MULTICULTURA-INTERCULTURA. SCENARI ODIERNI E COMPITI

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MULTICULTURA-INTERCULTURA. SCENARI ODIERNI E COMPITI
MULTICULTURA-INTERCULTURA. SCENARI ODIERNI E
COMPITI PEDAGOGICI.
Giuseppe Milan
Scenari dall’alto e da vicino
Se – come in un film di Wim Wenders – riprendessimo una panoramica dall’alto e, lentamente, con
una telecamera curiosa e impertinente, facessimo zoom nel microcosmo delle nostre relazioni
ravvicinate, coglieremmo forse un sottile contrasto tra la presunzione della città, insuperbita dal suo
ingigantimento ormai senza confini, e il nanismo di ciascuno di noi, del nostri circoli ristretti, delle
nostre esistenze spesso delimitate in spazi – affettivi, sociali, culturali più che fisici – davvero
angusti.
Mi sovviene l’antica, amara e attualissima denuncia di Nietzsche, che, attraverso la voce di
Zarathustra, lancia la sua invettiva contro tanti incapsulamenti urbanistici ma soprattutto
antropologici, esistenziali e culturali, che rimpiccioliscono l’essere umano:
“Egli (Zarathustra) voleva venire a sapere che cosa fosse avvenuto nel frattempo dell’uomo: se
fosse diventato più grande o più piccolo. E una volta, al vedere una fila di case nuove, disse pieno
di meraviglia: Che mai significano queste case? In verità, non fu certamente un’anima grande a
erigerle a sua immagine e somiglianza! Un bimbo scemo le ha tirate fuori da scatole dei suoi
balocchi? Magari un altro bimbo le rimettesse dentro la sua scatola! E queste camere e stanzette:
possono uomini entrarne ed uscirne?…E Zarathustra si fermò meditabondo. E infine disse,
turbato:' Tutto è diventato più piccolo!'”. (NIETZSCHE, 1928:10)
Quella di Nietzsche è la domanda pedagogica più radicale: stiamo diventando più grandi o più
piccoli? Il nostro vivere odierno favorisce l’umanizzazione o stiamo disperdendo ogni giorno di più
briciole o montagne di umanità? Le nostre case, gli interstizi di socialità tra noi, le nostre stesse
identità ci consentono di spaziare? Ci è permesso di viaggiare, e che tipo di viaggio ci viene
eventualmente proposto?
Facendo zoom anche con il tempo, in un andirivieni presente-passato, un’altra pagina
suggestiva e inquietante che torna alla mente è quella di Büchner, nel suo Woyzeck, in cui si parla
di un bambino orfano relazioni, di un viaggio in un mondo inospitale:
“C’era una volta un povero bambino e non aveva papà e non aveva mamma, erano morti tutti,
e non c’era più nessuno al mondo. Tutti morti, allora lui è partito e ha cercato giorno e notte. E
siccome sulla terra non c’era più nessuno, ha voluto andare in cielo: c’era la luna che lo guardava
così buona; e quando finalmente era arrivato alla luna, quella era un pezzo di legno marcio. E
allora è andato dal sole e quando era arrivato al sole, quello era un girasole appassito. E quando
arrivò alle stelle, erano dei moschini d’oro [...]. E lui voleva tornare sulla terra, anche la terra era
una pentola capovolta. E lui era solo solo. E allora si è seduto e si è messo a piangere, ed è ancora
là seduto, solo solo”. (BÜCHNER, 1978:155)
Succede spesso anche ai nostri giorni: abbiamo tutto - sole, luna, cielo dorati…- tuttavia
rischiamo di essere “senza papà e senza mamma”, di ritrovarci nella frustante solitudine di chi –
protagonista e vittima di una radicale orfanezza - è dovunque straniero ed estraneo, anche nei propri
riguardi, perché straniera ed estranea è per lui la relazione autentica. Il turbamento di Zarathustra –
“tutto è diventato più piccolo!” non è inattuale. E non è inattuale il viaggiare – come il bambino di
Büchner – nel paradossale contrasto tra il mondo dell’apparenza presuntuosa e quello reale
dell’indifferenza rivestita di fronzoli o di false promesse.
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Anche Zygmunt Bauman, importante studioso nostro contemporaneo, cammina con la lanterna
di Diogene e denuncia a modo suo tante forme di rimpicciolimento: sempre più frequentemente noi
figli dell’opulento occidente ci rintaniamo nel chiuso delle nostre paure, e – spinti dalla crescente
Building Paranoia (FLUSTY,1997:48)- innalziamo attorno alle nostre case, attorno ai nostri
quartieri o alla nostra “civiltà” una serie infinita di recinzioni, di separatori sociali, di strumenti di
interdizione che – elementi portanti di una cultura della lontananza, dell’intolleranza, dell’apartheid
- impediscono all’altro di valicare i nostri confini e di avvicinarsi alle nostre abitazioni. Questi
bunker dell’io, queste nicchie culturali iperprotette da sofisticati sistemi d’allarme, figlie di un
distorto senso della sicurezza, non sono certo la dimora esistenziale pertinente all’essere umano. In
esse, egli spesso tradisce se stesso, contraddice il compito educativo di migliorare, di diventare più
grande, di “oltrepassarsi” veramente, andando oltre i confini ristretti per avvicinarsi ad altri fini.
Nella “modernità liquida” – sostiene Bauman – è arduo coagulare forme solide, cioè esperienze di
solidarietà fondate su una base etico-culturale che non sia precaria come il ghiaccio sottile, sul quale
l’unico modo di non sprofondare è quello di pattinare velocemente (BAUMAN, 2004). Fuori di
metafora, sono soprattutto le relazioni umane, a tutti i livelli, a risentire della diffusa precarietà
esistenziale e della frequente attitudine a sottrarsi all’impegno implicato dall’incontro con l’altro.
All’incapacità di sostare nella relazione interumana corrisponde quasi sempre il fastidio per le
traiettorie altre che attraversano e a volte ostacolano le nostre corse senza freni e senza bussola.
Breve e spesso scontato è, a questo punto, il passaggio all’esercizio della violenza contro l’altro.
Questo può succedere nel microscopico mondo chiuso delle nostre pareti domestiche ma anche,
con conseguenze a volte assai inquietanti, all’interno di dimensioni socio-culturali-politiche molto
più ampie.
Venendo ad un’attualità non troppo lontana nello spazio e nel tempo, basta pensare ai fatti che
hanno a più riprese sconvolto alcune “periferie” francesi, specialmente di Parigi: essi ci offrono lo
spunto per cogliere - anche attraverso confronti e differenziazioni – la complessità di situazioni che
attingono anche al nostro tema.
Certamente entrano in gioco una molteplicità di concause, di ordine politico-culturale-socialeeconomico, che qui non è il caso di analizzare.
E’ comunque evidente che, nel contesto “città” di cui stiamo parlando, si attuano spesso rapporti di
potere squilibrati – a livello micro e macroscopico – che consolidano una stratificazione
socioculturale fortemente asimmetrica. La Banlieue è “periferia”, e non solo urbanisticamente. Fa
riferimento al senso di esclusione-espulsione-emarginazione che la periferia evoca rispetto al
centro, a processi di marginalizzazione che potrebbero ricordare la messa al bando (fuori dalla città)
degli individui e dei gruppi più poveri e ritenuti più pericolosi.
La banlieue è quindi, per chi la abita, ma anche per chi la guarda da lontano, sinonimo di
insicurezza e precarietà socioculturale, tanto da poter essere considerata un vero e proprio ghetto dei
diversi. Luogo di un’alterità relegata a debita distanza.
Ma voglio ricordare che, non lontano dai ghetti dei poveri e degli immigrati, stanno proliferando in
Francia, e non solo, molti “ghetti dei ricchi”, bunker per classi medio-alte: lottizzazioni degli
agglomerati urbani che assumono la configurazione di castelli inespugnabili, con tanto di recinzioni,
cancelli telecomandati, vigilanti, telecamere di controllo. Isolati dal mondo, i residenti di queste
oasi private, schiavi di una crescente psicosi della sicurezza, innalzano una serie di separatori
sociali, di strumenti di interdizione che tengono lontani gli altri, i vagabondi-miserabili che vivono
dall’altra parte.
Questo proliferare, anche nel territorio francese, di comunità autoreferenziali, di enclavi riservate
alle classi medio-alte, mostrano che una sempre più netta frattura socio-culturale sta minando alla
base il modello di convivenza sociale perfino in un paese che si era posto come crogiolo della
coabitazione sociale e del vivere insieme.
Anche in Francia, come nelle gated communities americane, costituite in base a un apartheid
sociale ed etnico, sembrano perciò prevalere i “raggruppamenti per affinità”, una specie di
frantumazione urbana in nome di un “tra-di-noi” autocentrato e separato.
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Il tradizionale modello assimilazionista francese, pertanto, sembra entrato profondamente in crisi, e
questo per una serie di ragioni:
• la già menzionata Building Paranoia, paranoia della costruzione, paranoia di chi innalza
separatori e interdizioni socioculturali (così Steven Flusty definisce il frenetico boom edilizio
provocato dalla crescente “paura dell’altro” e dalla conseguente, a volte patologica, ricerca
della “sicurezza dell’isolamento”);
• il tribalismo etnico e familiare di alcuni degli antichi immigrati ancora ermeticamente chiusi in
forme di resistenza culturale;
• la condizione precaria dei molti giovani di seconda-terza generazione (i “beurs”, nel gergo delle
periferie, ormai diventato linguaggio comune), i figli o i nipoti degli immigrati. Questi sono
“doppiamente stranieri”: nati in Francia e cresciuti frequentando le scuole laiche della
repubblica, non si sentono più magrebini autentici, ma neppure autentici francesi, pur avendo
spesso la nazionalità. Non basta infatti un passaporto e la concessione della cittadinanza formale
per sentirsi cittadini e per usufruire realmente dei diritti esaltati dalla retorica ufficiale
repubblicana. Certamente essi manifestano la loro collera contro il declassamento sociale,
contro il gap nelle opportunità di accesso, ma anche, in particolare, contro un modello di
integrazione che, con la sua ambizione ad oltrepassare le identità etniche-religiose, a dare a tutti
una medesima appartenenza cittadina, finisce però per chiedere un’assimilazione
omogeneizzante delle diversità: un modello di integrazione che, comunque, non ha impedito a
queste giovani generazioni di autopercepirsi come “cittadini di serie B” proprio perché figli di
immigrati e perché nei vari contesti, tra cui quelli scolastici, vivono notevoli difficoltà di
integrazione.
• la “miopia” politico-culturale, che ha ridotto o eliminato la presenza di “catalizzatori" e
“mediatori” capaci di aiutare la costruzione della comunità, il senso di appartenenza. La
denuncia viene, in questo caso, da un testimone di assoluto prestigio, lo storico Le Goff, che
scrive: “Le colpe dei governi sono enormi, poiché hanno fatto scomparire quelle strutture che
servivano a smussare le tensioni. Mi riferisco, per esempio, alla polizia di quartiere che aveva
anche il compito di discutere con i giovani. Oggi, nelle banlieues esiste soltanto una ‘polizia di
repressione’. Sono stati anche cancellati molti ruoli di mediazione. Penso a quegli operatori
sociali incaricati di far regnare una certa pace sociale creando forme di dialogo tra le comunità"
(intervista pubblicata da Il Manifesto, 7-11-2005). Viene perciò criticato, da Le Goff, il
passaggio da un modello di intervento seppur velatamente aperto ad un’attenzione pedagogica,
ad un modello più decisamente poliziesco-repressivo.
Se è vero che il modello assimilazionista francese è ormai da anni sotto scacco, è pur vero che
anche gli altri modelli di integrazione hanno a più riprese mostrato grossi limiti: gli attentati di
Londra e l'assassinio di Teo Van Gogh (in Olanda) sono stati gli indicatori della crisi del
multiculturalismo, sia nella versione comunitarista britannica, sia in quella olandese fondata su una
grande apertura rispetto alle diverse confessioni religiose: in realtà, le comunità tendono, al proprio
interno, ad un conformismo identitario omologante e si chiudono all’esterno, perciò non si
mescolano, anzi sembra accentuarsi la formazione di un reticolo di comunità non comunicanti, la
frammentazione, l’arcipelago delle isole separate, tra le quali si manifestano anche forme di
violenza e di razzismo interetnico.
Pure negli Stati Uniti, pare ormai definitivamente caduto il tradizionale modello del melting pot,
modello-crogiolo per cui le diversità culturali – pur formalmente accettate - dovevano fondersiassorbirsi nella comune identità culturale americana fino a veder impallidire le specificità
originarie. Il modello ora prevalente è definito del salad bowl (letteralmente “insalatiera”), che
allude ad una mescolanza in cui ogni elemento si differenzia e si mantiene uguale a se stesso.
In ultima analisi, da entrambe le sponde dell’Atlantico si muove la tendenza ad una specie di
tolleranza indifferente, che produce – con alterna fortuna - forme di assimilazione e forme di
separazione: una tolleranza che evidentemente nega la relazione autentica, in quanto io ti accetto a
patto che la tua alterità non chieda di cambiare qualcosa in me, della mia identità.
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Dobbiamo riconoscere che il “multiculturalismo” sostiene giustamente che ad ogni gruppo etnico
vanno date risposte che salvaguardino la specificità delle differenti tradizioni culturali.
Questa posizione può positivamente contrastare quel “monoculturalismo fondamentalista”, che per
definizione non dà spazio alle differenze etnico-culturali e che - presupponendo un sistema culturale
monocromatico, color blind (cieco, incapace di cogliere le differenze cromatiche )- ricorre a
processi di omogeneizzazione-appiattimento, ad un’assimilazione forzata che impone l’idea di
uguaglianza come radicale neutralizzazione delle diversità.
Considerando la prospettiva multiculturale, l’attenzione critica va posta però sul fatto che, alla
formale accettazione della “molteplicità delle espressioni culturali”, si accompagna spesso la
“presunzione di superiorità” di una cultura sulle altre, in base al “Mito della propria perfezione e
dell’imperfezione altrui”: si costituiscono allora forme di “one-up one-down culturale”, relazioni
a-simmetriche che si reggono su dinamiche vincente-perdente.
D’altra parte, è altrettanto vero che, in molti casi, questi processi di frammentazione e di
enfatizzazione delle differenze sono provocati non soltanto da modalità relazionali espulsive da
parte di chi si ritiene up verso chi è down, ma anche dagli incapsulamenti difensivi nelle già citate
forme di “resistenza culturale” – a volte anacronistiche - attuate dalle stesse minoranze a tutela
delle proprie tradizioni.
La prospettiva interculturale e i compiti pedagogici connessi
Di fronte agli scenari complessi, di cui ho velocemente toccato alcuni aspetti e che evidentemente
riguardano anche il nostro Paese, sempre più multiculturale, potremmo indurci ad un certo
pessimismo e a subire gli eventi, nella convinzione che gli “accadimenti” siano più grandi di noi e
che non possano per nulla essere orientati da un’intelligenza pedagogica capace di iniettare nel
sistema la linfa feconda del dialogo e di collaborare così al difficile parto dell’intercultura autentica.
Ponendomi in una prospettiva costruttiva, affermo innanzi tutto di condividere pienamente la
denuncia di Le Goff sulle conseguenze dell’assenza di autentici “operatori sociali” in contesti che
rischiano la più diffusa frammentazione socio-culturale.
Ritengo che l’interculturalità sia la prospettiva autenticamente alternativa e innovativa rispetto ai
contesti odierni, e che al riguardo sia necessario e urgente ridare un’anima alla nostra convivenza: la
parola d’ordine “animazione”, strettamente connessa a quella di “educazione”, assume estrema
importanza come metodologia di riferimento imprescindibile e saldamente radicata ad una visione
dialogico-partecipativa delle relazioni interpersonali e interculturali.
È chiaro tuttavia, che questa prospettiva, fondamento dell’ “interculturalità”, richiede forme di
impegno forte sul piano culturale-politico-pedagogico. E non sono pochi gli studiosi che, da varie
posizioni, vi alludono evidenziando un comune sentire e una condivisione di orientamenti anche sul
piano metodologico-prassico.
Vengono indicate finalità sociali, culturali e politiche – ma ancor prima pedagogiche -, che possono
essere perseguite con successo soltanto attraverso la responsabile decisione di individui e di
comunità che sappiano recuperare il senso di un percorso educativo-culturale-politico capace di
coniugare le esigenze della persona, unica e irripetibile, e quelle dell’appartenenza alla comunità
umana, attraverso strategie di animazione capaci di rivitalizzare il tessuto antropologico del
territorio. Musica, teatro, attività sportive e artistiche, sollecitazioni culturali – come, ad esempio,
quelle promosse dalle biblioteche – possono essere quei “contenuti” dell’animazione che fungono
da attrazione, da poli di interessi interculturali capaci di incrementare la partecipazione dei cittadini,
la loro conoscenza reciproca, e, naturalmente, la costruzione di relazioni positive attraverso le quali
si attua la feconda dinamica di integrazione-interazione tra esponenti di culture diverse.
Credo che proprio l'educazione, e in particolare l’educazione interculturale, possa essere il segreto
per la formazione dell’essere umano “glocale” (come lo definiscono alcuni), globale e locale
insieme, “planetario ma decisamente e attivamente situato” nel suo ambiente culturale specifico,
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non certamente avulso nel mondo della virtualità: un essere umano legato fattivamente alla propria
gente ma anche cosciente dell' interdipendenza delle dinamiche planetarie e, di conseguenza,
capace di “oltrepassarsi”, di viaggiare esistenzialmente e culturalmente, di valorizzare le differenze
culturali e di viverle positivamente, in una relazione dialettica che arricchisca il soggetto stesso e la
società intera.
La prospettiva che si apre – tra universalismo monoculturalizzante-omogeneizzante-globalizzante e
relativismo frammentante – richiede di superare in una nuova sintesi sia l’esaltazione
dell’omologazione come espressione del pensiero unico, sia l’esaltazione della differenziazione e
del comunitarismo come enfatizzazione delle diversità: essa, rifacendosi alla dimensione “inter =
tra”, mira ad una coesione sociale che si fonda sulla dinamica convivialità delle differenze tra le
persone e le culture, sulla dinamica del con-essere tra soggetti individuali e plurali all’interno di una
prospettiva etico-culturale che vede l’altro nella dimensione amicale e fraterna e che,
evidentemente, va sempre progettata e ri-progettata.
Al conflitto che nega l’altro si sostituisce un confronto critico-costruttivo, quello che si instaura fra
“narrative contingenti” appartenenti a mondi diversi. In questa nuova dimensione l’idea di
tolleranza viene sostituita da quella, qualitativamente superiore, di rispetto: solo rispettando l’altro
ci si lascia “interrogare” - “questionare” da lui (DERRIDA, 2000), innescando un ‘conflitto’, una
‘lotta costruttiva’, dove il ‘confronto’ avviene tramite la ‘contaminazione’.
Perciò alla prospettiva interculturale sono riferibili le proposte di pensatori (come Buber, Lévinas,
Derrida, Freire) che, sia sul piano della prospettiva-finalità che su quello dell’approccio-metodo,
insistono sulla necessità del dialogo, delle dimensioni relazionali positive..
L’‘integrazione-interazione interculturale’ si pone quindi sul piano della progettualità e della
prescrittività, dell’intenzione-attuazione, e va concepita come un processo aperto, dinamico e
graduale: ci si preoccupa certo di difendere e valorizzare i valori fondamentali della società
ospitante, mettendoli tuttavia in dialogo costruttivo e senza esigere che i nuovi venuti rinuncino o
neghino alla loro cultura originaria.
Questo approccio pedagogico implica l’apertura ad un ‘relativismo’, inevitabile e giustificato
quando è ‘culturale’, però inaccettabile quando è ‘etico’.
Il ‘relativismo culturale’, infatti, allude unicamente alla presenza di molteplici identità culturali
dialoganti (riconoscendo che nessuna può avere presunzioni di superiorità rispetto alle altre).
Il ‘relativismo etico’, invece, professa l’incommensurabilità, l’incomparabilità tra valori,
l’impossibilità di approdare ad un minimo comune denominatore etico-assiologico condiviso (e
questo non è accettabile).
Un’etica che voglia essere universale deve pertanto disancorarsi dalle culture particolari, giacché
l’irriducibilità di una cultura ad un’altra non implica l’impossibilità del confronto e del dialogo
rispettoso, della concreta convergenza, anzi, si potrebbe persino profilare un “universalismo della
differenza”, una “sintesi disgiuntiva” in cui proprio l’inassimilabilità delle singolarità costituisca il
trae d’union fra le stesse, una base di partenza per la ricerca di comuni orizzonti.
Il processo di integrazione-interazione interculturale punta all’apprendimento reciproco, e
scommette in realtà su un'ibridazione feconda nel medio o nel lungo periodo. L’educazione
interculturale, come strategia “a piccoli passi”, si avvale di una comunicazione attenta sia allo
scambio dei saperi-contenuti-conoscenze sia, e soprattutto, alle dinamiche relazionali.
In ultima analisi, per porsi come sfondo di tale processo integrazione-interazione, la città, il
territorio, la scuola in particolare, dovrebbero essere laboratorio permanente di apertura e di
educazione:
- alle ‘relazioni’ : come educazione all'autenticità dei rapporti interpersonali, all'ascolto, all'empatia.
- alla percezione dell’ ‘interdipendenza’: come conoscenza dei meccanismi sociali economici e
politici che regolano i rapporti tra diverse identità culturali, fra Nord e Sud del mondo e di ciò che
ne consegue.
- all' ‘approccio interculturale’: come conoscenza e apertura alle diversità, convivialità delle
differenze.
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Il ‘compito di intuizione’
La progettualità in ambito pedagogico deve prendere le mosse dall’attenta considerazione della
realtà complessa e della feconda problematicità che essa sottende. Come ho cercato di evidenziare,
la tematica dell’interculturalità investe oggi trasversalmente il nostro agire nell’ambito
dell’educazione e della formazione e sfida il nostro “pensare pedagogico”, chiedendogli un
rinnovato e per certi versi inusitato impegno.
Credo che imprescindibile sia il ‘compito di intuizione’, cioè l’impegno a indagare sulla nostra
realtà culturale con effettiva intelligenza della complessità dei fenomeni in atto e dei bisogni
educativi espliciti e impliciti, con gli strumenti idonei per garantirci sul piano della ‘conoscenza’ e,
in particolare, su quello della ‘comprensione’ dei fenomeni stessi. E’ perciò necessario osservare ed
è ancor più importante ‘cogliere, capire, problematizzare’: ecco il senso dell’ ‘intuizione’, come
capacità di stabilire un vero dialogo con la realtà, per passare dalla superficie alla profondità, per
conoscere ciò che si muove – la dimensione metabletica in atto – ma soprattutto per comprendere
perché si verificano determinati movimenti e di quali bisogni e aspirazioni siano essi sintomi.
Prescindere da questa fase di indagine-osservazione significherebbe, come spesso succede,
intraprendere percorsi formativi astratti e caduti dall’alto, anacronistici e perciò sterili.
La lettura della realtà necessita di far tesoro di diverse prospettive di osservazione, dando voce a
componenti fondamentali del mondo educativo-scolastico: insegnanti, dirigenti scolastici, genitori.
Possono così emergere una serie di evidenze condivise, che indicano le emergenze più significative
presenti nel territorio considerato.
Recenti ricerche svolte sui nostri territori (BERGAMO, 2006) rilevano i seguenti nodi problematici,
sui quali sarà necessario riflettere attentamente per approdare ad una comprensione profonda dei
bisogni educativi sottesi:
• il sovrappiù di disagio vissuto da bambini/e e da ragazzi/e figli delle migrazioni, un
sovrappiù che quasi sempre accentua il disagio naturale – di natura endogena – connesso
alla complessità dei compiti di sviluppo propri dell’età. Si aggiungono perciò vari fattori,
soprattutto esogeni, derivanti perciò dall’esterno, dalle complicazioni spesso legate alle
difficoltà di integrazione in un contesto culturale nuovo e allo sradicamento dalla cultura di
provenienza;
• la possibilità che tale disagio accentuato si cronicizzi e apra facilmente la strada a forme di
devianza conclamata;
• l’ulteriore dose di disagio provato frequentemente dalle bambine/ragazze, che spesso
risentono di un minore investimento da parte delle famiglie, della cultura di provenienza, e
che ancora più nettamente avvertono il peso di certe distanze culturali nei comportamenti
diffusi e nelle aspettative nei riguardi della donna;
• il diffuso insuccesso scolastico e il circolo vizioso che lo lega al disagio vissuto dagli alunni;
• le diverse tipologie di alunni, espressione delle molteplici identità culturali presenti nel
territorio;
• le forti difficoltà di comunicazione causate dalle difficoltà linguistiche e la necessità di
attuare efficaci percorsi di formazione linguistica, anche per i genitori;
• il diffuso senso di inadeguatezza degli insegnanti, per la difficoltà di operare efficacemente
sul piano didattico, e in vari casi la loro accentuazione delle difficoltà di fronte alle nuove
esigenze espresse dalla scuola multiculturale;
• l’ancora insufficiente presenza di mediatori linguistici e culturali realmente preparati a
svolgere le funzioni collaborative cui sono chiamati;
• l’importanza dei docenti referenti – che tutte le scuole dovrebbero prevedere – per
l’attenzione con cui essi possono trattare la problematica dell’educazione interculturale
come dimensione trasversale e interdisciplinare (non certo per essere i soli titolari di
iniziative interculturali, ma per favorire la più ampia condivisione della problematica
interculturale e della didattica conseguente);
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•
la necessità di assumere una visione sistemica dell’educazione interculturale e,
conseguentemente, di operare più decisamente per il lavoro pedagogico ‘di rete’ in questa
direzione;
• l’importanza di riorganizzare la scuola (ad es., il numero di alunni nelle classi, il rapporto
alunni autoctoni – alunni immigrati…) e la formazione pedagogico-didattica degli
insegnanti;
• la necessità di non considerare l’educazione interculturale legata alla presenza di
persone/famiglie immigrate, ma come dimensione pedagogica trasversale, fondata su un
paradigma antropologico dialogico-interculturale;
• l’urgenza di un’educazione interculturale che si esplichi nella prospettiva della ‘pedagogia
di comunità’, facendo leva su alleanze pedagogiche nei vari contesti, con la presenza di
‘agenti di intrecciamento e di rete’ (ad esempio, gli ‘educatori sociali’) che operino come
figure di sistema.
A questi e ad altri nodi significativi si connettono immediatamente corrispondenti bisogni formativi.
Da qui bisogna muovere una progettualità pedagogica capace di accogliere attentamente le
indicazioni derivate da questa fase di ‘intuizione’, di impegnarsi quindi in quelli che amo definire
‘compito di intenzione’ (indicare e tendere alle finalità educative nella prospettiva
dell’interculturalità) e ‘compito di attuazione’ (realizzare concretamente percorsi formativi
conseguenti, attraverso una metodologia capace di assumere i valori della diversità e di collaborare
ad integrarli creativamente nella prassi secondo un ‘approccio dialogico-interculturale’.
Il ‘compito di intenzione’
Come suggerisce Zygmunt Bauman, per costruire l’intercultura è necessario “mettere in discussione
le premesse apparentemente indiscutibili del nostro modo di vivere” (BAUMAN,2001b:8), che
prevalentemente si fondano sull’autocentramento dell’io e sulla conseguente svalutazione
dell’alterità: premesse che contribuiscono a caricare di disagio il vivere odierno e impediscono
l’autentica comprensione del mondo, in quanto la parziale prospettiva di partenza – di tipo
egologico – riduce enormemente l’angolo di illuminazione di se stessi, degli altri, della realtà.
“Chi rovista nella nebbia del proprio io non è più in grado di accorgersi che questo isolamento,
questa ‘prigione solitaria dell’io’, è una sentenza di massa” (BAUMAN,2001b:67-68).
È perciò necessario e urgente recuperare o scrivere ex novo un’antropologia capace di ridare luce e
forza a quei fondamenti che possono rinsaldare i legami autentici tra gli esseri umani, dando ragione
alle attese dei singoli e delle società.
Bauman, le cui suggestioni sono immediatamente applicabili sul piano pedagogico, evidenzia a più
riprese alcune finalità importanti per l’umanità, tutte in ultima analisi legate alla costruzione di
legami significativi a livello interpersonale, sociale, interculturale. Il suo intento è quello di favorire
il passaggio dalla molteplicità frammentata alla socialità dialogante.
Egli sostiene che “l’ umanità contemporanea parla con molte voci e (…) continuerà a farlo per un
tempo lunghissimo. La questione centrale della nostra epoca è come trasformare questa polifonia in
armonia e impedirle di degenerare in cacofonia”; ma sappiamo anche – e questa è già
un’indicazione pragmatica e pedagogica – che essa “è edificata esclusivamente con la calce e i
mattoni degli affetti umani e dell’impegno” (BAUMAN,2001a:123-125).
Il suo compito fondamentale è quello di trovare l’“unità nella diversità”: compito arduo, tentato
molte volte nel corso della storia, ma presente più spesso nelle dichiarazioni d’intenti che in
effettive realizzazioni: tra l’unità e la diversità non è mai esistita una vera e costruttiva reciprocità,
perché sempre – e alternativamente - una ha ceduto il passo all’altra secondo una modalità
“vincente-perdente”. Anche rispetto a questo traguardo di emancipazione sociale e interculturale –
unità nella diversità -, Bauman propone una possibile strategia: “Deporre le armi sospendendo gli
scontri di confine combattuti per tenere lontano lo straniero, demolendo i piccoli muri di Berlino
eretti quotidianamente per tenere lontane le persone e per separarle”. Allo stesso tempo, invertendo
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le tendenze, accentuate dalla globalizzazione, all’isolamento solipsistico e alla diffusione di
modalità esistenziali impersonali e anonime, bisogna farsi consapevoli che “la strada verso
un’ekklesía veramente autonoma passa per una popolosa e vibrante agorà in cui ogni giorno le
persone si incontrino per continuare lo sforzo congiunto di traduzione tra i linguaggi degli interessi
privati e del bene pubblico” (BAUMAN,2001a:22).
Si tratta di finalità sociali, culturali e politiche – ma ancor prima pedagogiche -, che possono essere
perseguite con successo soltanto attraverso la responsabile decisione degli individui, chiamati ad un
impegno di natura morale prima ancora che di partecipazione politica. Esse richiamano infatti all’
“opzione etica fondamentale”, quella che sola può risolvere radicalmente la questione del rapporto
con l’Altro.
Andare alla radice del problema, a questo punto, significa pervenire alla domanda cruciale, per ogni
essere umano, quella rivolta da Dio a Caino: “Dov’è tuo fratello?”. È, in fin dei conti, l’intima
provocazione che si leva anche dalla coscienza di ogni essere umano e chiede “Chi è l’Altro per
te?”, “Chi sei tu per l’Altro?”. Esistono evidentemente diversi tipi di risposta. Qui si attua o si nega,
radicalmente, in questo drammatico gioco tra domanda e risposta, la qualità etica dell’esistenza
umana. Da questo primo nodo etico ed esistenziale si sviluppa in un certo modo, più o meno
positivo, la trama complessa delle relazioni interpersonali e sociali. L’origine dell’immoralità, il
primo errore interpersonale e sociale, sta proprio nella “fuga”, nell’abdicare ad un compito di natura
etica rispondendo con irritazione: “Sono forse io il custode di mio fratello?” Non è, quella di Caino,
una vera domanda, in realtà è una risposta: “L’altro non mi riguarda”, “Io non me ne curo”. In altro
modo: “L’altro è avversario per me”, “l’altro è il nemico”, “ho il diritto di difendermi e di
ucciderlo”, “ho il diritto di disinteressarmi di lui”. Fuggire da questo appello etico, fuggire
dall’altro, è allontanarsi da se stessi.
“Che lo ammetta o no – scrive Bauman – io sono il custode di mio fratello in quanto il benessere di
mio fratello dipende da quello che faccio o mi astengo dal fare (…). Nel momento in cui metto in
dubbio quella dipendenza (…) abdico alla mia responsabilità e non sono più un soggetto
morale”(BAUMAN,2001a:96).
Ciò che mi qualifica eticamente, perché rispetta l’imperativo di essere fratello del fratello – un sì
detto a lui -, è la disponibilità ad accoglierlo senza riserve, senza fughe, senza nascondimenti, senza
alibi, quando si presenta alla nostra porta e ci dice “sono io”.
L’idea di ospitalità trova un valido fondamento, sul piano antropologico, nella filosofia dialogale di
Martin Buber, che con il suo L’Io e il Tu (BUBER,1993) è stato precursore e autentico ispiratore di
pensatori successivi come Mounier, Lévinas, Derrida. Secondo il suo “principio dialogico” l’essere
umano si comprende e si realizza come “essere in relazione”, come “apertura-a” che diventa
“incontro”, “dialogo”, Io-Tu. È questo il luogo essenziale, primario, ontologico dell’ospitalità, nel
quale l’uomo – quasi paradossalmente – incontra se stesso incontrando l’altro. “Io mi faccio nel Tu”
(BUBER,1983:16). È proprio nel relazionarsi “autentico” – che è reciproca ospitalità - che egli
prende coscienza di se stesso e, interpellato all’impegno nella relazione, mette in gioco la totalità
del proprio essere, con la propria decisione responsabile, attuando così la vera libertà che lo
contraddistingue. Libertà e responsabilità si legano ontologicamente nell’autentica dimensione
originaria della relazione.
Il ‘principio dialogico’, che allude alla necessaria tensione alla ‘reciprocità’ – senza per questo
dimenticare l’istanza etica che in ogni caso deve orientare l’Io al Tu - si rivela particolarmente
importante rispetto alle tematiche sociali e interculturali, perché richiede il relazionarsi all’altro
come ad un soggetto, perciò protagonista – nella dimensione dialogale autentica – di un’esperienza,
di una storia, di una cultura, di un agire che implicano autonomia, indipendenza, identità: prevede,
insomma, il reale superamento della frequente tentazione del paternalismo e dell’assistenzialismo,
in cui – seppure velato o del tutto occultato dai più sapienti artifici – permangono l’esercizio di un
potere anomalo e la presunzione di superiorità di uno sull’altro.
Solo a partire da tali presupposti etici ed esistenziali è possibile, secondo noi, dar vita a
quell’autentica “convivialità delle differenze” che oggi ci sfida e cui siamo chiamati.
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Il ‘compito di attuazione’
Come fare? Quali atteggiamenti mettere in pratica? Come muoverci nella nostra normale
quotidianità, tentando di attuare l ‘ io-tu e di realizzare concretamente la dimensione interculturale?
Come essere ospitali? Come realizzare l’integrazione a partire da un’autentica capacità di
interazione con l’altro?
Su questo piano, strettamente metodologico e di ‘attuazione’, è necessario costruire una didattica
coerente, fondata su una ‘comunicazione’ chiaramente interculturale sia sul piano dei ‘contenuti’ sia
su quello delle ‘relazioni’.
Un contributo rilevante per un’interculturalità dei saperi ci proviene da Edgar Morin, che
propone una metodologia didattica fondata su un’“inter-poli-trans-disciplinarità” che aiuti la
formazione di una “testa ben fatta” capace di quel “pensiero complesso” adeguato alla
comprensione delle dinamiche esigenze dell’ “interdipendenza planetaria” (MORIN,2000:6-20).
Morin critica l’odierna prevalente “parcellizzazione del sapere”, afferma che “un’intelligenza
incapace di considerare il contesto e il complesso planetario rende ciechi, incoscienti e
irresponsabili” e sollecita ad un insegnamento “aperto”, la cui missione è quella “di trasmettere non
del puro sapere, ma una cultura che permetta di comprendere la nostra condizione e di aiutarci a
vivere, essa è nello stesso tempo una maniera di pensare in modo aperto e libero”.
La nuova intelligenza, di cui gli insegnanti dovrebbero essere i primi interpreti e facilitatori,
consiste proprio - e ritorna il medesimo concetto di Bauman – nel “riconoscere l’unità in seno alla
diversità, la diversità in seno all’unità…. Riconoscere l’unità umana attraverso le diversità culturali,
le diversità individuali e culturali attraverso l’unità umana”.
Naturalmente Edgar Morin propone una riforma radicale delle modalità didattiche, basate su una
metodologia relazionale capace di collegare discipline e saperi, di provocare “sconfinamenti e
migrazioni interdisciplinari”, pervenendo ad “un punto di vista metadisciplinare, dove il termine
‘meta’ significa superare e conservare”, per una visione dinamicamente dialogico-unitaria del
sapere stesso e dell’esperienza personale e comunitaria.
Sul piano della dimensione relazionale della comunicazione interculturale, l’attenzione va
evidentemente posta sugli atteggiamenti che possono favorire e rinforzare il dialogo, l’incontro, la
collaborazione, la reciproca fiducia nel rispetto delle differenze, delle peculiarità culturali e nella
comune convergenza verso orizzonti valoriali comuni: atteggiamenti che consentano di evitare e
superare i rischi dell’assimilazione e dell’apartheid e che mettano in gioco la forza propulsiva e
creativa della relazione autentica.
In tali direzioni risultano imprescindibili le seguenti strategie relazionali-sociali:
• l’autenticità (come sincerità, congruenza, capacità di manifestare la propria identità senza
nascondimenti);
• l’accettazione incondizionata dell’altro (accoglienza, rispetto delle differenze, superamento
dei pregiudizi…);
• l’empatia (come capacità di mettersi al posto dell’altro, di assumere anche il suo punto di
vista, senza tuttavia perdere il senso dell’imprescindibile distanza interpersonale e
interculturale);
• la ‘lotta’: il caldo, appassionato, concreto e sempre nuovo dialogo, fatto di ‘botta e risposta’,
nella reciprocità più vera, in rapporto a valori autentici e ad aspettative adeguate e pertinenti:
lotta con l’altro - che deve esserne protagonista -; per l’altro - perché si realizzi come
persona -; a volte contro l’altro, perché, come sostiene Martin Buber, nella relazione
autentica ci sono momenti in cui responsabilmente devo aiutare l’altro contro se stesso;
‘lotta’, non per farne uscire ‘vincitori’ e ‘perdenti’ ma per ritrovarci ‘vincenti insieme’,
contro qualsiasi forma di ingiustizia, di inibizione, di passività, di anomala asimmetria, di
prepotenza (anche, naturalmente, sul piano delle relazioni interculturali).
• La costruzione della “comunità” (Io-Tu-Noi) dove si moltiplicano le relazioni interpersonali
e interculturali, dove ci si appella ad un “centro vitale” comune che – come logos del “noi”9
dà forza, coesione e progettualità alla convivialità delle differenze (BUBER,1993, 1983,
1967).
Ognuna di tali strategie meriterebbe un approfondimento qui impossibile e per il quale invio ad una
specifica bibliografia (MILAN,2007; MILAN,2002a; MILAN,2002b).
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