasi una scossa elettrica e gli provocò una fitta alle ossa. C’era qualcosa dentro il gommone, qualcosa che non rispondeva allo strascicamento e al dondolio delle acque. Un peso morto. Quando vide le mani – entrambe nude – e i piedi, chiusi in scarpe da ginnastica inzuppate di acqua marina, capì che si trattava del corpo di un uomo: aveva peli neri sulle mani e un vistoso anello con sigillo. Sentì il sangue pulsargli improvvisamente nelle orecchie mentre il suo corpo reagiva alla vista della morte. L’ impulso di fuggire, di scappare dal pericolo, era quasi travolgente. Provò anche la sensazione che il tempo si fosse fermato, come se intorno a lui tutto si svolgesse a una velocità tremendamente lenta. Si sforzò di osservare, di tenersi lontano dalla scena. Morto, sì, ma da quanto? Meno di quarantotto ore. Le braccia e le gambe erano in posizioni innaturali, piegate in angoli orribili a vedersi, perciò il rigor mortis non era ancora passato. Posò una mano sul bordo del gommone per raddrizzarlo, stringendo con le dita una maniglia sistemata all’altezza della prua. Jeans, T-shirt, un pesante giubbotto dal collo di pelliccia indossato solo per metà, che gli lasciava libero un braccio. Sul fondo c’erano un paio di centimetri di acqua marina mescolata a sangue. Valentine andò incontro a Shaw sulla sabbia asciutta, e i due girarono il gommone in modo che quel po’ di sole che restava illuminasse la testa del morto; impossibile non guardarlo adesso. L’ uomo era privo di vita, sicuramente, nonostante il corpo si muovesse insieme alle onde. Un volto umano: la passione di Peter Shaw, perché ciascun viso rappresentava un equilibrio e uno squilibrio unico di lineamenti non meno individuali delle impronte. Notò il gonfiore e il profondo pallore, sembrava grasso freddo, con quelle tonalità quasi iridescenti di blu e verde. Un uomo giovane, con una barbetta rada sul mento, gli occhi semiaperti ma spenti, senza 17 luce, una palpebra più chiusa dell’altra. Rughe orbitali laterali – le zampe di gallina – decisamente pronunciate, come se l’uomo avesse passato la vita a tenere gli occhi socchiusi per via del sole. I muscoli sottostanti modellavano la pelle come la superficie di un pezzo di ferro battuto. Ma fu la bocca ad attirare l’attenzione di Shaw. Le labbra, due righe diseguali, si erano ritratte scoprendo i denti, macchiati di sangue. «Merda» disse Valentine, girandosi, avanzando di tre passi e vomitando nella sabbia. Tornò pulendosi le labbra. «Mi succede quando vedo il sangue» disse, evitando lo sguardo di Shaw. Poteva anche essere un poliziotto con trent’anni di esperienza, ma questo non l’aveva abituato a stare in compagnia dei morti. Shaw cercò di rianimare il viso della vittima nella sua mente, come gli era stato insegnato. Gli tese la mascella, ricompose gli occhi, rimise a posto l’arco delicato delle labbra. Un volto non cerebrale, ma muscolare. Fu Valentine il primo ad accorgersi del segno sul braccio. L’ acqua del mare l’aveva ripulito e non sanguinava più, ma era impossibile sbagliarsi sulla forma: era quella di un morso. Un morso umano. I denti avevano bucato la pelle in profondità, affondando malignamente nel tendine e nel muscolo, quasi incontrandosi in una secca, doppia incisione. 18 3 Sarah Baker-Sibley bloccò l’Alfa dietro le luci di coda ferme, lasciando una distanza di tre auto tra sé e la macchina più vicina. Il veicolo in testa si era fermato e un pino, che illuminato dai fari assumeva una tonalità argento, ostruiva la strada. Guardando davanti a sé, Sarah vide che non si trattava di una macchina, ma di un camioncino nel cui vano posteriore era stato depositato un basso carico coperto. La cabina era munita di un lunotto che faceva passare la luce attraverso un vetro smerigliato. Il motore girava al minimo, e i gas di scarico svanivano come per incanto a ogni alito di vento. A un tratto, nel silenzio, avvertì una musica: un pezzo urban, nervoso e sonoro. Poi più nulla. Il brano successivo, più forte, era persino meno melodico. Le folate di neve erano cessate, ma continuavano ancora a cadere dei fiocchi. Lei attivò la chiusura centralizzata e frugò nella borsetta alla ricerca del cellulare. Era un modello recentissimo, regalo di uno dei suoi fornitori, prezzo al dettaglio 230 sterline. Connessione a Internet, Gps, foto-videocamera, retro decorato con un particolare delle Ninfee di Monet. segnale assente ricerca rete Gettò il telefonino sul sedile del passeggero. Davanti, la neve sulla strada era già alta sei centimetri e pulita come l’asciugamano di un 19 albergo. I due solchi paralleli, appena visibili, lasciati dai copertoni, si stendevano fino al camioncino bloccato. Poi sentì il rumore di un veicolo alle sue spalle e, guardando nello specchietto retrovisore, vide i fari avanzare fino a quando non furono così vicini da cadere nella sua ombra. Non appena l’effetto abbagliante delle luci svanì, vide l’autista. Un uomo solo. Controllò che la portiera avesse la chiusura automatica inserita. Osservò l’uomo sollevarsi a fatica dal sedile del conducente, uscire e raddrizzarsi con una mano sulla macchina in cerca di sostegno. Il tizio avanzò barcollando, ma si fermò subito, non appena il vento riprese a soffiare, si fece forza e attese che passasse il peggio. Si affacciò al finestrino chiuso del conducente. Un sorriso forzato, i capelli bianchi spruzzati di neve, le dita grassocce che tenevano stretto il colletto di un giaccone da lavoro. Un paio di occhiali dalla pesante montatura nera gli ingrandivano gli occhi, che erano lattiginosi per via dell’età. Il gelo aveva conferito un minimo di colore alle sue guance, ma per il resto l’uomo era pallido e come prosciugato, con la fronte imperlata di sudore freddo. «Tutto ok?» disse l’uomo non appena lei abbassò il finestrino di qualche centimetro. Sentì di nuovo il suono della musica, ora anche più forte, che proveniva dal camioncino. «Siamo bloccati» disse lei secca. «Io però ho un bisogno assoluto di proseguire, perché devo andare a prendere mia figlia a scuola. Non è che potrebbe controllare più avanti e vedere se possiamo rimuovere quell’albero?» Lui guardò davanti a sé e si inumidì le labbra con aria riluttante, poi si mosse. Lei osservava le orme lasciate dall’uomo sulla neve: un’unica linea di impronte piatte, leggermente irregolari. L’ uomo scivolò sull’orlo del fossato non appena il vento riprese a soffiare; le braccia gli scattarono all’insù come se si fosse messo a fare segnali, mentre il giaccone si gonfiava. 20 «Ci mancava solo questa» disse lei, spingendo l’accendisigari in profondità. «Il nonno in ammollo.» Pulì la condensa sul parabrezza con un panno e osservò l’uomo raggiungere il finestrino del pick-up. Lui si chinò leggermente all’altezza della vita, parlò per pochi secondi e poi si raddrizzò infilando entrambe le mani nelle tasche del giaccone. Tornò un minuto dopo, forse anche meno, talmente in affanno che dovette appoggiarsi al tettuccio dell’Alfa. «Allora... Impossibile spostare quell’albero, almeno adesso. Quello dice che dovremmo fare tutti marcia indietro. Ce l’ha un cellulare?» chiese. «Non c’è segnale.» «È quello che mi ha detto anche lui. Io non ho il cellulare.» Si strofinò un occhio sotto le lenti spesse. Lei si accorse che la faccia dell’uomo, nonostante il freddo, era tutta bagnata di sudore. La donna espulse il fumo dalle narici, serrando le labbra in una smorfia contrariata. «Cerchi di non agitarsi» disse. Lui si chiuse il bavero del giaccone. «Io sto bene. Cercherò di fare retromarcia fino all’incrocio. Lì c’è un sentiero che porta a una fattoria. Mi dia solo qualche minuto.» Se ne andò prima ancora che lei avesse il tempo di replicare. L’ uomo tornò barcollando alla sua auto, tolse la neve dal parabrezza con la manica e poi si abbassò per sedersi al posto del conducente e mettere in moto. Sbirciò prima verso il cruscotto, poi verso lo specchietto retrovisore. «Eddai!» disse Sarah. «Non è che devi far partire uno Shuttle, che cazzo!» L’ uomo non si mosse. Lei aprì la portiera di scatto e uscì fuori nella notte, mettendosi una mano sopra gli occhi per impedire che i fiocchi di neve le rimanessero impigliati nelle ciglia. Si piegò e curvò le spalle nel tentativo di proteggere il collo dal freddo. Vide l’auto del vecchio con chiarezza per la prima volta. Una 21 Corsa a tre porte color argento, con un paio di scale fissate accuratamente al portapacchi. Ma fu quello che vide snodarsi dietro la Corsa a far imprecare Sarah Baker-Sibley. Una fila di fari che tentava di retrocedere; erano tutti bloccati dalla neve. Lei alzò lo sguardo e lasciò che qualche fiocco le si posasse sul viso. «Perché io?» chiese. Pensò a Jillie che arrancava verso casa nella neve. «E perché proprio adesso?» Come se avesse ricevuto l’imbeccata, la tempesta alla fine si scatenò; la nevicata si fece sempre più intensa, sostenuta dal vento che soffiava dal mare. La visibilità si ridusse a pochi metri. Sarah si strofinò via i fiocchi dalle palpebre e tornò in fretta al riparo nella sua auto. 22 4 Nella tempesta, Shaw e Valentine agirono in fretta. Trascinarono il gommone lungo la distesa di sabbia fino alla Land Rover nera dell’ispettore, parcheggiata oltre un boschetto di biancospini. Quando terminarono di fissare il telone, zavorrandolo agli angoli con qualche pietra, la nevicata si era ormai scatenata. Allora rimasero seduti all’interno ad aspettare e, da un finestrino aperto, Shaw osservò l’alta marea che stava inghiottendo la spiaggia. Erano undici anni che faceva il poliziotto, ma quella era la prima volta che scopriva un cadavere e provò sconcerto nel rendersi conto che l’impatto emotivo non accennava ad attenuarsi. Shaw sentiva un vuoto allo stomaco e continuava a vedere la bocca del morto, con quel sangue rosso mattone sullo smalto bianco dei denti. Valentine si piegò in avanti con le mani sulla ventola dell’aria calda, continuava a mandar giù catarro mentre la polvere gli irritava senza sosta la gola. Aveva cestinato l’ultimo pacchetto vuoto di Silk Cut alla centrale di polizia, così chiuse gli occhi cercando di non pensare alla nicotina, cercando di non pensare al cadavere nel gommone. Ma era difficile scuotersi di dosso l’immagine di quella ferita apparentemente autoinflitta. Provò a inoltrare una chiamata via radio: la centrale operativa gli disse che il patologo della polizia, una donna, era in arrivo e una squadra della Scientifica del West Norfolk si stava riunendo giusto allora, ma la nevicata aveva portato il caos sulle strade costiere, perciò ci sarebbe voluto un po’ di tempo. 23 La tempesta passò in una ventina di minuti e si diresse poi verso l’interno, trascinata da venti impetuosi, e seguita da aria calma. Gli ultimi fiocchi di neve assomigliavano ai papaveri lanciati in alto il Giorno dell’Armistizio, ed erano di un bianco rossiccio. La pazienza di Shaw si esaurì. L’ ispettore aprì la portiera con forza e rabbrividì al contatto con l’aria, incredibilmente fredda. Tirò le chiavi a Valentine. «Porta la Land Rover sulla spiaggia e tieni i fari accesi. Dentro c’è una fotoelettrica, comunque.» Si protese all’interno e diede un colpetto a un interruttore rosso. «Cammina fino al segno dell’acqua alta e vedi se riesci a trovare qualcosa; che so, abiti, un’arma, qualsiasi cosa. Se ci sono altre orme nella sabbia, a parte le nostre, segnalale con le bandierine apposite, che sono nel bagagliaio. Ah, c’è anche del nastro; usalo e delimita il punto in cui ho tirato a riva la salma, anche se ormai sarà sott’acqua, probabilmente. Ci sono delle buste per le prove nello sportello del cruscotto. Appena arrivano i Vigili del fuoco o i nostri ragazzi, aggiornali. E non dimenticarti delle regole che vanno rispettate sulla scena di un delitto: niente fumo.» Valentine fece schizzare fuori dal pacchetto un’altra caramella. «Io mi arrampico lassù e vedo cosa si può vedere da lì. Torno tra dieci minuti, non di più.» «Bene» disse Valentine. Shaw sentì una nota di riluttanza in quell’unica parola che diceva così tanto. Gli tornò in mente George Valentine sul letto di morte del padre, con un bicchiere di whisky al malto in mano e una sigaretta che si consumava tra le dita ingiallite. La noia, quella casetta e il pensionamento precoce – forzato – avevano ucciso l’ispettore capo Jack Shaw. L’ avevano ucciso in fretta, per fortuna. La conclusione prematura del lavoro e il ritorno alla vita da borghese erano venuti dopo l’ultimo, noto caso del padre. Fin lì, quei due avevano costituito la coppia più gloriosa del 24 dipartimento: l’ispettore capo Jack Shaw e l’ispettore investigativo George Valentine. Un paio di sbirri all’antica in un mondo all’antica. Perciò Shaw sapeva a cosa stava pensando Valentine adesso: che, dieci anni prima, loro avrebbero risolto un caso simile senza tutti quegli insensati meccanismi delle procedure di polizia, senza una bella laurea in discipline forensi (qualsiasi cosa fossero) e senza quella filosofia del controlla e ricontrolla ogni cosa. Valentine rigirò i due dadi attaccati all’accendino che facevano da portachiavi. Verdi e avorio, con i puntini dorati. «Cos’è questo odore?» chiese prima che Shaw si fosse allontanato di una decina di metri. Shaw si fermò annusando la brezza marina. «Potrebbe essere menta, George. Mastica un altro po’ di quella roba e spaventerai anche le pecore.» Ma Valentine aveva ragione. C’era qualcos’altro nell’aria, qualcosa che sapeva di ozono e di alghe marine. «È benzina. Che sia un fuoribordo?» chiese Shaw. Valentine tirò fuori un fazzoletto e si tamponò gli occhi irritati, che continuavano a lacrimare. «Presidia il fortino» disse Shaw, avviandosi con passo leggero attraverso le dune e cominciando la sua scalata. Scelse una stretta cresta in cui la neve si era appena attaccata alla sabbia e all’erba. Giunto in cima, si spinse fino a una vecchia postazione per cannoni, ormai ridotta a una massa di cemento e di ferro arrugginito. Lo sforzo fisico lo fece sentire meglio, disperdendo lo stress accumulato. Lì in alto il vento soffiava ancora con forza e i fiocchi di neve continuavano a cadere, strisce luminose come fuochi d’artificio. Più in giù, sulla spiaggia, Shaw riuscì solo a vedere la Land Rover e il telone steso sulla sabbia. Girandosi, si rivolse a sud, verso le luci di una fattoria: in una sola occhiata, vide la lamiera ondulata che ricopriva un fienile e una luce bianca che illuminava una piccionaia sul tetto di un vecchio 25 complesso di stalle. Erano passati in macchina dal cortile della fattoria un’ora prima, durante il tragitto verso la spiaggia, e l’ispettore aveva notato il nome: Gallow Marsh Farm. Poi, voltandosi verso l’entroterra, vide le luci delle auto: una coda di veicoli allineati dietro un pino caduto sulla strada, con i rami piegati e spezzati. I fumi dei gas di scarico erano sospesi nella notte senza vento. Era quello l’odore nell’aria, non il motore di un fuoribordo in mare. Shaw tirò fuori il cannocchiale e lo portò all’occhio buono, mettendo a fuoco il veicolo all’inizio della coda. Un camioncino. La luce nell’abitacolo era accesa, i finestrini erano screziati di neve e qualcuno si stava muovendo all’interno. Guardò all’indietro, risalì la coda: ciascun veicolo spiccava tra i cumuli di neve. Sul mare le nuvole minacciose si erano dissolte, lasciando scoperto uno spicchio di cielo sereno nella notte, un planetario di luci, da cui il chiarore lunare s’irradiava sulle acque. Shaw osservò il bianco disco della luna muoversi di traverso lungo l’orizzonte, come un arredo scenico in uno spettacolo teatrale per bambini. La silhouette di uno yacht, che avanzava lieve verso est, fece rotta in direzione della costa; il motore ronzava con efficienza, e sulla vela bianca spiccavano le valve azzurre di un mollusco. 26 5 La fila degli otto veicoli sembrava fatta di zucchero a velo, un modello squisito di torta nuziale che nessuno aveva toccato. La luna era apparsa sopra lo scenario; le nuvole cariche di neve si erano spostate dopo un’ultima pesante raffica, e ora le stelle si stendevano a nord sopra il mare, verso il lontano polo. Gli uccelli della palude erano silenziosi, le chiuse erano intasate dal ghiaccio e, dopo l’alta marea, l’acqua era tornata indietro remissiva scoprendo la distesa di sabbia. Più vicino ai veicoli bloccati dalla neve si udivano segni di vita: una nota di basso, brani musicali, il ronzio dei motori lasciati accesi per il riscaldamento. Dal camioncino all’inizio della fila, si sentiva la radio locale: una melodia aspra e metallica che andava e veniva insieme al segnale. A tre veicoli dalla coda del piccolo convoglio, c’era un Astravan bianco avorio. Era sintonizzato su Radio 2, e una voce all’interno continuava a cantare rumorosamente una ballata su una ragazzina che dava la caccia a un vecchio. Fred Parlour tenne la nota finale con sorprendente abilità, poi rise per la sua performance. Era attraente, sui cinquantacinque anni, con un viso compatto e simmetrico e una mascella che non dava alcun segno di cedimento nonostante le prime ciocche grigie alle tempie. L’ uomo, che indossava una tuta fresca di bucato, sfoggiava delle unghie pulitissime e dei capelli dal taglio impeccabile. Accanto a lui sedeva Sean Harper, l’apprendista della ditta. Por27 tava i capelli corti e a punte, appiccicosi per il troppo gel, e teneva il naso – su cui si notava un piercing eseguito con un chiodo – affondato in una rivista pornografica. «Finirà che diventi cieco» disse Parlour. Harper guardò le luci del furgone che stazionava davanti a loro. «E allora? Dobbiamo stare qui tutta la notte, no? Tanto vale che mi diverta.» Un cagnolino, un Jack Russell, infilò il muso tra i sedili, lo strofinò contro le sue dita e fece schioccare la lingua con un suono liquido. «Quanto credi che ci metteranno ad arrivare?» chiese Parlour in tono più cordiale. Il furgone davanti aveva una scritta impressa sugli sportelli posteriori: north norfolk security 01553 121212 i numeri della vostra sicurezza Sean Harper era uscito non appena avevano dovuto fermarsi. Non riusciva a trovare il segnale col suo telefonino, così si era messo a correre lungo il lato che dava sul mare, sotto la neve che continuava a cadere, per vedere se gli occupanti del veicolo davanti a loro avevano una radio. Era un furgone rimesso a nuovo della Securicor, un vecchio modello, si vedeva la ruggine intorno ai rivetti. Davanti era seduta una guardia con indosso un’uniforme che le cadeva male e uno sguardo non più intimidatorio di quello della maschera di un teatro. Il tizio si era limitato a sollevare il pollice, ma non aveva abbassato il finestrino. E non aveva nessuna radio. «Non mi piacciono le uniformi» aveva detto Sean al suo ritorno. «E nemmeno le teste di cazzo che ci stanno dentro.» 28 Parlour si strinse nelle spalle. «Non è che ora si metteranno a svaligiare il furgone, eh?» Tirò fuori il cellulare dal taschino e controllò il segnale: una tacca, ma poi anche questa scomparve. Il cane gli annusò il collo, così lui allungò il braccio all’indietro, prese di peso l’animale e se lo mise sulle ginocchia, strofinandogli la pancia nel punto in cui il pelo era più rado sulla pelle rosea. Prese un biscotto per cani dal vano portaoggetti e lo porse all’animale. «Tutto bene, Milly?» Parlour infilò la testa sotto il mento del cane, premendo. «La porto un attimo fuori. Mi sa che non ne può più.» Diede un’occhiata all’orologio: le 19.40. Erano fermi da più di due ore. Spingendo la portiera contro il piccolo ammasso di neve che si era formato dal lato del conducente, Parlour fece uscire il cane. Il rumore della portiera che sbatteva fu attutito dalla neve, ma un paio di oche si levarono rapidamente in volo dalla palude, starnazzando. L’ aria era innaturalmente tranquilla, di attesa, come in un teatro vuoto. Parlour rimase fermo a tossire nel freddo, passando in rassegna con lo sguardo la fila di veicoli. Non si sentiva nessuna eco; la neve soffocava ogni suono, avvolgendolo nel silenzio. Sean aveva detto di aver visto un albero sul davanti, che bloccava la strada, e una macchina messa di traverso alla fine della coda, dietro la Morris Minor che si trovava alle loro spalle. Quando aveva proseguito oltre il furgone, si era imbattuto in un altro autista un po’ più su lungo la fila; un muso giallo, aveva detto in tono sprezzante, anche se era stato costretto ad ammettere che si esprimeva in un buon inglese. Sean gli aveva chiesto cosa fosse meglio fare, secondo lui. «Starsene seduti tranquilli» gli aveva risposto Parlour, voltandosi. Così erano rimasti seduti tranquilli. 29 Parlour si stirò nell’aria fredda e tentò di ascoltare il sussurro del mare. Si avvicinò alla Morris e batté sul finestrino. Non c’era luce all’interno, così come non c’era nessun segno di vita. Poi vide una fragile mano che armeggiava con la manopola del finestrino, intralciata da un grosso anello in ambra a un dito. La conducente abbassò il vetro. «Dovremo restare qui ancora per molto?» chiese, come se lui fosse un uomo dell’Automobile Club. Il trucco, in un accanito tentativo di sfidare gli anni, dava al suo viso un aspetto artificiale; le sopracciglia erano due linee nere tracciate con la matita, e al posto delle labbra c’era una macchia cremisi. Parlour disse che non sapeva quanto ancora sarebbero dovuti restare lì, aggiungendo però che il cielo si era aperto e che ben presto li avrebbero individuati. Ma ci poteva volere anche tutta la notte. E i cellulari erano inservibili. «Lo so» disse lei. «L’ ho sempre detto.» Milly si mise a fiutare tra le scarpe dell’uomo. «Ha spento il riscaldamento?» le chiese lui. Lei lo guardò come se fosse un idiota. «Sto bene» disse, e poi, con quello che parve uno sforzo: «La prego, non si preoccupi per me». Parlour controllò la spia della benzina; le restava ancora un quarto di serbatoio, forse meno. «Ok. Ma se dovesse aver freddo, noi siamo qui davanti.» «Ora mi metto a dormire» disse lei, tirando su il finestrino. L’ auto successiva era l’ultima della fila, una Mondeo, bloccata di traverso in mezzo alla strada. Fred si stava chinando per bussare sul vetro quando la portiera si aprì di colpo e lo centrò in piena fronte. Fece giusto in tempo ad aggrapparsi al telaio, risparmiandosi una caduta tra le acque scure e il canneto. Nel chiarore lunare vide la piccola scia di sangue sulle dita, mentre si toccava la ferita. 30 Un ragazzo con un berretto da baseball uscì dalla macchina, il cavallo dei jeans che gli arrivava fin quasi alle ginocchia. Sembrava accaldato, tanto era rosso in viso, e indossava una T-shirt con la scritta Pi is God scolorita dal sudore. Sul resto del tessuto si intravedevano dei numeri azzurri. Il ragazzo aveva la classica magrezza degli adolescenti e muoveva le braccia formando strane angolazioni. La pelle era chiara e il viso magro, dominato da sopracciglia folte e scure. Parlour non si accorse del respiro corto e rapido del ragazzo, e del tremito che gli faceva vibrare le mani nelle tasche. Non si accorse nemmeno delle scarpe da corsa: un paio di Nike che, nuovo, non costava meno di 180 sterline. «Sì?» disse il ragazzo, tirando una mano fuori dalla tasca prima di rimetterla subito dentro. «Non è che il tuo cellulare funziona, vero?» chiese Parlour. Lui scosse la testa e si mise a guardare su e giù lungo la coda. «No.» Si leccò le labbra. «E adesso cosa succederà, secondo lei?» Tipico accento di Londra o del sud-est dell’Inghilterra, anche se di sottofondo si percepiva la sottile inflessione dei ragazzi del ceto medio cresciuti guardando Art Attack. Parlour si strinse nelle spalle. «Mi sa che tra un po’ finiremo per mangiarci a vicenda.» «No.» Il ragazzo produsse un rumore di gola che non era una risata. «Senta, ma... ma cosa potrebbe succedere?» La nota di supplica era inconfondibile. Parlour vide gli occhi del ragazzo riempirsi di lacrime. «Non c’è nulla di cui preoccuparsi» rispose, levando lo sguardo alle stelle. «La polizia farà arrivare un elicottero al più presto. Non è possibile che siamo gli unici a essere rimasti bloccati. Hai qualcosa da mangiare? Dell’acqua?» Vide una bottiglia di vodka sul sedile del passeggero. Il ragazzo guardò in direzione della palude, calandosi il berretto 31 da baseball sui capelli neri, corti e folti. «Crede che potrei farcela ad arrivare dall’altra parte? E se fermassi una macchina lungo la strada? Potrei chiedere aiuto.» Parlour scosse la testa. «Meglio aspettare. Se cadi là dentro, stanotte, finirai per morire assiderato. Non ne vale la pena. Comunque, questo aggeggio da solo può produrre abbastanza calore da aumentare il riscaldamento globale. Perciò qui dentro starai alla grande. Come sei messo a carburante?» Il ragazzo tornò a sedersi al posto di guida fissando il cruscotto con aria assente, poi impugnò il volante con entrambe le mani. Parlour notò che il volante aveva un rivestimento in pelle di serpente con un motivo a zigzag in bianco e nero. Mise a fuoco l’indicatore del carburante. «Ah, ecco. Non va poi tanto bene, eh? È sul rosso. Se fossi in te, spegnerei i fari, darei una bella riscaldata all’abitacolo e poi bloccherei il motore. Vedi quanto riesci a resistere. Ma non preoccuparti; se resti a secco, vieni da noi, va bene?» Parlour gli tese la mano. «Io sono Fred. È la macchina di tuo padre, vero?» Nessuna risposta. Il ragazzo chiuse la portiera con un colpo secco. Parlour si girò e vide un paio di occhi verdi riflettenti più in là, nella palude: una volpe lo stava guardando e annusava tutti loro, pietrificata dall’intrusione. L’ animale batté le palpebre, all’inizio, e lui seguì l’ombra che sgattaiolava nel fitto di una macchia erbosa ricoperta dalla neve. Davanti a sé, Parlour vide qualcuno che tornava indietro lungo la colonna di veicoli. Una donna sulla quarantina, forse qualche anno in più, che indossava un costoso giubbotto da vela giallo, buono per tutte le stagioni, e che agitava una torcia. Si incontrarono davanti al furgone degli idraulici. «Io sto nell’Alfa Romeo rossa» disse la donna. Tirò fuori un pacchetto 32 di sigarette, armeggiò fino a quando non se ne mise una tra le labbra e l’accese con un accendino d’oro grosso quanto un lingotto. «Dovevo dirlo a qualcuno» cominciò, quasi a sottintendere che lui andava bene come chiunque altro. «Il vecchio nella Corsa dietro di me, quella odiosa macchinina...» Lasciò che il fumo arrivasse in profondità, prima di espellerlo dal naso. «Credo che sia morto.» 33 6 Il telone che ricopriva il cadavere sulla spiaggia adesso era rigido per il gelo. La centrale operativa aveva mandato un messaggio radio comunicando che la squadra della Scientifica era ancora a un’ora di distanza, se non di più. Non si muoveva nulla a Ingol Beach, tranne la marea che avanzava centimetro dopo centimetro. Valentine aveva delimitato con il nastro il bidone che conteneva rifiuti tossici e l’aveva illuminato con una fotoelettrica portatile, poi si era inginocchiato, inzuppandosi i pantaloni sottili, per cercare a tastoni il segno dell’acqua alta. Shaw gli disse che aveva visto delle macchine intrappolate dietro il pino caduto sulla strada. Forse il conducente era andato a schiantarsi contro l’ostacolo? Qualcuno aveva bisogno di cure? La coincidenza rese inquieto Shaw: una morte violenta, innaturale, sulla sabbia, e adesso il pino precipitato a Siberia Belt, in un punto che si poteva quasi vedere a occhio nudo da lì. «Ok» disse, ripiegando la cartina. «La scena è al sicuro. C’è solo una strada d’accesso, ed è bloccata. Per adesso non abbiamo più niente da fare qui. Vediamo se qualcuno ha bisogno di noi a Siberia Belt.» Valentine lo seguì, contento di mettere una certa distanza tra sé e il cadavere ora nascosto. La vista del sangue gli dava sempre la sensazione che la terra non fosse poi un posto così solido su cui poggiare i piedi. Questo lo portò a desiderare un pacchetto di sigarette, che però non aveva, così, per ritorsione, sputò nella neve. 34 Attraversarono la distesa di sabbia gelata fino a raggiungere la diga che separava Siberia Belt dalla spiaggia, superandola nel punto in cui sorgeva il cancello che conduceva a una chiusa, con le rotelle e le leve del meccanismo di ferro ricoperte da uno strato di ghiaccio. Avvicinandosi al convoglio dei veicoli da sud, Shaw arrivò prima alla Mondeo, ma attese che Valentine lo raggiungesse. Il sergente appariva una figura solitaria, che seguiva le orme di Shaw con la testa sottile piegata all’ingiù come quella di un uccello. Respirando affannosamente, si fermò non appena lo raggiunse, poi annuì in direzione della Mondeo. «Ultimo modello... con navigatore satellitare tra gli accessori di base.» Valentine non riusciva quasi a parlare perché gli mancava il fiato. Enfisema, pensò Shaw. Il liquido gli sta riempiendo i polmoni. Se ha rinunciato a fumare, l’ha fatto troppo tardi. A Shaw non serviva un navigatore satellitare per conoscere la destinazione di Valentine. La nota di basso di uno stereo risuonava dietro i finestrini appannati della vettura. «Controlla» disse Shaw. «Io mi porto in cima alla coda e vedo di capire qual è il problema.» Un gruppetto di persone stava in piedi accanto alla terza auto in coda, illuminata dalla luce che filtrava dall’interno perché la portiera dal lato del conducente era stata aperta. Valentine si irritò per il tono perentorio usato dall’ispettore, ma cercò di abituarsi all’idea che Shaw fosse il capo, non più il ragazzino in pantaloni corti con cui un tempo giocava a calcio sulla spiaggia. Certo, sarebbe stato più facile se Shaw si fosse dato una calmata con quella sua ossessione per le verifiche. Il «Controllore»: ecco come lo chiamavano alla stazione di polizia. Controlla questo, controlla quello, controlla ogni dannata cosa. Il signor Politically Correct. Il signor Regolamento. E Valentine sapeva da dove veniva quella mania. Sapeva perché Peter Shaw era così ansioso di 35 informare il mondo intero che lui era il poliziotto perfetto: perché suo padre non lo era stato, ecco perché. Jack Shaw e George Valentine erano stati piuttosto sbrigativi nel loro ultimo, grosso caso. Roba importante. Che cos’aveva detto il giudice? Che erano stati negligenti. Valentine usò un piede per allentare l’altra scarpa nera e togliersela; poi, appoggiandosi contro la Mondeo, svuotò la scarpa dall’acqua prima di rimettersela. Shaw raggiunse la Morris Minor e si voltò con delle istruzioni nuove. «Controlla anche questa.» Congiunse i palmi e li avvicinò alla guancia, inclinando la testa di lato come se si accingesse ad appoggiarla su un cuscino. Una donna anziana, coperta solo a metà da un plaid scozzese scivolato da una parte, dormiva dentro l’auto, i cui finestrini all’interno erano leggermente gelati. Shaw riuscì a scorgerne il viso: c’era un sorriso sulle labbra sottili, e le mani spuntavano al di sopra della coperta, come quelle di un bambino. La portiera della Mondeo si aprì prima che Valentine potesse bussare sul tettuccio. Il ragazzo scattò in piedi, appoggiandosi alla portiera. «C’è speranza di andarcene da qui?» Valentine si strinse nelle spalle. «Cos’è successo?» Fece un cenno con la testa in avanti, verso il gruppetto accanto alla Vauxhall Corsa color argento. «Chi cazzo se ne frega?» Il giovane rimbalzò sulle punte dei piedi e Valentine si accorse che continuava a mettersi le mani in tasca e poi a toglierle, strofinandole contro la parte posteriore dei jeans. «Frega a me.» Valentine tirò fuori il tesserino. «Perché si trova su questa strada, signore, se posso chiedere?» Il ragazzo fece un passo indietro e scoppiò a ridere in modo del tutto improprio. «Una deviazione. C’era un cartello sulla strada costiera, un po’ più giù; parlava di allagamenti.» Il suo accento era diventato più fluido: era risalito di tre classi socioeconomiche e si 36 era avvicinato di quasi cinquanta chilometri a Londra. Aveva lo sguardo fisso davanti a sé. «Poi è successo questo.» Posò la mano sulla portiera della macchina e la tolse in fretta, come se il metallo fosse troppo caldo per poter essere toccato, ma Valentine aveva notato un segno sulla parte superiore della mano, i rimasugli bluastri di un timbro a forma di cerchio che racchiudeva due lettere: bt. Sul cruscotto spiccava un cellulare. «È suo?» «Una figata» disse il ragazzo. «Fotocamera da due megapixel; centoquindici grammi; sei virgola sette ore di autonomia di conversazione.» «Bene, ma funziona?» Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Pensavo di tornare a piedi sulla strada principale.» Valentine scosse la testa. «Un chilometro e mezzo, ed è pericoloso.» «Due» disse. «Ho controllato il contachilometri.» «Se ne stia qui, va bene?» Valentine stava perdendo la pazienza. «Abbiamo chiesto aiuto via radio, ma ci vorrà del tempo.» Tirò un sospiro supplementare e fece correre lo sguardo sulla verniciatura porpora della Mondeo: impeccabile. Sul sedile posteriore c’erano una coperta, un cesto da picnic, uno di quegli sgabelli pieghevoli che si trasformano in bastoni da passeggio e un frisbee. Il volante aveva un rivestimento con un motivo a zigzag in bianco e nero; sembrava la pelle di un animale, forse quella di un serpente. Il sergente si avviò in avanti, poi si voltò per memorizzare il numero di targa. Aveva una buona memoria, se qualcuno gli chiedeva di usarla. Il ragazzo l’aveva innervosito. La solita storia: il classico teenager che aveva preso la macchina di papà. Shaw aveva raggiunto il furgone degli idraulici e, attraverso il lunotto termico e la griglia, l’occhio gli era caduto su un giovanotto 37 intento a leggere una rivista. Si portò di fianco alla vettura e notò solo allora le orme di zampe nella neve in mezzo a quelle delle scarpe, poi bussò sul finestrino dalla parte del conducente e aprì la portiera. «Polizia» disse, appoggiando il ginocchio sul sedile di guida e dando un’occhiata alla rivista. «Posso?» La prese. Era tedesca, un prodotto di importazione illegale, pornografia estrema. Tenne la testa leggermente inclinata su un lato per mettere meglio a fuoco l’immagine. «Nome?» disse Shaw. Il tizio scrollò le spalle. «Das Fleisch» disse, storpiando le parole. «Prendono dei turchi da Francoforte e li portano sul posto.» «Il suo nome.» «L’ ho trovata dove abbiamo fatto l’ultimo lavoro stamattina. Un cantiere nell’Arndale. Era nel prefabbricato che ho usato per preparare il tè. Ce n’erano vagonate. Con roba anche peggiore...» Shaw attese. Studiò il viso del giovane. Notò la perdita prematura dei capelli sulle tempie, le cicatrici lasciate dall’acne e la fossetta pronunciata sul mento, la cosiddetta fovea. «Sean Harper. Quello è il mio capo» disse il giovanotto, accennando in direzione del gruppetto in piedi nel fascio di luce. «Fred.» Sorrise convinto, come se quella fosse la migliore delle referenze. «Questa la tengo io, signor Harper» disse Shaw, piegando la rivista e infilandosela all’interno del giaccone. «Ma... non è mica un crimine, no?» «Be’, per la verità lo è» disse Shaw. «Ne parliamo dopo.» «Ci va anche lei a fare i salvataggi con le barche?» chiese Harper, indicando il distintivo dell’Rnli sul bavero del giaccone di Shaw e sforzandosi di sorridere. «Già.» 38 «Fantastico» disse Harper, osservando la rivista mentre gli veniva portata via. «Ci ho pensato anch’io, sa? Di fare il volontario, voglio dire.» Per la prima volta, Shaw notò la coperta dietro i sedili, un tessuto scozzese arruffato e avvolto a spirale per formare una cuccia. Fece una pausa e annusò l’aria aspettandosi di sentire il tipico odore di cane, ma il furgone era lindo e ordinato, e all’interno l’aroma soverchiante era quello del deodorante alla fragola applicato sul cruscotto. «Dovrebbe» disse Shaw senza sorridere. Subito dopo, in coda, c’era il furgone ristrutturato della Securicor. Il conducente si rifiutò di aprire il finestrino fino a quando non vide il tesserino premuto contro il vetro, dopo di che lo abbassò di un paio di centimetri. «Problemi?» chiese Shaw, rendendosi conto che aveva già visto quell’uomo da qualche parte. Sul banco degli imputati in tribunale? Ma per quale crimine? Frugò nella sua memoria, eppure non riuscì a identificare il caso. Si trattava però di qualcosa di violento, questo lo sapeva. Un’azione violenta che l’uomo aveva compiuto con le sue mani mentre era alla ricerca di denaro. Allora perché, si chiese Shaw, se ne stava seduto lì, a sorvegliare un furgone pieno di soldi? Poteva avere tra i venticinque e i trent’anni, capelli neri e un bel viso, rovinato da un naso stretto che una volta rotto era stato poi malamente riparato, e che non riusciva quasi a separargli gli occhi, incorniciati da sopracciglia cespugliose che si congiungevano al centro. Aveva dei baffi appena accennati e una barbetta rada. «Ha una sala di controllo da chiamare?» chiese Shaw. Il conducente tirò fuori la voce. «Non abbiamo radio in dotazione, e qui i cellulari non prendono.» Shaw indietreggiò di un passo, guardando la fila dei veicoli. «Ora chiedo al mio sergente di mandare un messaggio radio per 39 lei. C’è già abbastanza caos in giro, dopo la tempesta, senza dover mandare metà dei nostri uomini a cercare lei e i suoi lingotti d’oro. Cosa c’è là dietro?» La guardia controllò un portablocco a molla. «Denaro contante. Facciamo i negozietti di quartiere, i supermercati nelle zone residenziali e il mercato del pesce all’ingrosso giù al porto. Circa ottantamila; non molto di più, comunque.» «Se ne stia qui tranquillo» disse Shaw, chiedendosi se il datore di lavoro dell’uomo fosse a conoscenza dei suoi precedenti. Lui era un convinto fautore della riabilitazione, ma far gestire un bar da un alcolizzato significava attirare solo guai. Davanti a sé vide entrambe le portiere sinistre della Corsa aperte, con due sagome che si tenevano un po’ indietro e lo guardavano. Una, un uomo in tuta da lavoro, prese a gesticolare e si piazzò una mano sul cuore, dandosi dei colpetti su un giaccone imbottito. Shaw alzò una mano. «Problemi?» gridò. L’ uomo puntò l’indice all’interno della Corsa, poi si diede qualche altro colpetto sul torace. «Il cuore.» Shaw superò in fretta l’auto seguente, un vecchio modello di Volvo station-wagon, con una scritta dipinta a mano sul lunotto nella quale si leggeva the emerald garden. L’ aroma inconfondibile della salsa di soia si mescolava ai gas di scarico. Non c’era l’autista e non c’erano passeggeri. Un signore anziano giaceva di lato sul sedile anteriore della Corsa. Shaw gli diede sessantacinque anni, forse settanta. Aveva dei vistosi occhiali con una montatura in plastica nera, e i sottili capelli bianchi erano appiccicati alla testa. Il viso era del colore della muffa nel formaggio Stilton, e la saliva agli angoli della bocca rifletteva la luce. Il vomito gli ricopriva il mento e la parte superiore del pesante giaccone di un azzurro delicato, viscoso. 40 Shaw avvertì l’intenso odore degli aghi di pino, ma non riuscì a vedere il deodorante. Una donna con un giubbotto giallo si teneva leggermente indietro e fumava. Inginocchiandosi, l’uomo in tuta blu prese la mano del tizio che si era sentito male. Il suo viso si contrasse in una smorfia ansiosa, mentre sulla fronte una piccola ferita era ancora umida di sangue. Un Jack Russell si era acquattato sotto il veicolo e rovistava col naso tra i piedi dell’uomo. «Credo che gli sia venuto un infarto» disse l’uomo con la tuta. «Non è che il suo cellulare prende, eh? È rimasto bloccato anche lei?» «Io sono un poliziotto» disse Shaw. «Abbiamo avvisato via radio. Posso dare un’occhiata, per favore?» Si chinò e si accorse che sul sedile del passeggero c’era un altro uomo. Aveva lineamenti da cinese e teneva le ginocchia piegate sotto il corpo. «Non si sente il polso» disse con un accento che lo portava a smussare le consonanti. Shaw estrasse un temperino e tagliò la cravatta che si era aggrovigliata inestricabilmente intorno alla gola dell’uomo. Poi aprì il pesante giaccone oversize e la camicia, facendo saltare diversi bottoni. Girò il colletto allontanandolo dal collo e notò l’etichetta: rfa. Piegandosi, si avvicinò ulteriormente al viso dell’uomo e gli mise una mano sulla fronte. Capì all’istante che l’uomo era vivo: le gocce d’acqua sulle sopracciglia erano tiepide, e per quanto le labbra fossero bluastre e non si muovessero, erano ancora inumidite dal fiato che le attraversava, come la corrente d’aria sotto una porta. Si girò e chiamò Valentine, che si era accovacciato accanto alla Morris e parlava attraverso il finestrino dal lato del conducente. «George» gridò. Valentine si mise lentamente in piedi, appoggiando una mano sulla macchina per sostenersi. «Chiama un eli41 cottero. Emergenza medica. Un uomo sui sessantacinque anni ha avuto un arresto cardiaco. Ci vedranno dall’alto. Dì che scendano dal lato del mare; lì la sabbia è liscia sotto la neve.» Shaw infilò di nuovo la testa dentro la Corsa, introdusse una mano nella tasca dell’uomo e trovò un portafoglio con una patente in una taschina di plastica trasparente. John Blickling Holt. Nato il 30 dicembre 1941 e residente a Devil’s Alley, King’s Lynn. Era un indirizzo che Shaw conosceva bene: una stretta strada acciottolata che scendeva al porto e puzzava di pesce e di mare. Per lo più poveri magazzini fatiscenti in un dedalo di edifici medievali. L’ uomo sul sedile del passeggero disse di chiamarsi Stanley Zhao. Pur vedendolo con le ginocchia piegate, Shaw si rese conto che il tizio non corrispondeva affatto allo stereotipo razziale del cinese, dato che era alto non meno di un metro e ottanta. Dimostrava una cinquantina d’anni, ma i capelli erano ancora neri come le penne di un pinguino. Shaw gli disse di restare dentro la Corsa, di portare il riscaldamento su valori medi e di suonare il clacson, se Holt avesse ripreso i sensi o fosse peggiorato. Poi l’ispettore chiuse la portiera e drizzò le spalle portando il viso al livello del tettuccio dell’auto, sul quale vide le due scale fissate accuratamente con le cinghie. La donna col giubbotto giallo e l’uomo con la tuta blu stavano in piedi tra lui e i primi due veicoli della coda. «Mi chiamo Baker-Sibley, Sarah Baker-Sibley» disse la donna. «Ho assoluta urgenza di far pervenire un messaggio a mia figlia. Dovevo passare a prenderla da scuola – St. Agnes’ Hall – e sono preoccupata. Arrivo sempre puntuale, oppure telefono. Oggi con lei non c’è Clara – sarebbe la sua migliore amica. Ha una lezione di clarinetto dopo la scuola» aggiunse. «Perciò mia figlia rincaserà a piedi. So che cercherà di farlo. Sono più di tre chilometri; l’ha già fatto prima perché ha le chiavi, ma non è mai successo d’inverno... 42 con questo tempo» continuò, guardando verso il campo innevato. «Ha tredici anni, e quindi ci proverà senza pensarci su due volte.» Si mise a ridere, poi gettò via la sigaretta fumata per metà e armeggiò alla ricerca del pacchetto. «Mi scusi, ma non è che potrei rivedere il suo tesserino?» «Il mio collega, il sergente investigativo Valentine, prenderà i suoi dati, signora Baker-Sibley» disse Shaw, tenendo il tesserino un po’ troppo vicino alla faccia della donna perché lei si sentisse del tutto a suo agio. «Il sergente può mettersi in contatto radio. «Quell’Alfa è sua?» le chiese Shaw, spostandosi in avanti. «Me ne starei lì dentro per ora» aggiunse non sentendola rispondere. «E il veicolo davanti?» «L’ uomo che si è sentito male era andato a dare un’occhiata proprio a quello, quando siamo rimasti bloccati» disse lei. «Il conducente non è mai uscito. Magari si è addormentato, anche se aveva messo su della musica orrenda a tutto volume, tanto per cominciare.» La radio suonava ancora, ma il volume adesso era basso e il suono stridulo. Guardando in avanti lungo la strada rialzata, Shaw vide una fila irregolare di orme che serpeggiavano fino al camioncino, accanto a segni di pneumatici un po’ sgonfi. Le tracce del ritorno mostravano un incerto tentativo di ripercorrere gli stessi passi. Orme di zampe, più nette, zigzagavano tra quelle impronte. Il lunotto nella parte posteriore dell’abitacolo mostrava ancora una luce all’interno. I fari del camioncino erano di un giallo bruciato, e Shaw intuì che la batteria doveva essere ormai scarica. Mentre si avvicinava i capelli gli si rizzarono sulla nuca e una folata di vento gli abbassò la temperatura corporea di un grado. Qualcosa si mosse nel cielo e lui alzò lo sguardo appena in tempo per vedere una stella cadente, un lampo argenteo che si estinse prima di raggiungere il mare. 43 Il camioncino era abbastanza largo da bloccare la strada quasi per intero, lasciando solo uno spazio molto stretto dal lato del conducente. Shaw si portò da quella parte e ne approfittò per sollevare il telone che copriva il carico sottostante: numerosi fogli di cartongesso, per pareti economiche. Piegandosi, afferrò la maniglia della portiera, rompendo per la prima volta il silenzio con la sua voce. «Salve. Polizia.» Abbassò la maniglia e aprì la portiera, saltando rapidamente in avanti per aggrapparsi alla barra di sostegno. Si trovava a circa mezzo metro dal conducente e gli ci vollero solo tre secondi, forse anche meno, per capire che quello che stava guardando era un cadavere. 44