CASA BOSCHI - DI STEFANO Via Jan è una tranquilla strada

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CASA BOSCHI - DI STEFANO Via Jan è una tranquilla strada
CASA BOSCHI - DI STEFANO
Via Jan è una tranquilla strada parallela all’affollato corso Buenos Aires, una zona oggi semicentrale, ma che
era ancora un prato fuori porta quando fu costruita la palazzina che conosceremo e che allora sorgeva
isolata.
Negli anni Trenta un agiato e lungimirante costruttore, Francesco Di Stefano, detto Chicchi, pensò di
partecipare alla valorizzazione della zona, per offrire nuove abitazioni alla borghesia imprenditoriale,
lasciando alle famiglie di più antico lignaggio il quartiere di corso Venezia e delle strade eleganti che lo
circondano.
In particolare Francesco Di Stefano chiese all’architetto Portaluppi di progettare una palazzina per la sua
famiglia. Alla figlia Marieda, che era nata nel 1901, fu assegnato il secondo piano come abitazione e altri
spazi al pianterreno per il suo laboratorio e la sua scuola di ceramica.
Marieda infatti era allieva dello scultore Luigi Amigoni. La figlia di Amigoni diresse la scuola e abitò
all’ultimo piano della casa di via Jan. Qualche volontario ha avuto la fortuna di conoscerla e di raccogliere i
suoi ricordi, così come qualcuno ha potuto ascoltare i racconti del maggiordomo Nando, indispensabile
aiuto per l’ingegner Boschi nei suoi ultimi anni.
Francesco Di Stefano era anche un appassionato collezionista d’arte, infatti alcune opere ospitate
nell’abitazione appartengono all’eredità che fu lasciata a Marieda, ma comprendeva solo una quarantina di
opere.
Marieda nel 1926 conobbe un giovane ingegnere della Pirelli, Antonio Boschi (era nato nel 1896), che sposò
nel 1927. La coppia, che non ebbe figli, si stabilì nell’appartamento che ora è una delle Case Museo milanesi
perché nel 1998, a dieci anni dalla morte di Antonio Boschi e a trenta da quella di Marieda, finalmente fu
possibile costituire una Fondazione che, assieme al Comune di Milano, ripristinò l’appartamento
destinandolo all’esposizione di una parte della ricchissima collezione raccolta dai coniugi e poi
dall’ingegnere stesso quando rimase vedovo.
La collezione, circa 2000 pezzi, è composta da opere, soprattutto dipinti, di autori italiani e spazia dalla fine
dell’Ottocento alla fine degli anni ’60 del Novecento. Qui ne è esposto circa un decimo, altre opere sono al
Museo del Novecento e molto è conservato nei depositi. Fortunatamente la collezione ha superato anche i
bombardamenti perché fu prudentemente trasferita in campagna.
Fu Marieda a trasmettere al marito la passione per la pittura e la scultura e l’ingegnere mantenne a sua
volta l’amore per la musica, testimoniato dalla collezione di violini e dal pianoforte Bechstein che vediamo
nel salone. Il giovedì sera si tenevano infatti serate musicali e ancora oggi in qualche occasione la casa rivive
con concerti, letture o animazioni.
Il testamento dell’ing. Boschi prevedeva che l’appartamento fosse aperto al pubblico così come lui
l’avrebbe lasciato, ma in realtà furono necessarie modifiche e oggi possiamo visitare solo 11 locali, arredati
con pezzi degli anni ’20 – ’40 che ben si adattano alle opere esposte, ma in gran parte non sono gli originali,
andati dispersi. Anche la disposizione attuale è stata decisa prima dell’apertura al pubblico, poiché, vivi i
proprietari, le opere erano disseminate letteralmente dappertutto in modo apparentemente casuale, a
volte sovrapposte l’una all’altra, a coprire perfino le porte e gli interruttori della luce. Tuttavia i curatori
sono riusciti a mantenere il calore di una vera casa pur operando drastici interventi.
I visitatori spesso sono colpiti anche dalle soluzioni studiate dall’arch. Portaluppi, già all’esterno, con i
particolari bovindi in diagonale, poi nell’androne e sulle scale, con le ringhiere in ferro battuto.
Nell’appartamento i pavimenti a mosaico riprendono gli stucchi dei soffitti e le porte hanno profili
geometrici, confermando il ruolo primario della composizione grafica ricercata dall’architetto in quel
periodo.
Prima di inoltrarci nei diversi spazi è bene spiegare come mai una coppia sicuramente agiata ma non
ricchissima abbia potuto raccogliere un così gran numero di opere, spesso di autori oggi molto quotati.
Certo il collezionismo fu un’invincibile passione per la coppia, insieme ai numerosi gatti e ai viaggi, che li
portarono in Egitto, nel Nord Europa ed anche in Giappone. Molte opere furono acquistate quando gli
artisti non avevano ancora raggiunto la notorietà, altre acquisizioni nascevano dai rapporti di amicizia con
gli artisti stessi, che frequentavano casa Boschi. Ricordiamo ad esempio Sironi, Fontana, lo scultore Martini.
A volte, in ristrettezze, i pittori furono aiutati dai coniugi. Molto si deve probabilmente alla bellezza e alla
generosità di Marieda, che riusciva ad affascinare anche gli artisti più restii, come Savinio o Morandi.
Quest’ultimo non fissava neppure il prezzo e si racconta che una volta restituì una parte del denaro
ricevuto. Un episodio testimonia il carattere di Marieda, che prima della guerra si recò a Parigi, si dice per
acquistare una pelliccia, e fu contattata da un gallerista ebreo, costretto a disfarsi delle sue opere, tra cui
“La scuola dei gladiatori” di De Chirico. Così Marieda concluse un buon affare e insieme aiutò il gallerista,
ma rinunciò alla pelliccia.
Ora vi farò percorrere le diverse sale, poi vi presenterò alcune opere, che ho scelto con un criterio
assolutamente soggettivo.
La prima sala costituisce l’ingresso e ospita alcuni ritratti dei coniugi e ceramiche di Marieda, fra cui
un’imponente figura di donna senza testa, ma con una collana, che dà titolo all’opera.
La seconda sala è un’anticamera, con le opere meno recenti, fra cui Le amiche di Marussig, un artista
attento alla plasticità delle figure, spesso appartenenti al mondo familiare borghese. Abbiamo anche una
Natura morta con statua di Severini, un artista in cui si riconoscono influenze cubiste, futuriste, metafisiche
ma anche una ripresa della classicità. Infine un’opera di Boccioni, con una testa di vecchio quasi dissolta
nella luce.
A sinistra si apre la porta del bagno, che possiamo visitare ed è arricchito dalle opere coloratissime di un
autore non italiano, Ralph Rumney, che nel 1957 espose a Milano.
A destra entriamo invece nella camera degli ospiti, ora è dedicata al movimento denominato “Novecento
italiano”, che appartiene al Ventennio fascista e fu ispirato da Margherita Sarfatti, con l’intento di ritornare
all’ordine, dopo le bizzarrie futuriste, e alla monumentalità delle figure, che potessero ben rappresentare il
vigore della “razza” italiana.
Passiamo poi nel salottino, ora dedicato a Mario Sironi, arredato con mobili che furono disegnati dall’artista
stesso. Sono rappresentate le sue diverse fasi, dal futurismo alla metafisica alle più conosciute, cupe
periferie.
La sala da pranzo è ora occupata dagli artisti di “Corrente”, un movimento culturale ed artistico antifascista
legato alla famiglia Treccani, nato poco prima della guerra. Le opere degli artisti (ad esempio Carrà,
Fontana, Guttuso, Manzù, Mafai) furono esposte nella Bottega di via Spiga. Una vetrina però custodisce una
testimonianza biografica, cioè un “giubo”, il giunto flessibile che collega due alberi di trasmissione di un
motore, riducendo l’attrito. Inventato dall’ingegnere, il brevetto rese ancora più florida la condizione
economica della coppia. Il giunto esposto nella vetrinetta fu il regalo di pensionamento da parte delle
maestranze della Pirelli.
Entriamo poi nel salone del pianoforte dove campeggia La scuola dei gladiatori, ma vi sono anche opere di
Campigli, Savinio e di De Chirico stesso.
Segue la sala Fontana, con numerosi “Concetti spaziali”, un vero patrimonio considerando le quotazioni
attuali.
Ecco ora le due sale dei Nucleari, degli Spazialisti e dell’Informale, che ci presentano le opere più recenti,
cui non è sempre facile accostarsi poiché molta arte contemporanea non si propone più di dare un piacere
estetico immediato né tanto meno di essere decorativa, ma si sforza di esprimere concetti o addirittura di
testimoniare semplicemente il gesto dell’artista. L’ultima sala era la camera da letto dei coniugi, ma oggi ha
cambiato completamente stile, grazie ad un originalissimo lampadario e a ripiani di ceramica rigorosamente
geometrici. Un ricordo di Marieda è comunque presente, un toro ferito a morte che rappresenta la crudeltà
umana.
Sicuramente gradevoli sono infine i quadri dei Chiaristi, dal segno leggero e dalla luminosità quasi
ottocentesca. Li troviamo nel corridoio che conduce all’uscita e che ospita anche i violini e alcune opere di
Marieda e di altri scultori.
GERARDO DOTTORI – La virata 1931. Futurista, rappresentante dell’aeropittura. “Ho potuto creare il
paesaggio terrestre isolandolo fuori tempo-spazio, nutrendolo di cielo per modo che diventasse paradiso”
MARIO SIRONI – Venere dei porti 1919. Rappresenta l’iniziale fase futurista con l’inserimento dei ritagli di
giornale, ma anche l’interesse per la pittura metafisica, poiché la donna è raffigurata come un manichino
RENATO BIROLLI – Eldorado 1935. Unisce il mito dell’età dell’oro alla quotidianità, poiché l’edificio bianco
raffigura uno stabilimento balneare che allora sorgeva a Milano sulle sponde del Lambro, ma la natura
rigogliosa, le figure nude e il cielo fiammeggiante ci trasportano ben lontano dalla periferia milanese.
MASSIMO CAMPIGLI – Donne salutanti 1931. Figlio di una ragazza madre, fu allevato dalla nonna, che fino a
15 anni considerava la sua mamma. Si pensa che la rivelazione abbia contribuito a formare quella
particolare visione del mondo femminile che caratterizza le sue opere. Già a 19 anni fu assunto al Corriere
della Sera, ma a 32 decise coraggiosamente di dedicarsi solo alla pittura, appassionandosi all’arte etrusca e
all’impegnativa tecnica dell’affresco. Fu una saggia decisione poiché l’arte gli assicurò grandi successi.
ALBERTO SAVINIO – Annunciazione 1932. Colpisce il taglio pentagonale della tela, il viso enorme
dell’angelo, che incombe con il suo mistero sulla figura di Maria – pellicano. Savinio amava il fantastico e
l’ironia come antidoto alle idee fisse che aiutano l’affermarsi delle dittature. Riprese dal mondo antico la
compenetrazione essere umano e animale. Qui il pellicano è simbolo dell’abnegazione verso i figli, infatti
Savinio lo aveva utilizzato anche per ritrarre la propria madre.
GIORGIO DE CHIRICO – Facitori di trofei 1928. L’accumulo di oggetti in una stanza popolata da manichini
vuol rappresentare ciò che supera la realtà percepibile con i sensi
ROBERTO CRIPPA – Spirali 1952. I vortici vogliono superare la bidimensionalità della tela, come i tagli di
Fontana, ma ricordano anche le evoluzioni di un aereo, infatti Crippa era appassionato di acrobazie aeree,
passione che gli costò la vita, infatti morì cinquantenne a Bresso.
PIERO MANZONI – Achrome 1958. Una delle sue opere basate sull’assenza di colore, ma in cui si è invitati a
concentrarsi sulla materia, con le sue grinze e le sue crepe.