Bragadin Postfazione

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Bragadin Postfazione
POSTFAZIONE
L’interpretazione della storia è una questione spinosa. Riportare fatti o
resoconti di testimoni oculari è una cosa, ma mettere assieme gli eventi in una
narrazione coerente, con un inizio concreto, una progressione sequenziale e una fine
definitiva, e poi trarne una conclusione, sia essa etica, politica o sociologica – e in un
determinato stile letterario – può spesso rivelarsi una pratica ingannevole. Più i motivi
che spingono uno storico a investigare un tema sono personali, tanto più
manipolatoria sarà, da parte sua, la selezione e la giustapposizione dei dati riguardanti
quell’argomento. Più profonda e complessa è la materia, più superficiale apparirà, in
confronto, la sua spiegazione. Uno storico sa che, per spiegare il proprio punto di
vista, dovrà limitarsi a determinati parametri e, così facendo, quei parametri faranno
automaticamente della sua visione, al di là del respiro e della profondità che essa
possiede, solamente un’altra versione della verità.
Inoltre, la nostra comprensione dei complessi fenomeni storici – come la
nascita delle nazioni, le cause delle grandi guerre, la migrazione dei popoli – si basa
su numerosi livelli di esperienza, di percezione e di studio storiografico, che
aggiungono una distanza contestuale alla già esistente distanza temporale fra l’evento
accaduto realmente e il modo in cui viene assimilato dalla posterità. Anche se
prendiamo l’esempio più elementare, “Maria andò all’ufficio postale il 31 luglio del
1910”, scopriamo che ci potrebbero essere almeno quattro fonti di testimonianza (che
a loro volta possono definirsi storia) che separano l’avvenimento dalla conoscenza
che ne abbiamo noi nel 2010. Esse sono fonti ma sono anche filtri o schermi
attraverso i quali passa l’informazione, e pertanto possono distorcere la veracità
dell’avvenimento. Esaminiamole più da vicino.
Maria andò all’ufficio postale. Il giorno dopo è già storia. Ma come facciamo
a sapere che andò all’ufficio postale? Lo scrisse in un diario, lo disse a un’amica, la
vide l’impiegato, ecc. Perché ci andò? Per imbucare una lettera, per acquistare
francobolli, per ritirare un pacco. Se lei avesse detto all’amica che andava a imbucare
una lettera e poi effettivamente imbucò la lettera, allora l’avvenimento e il resoconto
dell’amica coinciderebbero. Ma se Maria avesse detto all’amica che andava a
imbucare una lettera ma poi perse la lettera e, visto che si trovava all’ufficio postale,
decise di acquistare qualche francobollo? Allora l’avvenimento e il resoconto
dell’amica (se Maria non raccontò all’amica della lettera smarrita) non
coinciderebbero e di conseguenza, se un giorno Maria non fosse stata disponibile e un
cronista si fosse trovato costretto a usare il resoconto dell’amica di Maria, la verità
riguardo a ciò che Maria fece veramente all’ufficio postale sarebbe stata distorta.
Le testimonianze di prima mano (annotazione di diario, resoconto dell’amica o
dell’impiegato), diventano così il primo schermo. Il secondo schermo potrebbe essere
uno scrittore o un cronista locale che scrive una cronaca su una città, un fatto o una
personalità che, per qualche particolare ragione, include la visita di Maria all’ufficio
postale. A seconda dello scopo della cronaca, lo scrittore potrebbe o meno
menzionare la sua fonte di informazione relativa alla visita di Maria all’ufficio
postale.
Ormai abbiamo l’avvenimento stesso e due fonti (schermi) che riportano
l’avvenimento: l’amica di Maria e la cronaca. La cronaca diventa la prima opera di
storia, un campo che possiede una vasta gamma di approcci professionali. Dopo il
cronista, che solitamente è interessato ai fatti fondamentali che circondano il tema, c’è
lo storiografo che studia le scritture storiche (documenti, memorie, cronache, ecc.) e
1 lo storico che scrive la storia (di una nazione, di un movimento politico, ecc.). La
differenza fra un cronista e uno storico (o uno storiografo, visto che spesso i loro
compiti si sovrappongono) è che quest’ultimo va oltre la mera scrittura dei fatti. Egli
ha una particolare intuizione riguardo all’evoluzione o all’identità di un argomento.
Egli sarà il primo a interpretare l’argomento in base a un suo convincimento –
individuale, nazionale, spirituale, ecc.
Oggi lo storico può rientrare in due categorie: può essere accademico o
divulgativo. La principale fonte d’ispirazione per lo storico accademico sarà la sua
intuizione di studioso. Il suo lavoro mirerà a svelare le sfumature dell’evoluzione o le
conseguenze di un episodio storico che, in precedenza, erano state tralasciate o
ignorate. Scriverà opere che avranno esclusivamente lo scopo di erudire e si potranno
trovare i suoi tomi nelle biblioteche, nelle università, nelle istituzioni scolastiche,
negli archivi, ecc.
Il secondo tipo di storico è quello divulgativo, la cui ispirazione sarà il suo
entusiasmo immediato per l’argomento su cui sta scrivendo, piuttosto che l’intuizione
accademica riguardo all’evoluzione o all’identità di quell’argomento, o qualunque
altro fattore impersonale. Farà tanta ricerca quanta ne fa lo storico accademico, ma il
suo tono e il suo stile punteranno a trasmettere il suo entusiasmo personale nei
confronti dell’argomento, talvolta persino a scapito dell’accuratezza e della veracità
della storia stessa. Dal momento che il suo racconto sarà intriso di emozione,
richiamerà un pubblico più vasto e, in tal modo, possiederà un significativo potenziale
commerciale.
Pertanto, quando il profano, nel 2010, viene a conoscenza della visita di Maria
all’ufficio postale del 1910, l’avvenimento potrebbe già essere stato filtrato attraverso
almeno quattro fonti (schermi) di testimonianza: il resoconto dell’amica di Maria, la
cronaca scritta dal cronista, lo studio dello storiografo e il libro dello storico – e in
questo caso abbiamo solo quattro fonti. A seconda dell’impatto e della rilevanza
sociale dell’avvenimento, il numero di schermi potrebbe essere molto più alto.
Il problema più grande quando si hanno tante fonti sta naturalmente nelle
informazioni contraddittorie che arrivano al lettore finale. Spesso accade che più si
legge riguardo a un avvenimento, più si notano incoerenze nei vari resoconti che lo
descrivono. Si può arrivare al punto di chiedersi perché uno storico utilizzi le
informazioni di un resoconto e non di un altro. Esempio: i dati nella Storia di Grecia
Antica A non corrispondono ai dati nella Storia di Grecia Antica B; perché lo storico
moderno X, dopo aver letto sia la Storia di Grecia Antica A, sia la Storia di Grecia
Antica B, utilizza i dati contenuti nella Storia A?
Ma le complicazioni non finiscono qui. Non solo gli studi storiografici e
storici si contraddicono reciprocamente, ma persino lo stesso storiografo o lo stesso
storico può talvolta contraddire se stesso. Qui vorrei utilizzare un esempio concreto,
non al fine di screditare la professionalità dello storico (di cui non farò neppure il
nome), ma solamente per dimostrare quanto lo studente, o qualunque lettore di storia,
debba stare attento a fidarsi delle sue fonti.
Questo scrittore è un noto storico divulgativo britannico i cui libri su Venezia
hanno ottenuto grande successo critico e commerciale e che, infatti, scrive con un
notevole spirito da intrattenitore. Ha scritto e presentato molti documentari televisivi
ed è stato presidente di un comitato britannico dedicato alla conservazione di Venezia,
non solo dell’arte e dell’architettura della città, ma anche di Venezia in quanto
comunità viva e pulsante.
Fra le sue numerose opere su Venezia, i due libri principali (senza farne il
nome) sono una storia di Venezia, politicamente orientata, dagli inizi nel V secolo
2 fino alla caduta della Repubblica nel 1797 e una raccolta di saggi sulle celebrità
straniere che hanno soggiornato o vissuto nella città durante il XIX secolo. Una
citazione sulla quarta di copertina lo acclama addirittura come “il più appassionato e
devoto cronista in lingua inglese della straordinaria storia di Venezia”. Lo stesso
scrittore, nell’introduzione alla sua raccolta di saggi, giustifica la sua incessante
produzione su Venezia dicendo: “In primo luogo, amo a tal punto la città che non
posso fare a meno di scriverne; in secondo luogo, voglio promuovere la sua storia”.
La sua contraddizione è la seguente:
Nel suo primo libro di 670 pagine, che ebbe cinque edizioni dal 1977 al 2003,
egli scrive nell’epilogo – dopo che la Repubblica di Venezia era stata conquistata da
Napoleone, poi consegnata agli austriaci, poi ripresa da Napoleone, solo per essere
restituita nuovamente agli austriaci al Congresso di Vienna – che “possiamo solo
essere grati che Bonaparte in persona, piuttosto sorprendentemente, non abbia mai
messo piede a Venezia. Se lo avesse fatto, non si sarebbero trovate le parole per
descrivere il completo saccheggio della più opulenta delle città, o la profondità della
cicatrice che persino la sua sola ombra è stata capace di lasciare”.
Ma nella sua raccolta di saggi sulle celebrità del XIX secolo, anch’essa
pubblicata nel 2003, nel saggio dedicato a Napoleone, apprendiamo una cosa
completamente diversa: “... negli ultimi giorni del 1807, sua maestà imperiale fece la
sua prima e unica visita a Venezia. Essa si protrasse da domenica 29 novembre a
martedì 8 dicembre”. Poi il saggio prosegue descrivendo in dettaglio la visita
dell’imperatore.
Quanto è grave, dunque, questa discrepanza?
Se il personaggio storico fosse chiunque altro, un patrizio veneziano, un altro
sovrano straniero, persino uno dei 118 (secondo il libro storico dell’autore) o 120
(secondo la sua raccolta di saggi) dogi di Venezia, la disattenzione sarebbe
trascurabile. Ma il personaggio in questione è Napoleone Bonaparte, che non solo,
secondo il nostro scrittore, fu uno dei tre più importanti sovrani europei (gli altri
furono, sempre a suo dire, Carlomagno e Federico II di Hohenstaufen), ma fu anche
l’individuo unicamente responsabile del crollo della Repubblica di Venezia, la
nazione che il nostro autore, nel paragrafo conclusivo dell’epilogo del suo libro
storico, glorifica come il luogo migliore in cui una persona avrebbe potuto vivere fra
tutte le nazioni cristiane dell’epoca: “In nessun luogo gli uomini vivevano più
felicemente, in nessun luogo godevano di una maggiore libertà dalla paura”.
Napoleone rappresentò la morte della Serenissima Repubblica di Venezia,
punto. Uno storico che “ama” Venezia e si dedica alla sua storia non può trattare una
figura e un momento così importante con tale noncuranza. È un grande faux pas che,
oltre a confondere il lettore, può facilmente spingerlo a chiedersi se l’autore stesso
abbia mai messo piede a Venezia.
***
Con tutta questa confusione documentale come si fa a scrivere un romanzo
storico e quanto è importante l’accuratezza fattuale in un’opera narrativa?
Anzitutto dobbiamo capire la differenza fra il romanzo che appartiene al
genere della storia romanzata e quello che appartiene alla narrativa storica. Il primo è
un’opera che mira alla trattazione di un episodio storico (la Rivoluzione Francese, la
Grande Depressione, ecc.) attraverso personaggi di fantasia, una trama inventata e
un’ambientazione profondamente radicata nell’episodio. Può anche utilizzare
elementi biografici di un personaggio storico realmente esistito o persino fare di
3 quest’ultimo il protagonista o uno dei personaggi principali. Ma l’obiettivo primario e
il punto centrale del genere della storia romanzata è di trasmettere il significato, il
valore o semplicemente la vita quotidiana dell’epoca o dell’episodio storico.
Il proposito del romanzo di narrativa storica, al contrario, non è di illustrare o
interpretare un episodio storico sotto forma di romanzo, ma piuttosto di utilizzare
l’episodio storico per esprimere un’idea, uno stato d’animo o un’interrelazione che
costituisce una parte della vita umana, al di là dell’epoca storica. Il romanzo di
narrativa storica può anche commentare una questione contemporanea attraverso un
contesto storico, specialmente per sottolineare il vecchio adagio hegeliano, “L’unica
cosa che la storia insegna è che essa non insegna alcunché”. Qualunque sia il suo fine,
nel genere della narrativa storica, la storia (il passato) sarà sempre un mezzo mentre,
nel genere della storia romanzata, la storia (il passato) sarà sempre il fine.
In questa luce, il lettore si aspetterebbe ovviamente più accuratezza storica da
un’opera che mira a illustrare un particolare episodio storico, piuttosto che da
un’opera che usa un particolare episodio storico solamente per esprimere un’idea, uno
stato d’animo o un’interrelazione.
Il romanzo Bragadin, seppur attenendosi strettamente a fatti documentati,
rientra nel genere della narrativa storica, o almeno, dato che verrà inevitabilmente
assegnato a una categoria, come tutta la letteratura, è stato scritto con questo genere in
mente. Pertanto mi sento obbligato a distinguere le principali componenti storiche del
romanzo dagli elementi di fantasia, o meglio, dal regno della licenza poetica.
Marcantonio (Marco Antonio, Marc’Antonio) Bragadin fu effettivamente il
capitano generale di Cipro al tempo dell’invasione ottomana nel 1570-71; alcune fonti
dicono semplicemente governatore di Famagosta. La realtà è che il governo civile
dell’isola aveva sede a Nicosia sotto l’autorità di un luogotenente, mentre il quartier
generale militare con la fanteria e la cavalleria di stanza, e la flotta, avevano sede a
Famagosta. Perciò Bragadin era sia governatore di Famagosta che capitano generale
di Cipro, la sua più alta autorità militare. La guarnigione di Famagosta era sotto il
diretto comando del generale Astorre Baglioni, all’epoca il maggiore esperto militare
di Cipro.
L’invasione e la conquista ottomana di Cipro sono autentici episodi storici,
così come l’assedio di Famagosta, l’esecuzione dei suoi comandanti dopo la
capitolazione e le torture e lo scorticamento di Bragadin; e la maggior parte dei libri
di storia comincia infatti la descrizione di questo episodio delle relazioni fra Venezia
e l’impero ottomano con l’ultimatum presentato al doge Loredan dall’ambasciatore
ottomano Cubat nel Palazzo Ducale e la conclude con la famosa battaglia di Lepanto.
Tuttavia, il concatenamento delle cause che portarono all’invasione di Cipro e il
concatenamento delle conseguenze che derivarono dalla battaglia di Lepanto si
potrebbero discutere all’infinito.
L’ambasciatore Cubat e il suo incontro con il doge Loredan sono pertanto
componenti che provengono da testi storici. Ma il vertice in Vaticano è frutto di
invenzione, sebbene tutti gli ambasciatori citati nel III capitolo della prima parte siano
figure storiche realmente esistite che in quell’epoca si trovavano effettivamente a
Roma. Tuttavia, papa Pio V riuscì veramente a organizzare un vertice simile un anno
dopo, nel 1571, quando infine ufficializzò la Lega Santa. Le conversazioni al
Serraglio di Costantinopoli sono chiaramente anch’esse prodotto dell’immaginazione
ma sono basate su figure storiche (Selim II, Sokollu, Nurbanu, Nassi) e strategie vere,
così come i dialoghi fra gli ammiragli europei (Doria, Colonna, Bazán, Venier) nel V
capitolo della prima parte.
4 Scrivere la seconda parte del romanzo, è stata una sfida ardua: in primo luogo
poiché sappiamo ben poco della vita personale di Bragadin (capitolo I), tranne che era
sposato con una certa Elisabetta Morosini, che aveva lavorato nella marina di Venezia
e, in seguito, nella magistratura, e che, secondo alcune fonti e tradizioni, la famiglia
Bragadin discendeva effettivamente dal primo doge di Venezia, Orso Ipato;1 e, in
secondo luogo, poiché non ho alcuna conoscenza empirica di questioni militari e,
pertanto, ho rischiato di descrivere l’assedio in una maniera assai superficiale. Se
questo è accaduto, me ne scuso sinceramente. Per descrivere l’assedio ho seguito da
vicino Assedio e caduta di Famagosta di Guido Antonio Quarti (1935), un resoconto
molto approfondito basato su relazioni di testimoni oculari, e ho intrecciato la realtà
alla fantasia, come nel caso delle lettere di Lala Mustafa a Bragadin: la prima è la
missiva autentica, ricavata da una testimonianza di prima mano del conte Nestore
Martinengo, che fuggì da Cipro dopo la capitolazione (e che compare nel romanzo), le
altre sono inventate allo scopo di far evolvere la storia. Fra i principali personaggi che
si distinguono durante l’assedio solo Adriano Paleologo è completamente frutto di
fantasia (anche se il cognome deriva dall’ultima famiglia imperiale dell’impero
romano d’Oriente, o di Bisanzio, se si vuole utilizzare la terminologia odierna). Sono
ricorso alla licenza poetica anche per il titolo di Maresciallo attribuito a Mustafa, dal
momento che alle orecchie dei lettori di oggi suona più autoritario rispetto al titolo
che gli ottomani assegnavano ai comandanti del suo rango: Serdar.
La parte terza è quella in cui, come suggeriva John Keats, “ho lasciato vagare
la mia alata fantasia”. Tutti, tranne Lala Mustafa Pascià, le celebrità veneziane e un
paio di personaggi minori, sono frutto di quella fantasia. Il mullah Ali al Hasan si basa
su uno scambio di battute di due righe fra Bragadin e un imam ottomano ricavato dal
resoconto storico del testimone oculare Fra Agostino, La gloriosa morte di
Marcantonio Bragadin. Fra Agostino era davvero il priore del monastero di
Sant’Antonio durante l’assedio e fuggì come Martinengo. Anch’egli appare nel
romanzo. Nel racconto di Fra Agostino, Bragadin chiede all’imam quali erano state le
prime parole di Dio; quando l’imam risponde, “In principio era il Verbo (Parola)”,
Bragadin insulta Mustafa per non aver mantenuto il suo verbo (parola) giustiziando i
comandanti di Bragadin nel suo accampamento dopo la capitolazione. Qui termina
l’unico scambio documentato fra Bragadin e una figura religiosa ottomana.
Un’altra licenza poetica che necessita di chiarimento è l’utilizzo del francese
negli scambi verbali fra gli ottomani e Bragadin. Anche se i dialoghi sono ovviamente
scritti in italiano,2 viene specificato che i personaggi stanno parlando in francese
durante le loro conversazioni. Qui sono certo che la libertà che mi sono preso è
destinata a incontrare una certa disapprovazione. Perché un comandante ottomano che
si rivolge a un comandante veneziano in un’isola greca (anche se l’isola era parte
della Repubblica di Venezia) dovrebbe usare il francese, anziché il greco, il veneziano
o il latino? Un generale ottomano di quell’epoca poteva conoscere il francese? In
effetti, alcuni testi storici accennano alla presenza di un traduttore. Ma la risposta è
molto probabilmente sì, e meglio di qualunque altra lingua europea. Secondo Guido
Antonio Quarti, la prima lettera che Bragadin ricevette da Mustafa, insieme alla testa
del luogotenente Dandolo, era scritta in francese. Quarti afferma che la lettera era
stata tradotta dal turco al francese a Nicosia da un nobile fatto schiavo. Ma è molto
1 Esistono due ipotesi principali riguardo a chi fu il primo doge di Venezia: la prima,
basata sulla Cronaca Altinate, sostiene che le comunità lagunari elessero come primo
2 Chiaramente, nel manoscritto della postfazione originale in inglese l’autore si
riferisce alla lingua inglese (NdT). 5 probabile che gli ottomani parlassero il francese, e lo parlassero molto bene, poiché la
Francia e l’impero ottomano, durante il XVI secolo, condividevano un’alleanza molto
solida. Niente unisce due amici quanto un nemico comune e per il re Francesco I,
come per il sultano Solimano, l’imperatore del Sacro Romano Impero Carlo V
costituiva precisamente quel nemico. L’esercito francese e quello ottomano si
scambiavano tattiche militari, si fornivano reciprocamente uomini e materiali bellici
ed elaboravano strategie per ridurre il potere del Sacro Romano Impero. La Francia,
inoltre, non partecipò alla battaglia di Lepanto, anche se è noto che finanziasse spesso
i Cavalieri di San Giovanni. Pertanto, è più che probabile che l’alto comando militare
ottomano possedesse una buona conoscenza della lingua francese; e dal momento che
era essenziale, nel romanzo, che Bragadin e Mustafa parlassero fra loro, la scelta più
realistica era il francese.
Le contraddizioni riscontrate nei testi storici riguardanti l’assedio di
Famagosta sono minime: qualche data, qualche cifra e un paio di nomi. Ma c’è una
contraddizione molto affascinante che concerne un momento cruciale della sorte di
Bragadin, dei suoi comandanti e della popolazione latina di Famagosta: l’esecuzione
dei prigionieri ottomani (che secondo alcune fonti erano in origine soldati, secondo
altre, pellegrini) dopo che le condizioni di capitolazione erano già state firmate. È
questo atto che fa esplodere Mustafa e lo induce a decapitare i comandanti italiani e
poi a torturare Bragadin. Tutte le fonti affermano che Bragadin e i suoi comandanti si
recarono al padiglione di Mustafa per consegnare le chiavi della fortezza. Ma ciò che
fu detto in quell’incontro varia da una fonte all’altra.
Il testimone oculare Nestore Martinengo scrive che Mustafa accusò Bragadin
di aver giustiziato i prigionieri ottomani, cosa che Bragadin smentì nella sua risposta.
Anche Alvise Zorzi, storico veneziano contemporaneo, scrive che Bragadin non
aveva giustiziato gli ottomani, ma semmai li aveva liberati dopo la capitolazione. Il
racconto di Guido Antonio Quarti è più ambiguo. Anche lui cita Bragadin che dice a
Mustafa che i prigionieri erano stati liberati e, quando Mustafa chiede a uno dei
prigionieri liberati (o fuggiti) se fosse la verità, questi accusa Bragadin di aver
giustiziato i suoi compagni. Bragadin allora dice a Mustafa di andare a Famagosta e di
accertarsene di persona. Il dialogo termina qui, ma, più avanti nel suo racconto, Quarti
inserisce la lettera di Mustafa al secondo vizir Pertev Pascià, scritta dopo lo
scorticamento di Bragadin. La lettera dichiara che Bragadin si era scusato quando
aveva consegnato a Mustafa le chiavi della città, dicendo (e quindi confermando) che
i suoi soldati, senza che lui l’avesse ordinato, avevano fatto giustiziare i prigionieri
ottomani due giorni dopo la capitolazione. Quarti aggiunge che forse Mustafa stava
solo giustificando la sua crudeltà.
Il testimone oculare Fra Agostino scrive che, quando chiesero a Bragadin dei
prigionieri ottomani, egli rispose dicendo che, nelle condizioni di resa, non si era
stipulato alcunché a proposito dei prigionieri; ma avrebbe anche detto: “Sebbene non
sia tenuto a rispondere, per ragioni di cortesia vi dirò che aprii il castello e lasciai che
ognuno andasse dove voleva”. Poi Mustafa convoca uno dei prigionieri scampati che
afferma che Bragadin aveva fatto giustiziare gli altri. Bragadin non risponde. Lo
scambio termina qui e Mustafa si vendica massacrando i comandanti e torturando
Bragadin.
In Lepanto 1571. La Lega Santa contro l’impero ottomano, una storia della
battaglia di Lepanto molto obiettiva alla quale devo la mia descrizione della battaglia
nel capitolo X della parte terza, lo storico contemporaneo fiorentino Niccolò Capponi
scrive che Bragadin afferma di aver giustiziato i prigionieri che erano stati catturati
all’inizio della guerra, ma non è chiaro se li uccise prima o dopo la capitolazione.
6 Capponi aggiunge che gli storici veneziani solitamente aderiscono all’opinione che
Mustafa non aveva mai avuto intenzione di mantenere la sua parola e stesse solo
cercando un pretesto per sfogare la sua collera fanatica.
Maria Grazia Siliato offre una sua versione esclusiva della verità. Nel suo
romanzo, L’assedio (1995), la signora Siliato fa avvenire l’esecuzione dei prigionieri
ottomani il 31 luglio del 1571, un giorno prima della firma delle condizioni di resa.
Introducendo questa possibilità, lei fa pensare al lettore che, dal momento che
l’assedio non era ancora ufficialmente terminato, “il Governatore di Famagosta” (per
qualche motivo misterioso il nome Marcantonio Bragadin viene evitato nel romanzo)
non era obbligato a rispettare alcun accordo formale e, pertanto, non ha macchiato il
suo onore militare giustiziando i prigionieri. La signora Siliato è una storica e
un’archeologa. La signora Siliato è stata anche (e spero mi perdonerà questa lieve
indiscrezione) compagna del defunto nobiluomo veneto Marc’Antonio Bragadin, uno
dei diretti discendenti dello storico Marcantonio Bragadin, che si distinse come
comandante della marina italiana nel XX secolo (dunque, non è lei stessa una diretta
discendente, come afferma il nostro storico divulgativo britannico nel suo libro sulla
storia di Venezia).
Gli episodi su cui tutti gli storici concordano sono l’esecuzione dei
comandanti italiani da parte di Mustafa nel suo accampamento e la prigionia e la
tortura di Bragadin, che durò dal 5 fino al 17 agosto (il 15 secondo alcune fonti). La
maggior parte delle fonti afferma inoltre che, durante quel periodo, Bragadin ebbe
l’opportunità di convertirsi all’Islam e di unirsi all’esercito ottomano. Il testimone
oculare Nestore Martinengo scrive che il giorno dell’esecuzione di Bragadin, il 17
agosto, era anche la festività cipriota di Venere. Tutto il resto che accadde in quei
tredici giorni è passibile di congetture.
***
Guardando indietro all’evoluzione delle società, non si può fare a meno di
notare le differenze abissali fra le intenzioni che generano i progetti umani e gli
effettivi risultati che ne derivano. Le visioni o le logiche che ispirano le società ad
agire corrispondono così raramente agli esiti di quelle azioni che spesso sembrano
essere in gioco due mondi contrastanti; e la ragione umana, che tranquillamente pensa
a se stessa come a un timone che guida e determina gli eventi, dopo tutto non è altro
che una fragile vela nel mezzo della tempesta. Quando il testimone oculare Miguel de
Cervantes (che era stato un soldato a bordo di una delle galee di Gian Andrea Doria)
definì la battaglia di Lepanto “una cagione sì eminente per celebrità da non vantarne
l’uguale i passati, i presenti, e fors’anco i secoli avvenire”, egli naturalmente guardava
all’evento dal punto di vista di Don Chisciotte, non di Sancho Panza, poiché le
conseguenze a lungo termine della battaglia non furono così gloriose come il suo
preludio o lo scontro stesso.
Anche se gran parte degli storici (europei) considerano la battaglia di Lepanto
come il fattore decisivo nell’arrestare il predominio ottomano nel Mediterraneo, i fatti
indicano una storia piuttosto diversa: dal momento che la Spagna e Venezia
cominciarono subito a litigare riguardo alla strategia post-battaglia (a quanto pare
Venezia voleva procedere verso Costantinopoli) e che la Lega Santa si sciolse, gli
ottomani poterono, nel giro di un anno, mettere insieme una nuova flotta di quasi 300
galee e 8 galeazze simili a quelle veneziane; nel 1573 Venezia cedette ufficialmente
Cipro all’impero ottomano, accettando di risarcire il sultano delle perdite subite
durante la guerra; nel 1574 gli ottomani strapparono Tunisi alla Spagna; nel 1669,
7 dopo una guerra durata 24 anni, gli ottomani sottrassero Creta a Venezia; gli ottomani
proseguirono inoltre la loro campagna in Ungheria, solo per essere sconfitti
definitivamente nella battaglia di Vienna del 1683. Pertanto, è difficile immaginare
che la posizione ottomana in mare fosse stata pesantemente modificata dopo Lepanto.
Ci fu, tuttavia, per gli europei un risultato molto positivo dopo la battaglia.
Agli ottomani era stata impedita l’invasione di Roma, che originariamente faceva
parte della loro strategia. Ora si resero conto che qualunque tentativo di conquistare la
Città Eterna non avrebbe fatto altro che unire le nazioni cristiane in un’alleanza
formidabile e impenetrabile. Nonostante le immediate differenze, gli europei
dimostrarono tuttavia la loro solidarietà di fondo. Di conseguenza, gli ottomani
attaccarono i territori dei singoli paesi (Tunisi, Creta, ecc.). Il motivo per il quale gli
ci vollero settant’anni per riprendere l’aggressione contro la Repubblica di Venezia si
può spiegare con il fatto che, durante l’ultimo quarto del XVI secolo, il trono
ottomano era intriso di DNA veneziano.
Selim II, che era per metà slavo, aveva sposato Cecilia Venier-Baffo, una
nobildonna veneziana catturata durante la conquista ottomana di Paro a scapito di
Venezia nel 1537 (la versione secondo la quale lei era Rachele Nassi-Baffo, la cugina
mezza ebrea di Iosif Nassi, appare troppo raramente ed è poco convincente per essere
presa seriamente in considerazione). Cecilia era la cugina del famoso Sebastiano
Venier, che in seguito divenne doge, anche se solo per un anno (1577-78). Lei diede
alla luce Murad III, che divenne sultano nel 1574 dopo la morte di Selim a causa di
una febbre provocata da una caduta accidentale alle terme (molte fonti attribuiscono
la caduta alla sua solita ubriachezza). Pertanto Murad, malgrado sua madre si fosse
convertita all’Islam e avesse preso il nome di Nurbanu (Principessa della Luce), era,
tecnicamente parlando, per metà veneziano. Murad poi sposò la nobildonna veneziana
Dorilla Baffo, che si era convertita all’Islam dopo essere stata catturata a Corfu e che
aveva preso il nome di Safiye (la Pura). Safiye, esattamente come Nurbanu prima di
lei, ebbe una notevole influenza sulla politica estera ottomana e fece tutto il possibile
per mantenere relazioni amichevoli con l’Europa, talvolta entrando persino in
conflitto con il bellicoso Lala Kara Mustafa Pascià che, dopo aver governato Cipro,
era assurto alla carica di gran vizir per alcuni mesi nel 1580 (la cattedrale
famagostana che egli aveva trasformato in moschea dopo l’assedio porta oggi il suo
nome). Safiye diede alla luce Mehmed III, il cui sultanato si protrasse dal 1595 al
1603. Perciò, visto che sua madre (Safiye) era veneziana e suo padre (Murad) mezzo
veneziano, si può tecnicamente dedurre che Mehmed fosse per tre quarti veneziano.
All’epoca in cui lui e la moglie greca Helena ebbero il loro primo figlio, l’implacabile
fiume del sangue imperiale ottomano si era dissolto nel dolce e sensuale mare
Adriatico.
***
Venezia, 2010.
Sull’angolo occidentale delle Fondamente Nove e del Rio dei Mendicanti,
davanti all’isola di San Michele, nel secentesco Palazzo Berlendis, vive il conte
Giorgio Dissera Bragadin. È un diretto discendente della nobile famiglia Dissera, un
ramo della quale si era trasferito a Venezia da Montagnana, vicino a Padova, a cavallo
tra il XIX e il XX secolo. Il cognome Bragadin gli fu trasmesso ufficialmente dalla
sua cugina di secondo grado, la nobildonna Cesira Bragadin. Lui e il defunto
comandante Marc’Antonio Bragadin erano cugini di terzo grado. Giorgio Dissera
Bragadin parla in termini entusiastici del suo cugino di terzo grado e, come lui, ha
8 scritto molti libri sulla storia militare di Venezia. Mi ha anche fornito inestimabili
informazioni sulla famiglia Bragadin e per questo desidero esprimergli la mia più
profonda gratitudine. È alto, elegante, meticoloso, ha occhi vispi e un senso
dell’umorismo assai pungente. Una volta, mentre gli stavo dicendo quanto appare
nebbiosa e ambigua la storia umana, egli disse: “Sono d’accordo, figliolo. Ogni volta
che guardo fuori dalla finestra e vedo l’ospedale di fronte a me e il cimitero alla mia
sinistra, non posso fare a meno di rendermi conto di quanto sia molto più chiaro il
futuro rispetto al passato”.
Il 7 ottobre di ogni anno, nel giorno della Madonna del Rosario, Giorgio
Dissera Bragadin guida il rito di commemorazione nella Cappella del Rosario presso
la Basilica dei Santi Giovanni e Paolo. La Madonna del Rosario è una festa che fu
istituita da papa Pio V dopo la battaglia di Lepanto (infatti, originariamente, era
chiamata Madonna della Vittoria) come ringraziamento alla Vergine per la vittoria
cristiana (nel giorno dello storico scontro un corteo del rosario ebbe luogo in Piazza
San Pietro a Roma). Come la festa stessa, la Cappella del Rosario fu creata dopo la
battaglia e decorata con le opere dei più grandi pittori e scultori veneziani del tempo.
Durante il rito, si tiene una messa in suffragio dei soldati veneziani e italiani caduti
non solo a Lepanto, ma in tutti gli altri conflitti militari che hanno visto coinvolte
Venezia e l’Italia. La Basilica dei Santi Giovanni e Paolo è il pantheon di Venezia.
Sopra il portale principale, nella controfacciata, vi sono i monumenti funebri del doge
Alvise Mocenigo I e di sua moglie, che governarono Venezia all’epoca della battaglia
di Lepanto. All’ingresso della Cappella del Rosario spicca con fierezza la statua
bronzea dell’eroico Sebastiano Venier; accanto a essa giacciono le sue spoglie.
Mocenigo e Venier sono solo due dei tanti celebri veneziani che, da diversi secoli,
riposano nella basilica.
Il conte Dissera Bragadin conclude il rito di commemorazione portando
l’attenzione del pubblico su un busto marmoreo collocato in alto sulla parete della
navata destra, vicino all’entrata della basilica. Il busto poggia su un’urna di marmo.
Al di sopra del busto vi è un affresco. Sotto l’urna, fra due colonne, c’è una lapide con
un’iscrizione in latino. A volte, verso mezzogiorno, un’onda di luce entra attraverso le
due vetrate su entrambi i lati dell’urna e ti colpisce negli occhi. Se si osserva la lapide,
si può distinguere la prima riga: DOP. Alcune righe più sotto appare un’altra parola
latina: PELLIS. Fra queste due righe c’è un testo inciso in caratteri piccoli. La prima
riga di questo testo, direttamente sotto DOP, recita: m.antonii bragadeni. Chi visita
per la prima volta la basilica scopre che l’urna contiene la pelle di un capitano
generale veneziano che ha difeso la sua fede e la sua patria durante la guerra di Cipro
del 1571. L’affresco raffigura il suo raccapricciante martirio.
La storia dice che nel 1580, nove anni dopo lo scorticamento di Bragadin, un
soldato veronese di nome Girolamo Polidoro rubò (secondo alcune fonti, acquistò) la
pelle dall’arsenale di Costantinopoli e la diede al bailo veneziano della città, il quale
la restituì alla famiglia Bragadin. La famiglia dapprima la depose nella Chiesa di San
Gregorio a Dorsoduro e in seguito, nel 1596, nella Basilica dei Santi Giovanni e
Paolo, non lontano dalla tomba del poeta Bartolomeo Bragadin, che riposa nella
controfacciata, sulla sinistra per chi entra in chiesa.
Proprio di fronte al monumento di Marcantonio Bragadin, sulla parete della
navata sinistra, si erge una splendida statua dorata di uno sfavillante cavaliere che
schiaccia il nemico sotto il suo cavallo feroce. Si tratta di un monumento funebre in
onore di Orazio Baglioni, un generale perugino che combatté come condottiero per la
Repubblica di Venezia al principio del XVII secolo. La famiglia Baglioni aveva dato
alla luce molti brillanti generali prima e dopo l’assedio di Famagosta. Chissà se le
9 autorità veneziane posero il monumento di Orazio Baglioni di fronte a quello di
Bragadin inconsapevolmente o se, al contrario, lo sistemarono in quella posizione
affinché il capitano generale veneziano godesse della compagnia di un parente del suo
grande amico?
L’urna contenente la cassetta di piombo con la pelle di Marcantonio Bragadin
è, come ci si potrebbe aspettare, un argomento assai delicato per Giorgio Dissera
Bragadin. Ma non solo perché il conte porta il cognome dell’immortale martire
veneziano.
Nel 1961, in occasione del restauro del monumento, fu organizzata una
ricognizione volta a identificare il contenuto della cassetta. La cassetta fu prelevata
dall’urna e aperta davanti a un gruppo di autorità ed esperti.
Ecco che cosa fu trovato:
a) fiocchi di fibre probabilmente di cotone greggio. Il loro colore è bianco
giallastro. Al tatto sono leggermente untuosi;
b) una massa rotondeggiante della forma approssimativamente d’un cranio
umano; il suo colore è bruno con diverse gradazioni. Essa è costituita da una sostanza
il cui spessore è quello di una pelle umana disseccata. Riveste un ammasso di paglia
dello stesso colore; è in parte sgretolata;
c) vari piccoli frammenti di sostanza brunastra che, esaminati, rivelano portare
ancora qualche resto di peluria;
d) un frammento più grande della stessa sostanza, recante una piccola, netta
cicatrice da taglio. Il frammento viene identificato per pelle umana;
e) ciocche di capelli umani, ottimamente conservati, di un bel biondo
tizianesco scuro, ondulati;
f) un frammento di tela grezza, cucita grossolanamente con spago;
g) un pezzo di spago perfettamente conservato, lungo circa dieci centimetri,
ritorto ancora nella forma di un’antica cucitura destinata a congiungere due lembi di
stoffa o di pelle. Non rimane però traccia del materiale su cui la cucitura fu effettuata;
h) una falangetta del mignolo (ritrovamento corrispondente alle relazioni sul
Martirio, nonché al verbale di chiusura della spoglia nella cassetta, nell’anno 1596);
i) abbondante paglia, ben conservata, di colore bruno, che al tatto risulta
impregnata di sostanza leggermente irritante;
l) vari frammenti di pelle di diversa grandezza; molta polvere di color bruno
che si mescola ovunque alla paglia e copre il fondo della cassetta (presumibilmente
resti della pelle).
Il contenuto fu poi riposto nella cassetta e la cassetta riposta nell’urna.
Se leggiamo il verbale della ricognizione scopriamo che il documento inizia
con l’intestazione che descrive l’oggetto identificato (la cassetta contenente i resti di
Marco Antonio Bragadin 25.4.1525 – 17.8.1571), la data e l’ora (sabato 25 novembre
1961 alle ore 11) e il luogo (Basilica dei SS. Giovanni e Paolo, in Venezia). Poi
elenca le personalità presenti:
1. P. Angelo M. Caccin – Superiore del Convento
2. Sac. Alberto Furlan – Segretario della Cancelleria Patriarcale
3. Prof. Ignazio Muner – Direttore degli Ospedali Civili
4. Arch. Renato Padoan – Vicedirettore della Sovraintendenza ai Monumenti
5. Geom. Elio Zecchini – Assistente alla Sovraintendenza ai Monumenti
6. Prof. Napoleone Martinuzzi – Ispettore Onorario alla Sovraintendenza ai
Monumenti
7. Com.te Marcantonio Bragadin fu Alvise, N.H. Patrizio Veneto
8. Dott. Gianmarco Bragadin di Marcantonio, N.H. Patrizio Veneto
10 9. N.H. Giovanni Nenna
10. Maria Grazia Siliato, scrittrice
11. Milena Splendore
Il verbale descrive poi il processo di identificazione stesso (esame della
cassetta, i dieci reperti summenzionati, ecc.) e si conclude con la seguente frase: “Nel
frattempo, molte fotografie sono state scattate da Gian Marco Bragadin di
Marc’Antonio”. Sotto questa frase finale ci sono cinque firme, chiaramente
appartenenti a cinque delle undici personalità presenti durante l’identificazione.
Se uno storiografo oggi desiderasse sapere chi era presente durante
l’identificazione del contenuto della cassetta, prenderebbe il verbale scritto e
guarderebbe all’inizio del documento gli undici nomi dattiloscritti, non le cinque
firme in calce della seconda pagina, alcune delle quali peraltro non perfettamente
leggibili. Le firme verrebbero esaminate solo per qualche altro scopo (autenticazione,
studio calligrafico, ecc.)
Ma se qualcuno volesse in effetti esaminare le firme, e la loro rispondenza ai
nomi dattiloscritti all’inizio del documento, noterebbe una cosa molto strana. Quattro
delle cinque firme corrispondono ai nomi dattiloscritti: Maria Grazia Siliato,
Marc’Antonio Bragadin, Milena Splendore e Giovanni Nenna. Ma una firma non
corrisponde. Mostra un nome che non è inserito nell’elenco delle undici personalità. È
la firma di Giorgio Dissera Bragadin.
Ma come? Come può esserci la sua firma sul documento se non era presente
durante la procedura di identificazione? In realtà era presente, come del resto egli
afferma, ma fu per errore tralasciato dalla persona che stilò il verbale.
Che cosa significa questo dunque: che non ci si può fidare completamente dei
documenti storici? Che la storia viene scritta con intenti soggettivi? Che il
ragionamento umano è un processo fallibile?
A seconda delle convinzioni (o della professione) di ognuno – tutto, qualcosa
o niente di cui sopra. Una cosa è certa, comunque: in assenza di una prova empirica
assolutamente esatta e affidabile, la verità la si raggiunge non attraverso l’analisi
logica dei fatti che la circondano, ma attraverso le facoltà dell’intuizione, della
credenza e dell’immaginazione.
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