Untitled - aedobooks
Transcript
Untitled - aedobooks
Table of Contents EDITORE: AEDO BOOKS 3 AUTORE: MARCO GREGORI 4 SINOSSI 5 ALBERTO SAVINIO: OPERE 6 MITO E PAROLA 13 METAFISICA VOLGARE COME TEOLOGIA DEI POETI 23 MITOPOIESI ETIMOLOGICA, ETIMOLOGIA MITOPOIETICA 31 IL MITO DELL'INDIFFERENZIATO 45 2 EDITORE: AEDO BOOKS AUTORE [MARCO GREGORI] EDITORE [AEDO BOOKS] Copyright © 2014 [AEDO BOOKS] PRIMA EDIZIONE ELABORATA CON PAPYRUS, 2014 PROPRIETA' ARTISTICHE E LETTERARIE RISERVATE 3 AUTORE: MARCO GREGORI L'autore dice di se stesso: "uno che non si crede nessuno, ma non la pensa come centomila!". 4 SINOSSI Alberto Savinio mira a rendere proprio il mito, dopo averlo sdradicato dalla inerte fissità in cui lo ha relegato la letteratura, che ne ha depauperato l’abbondanza semantica fino a disperderne il significato originale, pietrificandolo in statua. L’artista instillerà il soffio vitale a queste marmoree sculture, le aiuterà a muoversi fino a farle camminare, liberandole dalla loro eterna sincronia olimpica e immergendole nell’inesorabile diacronia del tempo storico attraverso una parafrasi mitopoietica. Savinio riconosce nella mitologia un linguaggio e nei singoli miti che la compongono lo status di parole: l’artista ha la potenziale facoltà, l’ineccepibile diritto, la straordinaria possibilità di muovere le seconde e ricreare i primi, rielaborandoli. 5 ALBERTO SAVINIO: OPERE Suo fratello Giorgio De Chirico si elevò a Pictor Optimus; il suo amico Guillaume Apollinaire si autodefinì Il Poeta assassinato; il suo grande estimatore Andrè Breton considerò I Dioscuri Giorgio e Andrea come "padri del surrealismo": nel nostro piccolo, ci permettiamo di eleggere Alberto Savinio "Artista Nuovo". Partendo dall'assunto saviniano secondo il quale l'intelligenza creativa di un artista è più profonda, cioè precorre il criterio specifico di ogni singola arte, è sciocco e ingiusto assoggettarsi ai suoi principi peculiari, alle sue persuasioni individuali. Questo impianto teorico globale si concretizza in un metodo artistico in cui ogni gesto creativo, non importa se letterario, pittorico o musicale, possiede una tensione verso la conoscenza di un volto ogni volta (e ora solo) specifico della veridicità intima del reale, ma che istantaneamente rinvia ad un'idea universale del mondo. L'unità della cosmo creativo saviniano, nella quale continui rimandi interni legano immagini pittoriche, passaggi letterari e composizioni musicali è generata dal vigoroso carattere intellettivo della sua arte. L'aggettivo "intellettivo" corrisponde ad attribuire all'arte esercizio non di vacuo estetismo ma di consapevolezza nella ricerca del vero, di conoscenza filosofica ovvero mentale del mondo nella sua totalità, ponendo così in crisi l'ideale decadente di "unità delle arti". Ogni tema affrontato da Savinio, alla luce della complessità del suo stile e della sua erudizione, delle innumerevoli relazioni, deviazioni, rimandi disseminati in tutta la sua opera, richiede uno studio multiforme che accolga varie forme d'arte. Un'elocuzione biografica sul minore dei fratelli De Chirico equivale a una dissertazione sul suo sapere, sulla funzione che ha ricoperto nel mondo culturale europeo del ventesimo secolo, sulla sua teoria artistica e sulla sua poliedrica produzione. 6 Nato in Grecia nel 1891, trasferitosi in Baviera, vissuto con movimento pendolare tra Parigi e varie città italiane, Andrea Alberto trarrà i benefici di questo "nomadismo" che gli donerà favorevoli, efficaci, proficui scambi culturali. Dodicenne si diplomerà in pianoforte e composizione in terra ellenica, perfezionandosi a Monaco con il "Bach Moderno" Max Reger, per poi raggiungere il fratello Giorgio nella Ville Lumière. Questo primo soggiorno parigino sarà fertile di conoscenze, da Apollinaire a Jacob e da Picasso a Cocteau. L'esordio artistico nella capitale transalpina è caratterizzato da una densa attività musicale in veste di compositore, esecutore, teorico. Nel 1912 si dedica alla scrittura dell'opera buffa Le trésor de Rampsenit lasciandola incompiuta e l'anno successivo compone la musica per il balletto drammatico La mort de Niobé; negli stessi mesi termina il saggio concettuale Le drame et la musique. Nel 1914 crea la corrente musicale del "sincerismo", teorizzando disegni sonori disarmonizzati. Nel medesimo anno debutta in letteratura con il poema drammatico Les chants de la mi-mort, opera che rivela un'accentuata personalità e palesa stilisticamente e strutturalmente caratteristiche protodadaiste e protosurrealiste. Essendosi arruolati come volontari, nel 1915 i "Dioscuri" fanno ritorno nel bel paese e vengono inviati a Ferrara. Nella città estense, incoraggiati da Papini e coadiuvati da Carrà, fondano il movimento pittorico più importante del novecento italiano: la "Scuola metafisica". Prontamente si uniranno a questa esperienza anche De Pisis e Morandi. Nel 1916 Savinio scrive sulla rivista "La Voce" mentre nel 1918, per la casa editrice omonima, pubblica il romanzo Hermaphrodito: si tratta di un'opera plurilinguistica e multigenere che rappresenta il preludio, costituisce la fonte di tutta la produzione successiva per l'abbondanza di stili e tematiche. Nel 1920 esce il suo secondo romanzo, La casa ispirata: in questa opera Savinio espone le sue considerazioni sulla mostruosità del reale e sull’aura funerea che lo invade. Da questo scritto il tema della morte diventa prevalente in Savinio anche se qui le considerazioni sull’argomento non sono pervase dall’angoscia. 7 Dello stesso anno è la redazione finale di Tragedia dell’infanzia: diversi episodi autobiografici spiegano il conflitto e l’incomunicabilità fra l’universo infantile e il mondo degli adulti. Il libro è imperniato sulla problematica della relazione fra infanzia ed espressione artistica e sull’educazione-repressione della fantasia. Nel 1925 Savinio e De Chirico iniziano la collaborazione al "Teatro d’arte" di Pirandello: per Alberto è l’occasione di volgere di nuovo l’attenzione al teatro, da lui considerato la sede ideale dell’espressione artistica nella quale convergono la musica, la letteratura, le arti visive. Ancora nel 1925, Con l’obiettivo di una pronta messa in scena, scrive il dramma Capitano Ulisse, pubblicato in volume nel 1934, che verrà rappresentato solo nel 1938 a causa dei noti problemi della compagnia del "Maestro" siciliano; lo stesso "Nobel" per la letteratura definirà questo dramma tripartito come un’opera di ironia lirica sull’eterno mito dell’inquietudine di Ulisse. Il testo teatrale saviniano consiste in una originale rielaborazione del mito odisseo in chiave moderna. Nel 1926 il poliedrico artista redige il romanzo Capri che rilegge in forma parodistica il genere delle prose di viaggio. Questo scritto è un vademecum ma non ha nulla del prontuario turistico: l’isola diviene un luogo leggendario conchiuso nel mito e circondato da acque abitate da straordinari esseri mostruosi in un’atmosfera surreale che visivamente riporta agli scenari pittorici bockliniani. L’anno in corso registra il matrimonio con Maria Morino e l’inizio del secondo soggiorno nella capitale francese dove Savinio rende molto intensa la sua produzione pittorica che l’anno seguente sublimerà nella sua prima mostra personale, presentata dall’amico Jean Cocteau. Il 1927 vede anche la pubblicazione del romanzo dall’architettura e dal soggetto teatrale Angelica o la notte di maggio, opera nuovamente di parodia (questa volta dei romanzi d’appendice) intrisa di ambigua simbolicità: la rivisitazione mitica questa volta pervade con lumi surreali la leggenda di Amore e Psiche. Nel 1928 nasce la sua primogenita, che si chiamerà proprio Angelica e non a caso: la valenza simbolica del nome richiama Ariosto e Savinio stesso. Nel 1929 appare su una rivista parigina il racconto in francese 8 Introduction à une vie de mercure, che si considera lo scritto stilisticamente più affine alla corrente surrealista, nella quale Savinio non si è mai fatto circoscrivere, rivendicando la sua precipua e originale missione di dare "forma all’informe e coscienza all’incosciente": in questa opera la fantasia corre libera dando vita ad un umorismo dissacrante. Il 1933 segna il definitivo rientro in Italia dei Savinio ed è l’inizio di un lustro durante il quale Alberto, cambiando spesso il luogo in cui vive fra Torino e Milano (nel 1934 nascerà il secondogenito Ruggero) si dedica principalmente alla pittura ed intensamente alla letteratura. Nel 1938 viene edita la raccolta Achille innamorato (Gradus ad Parnassum), contenente i racconti pubblicati in giornali e riviste tra il 1919 e il 1937: le narrazioni hanno nitidi accenti surrealisti o rivisitano i miti classici tra il registro tragico e quello grottesco reinventandoli. Nel 1940 esce Dico a te, Clio, un diario di viaggio nell’Italia centrale in cui gli appunti danno spunto a un esteso discorso sulla memoria collettiva e a un personale approfondimento del concetto di storiografia: il gusto per la divagazione argomentativa diviene il nucleo centrale del testo dissolvendo savinianamente il soggetto originario del libro. Nel 1941 Savinio pubblica Infanzia di Nivasio Dolcemare, romanzo dedicato alla fanciullezza, chiaramente autobiografico: è la narrazione briosa e divertita della sua formazione individuale ed artistica, ambientata in atmosfere densamente magiche e costellata di efficaci caratterizzazioni psicologiche dei personaggi. Nel 1942, con Narrate, uomini, la vostra storia, Savinio contribuisce all’innovazione della storiografia arricchendola di un biografismo "semiimmaginario", ponendo in evidenza la posizione dialettica del suo punto di vista rispetto a quello tradizionale. Mantenendo il riguardo verso le fonti, egli evita l’immobilizzazione descrittiva dei personaggi rivitalizzando le latenti potenzialità biografiche mai colte nelle precedenti cristallizzazioni dei protagonisti. Nel 1943 Savinio dà alle stampe la raccolta di novelle Ascolto il tuo cuore, città, omaggio alla Milano reale e a quella ideale, la prima ricca di viali, larghi, architetture, la seconda di valori sociali e culturali positivi. Questa opera è rilevante anche sotto l’aspetto stilistico: l’autore traccia il 9 raggio d’azione della componente strutturale del suo umorismo, ovvero la freddura. Di nuovo nel 1943, esce a puntate su un periodico la biografia Vita di Enrico Ibsen, assolutamente saviniana nell’infuocato soliloquio in qui il drammaturgo norvegese è il silente interlocutore. In questo scritto si muovono parallelamente il nucleo autobiografico e una costellazione dei temi più eterogenei, ma il pedale armonico, l’argomento viscerale è sempre quello della funzione e del senso dell’arte relativamente alla scelta del “reale” da rappresentare. Lo stesso anno vede la pubblicazione dei racconti di Casa "La Vita", che rappresentano la sintesi delle sue riflessioni riguardanti i temi del tetragono Infanzia-Tempo-Morte-Mito opposto, in termini geometrici, alla ipocrita fissità della perfezione del cerchio-borghesia. Savinio mette in scena le grandi paure e i tabù della società borghese: il tempo che passa inesorabile, il sesso e principalmente la morte. Caratteristiche, in questa raccolta, sono le alterazioni linguistiche, vere e proprie deformazioni all’insegna dell’ambiguità dell’espressione verbale che costituiscono le linee principali della "poetica del lapsus", uno dei pilastri della sua arte. Nel 1944 Alberto pubblica La nostra anima, testo all’insegna della personalissima rielaborazione mitologica, nella fattispecie del mito di Eros e Psiche, illuminando la rivisitazione con una surreale e grottesca psicoanalisi. Lo scritto fornisce la chiave di lettura e di riproposizione saviniana dell’opera di Freud, con particolare attenzione all’analisi del linguaggio. Nel 1945 è la volta di una nuova raccolta di racconti, intitolata Tutta la vita, che rappresenta una esposizione di caricature dove il sistematico cavar fuori umoristico è utilizzato per scovare il contraddittorio, il meschino, il falso della società borghese. Nell’intervallo fra il 1949 e il 1952 scrive sul "Corriere della sera" racconti che saranno pubblicati in un volume postumo dal titolo Il signor Dido. Come in un romanzo del fratello Giorgio "Il signor Dudron" è il gemello del maggiore dei De Chirico, qui "Il signor Dido" è l’alter ego di Savinio. Questo ritratto dell’artista maturo è dialettico rispetto a quello dell’infanzia di Savinio-Nivasio, ma i due termini sono legati da riferimenti, equivalenze, analogie tra le quali corre sul filo, in equilibrio, una comune verità: la ricerca dello "psichismo delle forme" come senso 10 della propria arte. Con questa sorta di atto testamentario artistico e spirituale, Alberto Savinio scompare a Roma il 5 maggio 1952. L’attività saggistica e giornalistica di Savinio è raccolta in vari volumi di argomento letterario, musicale, teatrale, cinematografico, politico. Nuova enciclopedia raccoglie articoli scritti negli anni quaranta: questa enciclopedia "a suo uso personale" si presenta come un perfetto autoritratto, ma anche come un ritratto della nostra civiltà, giunta al punto in cui deve riconoscere che il sapere non è più univoco senza fingere una coerenza abbandonata da tempo. Souvenirs raggruppa scritti degli anni venti e trenta riferibili in prevalenza al secondo soggiorno parigino, ricchi di memorie personali e pagine di critica, ma soprattutto sono una doviziosa testimonianza sulle avanguardie. Scatola sonora rappresenta l’insieme delle recensioni in forma di riflessione critica sulle musiche ascoltate, vissute e rivissute nella memoria, degli anni trenta e quaranta: hanno un forte senso autobiografico e rispecchiano una strada percorsa alla ricerca di un insondabile segreto che la musica cela in sé ma che mai rivela nella sua totalità. Palchetti romani mette insieme critiche teatrali che testimoniano la continuità del suo interesse per questa forma espressiva: spiccano per la loro originalità ma anche per un’irriverenza che valica i limiti dell’eversione. Il sogno meccanico è una raccolta tripartita di soggetti, riflessioni, recensioni sul cinematografo. La presente è un saggio sull’amore-odio di Savinio per il cinema. Come il sogno, il cinema è per sempre perduto e non dona né una piena felicità né il contrario: rimanendo sospeso in una finzione generata meccanico. meccanicamente diventa, appunto, un sogno I n Sorte dell’Europa sono raccolti gli articoli di politica, in cui viene esposto il pensiero saviniano di una politica condotta dall’intelligenza critica, contro ogni dogmatismo. Alberto Savinio ha scritto anche importanti prefazioni. La più corposa, 11 Maupassant e l’Altro, edita nel 1960 a cura di Giacomo Debenedetti, faceva parte dell’edizione del 1944 dei Venti racconti di Guy de Maupassant con lui e l’altro di Alberto Savinio. Anche in questo saggio il dato autobiografico prende il sopravvento: lo studio dell’isolamento dello scrittore francese, "altro" rispetto alla cultura coeva, diviene l’analisi dell’attività di Savinio e in ultimo riflessione sulla realtà stessa. Per completare la trattazione biografica di Alberto Savinio registriamo l’intensa attività teatrale e musicale svolta dal dopoguerra fino alla prematura scomparsa dell’artista. Dal 1948 con il teatro "Alla Scala" di Milano come regista e scenografo curando la messa in scena dell’Oedipus Rex di Cocteau e Stravinski, dei Racconti di Hoffmann di Offenbach, dell’Uccello di fuoco di Stravinski e dell’Armida di Rossigni. Pubblica vari testi teatrali: La famiglia Mastinu, in cinque atti, nel 1948; Emma B., vedova giocasta, monologo del 1949; l’Alcesti di Samuele, tragedia, ancora nel 1949; Orfeo vedovo, opera in un atto; nel 1950; Agenzia Fix, opera radiofonica, dello stesso anno; Vita dell’uomo, tragicommedia di balletto e mimo, nel 1951. 12 MITO E PAROLA (…) nella lingua di Omero mito significa semplicemente parola. Gli eroi di Omero parlano con voi e me, solo che usano miti come noi usiamo parole. L’errore è di chi legge e non sa ritrovare la sinonimia tra miti e parole. Alberto Savinio, Casa La Vita Il complemento mitologico incarna uno dei punti focali del linguaggio artistico di Alberto Savinio: la mitologia corrisponde al linguaggio, il mito equivale alla parola, la rappresentazione plastica e pittorica di dèi ed eroi coincide con l’ideogramma e la loro immagine letteraria a un geroglifico. La concezione saviniana della lingua omerica ruota intorno alla sinonimia tra mito e parola ed è tesa a smentire la definizione “mitismo omerico”, illusoria e insipiente interpretazione dell’autentica virtù di quella lingua come idioma simbolico per antonomasia, capace di ammantare l’interiorità umana rendendola percepile ai sensi: l’intimità dell’animo, i sentimenti e i pensieri vengono espressi come se fossero esperienze sensoriali, avvenimenti del mondo esterno. I n Non forono miracoli né Omero né Virgilio, Savinio fornisce la sua interpretazione della lingua e dell’uomo di Omero considerando la prima alla stregua, potremmo dire, di un mosaico in cui i singoli vocaboli rappresentano le tessere, il secondo come un obelisco con i geroglifici sulle pareti: Il pensiero nelle sue forme logiche comuni a noi europei è sorto presso i Greci, e da quel tempo è considerato come l’unica forma possibile di pensiero. Esso senza dubbio ha un valore determinante per noi europei, e quando noi lo usiamo nelle speculazioni filosofiche e scientifiche, si libera da ogni relatività storica e tende verso valori incondizionati e duraturi, in una parola verso la Verità. E non soltanto tende alla Verità, 13 ma raggiunge anche il Duraturo, l’Incondizionato, il Vero. Pure, e più di quanto comunemente si pensa, questo pensiero è qualcosa di storicamente “divenuto”. 1 Così comincia l’introduzione del libro di Bruno Snell "La cultura greca e le origini del pensiero europeo" (ed. Einaudi). A riga 9, su la parola “divenuto” chiusa fra virgolette, io mi fermai. La qualità del libro e la forma mentale del suo autore mi erano apparse di colpo. Pensai: qui andiamo bene. Avevo capito che non si trattava del solito filologismo "classico", che rimira le opere e le civiltà letterarie come altrettanti cadaveri imbalsamati, ma di filologismo vivo e penetrante, e al quale la psicologia del profondo ha dato un indirizzo e delle vedute che prima gli mancavano. Diciamolo subito: il libro di Bruno Snell è l’analisi filologica e assieme psicologica di quella parte di storia letteraria che parte da Omero e arriva a Virgilio, e che nella struttura della cultura europea è ciò che il granito è nella struttura del globo terrestre. Questo libro mostra prima di tutto il mondo omerico; poi mostra gli acquisti che fa la mente greca passando dalla "condizione omerica" a quella dei lirici e dei tragici; infine mostra i nuovi acquisti e soprattutto gli adattamenti che fa la mente greca entrando nella mente latina e animandola di sé, e come da questa "edizione" latina della mente greca nasce e si forma il pensiero europeo. In altre parole, il libro di Bruno Snell è la storia dei fondamenti della vita mentale dell’Europa. (…) Bruno Snell è professore di letteratura greca all’Università di Amburgo. Filologo agguerritissimo e penetrante, e assieme intelligenza multiforme e profonda. (…) E mente libera: fondamentale qualità di Snell. Questi suoi studi letterari dimostrano quanto utile è la libertà di mente nonché a un grande dilettante come luciano di Samosata, come Voltaire, come Stendhal, ma anche a uno specialista di filologia. Snell apre porte e finestre nella storia dell’uomo, così come le apre Darwin, come le apre Freud. Solo che non si serve di osservazioni sulla catena della specie, di sondaggi nel 14 subcosciente, ma del diverso significato che una stessa parola ha sotto la penna di Omero, sotto quella di Saffo, sotto quella di Euripide. E già mi sento arrivare la lettera dell’assiduo lettore, che mi dirà che né Omero né Saffo né Euripide usavano la penna. Tanta finezza, nel filologismo tedesco finora io non l’avevo mai trovata. Presentare Virgilio come iniziatore della reverie e del sentimentalismo, Orazio come primo esempio dell’oligarchismo letterario che trae sua boria da privilegi incerti e anzi inesistenti, ieri sarebbero parse considerazioni poco serie; e sono proprio esse che ti mettono al vero certi personaggi. E da noi? Anche la filologia, da noi, come tante altre cose è in stato predarwiniano. Dico: è, non dico: è ancora. Io non penso che in futuro questo stato muterà. Questo stato è determinato da qualità di razza, e le qualità di razza non mutano. O almeno, se mutamento c’è, esso nella nostra prospettiva umana non appare. Che la filologia nostrana mi presenti l’Iliade, l’Odissea, i lirici, i tragici della Grecia come altrettanti miracoli, a me non dice nulla. Uomo, io voglio vedere come avvengono le cose che fanno gli uomini. E questo la filologia nostrana non me le fa vedere. Il vocabolario di Omero ha i vocaboli corrispondenti i vari pezzi di un mondo frammentario; gli mancano i vocaboli che esprimono l’idea di anima, di spirito; gli mancano altresì i vocaboli che designano il corpo umano nel suo insieme. Già Aristarco, il filologo alessandrino, aveva stabilito il principio fondamentale della interpretazione della lingua omerica: evitare di tradurre i vocaboli omerici secondo il greco classico, sottrarsi nella interpretazione del greco omerico alla influenza delle forme più tarde della lingua. Ma nessuno che io sappia, prima di Bruno Snell aveva così attentamente studiato le voci del vocabolario omerico, misurato la "portata" del loro significato, riconosciuto mediante l’analisi delle voci la condizione psichica del mondo omerico: la condizione psichica di un mondo precedente l’invenzione della psiche. La stessa parola soma (corpo), in Omero non designa il corpo dell’uomo vivente, ma il cadavere. Mancano parole per il corpo come tale; ci sono parole solo per le varie parti del corpo. Mancano parole corrispondenti a braccia o gambe: ci sono parole solo per la mano, l’avambraccio, il 15 braccio, il piede, la parte inferiore della gamba, quella superiore. Eguale frammentarietà – eguale "disgiunzione"- a riguardo dell’anima. Che cosa è l’uomo omerico? Particelle staccate l’una dall’altra, come i geroglifici sulle pareti dell’obelisco. E tutte in primo piano, tutte nella stessa luce. 2 I n Snobistica, dannunziana era la lingua d’Omero, Savinio analizza ulteriormente la lingua omerica, in un originale ossimoro saggistico in cui i termini apparentemente opposti sono l’ironia dell’autore e il rigore del linguista: Intorno ai poemi omerici si è formato, anche più spesso che intorno ad altri monumenti della poesia universale, quel rivestimento abbellitore che Stendhal chiama cristallizzazione. Molti, che malgrado così frequenti e dure lezioni, professano ancora il culto del bello, mirano quello scintillante rivestimento con rispetto e ammirazione, né chiedono altro. Me, la superficie cristallizzata mi annoia; cerco perciò di aprirla e di guardare sotto. Curiosità infantile. Certuni dicono morbosa. Non è più morboso lasciarsi affascinare da una superficie lustra? Al popolo, questo grande anonimo, questo grande impersonale, si riconoscono tutte le virtù. (…) Per le ragioni dette qui sopra, molti amano – dicono di amare – la poesia di Omero, perché direttamente sgorgata dalla vena popolare, ingenua, schietta, pura di inquinamenti letterari, intellettualistici. E se poesia c’è che non si meriti queste lodi (se lodi sono) questa è la poesia di Omero. A cominciare dalla lingua. Lingua quanto altra mai letteraria. Lingua diversa dagli idiomi parlati in quel tempo nelle varie città della grecia. Lingua che scarta come indegna la parola propria (kurion) e usa parole insolite, estranee alla lingua parlata (glottai). Lingua snobistica. Aristotele, del resto, nella Poetica dice che proprio queste sono le qualità del linguaggio poetico. E ha ragione. Aristotele non aveva ancora letto Rimbaud. Lingua, in una parola, dannunziana. In parte oscura. (Per rarità di vocaboli, non per profondità di concetti). Tanto più ammirata dunque. Più bella la poesia, più alta, se velata. Precetto caro anche agli ultimi snob della poesia (Valery). Lo stesso Aristotele, della parola multipla, che tanta parte ha nella meccanicità della lingua omerica (“cielo multispecie”, “terra alticime”, 16 “poveròmuso lusingatore”) dice che la parola multipla non è della lingua parlata, ma è formata apposta, scientificamente e artificialmente, per la lingua poetica; e se ha detto “meccanicità”, è perché la parola multipla, nella lingua di Omero è più che un qualificativo, è un attributo fisso di uomini e cose, come il pepe e lo zucchero in cucina, a seconda che si tratti di melanzane alla parmigiana o di crema caramella. Lingua non popolare, ossia non realistica e non pittoresca, usata per dare forma ed espressione a una poesia non popolare, ossia non realistica e non pittoresca. Poesia e lingua fatte non per il popolo, ma per un aristocrazia. Fatte è meno improprio, meno volgare di quanto si può credere. La poesia di Omero era recitata dagli aèdi. (…) Gli aèdi erano organizzati in corporazioni, e, nonché recitatori, erano impresari teatrali di se stessi. Portavano nella poesia anche alcuni mutamenti, a seconda del castello, dell’umore del castellano, del linguaggio più familiare al castellano. (…) Aggiungo che la lingua d’Omero non conosceva l’articolo: non era ”scesa” all’articolo. Il che concorreva a tenerla su un tono alto e generale, su un tono astratto, e a salvarla dal particolarismo di quaggiù. (…) Ho parlato soprattutto dell’Iliade, rutilante omaggio alla maggiore vittoria del colonialismo greco. Poesia di guerra e di guerrieri. Poesia armata e chiusa nelle sue armi. Poesia tutta verticale. Senza una finestra sui lati. Tutta “classica”. I conquistatori freschi di conquista sono contenti di sé. Non guardano di lato – non hanno bisogno di guardare… di guardarsi di lato. E se muoiono, ils meurent sur place. Senza lasciarsi fantasma dietro. Così l’aristocrazia, nel suo stato di validità. Diversa l’Odissea, molto diversa. “radicalmente” diversa. C’è nell’Odissea un elemento che all’Iliade manca: il senso romantico della vita. E l’Odissea è tutta orizzontale. E con tutti gli occhi guarda di lato. Non sicura di sé, non contante di sé. Cerca, aspetta (…) È poesia per coloro che desiderano, aspettano. 3 L’analisi saviniana corre parallela alla lettura che rispettivamente, Gotthold Ephraim Lessing nel Laocoonte… ne danno, La sua imitazione [del poeta] progrediente gli consente infatti di toccare d’un sol tratto un unico lato, un’unica proprietà dei suoi oggetti corporei. Ma se la felice organizzazione della sua lingua gli permette di farlo con un’unica parola, perché di tanto in tanto aggiungerne una seconda? 17 Perché, se ne vale la pena, non anche una terza? O addirittura una quarta? Ho detto che per Omero, ad esempio, una nave è solo una nave nera, o una nave cava, o una nave veloce, tutt’al più una nave ben equipaggiata di remi. E’ da intendersi della sua maniera in generale. Qui e là si trova anche un passo in cui aggiunge un terzo epiteto pittorico: le ruote rotonde, bronzee, a otto raggi. Anche un quarto: uno scudo tutto rotondo, bello, di bronzo, lavorato a martello. Chi può biasimarlo per questo? Chi non gli sarà grato invece per questa piccola ridondanza, quando sentirà che buon effetto può avere in pochi e opportuni passi. Ma non voglio trarre la giustificazione vera e propria del poeta e del pittore dalla similitudine dei due buoni vicini sopra riportata. Una mera similitudine non dimostra e non giustifica nulla. Questo deve giustificarli: così come là, nel pittore, i due diversi momenti sono così vicini ed immediatamente confinanti che possono valer senza disturbo per uno solo, così anche qui nel poeta i molti tratti per le diverse parti e proprietà nello spazio si susseguono così rapidamente e in una così serrata brevità che crediamo di udirli in un solo momento. E qui, io dico, ad Omero torna enormemente utile la sua stupenda lingua. Essa non solo gli consente ogni possibile libertà nell’accumulazione e nella composizione degli attributi, ma ha anche per questi attributi accumulati un così felice ordinamento che si ovvia con questo alla svantaggiosa sospensione del loro riferimento. Le lingue moderne mancano completamente di più d’una di queste facilitazioni. (…) Ma mi soffermo su piccolezze, e pare che io voglia dimenticare lo scudo di Achille; questo famoso quadro, in virtù del quale Omero soprattutto è stato considerato sin dall’antichità un maestro della pittura. Uno scudo, si dirà, è certo un oggetto corporeo singolo la cui descrizione secondo le sue parti l’una accanto all’altra, non dovrebbe essere consentita al poeta? E questo scudo Omero l’ha descritto in più di cento splendidi versi, la sua materia, la sua forma, tutte le figure che ne riempivano l’enorme superficie, in maniera così dettagliata che all’artista non fu difficile farne un disegno concordante in ogni parte. Io rispondo a questa obiezione particolare… che vi ho già risposto. Omero infatti non dipinge lo scudo come un qualcosa di perfettamente compiuto ma come qualcosa in divenire. Egli dunque si è valso anche qui del lodato artificio di trasformare gli elementi coesistenti del suo oggetto in elementi consecutivi, creando in tal modo dalla noiosa pittura di un corpo il vivido 18 quadro di un’azione. Noi non vediamo lo scudo ma il divino artefice che lo forgia. Egli si avvicina alla sua incudine con martello e tenaglia, e dopo aver dirozzato le piastre, le figure che egli ha destinato ad adornarlo, sgorgano dal bronzo l’una dopo l’altra, davanti ai nostri occhi sotto i suoi finissimi colpi. Non lo perdiamo più di vista sino a che non è finito tutto. Adesso è pronto, e noi restiamo attoniti per quest’opera, ma con il fiducioso stupore di un testimone oculare che l’ha vista creare. 4 E l’amato Friedrich Nietzsche ne La nascita della tragedia… Per il vero poeta la metafora non è una figura retorica, bensì un’immagine sostitutiva che gli si presenta concretamente, in luogo di un concetto. Per lui il carattere non è affatto un tutto composto da singoli tratti cercati qua e là e messi insieme, bensì una persona insistentemente viva davanti ai suoi occhi, che si distingue dall’uguale visione del pittore soltanto per il suo continuare a vivere e ad agire. Perché Omero descrive con tanta più evidenza di tutti gli altri poeti? Perché intuisce tanto di più. 5 Ravvisando nella greco omerico una lingua simbolica, Savinio riconosce nella mitologia un linguaggio e nei singoli miti che la compongono lo status di parole: l’artista ha la potenziale facoltà, l’ineccepibile diritto, la straordinaria possibilità di muovere le seconde e ricreare i primi, rielaborandoli. Il carattere “divenuto” del pensiero greco è spiegato dal minore dei De Chirico nel passo conclusivo de Non furono miracoli né Omero né Virgilio: Questa incompleta condizione dell’uomo omerico giustifica l’assistenza assidua, costante della corte olimpica; la quale, come il cacio sui maccheroni, sparge su quella incompleta umanità ciò che la completa e la abbellisce: i sentimenti e gli altri prodotti dell’anima e dello spirito. Quadro degno di meditazione. Ed è ben divertente, è ben confortante vedere poi l’uomo come a poco a poco raccoglie da sé le sparse membra, le unisce, compone la propria unità di scheletro, di carne; e poi ci aggiunge dentro quei condimenti che prima gli erano largiti dagli dèi; e finalmente, come Pinocchio che da burattino diventa uomo, comincia a muoversi da sé, a sentire da sé, a pensare da sé. 19 Autonomia! Indipendenza! E gli dèi lassù su l’Olimpo, come i fiori dopo la festa, rimangono ad appassirsi nei vasi. 6 Nella chiusa, l’analisi saviniana sembra ispirata, ancora una volta, alle considerazioni di Nietzsche: L’epos omerico è la poesia della cultura olimpica, con cui essa ha intonato il suo canto di vittoria sui terrori per la lotta dei Titani. Ora, sotto il prepotente influsso della poesia tragica, i miti omerici rinascono trasformati, mostrando in questa metempsicosi che frattanto anche la cultura olimpica è stata vinta da una concezione del mondo ancora più profonda. 7 I geroglifici omerici campeggiano sul loro obelisco come le idee partecipano alla pittura di Alberto Savinio, quasi fosse un ideogramma. Elio Vittorini, nell’articolo "Mostre fiorentine", di Savinio sottolinea chiaramente questo aspetto: Si guardino [di Savinio] soprattutto i disegni. Di un segno lieve e pur folto, che rende i volumi con una densità di sfumato impalpabile e come in un’atmosfera di cipria, più che “visioni” di cose, si direbbero “associazioni” di idee. Di idee che abbiano preso corpo in cose visibili, idee culturali, magari storiche, magari filosofiche, che abbiano sposato un oggetto qualunque della realtà. Perciò, in fondo, “associazioni” di cose, realistiche nei singoli elementi, allegoriche in sintesi, e in altri termini “visioni” introspettive. (…) Nelle pitture di Savinio, come nei disegni, è sempre per associazione di idee che le forme di realtà sono cercate. E se qui risulta piuttosto sovrapposto quanto riusciva fuso, per quell’aria di cipria, nei disegni, l’equilibrio tra i vari elementi del quadro viene ristabilito dal colore che, in Savinio, sia pure agendo con forza nient’altro che decorativa ha, in ogni caso, efficacia d’evocazione. Resta da vedere se grazie a codesto equilibrio, che è realistico, Savinio giunge a farci credere alle sue “associazioni” come a una sua realtà. Vedere questo è vedere fino a che punto Savinio sia pittore. 8 Lo stesso letterato siciliano coglie un’affinità tra la pittura di Savinio e i gusti degli antichi greci: 20 La pittura di Alberto Savinio sarebbe piaciuta agli antichi greci. Non dico che gli antichi greci dipingevano o avrebbero dipinto come Savinio – e non faccio nemmeno questione di qualità della rappresentazione pittorica. Dico che la pittura di Savinio avrebbe trovato il più largo consenso di popolo presso gli antichi greci, in quanto avrebbe soddisfatto quel loro gusto della deformazione che miti e opere letterarie, se non figurative, ci documentano. In chi fantasticava del Minotauro, o immaginava Giove sotto forma di toro o di cigno, e in Savinio che vede i suoi personaggi con teste di struzzo, di anitre, caproni e giraffe, il gusto suscitatore è lo stesso. Gusto per il quale la deformazione avviene come simbolo di trasfigurazione (…). Beninteso che in Savinio quel gusto opera per via ironica, appunto come negli autori dell’ epoca ellenistica, come in Luciano a cui per scrivere della nascita di Minerva dal cervello di Giove, occorreva il colpo di scure di Vulcano. (…) Il colpo di scure in Savinio è sottinteso (…). Perciò egli riesce ironico nel senso più moderno della parola. Ma di spirito intensamente umanistico, ove per umanesimo si sappia intendere una posizione di cultura squisita e raffinata (posizione ellenistica di fronte all’Ellade immensa di tutto il passato, dagli egizi fino a de Chirico). 9 Alla luce delle considerazioni espresse finora, Savinio mirerà a rendere proprio il mito, dopo averlo sdradicato dalla inerte fissità in cui lo ha relegato la letteratura, che ne ha depauperato l’abbondanza semantica fino a disperderne il significato originale, pietrificandolo in statua. L’artista instillerà il soffio vitale a queste marmoree sculture, le aiuterà a muoversi fino a farle camminare, liberandole dalla loro eterna sincronia olimpica e immergendole nell’inesorabile diacronia del tempo storico attraverso una “parafrasi” mitopoietica. 1 Alberto Savinio, Non forono miracoli né Omero né Virgilio, in Scritti Dispersi1943-1952, Adelphi, Milano, 2004, p. 1736 – 1740. 2 Ivi. 3 Alberto Savinio, Snobistica, dannunziana era la lingua d’Omero, in Scritti dispersi 1943-1952, cit. , p.1386- 1389. 4 Gotthold Ephraim Lessing, Laocoonte, Aesthetica, Palermo, 2003, p. 7275. 21 5 Friedrich Nietzsche , La nascita della tragedia, Adelphi, Milano, 2000, p. 59. 6 Alberto Savinio, Non forono miracoli né Omero né Virgilio, cit. p. 17391740. 7 Friedrich Nietzsche, La nascita della tragedia, cit. pag. 73. 8 Elio Vittoriani, Mostre fiorentine. Savinio, in “Italia letteraria”, 15 gennaio 1933. 9 Ivi. 22 METAFISICA VOLGARE COME TEOLOGIA DEI POETI L’arte è pagana. È naturalmente, essenzialmente, irrimediabilmente pagana. Il regno dell’arte è di questo mondo. Ogni tentativo di far passare l’arte nel mondo di là (…) è destinato a un fallimento sicuro. In arte, il misticismo è un grosso ripiego Alberto Savinio, Nuova enciclopedia. Alberto Savinio riconosce, nel paganesimo classico, il frutto della creatività dell’uomo: la genesi e la definizione del soprannaturale possiede le stesse caratteristiche della creazione artistica. I n Zeus finanziere, l’eclettico volosiano invita a contemplare liberi e spassionati il mondo sdivinizzato che ci circonda, guardandolo con "spirito moderno" e non con ispirazione mistica: In Asia Dio fa l’uomo, in Grecia è l’uomo che fa gli dèi. Ecco perché l’Asia è tenuta per la patria delle religioni, ecco perché la religione dei Greci non è tenuta per una religione seria. Quale pulizia, quale tranquillità, quanta felicità se gli uomini prendessero sempre a modello i Greci! Questi due antichissimi e diversi modi di considerare i principii primi (l’asiatico e il greco – e quando si dice greco, si intende la prima espressione di quell’europeismo che oggi illumina di sé tutte le terre civili, fino al Sud-Africa e alla Nuova Zelanda) non sono finiti, non si sono fusi, ma si continuano tuttora, sempre efficienti ciascuno per sé, e sempre distinti fra loro. Il mondo asiatico si continua nel totalitarismo, il modo greco nel “libero umano”. Anche l’Italia ebbe un suo totalitarismo, ma viziato dal suo stesso essere italiano. Mancava il totalitarismo 23 italiano, prima di tutto per ragioni geografiche, di quel religiosismo asiatico che saturava di sé il totalitarismo tedesco (germains, scrive Michelet, ces asiatiques de l’Europe) e satura di sé il totalitarismo russo. Ci fu anche un tentato insegnamento di mistica totalitaria. Ma come insegnare una facoltà che non esiste? L’Italiano, come anche il Greco, è naturalmente dotato per le emissioni metafisiche, ma è altrettanto naturalmente negato a immettere in sé le metafisiche che gli vengono da fuori. Che fortuna! Gli italiani dimenticano troppo spesso di essere italiani. Come organizzare un totalitarismo profondo e duraturo, tra un popolo in cui ogni singolo individuo è un piccolo ma perfetto totalitarismo? La religione dei Greci non è presa sul serio, perché è una religione mutevole. L’uomo preferisce le religioni che non mutano mai, e tra gli uomini preferisce l’uomo che ha poche idee e non muta mai opinione. L’uomo dalla idea unica è il più rispettato e temuto. Tra il Sàbaot che Mosè invocava e il Sàbaot invocato oggi nelle sinagoghe, non c’è differenza sostanziale. Sostanzialissima differenza invece è tra lo Zeus primitivo e lo Zeus degli ultimi anni della paganità. Ed è giusto. Visto che il Greco i suoi dèi se li faceva da sé, egli aveva anche la facoltà di trasformarli e metterli via via à la mode du jour. Pratica saggia. (…) Nella evoluzione della religione dei Greci, c’è prima di tutto il mutamento di sesso. Un passaggio come dal Matriarcato al Patriarcato. Nella religione arcaica dominava il femminile (per la somiglianza tra femminile e “misteri naturali”), nella religione olimpica domina il maschile (perché i misteri naturali non impressionano più nessuno). Se la religione dei Greci non fosse stata fermata e avesse continuato a svilupparsi, il dominio della maschilità avrebbe ceduto a sua volta al dominio del neutro, e il grazioso Ermafrodito, che una domenica sì e una domenica no io vado a guardar dormire al pianterreno del Museo Borghese, la faccia e tutta la parte anteriore del corpo pudicamente volte verso la parete, avrebbe sostituito Zeus nella celeste sovranità. C’è nella religione dei Greci anche un mutamento di livello: dalla condizione chtonia (sotterranea) si passa alla condizione alpina (Olimpo). Il passaggio dal “matriarcato” al “patriarcato” nella religione dei Greci, ha un significato grave: significa il passaggio dalle forze elementari alla forza della ragione. Questa la “superiorità” dell’Olimpismo. Religione 24 incivilita e perfezionata. Religione “alta”. Non viene al potere se non dopo che ha vinto le forze sotterranee. La motività non è solo nella religione: è in tutte le cose greche. Le cose greche “camminano”. Arrivano fino a noi. E noi trovandole ancora fresche e vive, le trattiamo come attuali. Questa la ragione delle “parafrasi” di noi artisti poeti scrittori; è la riprova della legittimità delle nostre parafrasi. Mentre nessuno si sogna di parafrasare Geova, Indra, Osiride. Resta a parlare del significato degli dèi Greci. Mutevoli come carattere, è giusto che fossero mutevoli anche come significato. Conosciamo gli dèi Greci come personificazioni di fenomeni celesti o terrestri (sole, fulmine, tempesta), li conosciamo come personificazioni di fenomeni naturali (vicenda del seme nella terra e suo sviluppo in pianta e in frutto), li conosciamo come personificazioni di umane qualità (forza muscolare, intelletto, sagacia, saggezza). Una interpretazione altrettanto legittima è quella di modelli dell’umana società. È in questa funzione che quella brillante compagnia terminò il suo giro quaggiù. Messi in immagine, io guardo l’immagine degli dèi olimpi, come da ragazzo guardavo le tavole dei jardin de modes. Dal quarantenne barbuto e dalla trentottenne formosa, tutti erano rappresentati per gradazione di età e d’importanza i membri della società “che veste”. In Ares abbiamo il modello dell’uomo forte ma bruto, in Ermete dell’uomo che per virtù d’intelletto è riuscito a levarsi sopra il dramma della vita, e svolazza su uomini e cose con la felice levità del dilettante. Decantato, purificato di ogni oscurità, questa espressione della barbarie, l’Olimpismo si riduce a una pulitissima e invogliante mostra di esemplarità sociale. Senza contare l’utile, il comodo dei modelli. L’uomo crea i modelli per poter dire "non giudicate me: guardate il modello di cui io non sono se non l’imitazione". Una forma larvata dell’Olimpismo si protrae fino a noi. La fama di certi nostri contemporanei non si spiegherebbe (artisti, poeti, uomini d’azione) se non sapessimo che i difetti di costoro, le loro lacune, i loro non-valori sono i modelli nei quali tanti uomini, e talvolta folle intere, e non di rado interi popoli, si specchiano, si riconoscono e giustificano se stessi. Consideriamo Zeus. Gli occhi grassi e come velati di sogno (ma sogno non è). La barba turchina di bell’uomo maturo. La sufficienza. L’autorità spesso esercitata a capriccio. L’egoismo. Il ridurre a lecito per sé quello 25 che agli altri è illecito. La “superficialità” del potente. L’indifferenza dell’anima altrui, specie delle donne. Gli adulterii. La mancanza di cure materiali (di cure spirituali non si parla neppure) da quando ha vinto i Titani (egli crede una volta per sempre…). È chiaro che nel tempo della maturità i Greci collocarono in cima al loro repertorio di angusti modelli una specie di capo dell’alta finanza internazionale. Era giusto che il Capo del proletariato internazionale lo spodestasse. 1 Per il piccolo Andrea Alberto, cresciuto all’ombra del Partenone, questo scheletro di marmo che non butta ombra (2), gli dèi e gli eroi, sono modesti soprammobili, dimessi arredi della domestica quotidianità. Analogamente, In Infanzia di Nivasio Dolcemare, Savinio descrive il Dio dei greci ortodossi come un umile curato di paese, indigente e raggiunto dai morsi della fame: Nivasio sapeva che lì a due passi, dietro quella tenda di percallina rossa, nel recinto inviolabile e freddo, sopra una sedia spagliata, avvolto nel pastrano investito dall’uso, la barba sale e pepe, l’occhio triangolare sotto il tubino logoro, stanco e sfiduciato sedeva il dio greco. (…) Immaginava tanti modi di recare un po’ di conforto al Theòs (…) al Dio senza compagnia, al Dio che aveva freddo. (…) Riepilogava tutte le “buone” cose che lui stesso aveva mangiato a tavola, e ora voleva spartire col Dio povero. 3 Un simile sistema dialettico viene usato all’inizio di Hermaphrodito, dove la contrapposizione tra dogmatismo asiatico e mitologia greca, tra totalitarismo e libera umanità è riproposta in termini diversi ma con un intento parallelo, quello del rinnovamento delle arti. Il sottotitolo del primo capitolo, Prèlude, intitolato Tète-antichambre de ministre va interpretata come una stanza che immette, come un’anticamera, al capitolo seguente, che ha per protagonista proprio un ministro. Nel "Prèlude", Savinio dipinge l’effigie dell’artista moderno, che si oppone al ritratto del ministro del Drame de la ville méridiane, simbolo di quello homme politique, redingoté, statufié (4) in cui l’artista creatore regredisce a partire dal Trecento. L’artista nuovo, archetipo dell’uomo a venire, sarà dinamico, agli antipodi dell’ultima sublimazione della rigidità letteraria, il ministro "signore dalla rigida morale" della rigidezza in cui involve il secondo. Il protagonista del Prèlude, alter ego di Savinio, è caratterizzato dall’irrequietezza, dalla rapidità e dalla leggerezza della sua fantasia. Nella mia testa trasparente passa un affascinante va e vieni di cose 26 graziose... gioioso carosello: le mie idee corrono al galoppo, caracollanti, e fanno una corsa ad ostacoli ...Io non ho, così, il tempo di conoscerle abbastanza né di stancarmene. 5 In questo periodo breve e mosso c'è una perentoria e inequivocabile dichiarazione di poetica. Fresche quando arrivano, sono ancora grondanti di freschezza quando mi lasciano... La frase costituisce il primo parziale slittamento tra il frammento prosaico e il successivo frammento poetico: notiamo un primo accenno di ritmicità (nella versione originale, rileviamo l'assonanza "arriventquittent" alla fine di ognuna delle due frasi). Io, rimango ansante, fremente, insoddisfatto, come l'amante toccato dall'amore sublime, come un Tristano! Ecco il frammento poetico vero e proprio, caratterizzato da una musicalità piena e ritmata (suggerita dalle rime "pantelant-fremissantamant-tristan", sempre nella versione in francese). Io conservo pura l'emozione che mi donano. Mi lasciano tutta la nostalgia delle amicizie ardenti e passeggere. Ritorno al prosaico: la ripartenza paratattica avviene dopo un'accelerazione ritmico-musicale risolta nell'ultima rima (dove il punto esclamativo ne aumenta la dinamica), similmente alla variazione di un tema musicale dopo la cadenza perfetta che chiude la sua esposizione. Addio mia topina, parti per il Mississipi, Addio mia topina cara! Questo inserto costituisce uno straniamento tramite un canto, giunto a interrompere, sospendere il clima in cui si è immerso il lettore. La canzoncina è però inerente alle brucianti e fugaci passioni che Savinio ci descriveva poco sopra. Dottore Decano! correte d'urgenza a fare un'iniezione d'ossigeno 27 allo scheletro di Victor Hugo, giacché gli viene un attacco di atassia locomotoria. Ulteriore straniamento, stavolta apparentemente arbitrario: l'autore dialoga con un medico ironizzando sullo scheletro di Victor Hugo, che sembra preso da un’ebbrezza dionisiaca causata dalla contabilità del motivetto intonato in precedenza. Come fischiettare nel tuo gergo, marmocchio antropomorfo?... La voce della mezzamorte è dolce... lungi dallo spirito il pompelmo troppo facile da cogliere. il cocco dell'albicocca. Un cucurbitaceo straniero serve a nutrirmi, sorta di catecù - mille sapori infiniti, molle polpa, i miei denti senza carie ci si incollano... poi ci affondano fino all'oblio... orrore! Nascondete sotto l’impermeabile la pianta che si chiama <<.............!>> astro frivolo che cresce nelle casse di legno. Savinio affida a un fluido poetare la trasposizione metrico-lirica della sua dichiarazione poetica, facendo uso di associazioni mentali che si sublimano attraverso concatenazioni di parole. Il campo semantico in cui si sviluppano queste catene di vocaboli non è univoco: si estende a ogni parametro in cui lo spirito riesce a intuire e cogliere dei rapporti associativi. L'atto del fischiettare è considerato un gergo favellato da una voce, quella della mezzamorte, metafora del sogno: questi è anarchico come un infante ovvero marmocchio antropomorfo. Lo spirito si manifesta in spoglie di cocco, fantasticamente innestato 28 nell'albicocca (l'artista volosiano sfrutta i parametri dell'assonanza, della sfericità, del materiale linguistico quasi il secondo termine contenesse il primo) ed è difficile da cogliere (l'ostacolo è rappresentato dall'involucro noce. Al contrario il pompelmo è trascrizione della superficialità, del dato scontato del rapporto nome-oggetto derivati dall'uso e dalla lettura univoca della realtà. La conferma di questo concetto giunge quando è evocato un cucurbitaceo, potremmo pensare a una zucca, che rimanda al cocco in relazione al guscio duro. La sua collosa e molle polpa ha sapori infiniti ( illimitata è anche la classe aperta delle associazioni mentali che si dipanano parametralmente) e si pone in antitesi alla pamplemousse, schiuma inconsistente facilmente raggiungibile attraverso l'inconsistente buccia. Ricapitolando, nella nostra ipotesi di lettura, le catene di parole si presentano schematicamente così (la verticalità sta per parametro, l'orizzontalità per slittamento ora metaforico, ora antitetico; le parole in parentesi sono nostre e svolgono funzione esplicativa) : fischiettio gergo voce della mezzamorte (sogno) (infante) marmocchio antropomorfo albicocca cocco polpa -mousse buccia (noce) (zucca) Il "dioscuro" ribadisce la dialettica fra la creatività dell’artista metafisico e la lentezza dello stile del vate francese, fra la prosa funambolica dello stesso Savinio e la staticità delle opere del parigino, fra la freschezza infantile dell’invenzione linguistica dell’alter ego Nivasio Dolcemare e la scrittura meccanica e rumorosa dell’autore de Les Miserables e Notre Dame de Paris. Il linguaggio di Victor Hugo è polverizzato dall’esplosione di una poesia modernista accesa dalla scoperta e infuocata dalla novità. In effetti, la parola "lardon", oltre a "marmocchio" (termine del gergo familiare) si può tradurre come "lardone" (vocabolo gastronomico) (6), e 29 alla luce di questo tutto il passo sopra citato si potrebbe leggere anche "come fischiettare nel tuo gergo, lardone antropomorfo?". Forse un’allusione alla gravità corpulenta della lingua dello scrittore transalpino, che contrasta con la poetica della leggerezza mentale di Savinio e con la musicalità del suono della mezza morte, spazio della poesia metafisica. La spiritualità moderna si nutre dei frutti più esotici e difficili da cogliere, i cui sapori sono "infiniti" e rifiuta i frutti delle borghesi piante d’appartamento come lo "spirito moderno" che rinnova il mito e rifugge l’ispirazione mistica. 1 Alberto Savinio, Zeus finanziere, in Scritti Dispersi1943-1952, Adelphi, Milano, 2004, p. 663-667. 2 Savinio Alberto, Narrate uomini, la vostra storia, Milano, Adelphi, 1984, p. 247. 3 Savinio Alberto, Infanzia di Nivasio Dolcemare, Milano, Adelphi, 1998, p. 610. 4 Alberto Savinio, Dammi l’anatema, cosa lasciva, in Scatola sonora, Torino, Einaudi, 1979, p. 432. 5 Qui e in tutto il capitolo viene proposta la mia traduzione dal francese. 6 Dal Vocabolario Garzanti - francese-italiano. 30 MITOPOIESI ETIMOLOGICA, ETIMOLOGIA MITOPOIETICA “Al dire di Alessandro H. Krappe, il nome Mirmidoni e il conseguente mito sarebbero dovuti a una freddura, caso non infrequente nella formazione dei nomi mitologici e dei miti stessi, come dimostra il nome Mercurio, nato esso pure da una freddura.” Alberto Savinio, Nostri antenati. Nella concezione saviniana, i miti non nascono come giustificazione estetica di un’era arcaica. In origine, il mito era l’immagine attraverso la quale le prime civiltà percepivano la loro umanità. Nella nostra epoca, il mito cristallizza in mera componente estetica, elemento decorativo mentre nelle culture che lo hanno generato sublimava in rappresentazione estatica. Al giorno d’oggi, il mito, non è più percepito come apollinea espressione, immediata e comunicabile, di un dionisiaco sentire di idee e sentimenti: la logica relega i sensi nell’oscenità e, gradualmente, costringe nell’oblio il mito. L’umanità si distacca progressivamente dal linguaggio simbolico, dal contatto con la materialità. Consultiamo, a riguardo, un passo dalla Scienza nuova di Giambattista Vico: Ora ci è naturalmente niegato di poter entrare nella vasta immaginativa di que’ primi uomini, le menti de’ quali di nulla erano astratte, di nulla erano assottigliate, di nulla spiritualezzate, perch’erano tutte immerse ne’ sensi, tutte rintuzzate dalle passioni, tutte seppellite ne’ corpi: onde dicemmo (…). Ma tali primi uomini, che furono poi i principi delle nazioni gentili, dovevano pensare a forti spinte di violentissime passioni, ch’è il 31 pensare da bestie. 1 Savinio conviene con il filosofo partenopeo, lapidariamente: Giambattista Vico aveva ragione. Il senso etimologico rivela la persistenza nell’uomo del senso delle origini. A maggior ragione nella donna dunque, tanto più dell’uomo fresca di anima e vicina alle cose originali. 2 Per comprendere la nostra umanità, la più vera e intrinseca, Savinio rivisita il mito parafrasandolo. Di più. Lo attualizza attraverso una mitopoiesi etimologica. Il suo strumento d’indagine è l’etimologia mitopoietica che gli permette di risalire alla genesi dell’umana natura, quella dei primi essere umani che incominciaron umanamente a pensare (3) (il cui pensiero era totalmente corporale), e da lì "ripetere" il loro linguaggio, cioè i miti, prima della loro metamorfosi da umana e viva lingua in gergo letterario morto: Volo degli uccelli migratori: spettacolo invitante quant’altri mai. Il nostro strano pudore ci vieta di confessare quali strani sentimenti ispira questo volo, se di gioia, di tristezza o di nostalgia, se nonché con gli occhi convenga seguirli anche con l’anima e col pensiero. Questo solo ci è lecito dire che anche gli uccelli migratori, come le stelle, bisogna guardarli senza desiderio. Volo ordinato e serio. Volo sociale. Volo a triangolo. Modello di strategia celeste. Si capisce che il volo degli uccelli migratori abbia ispirato l’animo religioso dell’uomo e sia stato interrogato dai divinatori. Si capisce che animali anche piccolissimi ma rivali ugualmente della folgore, del sole, degli elementi, siano all’origine di tanti culti. 4 L’opposizione dei corsivi invitante e senza desiderio rappresenta la sintesi dell’approccio analitico di Savinio: i fenomeni naturali non sono letti misticamente, ma vengono considerati come avvenimenti suscettibili di studio. Nei cognomi di origine bestiale sopravvive il totem originario, di là dalla cristallizzazione nella vita sociale che ha coperto gli uomini di una pelle uniforme e di un medesimo colore. Si esca dalla scia dell’abitudine, si legga il cognome bestiale con occhio etimologico e il latore di quel cognome si staccherà nell’istante stesso dal comune destino degli uomini e riapparirà nella sua fatalità propria: inusitata, dimenticata ma 32 fresca ancora della carne dei mammut estratti dopo milioni di anni dai ghiacci della Siberia settentrionale. 5 La coppia di corsivi dimenticata e riapparirà, finemente ossimorica, ribadisce l’obiettivo della poetica neomitologica dell’autore: restituire all’umanità il senso originario, ormai ibernato nella rigida logica della socialità. In testa a tutti avanza la prisca nobiltà: la Gente Porcia. Porcia del pari si chiamava la moglie di Marco Giunio Bruto. In italiano diciamo Porca. Segue qualche mammifero grosso: Manzoni; qualche fiera agile: Leopardi. Viene infine la minutaglia: i Gatti, I Pecori, i Lepri, i Colombo, i Pascetti, i Rana, i Mosca, i Coniglia, i Lumachini. Nessuno può credere quanto io m’immerga nel meditare su un eventuale commendatore Arieti con testa di montone, quanto mi sprofondi a ricostruire certe antichissime e misteriose armonie, certi oscuri giochi che gl’ignari considerano cose “non serie”. 6 In questo passo, Savinio, dopo aver corroso lo status di nobiltà con la sua ironia dissacrante, contrappone la gravosa scrittura di Manzoni a quella leggera di Leopardi: attraverso l’armonizzazione della bestialità dei cognomi con le facoltà intellettuali e la peculiarità delle azioni del “latore di quel cognome”, lo scrittore individualizza il fato. Maialetti si chiamava l’usciere di un giornale romano e diversamente da come può credere la gente volgare, ossia coloro per dare un esempio che se vedono uno per istrada che scivola e cade si mettono a ridere, quel nome non sonava buffo o triviale attraverso le scale o i corridoi della redazione (Maialetti, Maialetti! i redattori anche senza ragione precisa chiamavano l’usciere Maialetti, per il solo fascino che esercitava questo nome), ma come una parola antichissima e sacra. 7 Il riferimento alla dea romana Maia, divinità della fecondità e del risveglio primaverile, è lampante: infatti, presso gli antichi romani, ogni primo di maggio, veniva offerto un verro castrato alla dea con l’auspicio che questa concedesse fertilità alla terra. Il decadimento della bestia originale rivela talvolta un dramma pietoso, come nel Leoncavallo ridotto nella sua umana realtà a un cartellone da circo, a uno scendiletto. In Lusignoli l’elle iniziale non sai se è la sineresi dell’articolo col sostantivo, oppure una sopravvivenza di luscinia (del 33 resto lusignolo si è detto anche in italiano). 8 Il compositore partenopeo Ruggero Leoncavallo è risibilmente associato alla sua opera più famosa, I Pagliacci, mentre Savinio elenca delle ipotesi sull’origine del cognome Lusignoli, illuminandoci sulla parentela tra l’Usignolo e l’Usignolo Maggiore, la Luscinia, uccello migratore delle foreste europee e asiatiche. La digressione di carattere ornitologico continua nel frammento seguente: Italiano, tanto mi rammarico che nel suo itinerario migratorio la cicogna escluda l’italia, quanto mi sono compiaciuto da piccolo nell’apprendere che l’Italia è la Terra dei Vitelli. Uccello saggio. Uccello di profonde virtù familiari (che importa che gli ornitologhi nèghino oggi che la cicogna adultera è giudicata da un tribunale di cicogne e condannata a morte?). uccello che sa isolarsi in compagnia. Uccello meditativo. Uccello di buon augurio. L’ho veduto in cima ai campanili d’Alsazia ove oggi ancora è sacro e inviolabile, intatto nella sua qualità di totem. L’ho veduto in Tessaglia, là pure inviolabile e sacro, in cima ai minareti di Larissa, di Tirnovo, di Valestino. Il suono del becco "da scatola di legno che si chiude", la stasi sopra l’unica esile lunga zampa sull’orlo del nido, la testa meditabonda intasata nella gobba: altrettante ragioni perché l’uomo abbia nutrito l’ambizione di somigliare alla cicogna: anche alla cicogna; soprattutto alla cicogna. Questi uomini ambiziosi sono i Pelasgi. “Pelasgo” è un nome generico. Come il diciannovesimo secolo fa dormire Napoleone nei letti di tutti i palazzi e di tutte le ville di qualche importanza sparsi per l’Europa: come la Storia delle Religioni trasformava il mito solare tutti i miti d’incerta interpretazione, cosi la geografia antica ha messo i Pelasgi in tutti quei luoghi che avevano da risolvere un difficile problema etnico. È assodato in ogni modo che i Pelasgi erano un popolo girovago. Ora cicogna in greco si dice pelargo, e da pelargo a pelasgo il passo è breve, specie se si pensa alla tendenza che ha l’erre greco a mutarsi in esse. E quando all’affinità onomale si aggiunge l’affinità del gusto migratorio…9 Pelasgo è il nome di vari eroi, eponimi del popolo “mitico” dei Pelasgi, i quali occuparono il Peloponneso. Nella mitologia arcade, esistevano due filiazioni distinte di Pelasgo. La prima lo attesta come il padre di Licaone, il quale, a sua volta generò cinquanta figli, eponimi della maggior parte delle città arcadi, e una figlia, 34 Callisto, la quale generò da Zeus l’eroe Arcade, eponimo dell’Arcadia (a proposito della “geografia antica citata da Savinio”). La seconda lo presenta come essenzialmente argivo, e non più arcade. Pelasgo aveva una figlia, Larissa, la quale diede il proprio nome alla cittadella d’Argo (in riferimento alla citazione dei “minareti di Larissa). Infine, nella leggenda tessala, si conosceva un altro Pelasgo, il quale non era padre di Larissa, ma suo figlio avuto da Poseidone, dio del mare. Als (“il mare”) era anche il nome d’una fonte, serva e compagna di Circe. Si raccontava che avesse dato il suo nome a una città chiamata Alo Pirgo (“la Torre d’Als”, relativamente al passo sui “campanili d’Alsazia). Estrapolando un passo dal Convivio dantesco, Savinio ne commenta in filigrana gli spunti zoologici: Non credo che a veder maggior tristizia Fosse in Egina il popol tutto infermo, Quando fu l’aer sì pieno di malizia, Ché gli animali infino al picciol vermo Cascaron tutti, e poi le genti antiche, Secondo che i poeti hanno per fermo, Si ristorar di seme di formiche. Ecco i Mirmidoni, che in italiano noi chiamiamo formichi. "Non credo, ecc.", dice il commentatore "che fosse maggior tristezza e compassione a vedere in Egina tutto il popolo infermo, quando l’aria fu così piena di malignità pestilenziale, che morirono tutti gli animali infino al più piccolo verme; e poi l’antico popolo si riprodusse di sostanza di formiche, secondo che i poeti tengono per fermo; onde quelli di Egina, isoletta presso il Peloponneso, furono detti Mirmidoni, nome che suonava si strano ai cortigiani di Luigi XIV, che ne beffavano Omero" (Conv. IV, 27). Secondo Stradone, noto positivista del I secolo, i Mirmidoni furono così chiamati dalla parola greca murmex (formica) per la loro forte 35 inclinazione all’agricoltura. Comunque sia, questo resta certo che, o per imitazione, o per trasformazione, i Mirmidoni, ossia uomini forti o provati guerrieri dello stampo di Achille, erano Uomini-Formiche. 10 Il carattere, nuovamente ossimorico, dell’accostamento delle umane virtù dei Mirmidoni con la loro qualità di discendenti dalle minuscole formiche, non fa che esaltare il loro status di fieri combattenti e operosi agricoltori rispetto all’aristocrazia cortigiana francese, così futile e ciarliera da assomigliare a una "uccelliera": Ben fa notare un filosofo che la bestia progenitrice è più manifesta nelle donne che negli uomini, come più sopraffatta negli uomini da una maggiore volontà umana, offuscata da una coscienza più operante, consumata da una lotta più aspra con la vita. Quanto ai cortigiani di Luigi XIV che trovavano tanto buffo il nome Mirmidoni (il carattere farsesco di questo nome che la pronuncia francese accentua: Myrmidons [cfr. allons-donc, la grosse dondon, ecc.], si capisce facilmente se si pensa al senso caricaturale Vecchia-Francia, al pericoloso vicinato di Andromaque con La Belle Hélène, al vero spirito di Versailles che, contornando la frattura operata da un Rimbaud, da un Lautréamont, si rinsalda nelle Folies-Bergères) il loro umore canzonatorio è tanto più significativo, in quanto s’innesta a un singolarissimo caso d’incoscienza. Dice un proverbio greco: L’asino ha dato del testone al gallo. I cortigiani di Luigi XIV, e Luigi XIV stesso, erano più vicini di qualunque altro uomo a quella progenitarietà bestiale che li faceva ridere negli altri. Fra cicogne, corvi, cornacchie, cigni, oche, papere, tarabusi, pappagalli, fringuelli, colombe, pellicani. Versailles era un uccelliera in ingrandimento, un pollaio dorato e colossale, un Chanteclair avanti lettera. Ora uomini-volatili che prendono in giro uomini-formiche (11) … Spettacolo tanto più spassoso in quanto ciascuno di quei duchi, marchèsi, Pari di Francia portava in giro senza ombra di sospetto e con gravità e sussiego la propria testa d’animale in mezzo alla basse-cour royale, e alla presenza del Re Sole, pappagallo egli stesso di gran classe. 12 L’ironia corrosiva lascia il passo alla tensione drammatica e all’intensità del messaggio artistico teso verso la verità: Tra le pitture su vetro a fondo oro del Museo Civico di Torino, la Leggenda di Cicno attira particolarmente l’occhio. Cicno con petto umano e testa di cigno fende l’onda del Po. Questo fiume, più illustramente 36 chiamato Eridano, regge a stento coricato sulla riva l’infinita tristezza della sua testa di bue. Fanciulle, dietro, vivono per metà in ispecie di pioppi… Se i nostri musei fossero conservati nonché da storici dell’arte e da funzionari ma da psicologi ancora e da metafisici, quella pittura sarebbe stata confinata in camera charitatis tra le pitture per uomini soli. Alla vista di quella pittura, il visitatore si sente improvvisamente nudo. Dico “nudo”. Né di quella sola nudità che si può coprire sotto calzoni e giacche a due petti, ma di quella tremenda nudità che a nasconderla non bastano le morti accumulate di più antenati, fino ai più lontani, più oscuri, più sacri; fino ai nostri padri dimenticati: gli animali. 13 Nella mitologia classica i fiumi erano considerati divinità generate da Oceano e da Teti e ad essi venivano attribuiti culti religiosi e discendenze eroiche. Spesso i loro nomi erano anche legati a racconti di imprese, di viaggi o di vicende toccanti. Nel caso di Eridano, generalmente identificato con il Po, la tradizione lo associa a due grandi cicli mitici: le peregrinazioni di Eracle in Occidente per raggiungere il giardino delle Esperidi ed il viaggio degli Argonauti diretti nella terra di Circe. Proprio nell'ambito della storia di Giasone e Medea, la presenza del fiume richiama la triste e luttuosa vicenda di Fetonte, giovane figlio del Sole, che impaziente di guidare il carro del padre, finì con il precipitare nelle acque dell'Eridano. Le sue sorelle, le Eliadi, ne raccolsero il corpo, gli resero gli onori funebri e lo piansero tanto che furono trasformate in pioppi. Oltre l’Eridano si estendeva la terra dei Liguri, i quali veneravano il Bue nell’era della Grecia arcaica. I Liguri dell'epoca romana, per contro, avevano il culto del cigno. Il loro re, Cicno, a causa della disgrazia dell’amico, fu tramutato in cigno per il suo pianto inconsolabile. In quella serie di mie pitture che figurano uomini con teste di animali, i più frivoli hanno creduto ravvisare una intenzione caricaturale, che assolutamente manca. Quelle mie pitture sono “studi di carattere”; meglio ancora: “ritratti”. Perché il ritratto – il “vero” ritratto – è la rivelazione dell’uomo nascosto. Il quale ora è un gatto, ora un cervo, ora un maiale. Più di rado un leone. Ancor più di rado un’aquila. Spesso un animale senza vita ma ugualmente nocivo e mortifero, ossia una carogna. Questa “verità” tanto profonda, tanto terribile, tanto grave da portare che 37 gli Egizii, temendo di soccombere sotto il peso la facevano portare ai loro dei. La quale verità, quassù, eufemisticamente, si chiama metafisica. Ed è scienza italiana, per eccellenza. 14 In questo passo del racconto Il gallo, Savinio ribadisce che l’etimologia dei nomi mitologici cela la loro origine animalesca: Tutti gli dèi sono in origine animali. Eva in origine era una vacca, Artemide un’orsa, Cibale una leonessa, le dee che voi chiamate ctonie, cioè a dire terriere, in origine erano serpi, Afrodite era colomba, Zeus era aquila e io [Mercurio] gallo, e a me piace ritornare di tanto in tanto alla mia origine. 15 Nell’uomo moderno, la percezione etimologica svela la continuità del sensuale sentire che dai primi uomini giunge sino a noi: Alberto Savinio riconsegna al mito, come linguaggio, l’essenzialità comunicativa, depurandolo dell’estetismo letterario contemporaneo. Nella ricerca di un linguaggio che travalichi gli ostacoli socio-linguistici che rendono inesprimibile la realtà, il mito diviene essenziale in quanto linguaggio simbolico per eccellenza: Spesso io lodo l’etimologia per la vivacità, la fantasia, il poetismo romantico che essa dà alle parole, ma non mi sogno di preferire una etimologia a un’altra, tenendo questa per vera e quella per falsa. L’etimologia è una scienza incerta, e questa sua incertezza è forse la ragione principale del suo fascino. da quando io mi interesso alla storia e dirò meglio alle avventure delle parole ho veduto molte parole cambiare più volte storia. Se una sola verità nelle altre cose manca, perché cercare una sola verità nelle parole? 16 A tal proposito, in Cacciatori di origini nella foresta del linguaggio, Savinio esplicita chiaramente il suo concetto di etimologia e ne spiega l’uso: Ricordo di aver letto, circa quarant’anni fa, una versione italiana delle Argonautiche di Apollonio Rodio. Sul frontespizio, in basso, tante M, tanti C e tante altre maiuscole, componevano una data come il 1760 o là intorno. Degni i caratteri di stampa dello zoccolo della Colonna Antonina. Ricordo soprattutto che alla parola “azzardo”, usata nel contesto, rispondeva a piè di pagina questa nota: "Azzardo, dal nome di un castello 38 Hasart, presso Gerusalemme, nel quale i crociati si riducevano a giocare a dadi, per ingannare la noia dell’assedio". A quarant’anni di distanza, questa etimologica nota mi è riaffiorata in mente, pochi giorni addietro, mentre leggevo L’origine del linguaggio di Paolo E. Santangelo (Ed. Bompiani, 1949). L’etimologia è una scienza che m’incanta. Essa soddisfa al mio gusto di vedere come le cose sono fatte dentro, come sono fatte sotto. Capisco la gioia di Leopardi, allo scoprire che nausea viene da naus, nave. Gusto infantile. Bambino, rompevo i mie i giocattoli per vedere come erano fatti dentro. Anche i mobili di casa. Il ricordo di certe punizioni, mi cuoce ancora nella memoria. Mi piaceva che il cameriere, la mattina, tirasse su le vesti del canapè e delle poltrone, per andare sotto con la scopa. Tirare su le vesti alle cose, vedere quello che c’è sotto, è una di quelle curiosità che più mi seducono ancora. E questa mia curiosità non si è imborghesita, ha conservato il “disinteressato” di allora. Il disinteressato infantile. Non cercavo allora la verità, ma la cerco adesso. Non ho mai rotto i ponti tra me e la mia infanzia. Non ho mai varcato la soglia del reparto adulti. Non sono mai diventato uomo “serio”. Gli uomini “seri” io li guardo con stupore, come pappagalli che hanno perduto le penne. Anche l’etimologia mi piace disinteressatamente. Anche nell’etimologia io non cerco la verità. E come cercare la verità nell’etimologia? Da quando ho uso di vocabolario ho visto tali e tanti cambiamenti! Non per questo l’etimologia perde di fascino, anzi. Non ricordo chi ha tradotto in italiano le argonautiche intorno al 1765. Non era probabilmente un letterato molto agguerrito. Ma letterato agguerritissimo era Niccolò Tommaseo, e nella sua versione dei Canti del popolo greco dice che i partigiani greci del 1821 si chiamavano Pallicari da Pallade ministra del coraggio, e dice che in neogreco il cavallo si chiama àllogo, perché a questo intelligente quadrupede non manca che la parola (logos). Dubito che il libro di Paolo E. Santangelo abbia a esser preso molto sul serio dai filologi seri; ma per me ha un pregio sicuro: è il libro di un eretico. E a me gli eretici piacciono. Faccio tanto per essere eretico anch’io! Esser eretico, significa non voler morire. Meno quando si muore bruciati. A andar dietro a un eretico, c’è sempre da guadagnare, se non altro da divertirsi. Ora è una tenda che si solleva, ora una porta che si 39 apre, ora un tappo che salta via. A star dietro agli ortodossi invece, non son che porte che si chiudono, tende che vengono giù, tappi cacciati sempre più dentro nel buco della botte. E io mi annoio. Il mio amico Nino Sonzogno, musicista “fisiologico”, vorrebbe che gli abbonati della Scala fossero invitati, a cinque per volta, a vedere lo spettacolo dal fondo del palcoscenico. Poche volte gli Italiani guardano lo spettacolo dal fondo del palcoscenico. Poche volte sono invitati a entrare nei segreti del tempio. Al che aggiungo che, nonché l’invito, manca agli italiani lo stesso desiderio di entrare nei segreti del tempio. Quale letteratura più bianca della nostra? Tra i popoli colti, l’Italiano mi pare non solo meno curioso, ma più restio a scoprire i segreti delle cose; quanto dire l’origine delle cose. C’è repugnanza di fronte all’origine delle cose; c’è timore; c’è vergogna. Si vorrebbe che tutto che è, fosse balzato fuori bello e definitivo , come una Minerva chiusa dentro una accollatissima veste. Ma e l’amore, allora? Amore è penetrare, noi, le cose; di là di ogni repugnanza, di là di ogni timore, di là di ogni vergogna; fino al più profondo della cosa, fino al più segreto della cosa, fino alla origine della cosa; e lasciare che altrettanto avvenga in noi. Amore cristiano, grande etimologia del sentimento. Si aggiunga la ragione “pratica” di questo toccare l’origine delle cose: che, toccando l’origine della cosa, si acquista assieme l’“infinito” della cosa. Altrimenti si vive in un mondo di cose mozze. Posate sul suolo, non abbarbicate con radici nel suolo, e tronche a una statura manesca. Che è, purtroppo, la condizione sentimentale dei più. Caso isolatissimo da noi di cacciatore di origini, Giambattista Vico, e ormai lontano. Ci sono mancati di poi cacciatori come Frazer, come lo stesso Salomone Reinach, come, nel campo dell’omerismo, Victor Bérard; come, nella bandita della psiche, Freud. E un velo, anzi una lastra di cemento, copre, allo spettatore italiano, fino all’ombelico l’umanità. Mi guardo bene dal mettere l’autore de L’origine del linguaggio sullo stesso piano con Sir Georges Frazer, non pure con lo stesso Salomone Reinach. Ma, nonostante la mancanza di rigore, di gravità, di ordine, e forse per questo appunto; e nonostante certo piglio di audacia dilettantesca, c’è l’animo in questo autore di cacciatore di origini; e un modo di porsi di fronte all’origine del linguaggio, che è l’origine stessa dell’umanità, insolito nei filologhi, e massime nei filologhi italiani: ossia 40 di entrare nello stato originario del linguaggio e dunque dell’umanità, con quello stesso amore del profondo, anzi, tout court, con quello stesso amore, con quello stesso “sviscerato” amore, con cui Freud entra nel fondo della coscienza umana. 17 Infine, a conferma della sua tesi, con il pretesto di raccontarci un esempio “domestico”, definisce l’etimologia ovvero la “scoperta etimologica”: La mia bambina (anni cinque) ha scoperto che i fiammiferi si chiamano così perché “portano la fiamma”. Una luce nuova ha brillato nei suoi occhi d’oro, primo riflesso di una intelligenza più ferma delle cose, di una felicità più sorretta da ragione. (…) E io stesso tanti anni addietro ero ben felice di scoprire che cravatta viene da croato, che le due prime lettere di snobismo sono la sigla di sine nobilitate, che tiranno significava in origine custode dei formaggi. La scoperta etimologica è una “illuminazione”. La scoperta etimologica ci dà l’impressione (o l’illusione) di toccare con mano la Verità. quindi quel gradevolissimo sentimento di ambizione appagata. Ma è sentimento giovanile e chiuso entro i limiti dell’adolescenza, (o meglio: “dell’adolescentismo”, perché molte volte il senso adolescentistico continua anche di là dell’adolescenza). Superati questi limiti, il significato primitivo delle parole non ci sorprende più, e saggiamente noi ci attendiamo al significato acquisito e che talvolta è lontanissimo da quello originale. Che in Piemonte la suocera la chiamino Madonna a noi che importa? Spenta la curiosità di scoprire le “radici”, una maggiore libertà ci rimane per scoperte più importanti. La fine dello scorso secolo è stata l’epoca d’oro dell’etimologismo. Devoti alla dea Ragione, gli uomini s’illusero di aver toccato con mano la verità. Fu un momento di gioia piena, orgogliosa, trionfante. Poi, a poco a poco, e mentre le concioni degli “illuminati” e gli zum-zum delle filarmoniche echeggiavano ancora nel cielo senza Dio, la delusione cominciò a minare quel terreno in apparenza così solido. E quello che in principio sembrava l’aurora di una vita nuova e lucidissima, non era invero se non il segno che corri corri, arranca arranca, la civiltà settentrionale era arrivata su un binario morto. 18 La neo-mitologia saviniana è una mitopoiesi etimologica: la parafrasi mitologica si basa sull’etimo del mito (che, come Savinio spiega, equivale 41 a parola). Nel momento in cui si genera la rivisitazione del mito, si percorrono direttrici etimologiche, vettori che attualizzano il senso originario della parola. La neo-filologia di Alberto Savinio consiste in una etimologia mitopoietica: l’analisi filologica, nell’attimo dell’“illuminazione” della scoperta etimologica, rappresenta in immagini sempre nuove il mito: siamo in presenza di una reciprocità bidirezionale, dalla parola (mithos) verso il neo-mito e dall’epifania dell’“illuminazione” etimologica a ritroso, per via filologica, sino all’origine dell’umanità radicata negli universali fantastici. Nel presentare i seguenti passi, troviamo la conferma della nostra analisi e, rispettivamente, di mitopoiesi etimologica… ORFEO (II). Il nome di Orfeo, di origine egizia e fenicia, è composto di aur (luce) e rophae (guarigione, salute). Orfeo è colui che porta agli uomini la luce e verità. Orfeo non è morto. Gli orfei sono tanti e si rinnovano. Al principio del nostro secolo viveva a Milano un tale che si chiamava Gregorio Pezzoli, ma tutti chiamavano Fallatajà perché portava i capelli lunghi sulle spalle. Costui aveva scritto un libro: perché ho donato agli uomini luce e verità. Fallatajà era Orfeo ma nessuno lo sapeva. Nemmeno lui. 19 …ed etimologia mitopoietica: ACHILLE. Gli antichi operisti scrivevano il nome di Achille quando con due elle e quando con una, secondo il significato che gli volevano dare. Al nome del figlio di Peleo erano state immaginate due etimologie diverse: Achilleus era colui che “scaglia il dolore”, Achileus era colui che la divina provvidenza aveva annunciato come il “cordoglio d’Ilio”. Comunque, il nome di Achille non doveva rimanere “inesplicato”, e similmente i nomi degli altri eroi, degli dei, delle cose. Come si sa, la freddura etimologica è molto frequente nei poemi omerici. Che più? La stessa Pallade è freddurista, e termina il suo discorso all’assemblea degli dei su una freddura degna di Paolo Monelli, ossia su Odisseo, nome del politropo figlio di Laerte, e odisào, “odiare” (onde anche il nome di Odisseo va scritto quando con due e quando con una sola esse). L’etimologia è la psicologia del linguaggio, il modo di penetrare l’anima delle parole. Una mente etimologica trae infiniti godimenti dalle parole, i quali sono ignorati da coloro che non considerano le parole se non 42 come suoni convenzionali; così come una mente psicologica trae infiniti godimenti dalla frequentazione degli uomini, i quali sono ignorati da coloro che considerano l’uomo se non come una forma parlante e semovente. L’inerzia di tanti scrittori viene dalla mancanza di quella mente etimologica, che dà una così brulicante vivacità “interiore” alla prosa di Giacomo Leopardi. Uomini che nascono, vivono, muoiono e non s’accorgono, per esempio, che olezzo, per effetto di un semplice o privativo, è la voce antitetica di lezzo; che innocente è il contrario di nocente (…). Ignorano nonché l’amore alle parole (“filologia”) ma anche il “gioco” delle parole (ignorano del resto anche gli altri “giochi” della vita, e la loro vita è spenta e muta come la morte). La ricerca dell’ètimo è uno dei principali motivi dell’intelligenza (da motus e come contrapposto a “quietivo”) e però lo si trova allo stato grezzo nelle persone incolte, ossia in coloro i quali l’apparenza, la finzione, il velo della coltura non hanno spento ancora curiosità e desiderio di ricerca. Così, per etimologica curiosità di scoprire il “perché” delle parole, mia suocera chiama appetitivo l’aperitivo e mia cognata chiama Balneari le Baleari. Quanto più interessanti, quanto più commoventi questi errori, del continuare a dire aperitivo e Baleari e non domandarsi perché. 20 1 Giambattista Vico, Scienza nuova, Milano, Rizzoli, 1977. 2 Alberto Savinio, Dico a te, Clio, Milano, Adelphi, 1998, p. 120. 3 Alberto Savinio, Nuova enciclopedia, Milano, Adelphi, 2002, p. 40. 4 Alberto Savinio, Nostri antenati, in Scritti dispersi 1943-1952, cit. p. 2025. 5 Ivi. 6 Ivi. 7 Ivi. 8 Ivi. 9 Ivi. 10 Ivi. 11 Ivi. 12 Ivi. 13 Ivi. 43 14 Ivi. 15 Alberto Savinio, Tutta la vita, in Casa "La Vita”e altri racconti, Milano, Adelphi, 1989, p. 241. 1 6 Alberto Savinio, Avventura delle parole, in Scritti dispersi 1943-1952 cit. p. 728. 17 Alberto Savinio, Nuova enciclopedia, cit. p. 138-139. 18 Ivi. 19 Alberto Savinio, Nuova enciclopedia, cit. p. 284 20 Ivi, p.19. 44 IL MITO DELL'INDIFFERENZIATO “questa mania di chiamare uomini e cose per soprannome, fa parte di una speciale e curiosissima metafisica della scemenza che Ulisse condivide con altri uomini superiori”. Alberto Savinio, La Verità sull’Ultimo Viaggio, saggio introduttivo a Capitano Ulisse. La ripresa e la quotidianizzazione del materiale mitico, che procede sia sul piano della dissoluzione degli elementi mitici nel linguaggio quotidiano, sia sul piano della creazione di una neomitologia, viene così a prendere forma di un programma di poetica. Ma l’atteggiamento spietatamente corrosivo che Savinio assume nei confronti di tutto ciò che ha sapore di tradizione, di costrizione, di ordine costituito, di accettazione acritica, fa sì che la mitologia, per essere accolta nel suo mondo poetico, debba passare anche attraverso un filtro di dissacrazione, che la affranchi dalle incrostazioni idealistiche e la renda funzionale alla produzione dell’indispensabile effetto di scardinamento della percezione. All’interno del più ampio progetto di distruzione di vecchi valori e di certezze metafisiche, Savinio trasporta il mito dal Monte Olimpo alla città moderna, e i miti diventano elementi costitutivi del suo archivio linguistico personale. Il processo richiede necessariamente la contaminazione del materiale mitologico, e attraverso la diffusione nel mito dell’indifferenziato savinio mina le partizioni fondamentali del dualismo metafisico. La metamorfosi è ardua, ma irrinunciabile: la divinità rifiuta l’immortalità e irrompe nel tempo storico, e si rianima proprio come la statua di Mercurio che, dolorosamente, scende dal piedistallo sul quale la Storia l’aveva relegato per entrare nel mondo fisico del tempo e delle contraddizioni: il dio si è liberato dalla prigione dell’immortalità ed è entrato nella temporalità. Il dramma della fuga dall’immortalità per la 45 necessità di vivere nel tempo, nonostante la morte, o forse proprio per l’esistenza della morte, rappresenta uno dei temi più inquietanti e affascinanti dell’opera di Savinio. I personaggi del mito classico che popolano il mondo di Savinio hanno scoperto lo spleen dello stato di perfezione dell’immortalità, e anelano drammaticamente a essere soggetti al tempo, a percorrere l’esperienza della vita sigillata dalla morte. Per essi, come per il loro autore, è proprio la morte che dà un senso alla vita, e l’immortalità non è che “un’esistenza minore, chiusa a ogni divenire, immobile e muta”. Dei ed eroi si strappano essi stessi la loro aureola per cercare la realtà e il tempo, divenendo mortali: attraverso l’acquisizione della temporalità conquistano un senso di pathos che li accomuna agli esseri umani e li cala in uno spazio dominato dal paradosso. EROS E PSICHE Balle! (…) Sciocchezze! Sciocchezze e falsità! Ecco gli effetti della propaganda! Ecco a cosa portano le menzogne di uno spudorato romanzatore! (…) Povera me [Psiche] ! Povere noi! Povere tutte noi donne! Alberto Savinio, Nostra anima Nel testo Angelica o la notte di maggio (1) il nucleo della storia è l’incontro-scontro fra il Barone Felix Von Rothspeer (o la quotidiana convenzionalità della borghesia) e la ballerina di teatro Angelica (ovvero Psiche, l’arte e la sensualità). Il Barone, ovvero il rigido uomo formale, se ne innamora e trova attraverso di lei il barlume della propria umanità, ma non sa andare oltre il desiderio di possesso: ottiene Angelica, lei lo segue, ma rimane muta. È un’adorata "bambola di carne" con cui la comunicazione è impossibile: Ho pianto! ho pianto! Il barone salta giù dalla cuccetta. Chino sullo specchio, contempla le lacrime sorelle che gli scorrono dalle gote. Altre ne vorrebbe questo parvenu delle passioni.(…) Mi sono portato dietro una statua, una statua morbida e calda. Mi guarda e non mi vede, mi 46 ascolta e non risponde. È viva! viva in una sua vita che io non… Felice… In quel sonno… 2 Per Rothspeer, l’Arte-Psiche è un mero oggetto, non un soggetto che attraverso l’interazione possa arricchire la sua umanità. Come un ignorante collezionista, il Barone, grazie al suo potere, ottiene il possesso dell’opera Angelica, ma non sa che farsene. L’occasione per redimere la sua insensibilità attraverso l’amore è concreta, ma Rothspeer non riesce a vederla. Dopo un’infinita serie di incomprensioni, all’apice dell’incomunicabilità, il Barone, in uno scatto di inutile gelosia, spara a Eros, che veniva segretamente a visitare Psiche prigioniera, ferendolo, e condannando così Psiche a una lunga infelicità, e con essa il mondo intero. Il seguente passo fa risaltare la triangolazione fra società, arte, realtà e i complessi termini dei loro rapporti: MAZAS. (arriva di corsa, trafelato). Malas notitias! Venticinque suicidi in città. Quaranta assassinii in un’ora. Settantadue padri hanno stuprate le figlie. (…) Che ora sarà? Gli orologi non camminano più. Il tempo si è fermato nel cuore di una notte infinita , senza domani. E ora? Salgono a noi le voci, i gemiti più lontani del mondo: preghiera dei superstiti: Arianna, gelido fiore costante, Dormon nel fondo degli specchi l’ore; O stelle, o pleiadi, Sanate Amore! BERGER. Écoutez: ils pleurent. Plus d’espoir! IO. No: diamo tempo all’infelice Psiche di terminare il suo pellegrinaggio. E quando avrà ritrovato il suo sposo che quello scemo di Rothspeer ha sbadatamente ferito in quella notte di maggio… BERGER. Mais quoi! c’etait elle, Psyché? IO. Questo non lascia dubbio. Allora tutto rientrerà nell’ordine, nella tranquillità. 3 Savinio, rivisitando e deformando, non vuole attuare il superamento del mito (sentito da tanti autori e che si esprime nella forma della parodia), 47 ma attuare il suo rinnovamento. L’autore, attraverso la tecnica dello straniamento, conduce il mito in un processo di grottesca trasformazione. Nella scena rivelatrice de La Nostra anima, Al culmine della citazione della novella di Apuleio decantata da Perdita, si produce uno shock. Psiche tradisce la promessa fatta e illumina il suo amante. Alla domanda di Perdita: Allora vedesti la leggiadra chioma della testa d’oro, madida di ambrosia, il collo di latte e le guance purpuree graziosamente incorniciate dalle ciocche dei capelli sciolti, sparsi sul petto e sulle spalle, e sfolgoranti al punto che perfino il lume della lucerna vacillava 4 Psiche risponde spezzando la drammaticità del racconto con una brutale risata liberatoria: Presa alla sprovvista, Psiche tacque e fissò Perdita. Il suo occhio rotondo di uccello, per lo stupore maggiormente si arrotondò. “Su le spalle dell’alato dio” continuava intanto Perdita, esaltandosi e accendendosi in viso “ali rugiadose biancheggiavano di sfavillante splendore e benché fossero ferme, tremolavano di continuo e palpitavano alle estremità scherzose piumoline. Il resto del corpo era liscio e bello…”. Psiche a questo punto rompe lo stupore e dà fuori una risata dentata a sega, che dentro il suo becco di pellicano risuona come un riso di legno. 5 Quello che in Apuleio era il riconoscimento di Amore si è tramutato nella disgustosa scoperta del pene maschile: Avrei voluto che la lampadina sopra il mio letto spandesse raggi di tenebra (…) Avrei voluto che la luce si spegnesse per sempre sul mondo. (…) Che (…) tutti i sistemi di illuminazione sparissero improvvisamente, per nascondermi quello che io vidi allora: la cosa più brutta, più stupida, più avvilente, più sconcia, più informe, più bestiale, più inumana, più ridicola, più immonda, più illogica, più grottesca, più oscena, più inguardabile che occhio umano abbia mai veduta!... E quello era mio marito! Quello il signore di tutto! (…) Non potevo credere. Guardavo e non vedevo. (…) Pensai che l’occhio mi tradisse, che il mio fedele occhio di pellicano si prendesse gioco di me (…) che una bestia immonda si fosse sostituita nel buio a mio marito. Che un viscido lumacone, un bruco calvo avesse preso il posto di colui che, invisibile, mi dava tanta felicità, tanto piacere, tanto calore (…) Subito che ebbi fatta luce, mio 48 marito… ma perché dico ancora “mio marito”? Io non devo, io non voglio, io non posso dare ancora il nome di marito a quel lombrico schifoso e grottesco… subito che ebbi fatta luce, quello già dormiva, ma turgido ancora e ansante dalla fatica (…) Paonazza tuttavia la testa, potentemente cupolata e svasata alle ganasce a imitazione dell’elmetto di guerra dei soldati tedeschi, priva così di occhi come di naso e solo di bocca fornita, muta e verticale come bocca della torpedo ocellata. Il suo corpo tubolare, sul quale s’incordavano e palpitavano grosse vene turchine, e privo sia di braccia, sia di gambe, sia di ali posava goffo e squilibrato sopra due borse rigonfie e lustre, simili alle borse di una doppia ciaramella. (…) Le stesse borse si sgonfiavano e allungavano, perdevano il lustro e si rigavano di rughe, quasi attraverso un invisibile meato e senza sibilo perdessero l’aria (…) Il molle cilindro si riduceva e deformava (…) giaceva umiliato e sfatto, avvolto nella propria pelle come un morticino nel sudario. 6 La svolta è brutale, il salto dall’aulico al volgare, dal leggiadro e leggendario al disgustoso e concreto è così netto da mettere a disagio qualunque lettore. Ma questo è proprio quello che Savinio vuole ottenere: l’arte non deve creare un senso di sicurezza nel fruitore, ma deve anzi stravolgere “ogni sicurezza, aspettativa di senso, abitudine percettiva”, ed è anche in questo contesto che va intesa la distruzione dell’aura e della sacralità del mito. GLI ARGONAUTI “due ore già son; … o meglio: Giasone, che mi sento più che mai l’argonauta” Alberto Savinio, Hermaphrodito Partenze ed arrivi, abbandoni e ritorni, stazioni e porti, treni e navi, scompartimenti ferroviari e cabine di piroscafi: elementi dell’archetipo espressivo del viaggio, ambiente in cui Savinio rivisita il mito degli argonauti. Il critico di Chiose e appunti ad Apollonio Rodio, ora narratore, attualizza il mito del vello d’oro ne La partenza dell’argonauta, ampia sezione di Hermaphrodito: 49 nell’esplorazione del mio sillabario, non mi ero avventurato più in là della lettera L. Ogni pagina del mio sillabario illustrava o un fatto o un personaggio storico. La pagine dell’A era dedicata alla partenza degli Argonauti. Tre uomini armati e composti come statue, guardavano l’orizzonte del mare e levavano la mano al saluto. 7 L’affezione alla storia di Giasone, è inscritta nell’infanzia dei piccoli de Chirico. Volos, la città natale è anche la città di nascita dell’eroe greco. Alberto, “l’argonauta a tavolino”, ama la poeticità del rischio, la precarietà dell’azzardo, la metafora di chi non ha voluto esitare davanti alle incognite di un viaggio oltre mondano e davanti ai misteri che popolano i paesi sconosciuti della leggenda degli argonauti, il percorso dell’eroe lungo i sentieri di una credibilità non immediata, verso il meraviglioso, l’avventura, il segreto, la ricerca, dell’“inchiesta”. Se nella pittura di Giorgio la favola dei tre navigatori si riduceva a stereotipo, nell’espressione artistica di Andrea Alberto la vicenda della nave Argo assurge ad archetipo, ovviamente filtrato attraverso l’immersione del mito nella quotidianità che disinnesca il potenziale trascendente: gli Argonauti appaiono nelle pagine saviniane in panni civili, in una realtà di tutti i giorni, senza tuttavia venir meno alla serietà del loro ruolo ed alla gravità del loro portamento. Quando domandavo a Diamandi chi era Giasone, Orfeo, Dioscuri, Linceo, si legge in Tragedia dell’infanzia, quegli rispondeva: ‘Sono eroi che si aggirano da queste parti, nelle foreste, in riva al mare, lungo le carraie diffuse nella valle e abbarbicate su per la montagna ’. … benché quell’uomo singolare che aveva per me le oscure dolcezze di un padre non si pronunciasse più di così, la misteriosa presenza degli eroi sulla terra, il loro grave aggirarsi in mezzo a noi mi si chiarivano ugualmente, mi si manifestavano come fatti reali e patenti”. 8 In Hermaphrodito, l’argonauta Savinio compie il suo viaggio verso la dimensione esistenziale della sua “dolce città” visitando la terra d’origine, la madre, l’infanzia in un percorso psicologico senza tempo, eterno nella sua mancanza di principio e conclusione: … questo che rivedrò dopo anni e anni di separazione (…) [lo] guardo con avidità per rispondere subito a’ miei ricordi lontani (…) fra i templi portatili, le colonne che girano assieme col girare del sole, le statue animate di serena magia, quanto brillanti nella compagnia degli alberi, 50 quando levate oscure di contro l’amorosissimo cielo. 9 Affidata a una traduzione militare, il viaggio si snoda disponibile agli incontri con personaggi quotidiani: i compagni di viaggio ("i miei compagni – eroi"), semplici soldati vengono caricati con caratteri epici nell’immagine saviniana: ne è un esempio l’epifania del macchinista come matador: rimpiattito dietro il finestrino, simile all’habituè che occhieggia nel camerino della prima, spio le movenze dell’espada… infilandosi i calzoni a braghe e indossando il camice turchino, pone una cura meticolosa alle minuzie della sua toilette… pronto nella veste del manovratore, l’avventizio si toglie il fiore dalla bocca e se lo pone dietro l’orecchio. 10 Poco tempo dopo essere salito sulla nave, Savinio è già tutto dentro il suo ruolo, come abbiamo sottolineato nella nostra epigrafe con il viatico di una delle sue amate freddure lessicali! ERMAFRODITO “Per quanto camminassi, non riuscii a slacciarmi dalla voce dello strano ermafrodito, che tagliava l’epoche da parte a parte”. Alberto Savinio, Hermaphrodito Se nella pittura di Alberto Savinio il riferimento iconografico a Ermafrodito è costante, (spesso appare sdraiato e nudo, in linea con la scultura ellenistica), nei suoi scritti il figlio di Ermes e Afrodite si presenta in varie angolature. I n Tragedia dell’infanzia, si incarna in Apollo/Apolla, l’ambigua creatura che è il tramite dei primi ambigui appelli sessuali recepiti dal piccolo Nivasio, alter ego anagrammatico di Savinio. Ne La casa ispirata la presenza ermafrodita è riferita ad un "Ricorso losco e turbatore". Nel saggio introduttivo a Capitano Ulisse, La Verità sull’Ultimo Viaggio, Savinio considera la professionalità degli attori basata sulla capacità di scambio e integrazione fra i due sessi ("…passa a scelta da uomo rosso a 51 uomo turchino, giallo, verde, e così via. Peli e unghie se li fa spuntare a vista d’occhio. Da uomo diventa donna e reciprocamente"). In Infanzia di Nivasio Dolcemare, Ermafrodito metaforizza la somma perfezione ("… Ermafrodito addormentato rappresenta oggi, come al tempo del Simposio, l’immagine ideale della perfezione. Ma non è un dio neutro costui, sibbene il divino totale dei totali"). In Ascolta il tuo cuore, città sublima in ermafroditismo letterario come caratteristica negli "…Uomini della Poesia, in questi uomini che sono insieme donne" e spunto polemico contro il funzionalismo architettonico coevo ("penso all’uomo che ha in sé anche la donna, all’angelo che ha in sé anche il demonio. Alle felici mistioni finiremo per ritornare, ma quando?"). In Tutta la Vita, l’unione ermafroditica slitta dalla fusione metafisica alla congiunzione fisica: Savinio rende il mito feriale, quotidiano, domestico ("le due sorelle morte rivissero effettivamente nel fratello vivo. Igeo a poco a poco diventò uomo e assieme donna, e anche nella mollezza dei tratti, nella rotondità dei fianchi, nella voce, nei gesti, nei gusti…"). Hermaphrodito, la sua prima opera, rappresenta l’origine della costante mitopoietica saviniana, scaturita da questo suo primo libro e rinnovata lungo tutta la sua produzione letteraria: Ho guardato Ermafrodito in faccia e senza paura. Mi sono riconosciuto intero nella sua faccia. Tutto che io sono nasce da lì. Tutto che ho fatto viene da lì. Non c’è idea, non c’è pensiero, non c’è concetto, non c’è sentimento, non c’è immagine da me espressi di poi in quella ventina di volumi che compongono la mia opera letteraria, in quel migliaio di pitture che compongono la mia opera pittorica, in quel centinaio di pagine pentagrammate che compongono la mia opera musicale (posteriore al “Gran Rifiuto” del 1915), nei tanti frammenti sparsi per giornali e riviste, nelle tante note segnate nei miei taccuini, e nelle innumerevoli parole da me pronunciate – non c’è nulla che non tragga da quella “pustola” e da quel “bubbone”, indecente l’una e malefico l’altro, ma straordinariamente fecondi ambedue. È nel male, in ciò che agli uomini “sembra” male, la grande e misteriosa forza generatrice. Hermaphrodito rappresenta uno dei pochi volumi saviniani in cui il titolo è esplicitamente riferito a un soggetto della mitologia greca, il che porterebbe a pensare che il protagonista del libro sia proprio Ermafrodito. Questo personaggio mitologico appare raramente: quando 52 succede, sublima in un significato più generale di condizione ermafrodita, nel discostarsi da persone e cose che Savinio sente contrarie alla sua personalità e nel focalizzare un’immagine perentoriamente (attraverso la funzione, essa stessa ermafrodita, di "microscopio-telescopio"). Sono le cose minute, i piccoli fatti, le situazioni di poco conto e non le grandi opere che interessano Savinio, visti al microscopio i primi e al telescopio le seconde. Opposizioni di linguaggio aulico e scrittura oscena, scontro di arcaismi e neologismi, antagonismi di scelte lessicali barocche e cadute liricoelagiache. Ad ogni passo, il secondo termine delle contrapposizione si innesta sul primo, neutralizzandolo: se ne deduce che quella saviniana è un tipo di scrittura che "corre" sempre sul filo, su cui camminano e si destreggiano le due parti dell’Ermafrodito. Savinio promuove questa scrittura mobile e pericolosa, fuori da ogni strada battuta, in questo modo: Il passo letterario è per noi un camminare sulla corda. Questi riferimenti, queste equivalenze, queste analogie, che noi poniamo ora a destra, ora a sinistra della nostra vita, hanno lo scopo di mantenerci in equilibrio, hanno la funzione per noi che il bilanciere con le braccia tese lateralmente ha per l’equilibrista che cammina sulla corda. 11 La voce dell’Ermafrodito è un canto teso, rischioso, svincolato, sregolato. È un linguaggio che, sincronicamente, separa e unisce l’inconscio e il conscio, "parole" e "langue", l’anarchia verbale dell’infanzia e il codice della cultura, della società in bilico tra animalità e umanità. ULISSE “Suo malgrado Ulisse è vissuto tanto da conoscere nonché la Grecia degli Atridi, ma anche la Grecia di Venizelos. Per questo popolo sarcastico e navigatore, Penelope è sinonimo di orinale. Eufemismo eloquente. Traslato ricco di significati. La stessa parola associa la più domestica delle suppellettili alla più domestica delle donne. Sia inteso 53 ora e per sempre che ogni qual volta Ulisse pronuncia il nome della propria moglie, egli esprime contemporaneamente l’idea di orinale”. Alberto Savinio, Capitano Ulisse. Capitano Ulisse è la rivisitazione saviniana del mito di Ulisse. Il coraggioso eroe subisce una cura radicale passando "attraverso il teatro". Nel lungo preludio, non casualmente intitolato La Verità sull’Ultimo Viaggio, lo scrittore spiega il rinnovamento del suo personaggio: "Che una grandissima voglia di finirla struggesse l’animo di Ulisse, era un bel po’ che lo sospettavo". Ulisse si confessa e si compiange con il suo padre-autore, "condannato a una notte infinita". Se i personaggi omerici rappresentano “qualcosa tra il Commendatore e lo Chevalier de la Légion d’Honneur”, è indispensabile ridimensionare l’eroe principale e nel far ciò lo si presenta come "futile". Egli smette di avere il "cuore di bronzo" e l’ingegno "tutto spirito". Ulisse si trasforma in un personaggio dal "buonumore radicale", interessato soprattutto alla "metafisica della scemenza" e così dà a Calipso l’epiteto "Dea Clisopompo" ("Donna Lavativo") e chiama Penelope "orinale". Quindi è necessario farlo tornare un uomo normale con i tratti leggendari per farlo vivere secondo uno schema. Perciò nel dramma veste gli abiti di un Capitano che rinnega la dark lady Circe, rifiuta Calipso e le sue smancerie, saluta Maman Colibrì dalla pelle bianca come lo yogurt, la "poltrona Frau dell’amore". Poi la sua storia: il viaggio e il ritorno a Itaca, dove si ritrova sia con i Proci e con Penelope. Savinio esagera la vicenda e la studia a fondo rimanendo in un vivace clima teatrale che a un certo punto diventa irrazionale e spossato dove Ulisse perde la cognizione della realtà. Tuttavia, Ulisse parte per il suo ultimo viaggio su consiglio della "zitella famelica", ovvero Minerva, per compiere il destino che alla nascita gli era stato imposto. L’Ulisse saviniano è anche un damerino borghese che, a braccetto con lo spettatore incredulo, fugge elegantemente dal teatro. Ecco un passo dell’introduzione dove si legge chiaramente l’inversione di tendenza della cultura: Fermo davanti a un mare di pece, a una nave ugualmente nera e sempre pronta a salpare: quella nave sulla quale Ulisse non voleva imbarcarsi 54 più, perché sapeva che appena iniziato, l’ultimo viaggio si converte in penultimo. Era necessario dare un porto a questo navigatore senza porto, un termine al suo viaggio, una morte alla sua vita. La sorte di Ulisse è rimasta in sospeso. La fama un giorno lo consacrò uomo dell’ultimo viaggio… Aveva creduto per molto tempo alla sincerità dell’ ultimo viaggio. Sfinito da quel continuo girare a folle, gli fu giocoforza convincersi che l’ultimo viaggio era come i capelli di Eleonora, che quando non ce n’è più ce n’è ancora. “E quasi non bastasse” mi confidò una volta Ulisse “questo trucco dell’ultimo viaggio me lo vollero abbellire, inzuccherare. Me lo chiamarono il folle volo!”. Fumava di rabbia “Che ingenuità! Che mancanza di riguardo! Eppure, Dante lo credevo una persona seria…”. Tacque un momento poi aggiunse: “forse per questo appunto. Gli uomini seri sono stati i miei peggior nemici”. 12 "È vero", commenta Savinio, "un destino imbecille, una sorte cocciuta hanno invariabilmente spinto Ulisse nelle zone serie delle vita". Ulisse è ora un’illusione reale, che oscilla in un "dormiveglia tra la vita e la morte". "Imbecille" è il destino serio di Ulisse. Savinio sottolinea il fatto che, avendo ormai divorato la sua vita al punto da averne abbastanza, Ulisse potrà morire in pace se lo desidera. Si sa, il mito rinasce dalle sue ceneri, ma secondo Savinio l’eroe, più in generale, ha bisogno di leggere le burle ironiche del mito, mantenendo la sua tradizionale poesia. La "metafisica della scemenza" è un prova di vita nell’enfasi laddove il riso è fondamentale. "La Storia – scrive Savinio – dice la cosa com’è, il teatro come dovrebbe essere". L’ironia è la cultura della purificazione e della rigenerazione, l’unico ponte fra la vita e la morte, il veicolo per districare i "nodi della vita in modo altrettanto spedito, asettico, indolore". 1 Alberto Savinio, Angelica o la notte di maggio, in Hermaphrodito e altri romanzi, Milano, Adelphi; 1995. 2 Ivi. 3 Ivi. 4 Alberto Savinio, La nostra anima, Milano, Adelphi, 2001. 5 Ivi. 6 Ivi. 7 Alberto Savinio, Hermaphrodito, 1° edizione, Torino, Einaudi, 1974. 55 8 Ivi. 9 Ivi. 10 Ivi. 11 Ivi. 12 Alberto Savinio, La Verità sull’Ultimo Viaggio. 13 Ivi. 56