LA NOZIONE DI SOTTOPRODOTTO A cura di

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LA NOZIONE DI SOTTOPRODOTTO A cura di
LA NOZIONE DI SOTTOPRODOTTO
A cura di Dario Micheletti
1) L’evoluzione giurisprudenziale e legislativa del concetto di sottoprodotto nel periodo
antecedente l’introduzione dell’art. 184-bis d.lgs. 152/2006.
In via preliminare, appare necessario chiarire le ragioni che hanno portato all’ introduzione di
una definizione specifica di «sottoprodotto» da parte del comma 1 dell’art. 12, D.Lgs. 3 dicembre
2010, n. 205. Tale analisi, lungi dal risultare esornativa, si rivela quanto mai indispensabile ove si
consideri che l’art. 184-bis d.lgs. 152/2006 altro non è che la “tesaurizzazione” degli esiti di un
processo legislativo e giurisprudenziale ultraventennale, che si caratterizza per la lenta ma
ineluttabile affermazione di un concetto, quello di “residuo produttivo-non rifiuto” – alias
sottoprodotto – dapprima trascurato dalla legislazione di settore, successivamente emerso in via
pretoria nella giurisprudenza interna e in quella comunitaria, e infine imposto (prima) dal
legislatore nazionale e (poi) da quello europeo, in ragione della imprescindibile necessità di
adeguare l’assetto normativo alla realtà dei fatti disciplinati, senza per questo compromettere la
politica di tutela ambientale sottesa alla legislazione sui rifiuti.
Appare fondamentale quindi che si rammentino, seppure per cenni, i passaggi evolutivi del
concetto di sottoprodotto al fine di poter interpretare al meglio gli indici normativi che attualmente
lo delimitano.
a) Come si è anticipato, nell’originaria Direttiva del Consiglio in materia di rifiuti (Direttiva
75/442 Cee) non era presa in alcuna considerazione l’esistenza di residui produttivi riutilizzabili e,
di conseguenza, non qualificabili come rifiuto. Ogni avanzo della produzione finiva per essere
attratto nell’onnicomprensiva definizione prevista dall’art. 1, lett. a), dir. 75/442, in forza della
quale era da considerarsi rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate
nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi». Alla base di
questa impostazione vi era l’evidente preoccupazione del legislatore comunitario di imporre il
controllo amministrativo sulla gestione di qualunque scarto produttivo, nel timore che la creazione
di eccezioni potesse finire per scalfire il sistema di vigilanza proteso al raggiungimento del massimo
grado di tutela ambientale.
Questa soluzione legislativa, non immune da un certo estremismo ideologico, finì tuttavia per
generare situazioni paradossali, tali per cui anche i residui produttivi caratterizzati da un elevato
valore economico o certamente destinati per prassi risalenti al riutilizzo (come il fango vetroso delle
vetrerie o il siero di latte residuato della lavorazione del formaggio), sarebbero dovuti, a rigore,
essere sottoposti alla disciplina dei rifiuti, in netta contrapposizione con l’opinione dei vari operatori
di settore, che consideravano tali sostanze come “beni” da riutilizzare o commercializzare. Da qui,
in chiave correttiva, l’affermarsi di una prima giurisprudenza di merito più attenta alla realtà dei
vari processi produttivi che, sfruttando la componente soggettiva della definizione di rifiuto, finì per
ideare la figura dello scarto-non rifiuto, inteso, giustappunto, come il residuo produttivo di cui «il
detentore non intende disfarsi» stante la sua riutilizzabilità [1]. Un elemento riconoscitivo, quello
della volontà del produttore, che a lungo ha costituito il criterio identificativo di sottoprodotto [2] e
che, sebbene non sia stato esplicitamente recepito dalla vigente definizione di cui all’art. 184-bis,
non ha mai comunque perso del tutto la propria rilevanza pratica riaffiorando ancora oggi, in diversi
contesti normativi, quale indice di riconoscimento dello spartiacque tra “scarti-rifiuti” e “residuinon rifiuti” [3].
b) Il riferimento alla volontà del detentore quale indice di riconoscimento dello residuo-non
rifiuto, anziché sopire i timori di coloro che vedevano nella categoria del sottoprodotto un
potenziale vulnus di effettività dei controlli, finì per acuirli, nella misura in cui pareva far dipendere
il raggio di operatività della disciplina dall’animus dello stesso soggetto controllato. D’altro canto,
l’esistenza di residui produttivi dotati di intrinseco valore economico e convenientemente
reimpiegabili senza alcuna necessità di recupero rappresentava un dato di fatto da cui il sistema
giuridico non poteva prescindere. Finì per riconoscerlo, del resto, anche la stessa giurisprudenza
comunitaria pur impegnata a evitare che le categorie-limite di sottoprodotto e materia prima
secondaria valessero a erodere la politica di tutela ambientale riguardante i rifiuti [4]. Gli operatori
economici avvertivano tuttavia la necessità di una più precisa ma soprattutto oggettiva definizione
1
V. per esempio, nella giurisprudenza di merito degli anni ’80: Pretura Vicenza, 27 settembre 1984, Bisazza, in
Cass. pen., 1985, p. 1931; Corte appello Trento, 11 maggio 1987, Lanfranchi, in Riv. pen., 1987, p. 1093; Corte appello
Trento, 9 ottobre 1989, Iannece e altro, in Riv. pen., 1990, p. 147.
2
Cfr. sul punto fondamentalmente Corte Giustizia, 15 giugno 2000, (C-418/97 e C-419/97), ARCO Chemie.
Alla luce di questo orientamento si spiega dunque l’incipit dell’originaria lettera p), comma 1, dell'art. 183 d.lgs. 3
aprile 2006, n. 152, il quale definiva come sottoprodotti «le sostanze ed i materiali dei quali il produttore non intende
disfarsi ai sensi dell'articolo 183, comma 1, che soddisfino» le ulteriori condizioni ivi elencate.
3
Cfr., per esempio, nella prassi amministrativa, Le linee guida relative alla disciplina igienico-sanitaria in
materia di utilizzazione dei materiali e sottoprodotti derivanti dal ciclo produttivo e commerciale delle industrie agroalimentari nell’alimentazione animale, varate dal Ministero del Lavoro Salute e delle Politiche Sociali con
il Comunicato del 31 marzo 2009 (in G.U. Serie Generale n. 75 del 31 marzo 2009).
4
V. fondamentalmente, in tal senso, Corte giustizia, 18 aprile 2002 (C-9/00), Palin Granit, secondo la quale: «un
materiale o una materia prima che deriva da un processo di fabbricazione o di estrazione che non è principalmente
destinato a produrlo può costituire non tanto un residuo, quanto un sottoprodotto, del quale l'impresa non ha
intenzione di «disfarsi» ai sensi dell'art. 1, lett. a), primo comma, della direttiva 75/442, ma che essa intende sfruttare o
commercializzare a condizioni per lei favorevoli, in un processo successivo, senza operare trasformazioni preliminari.
Un'analisi del genere non contrasterebbe con le finalità della direttiva 75/442. In effetti non vi è alcuna giustificazione
per assoggettare alle disposizioni di quest'ultima, che sono destinate a prevedere lo smaltimento o il recupero dei
rifiuti, beni, materiali o materie prime che dal punto di vista economico hanno valore di prodotti, indipendentemente da
qualsiasi trasformazione, e che, in quanto tali, sono soggetti alla normativa applicabile a tali prodotti». Ma già prima
per un riconoscimento di una limitazione del concetto di rifiuto v. Corte di Giustizia 15 giugno 2000 (C-418/97 e C419/97).
2
di sottoprodotto, in grado di circoscrivere senza particolarismi la nozione di rifiuto, offrendo nel
contempo un parametro generale ed astratto in grado di guidarli nelle loro scelte comportamentali.
Si spiega così la decisione del legislatore italiano del 2002 di introdurre una nuova definizione
autentica di rifiuto, congegnata sulla scorta degli indici di riconoscimento della categoria di
sottoprodotto e di materia prima secondaria sino ad allora messi a punto dalla giurisprudenza
interna e comunitaria. Il riferimento è all’art. 14 d.l. 8 luglio 2002, n. 138, il quale si premuniva di
chiarire che «Non ricorre la decisione di disfarsi (…) per beni o sostanze e materiali residuali di
produzione o di consumo ove sussista una delle seguenti condizioni: a) se gli stessi possono essere
e sono effettivamente e oggettivamente riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo
produttivo o di consumo, senza subire alcun intervento preventivo di trattamento e senza recare
pregiudizio all’ambiente; b) se gli stessi possono essere e sono effettivamente e oggettivamente
riutilizzati nel medesimo o in analogo o diverso ciclo produttivo o di consumo, dopo aver subito un
trattamento preventivo senza che si renda necessaria alcuna operazione di recupero tra quelle
individuate nell’allegato C del decreto legislativo n. 22».
Sennonché, tale disposizione, per quanto animata dal commendevole obiettivo di rendere
predeterminabile il confine tra rifiuto e non rifiuto, evitando agli operatori economici il rischio
giudiziario di un accertamento in concreto e a posteriori, suscitò molte perplessità, anche in ragione
delle varie imprecisioni tecniche che la caratterizzavano. Al di là di questi aspetti, tuttavia, ciò che
maggiormente si contestava era la compatibilità di una siffatta interpretazione autentica con la
definizione imposta dall’art. 1 dir. 75/442/Cee. A ciò si aggiungevano i timori di coloro che
continuavano a considerare rischiosa per l’effettività del controllo ambientale l’introduzione di una
norma che contraesse ex ante, anziché retrospettivamente, la nozione di rifiuto. In considerazione di
tutto ciò, non sorprese dunque che in breve tempo la Corte di Giustizia, investita della questione ex
art. 234 TR CE dal Tribunale di Trani, ebbe modo di sancire la non congruenza dell’art. 14 cit.
rispetto al diritto comunitario [5].
Si badi bene però. Tale pronuncia non negava affatto la validità teorico-pratica del concetto di
sottoprodotto quale limite negativo del rifiuto. Anzi, richiamando la propria giurisprudenza – e in
particolare la sentenza Palin Granit [6] – la Corte di Giustizia tornò a ribadire che, pur nell’ambito di
un’interpretazione estensiva dell’art. 1 della direttiva 75/442, già il sistema giuridico riconosceva
l’esistenza di residui-non rifiuti, in tanto in quanto certamente riutilizzabili. Nondimeno, ciò che la
Corte censurò fu la soluzione tecnico-giuridica adottata dallo Stato italiano, “arrogatosi” la facoltà
di delimitare oggettivamente ed ex ante la nozione di sottoprodotto, laddove la giurisprudenza
5
6
Cfr. Corte giustizia, 11 novembre 2004 (C-457/02), Niselli.
V. supra nt. 4.
3
comunitaria imponeva un accertamento in concreto e a posteriori del confine. Come dire che il
contrasto registrato e censurato dalla Corte di Giustizia non riguardava tanto il merito della
disciplina nazionale, quanto il rapporto tra fonte interna di civil law e la fonte giurisprudenzialecomunitaria.
c) A partire dalla citata sentenza Niselli, la Corte di Giustizia tornò quindi a imporre la propria
esclusiva competenza nell’opera di definizione del concetto di sottoprodotto quale limite negativo
del rifiuto. Dalla metà degli anni 2000 si assistete infatti a un profluvio di decisioni che – a ben
vedere – null’altro fecero se non ricalcare quanto aveva cercato di affermare (forse in modo
maldestro ma pur sempre più rispettoso del principio di tassatività e determinatezza) l’art. 14 cit.,
mettendo così a punto gli indici di riconoscimento dello scarto-non rifiuto. Giova quindi richiamare
schematicamente per lo meno i principali passaggi di questa evoluzione giurisprudenziale, alla
quale si deve la messa a fuoco della nozione di sottoprodotto recepita dapprima dalla
Comunicazione interpretativa della Commissione (COM/2007, 59 del 21.2.2007), poi dalla
Direttiva 2008/98/CE e, infine, dall’art. 184-bis d.lgs. 2006/152.
Questi i passaggi principali della giurisprudenza in materia.
1) Inizialmente la Corte di Giustizia torna a ribadire il concetto di sottoprodotto enunciato
dalle sentenze Palin Granit, Avesta Polarit e Niselli, osservando che si tratta di un bene
che non presenta le caratteristiche del prodotto principale, ma del quale comunque
l'impresa produttrice non intende disfarsi perché può riutilizzarlo all'interno del ciclo
produttivo [7]. Questa decisione propone dunque un’applicazione “restrittiva” del concetto
di sottoprodotto, limitata cioè ai casi in cui il riutilizzo, certo e non eventuale, avvenga
all'interno dello stesso “ciclo produttivo”, riferendosi con tale espressione, non tanto a un
vincolo funzionale-economico, quanto a un vincolo spaziale, ossia al fatto che il
sottoprodotto non dovesse uscire dal sito produttivo in cui era stato generato.
2) Di lì a breve la Corte abbandona tuttavia l'applicazione restrittiva in favore di una
posizione più aperta alla commercializzazione, affermando così, esplicitamente, che «una
sostanza può non essere considerata un rifiuto ai sensi della direttiva 74/442 se viene
utilizzata con certezza per il fabbisogno di operatori economici diversi da chi l'ha
prodotta» [8].
3) Successivamente, la Corte di giustizia si premura di operare una duplice precisazione. Da
un lato, traccia la distinzione tra sottoprodotto (inteso ab origine come non rifiuto) e
7
8
Corte giustizia, 8 settembre 2005 (C-121/03), Regno di Spagna.
Corte giustizia 8 settembre 2005 (C-416/02), Regno di Spagna.
4
materia prima secondaria (intesa come rifiuto reimpiegabile in forza di un trattamento) [9].
Dall’altro lato, al fine di evitare l’insorgenza di pericolosi “limbi”, in cui residui produttivi
di dubbia qualificazione possano essere impunemente accatastati presso le imprese
produttrici, stabilisce che «se per tale riutilizzo occorrono operazioni di deposito che
possono avere una certa durata, e quindi rappresentare un onere per il detentore nonché
essere potenzialmente fonte di quei danni per l’ambiente che la direttiva mira
specificamente a limitare, esso non può essere considerato certo (…), cosicché la sostanza
di cui trattasi deve essere considerata, in linea di principio, come rifiuto (v., in tal senso,
sentenze citate Palin Granit, punto 38, e Avesta Polarit, punto 39)» [10].
4) Infine, nell’ambito di una più complessa vicenda, la Grande Sezione della Corte di
giustizia ha avuto modo di precisare che una sostanza (nella specie si trattava di olio
pesante venduto come combustibile) non costituisce rifiuto ai sensi della direttiva n.
75/442 CEE, nei limiti in cui è sfruttata o commercializzata a condizioni economicamente
vantaggiose e può essere effettivamente utilizzata come combustibile senza necessitare di
preliminari operazioni di trasformazione [11].
d) Come si è anticipato, tutti questi indici giurisprudenziali di riconoscimento del concetto di
sottoprorotto finirono per essere recepiti nella Comunicazione interpretativa sui rifiuti e sui
sottoprodotti (COM/2007, def. 59 del 21.2.2007) predisposta dalla Commissione al fine di fornire
agli Stati membri delle linee guida in materia: il tutto nella premessa, esplicitata dalla stessa
Comunicazione, che il confine tra “scarti-rifiuti” e “residui-non rifiuti” dovesse essere ancora
apprezzato «caso per caso», sicché «la Commissione ritiene che, per fare chiarezza giuridica, siano
più indicati delle linee guida, piuttosto che una definizione di sottoprodotti all’interno della
direttiva quadro sui rifiuti» [12].
Melius re perpensa, la stessa Commissione si rese di lì a breve promotrice di una soluzione
tecnica esattamente opposta: vale a dire l’adozione di una direttiva che finalmente, in modo
generale ed astratto, si prefiggesse (fra l’altro) di definire il concetto di sottoprodotto, così da fugare
gli ampi margini di discrezionalità e di indeterminatezza alimentati dalla rilevanza meramente
9
Corte giustizia 18 dicembre 2007 (C-263/05), Repubblica italiana, la quale chiaramente osserva: «oltre al
criterio relativo alla natura o meno di residuo di produzione di una sostanza, il grado di probabilità di riutilizzo di tale
sostanza, senza operazioni di trasformazione preliminare, costituisce un criterio utile ai fini di valutare se tale sostanza
sia o meno un rifiuto ai sensi della direttiva. Se, oltre alla mera possibilità di riutilizzare la sostanza di cui trattasi, il
detentore consegue un vantaggio economico nel farlo, la probabilità di tale riutilizzo è alta. In un’ipotesi del genere la
sostanza in questione non può più essere considerata un onere di cui il detentore cerchi di «disfarsi», bensì un
autentico prodotto (v. sentenze Palin Granit, punto 37, e Niselli, punto 46)».
10
Corte giustizia 18 dicembre 2007 (C-263/05), punto 39.
11
Corte di Giustizia, Grande Sezione, 24 giugno 2008 (C-188/07).
12
Comunicazione della Commissione, 21.2.2007, 59 def., pag. 1 e 5.
5
giurisprudenziale e amministrativa di sottoprodotto. Il risultato fu quindi il varo dell’art. 5 della
Direttiva n. 2008/98/CE, il quale così definisce il sottoprodotto:
«una sostanza od oggetto derivante da un processo di produzione il cui scopo primario
non è la produzione di tale articolo può non essere considerato rifiuto ai sensi dell’articolo 3,
punto 1, bensì sottoprodotto soltanto se sono soddisfatte le seguenti condizioni:
a) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà ulteriormente utilizzata/o;
b) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzata/o direttamente senza alcun ulteriore
trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
c) la sostanza o l’oggetto è prodotta/o come parte integrante di un processo di
produzione e
d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo
specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e
dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana».
2) Analisi degli elementi strutturali della nozione di sottoprodotto di cui all’art. 184-bis
d.lgs. 152/2006.
Come si evince dal confronto tra il testo sopra riportato dell’art. 5 della Direttiva n.
2008/98/CE e la formulazione del nuovo art. 184-bis d.lgs. 152/2006 [13], quest’ultimo altro non è
che un’attenta e “prudente” trasposizione della definizione comunitaria, tanto da potersi di seguito
accomunare le due norme nell’ambito di un’unica proposta esegetica.
D’altronde, l’“originale” richiamo operato dal comma 2 dell’art. 184-bis a possibili futuri
decreti del Ministero dell’ambiente che fissino «criteri quantitativi o qualitativi da soddisfare
affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti», non
vale a scalfire tale conclusione, né tanto meno compromette l’immediata operatività della nuova
definizione di sottoprodotto [14]. Invero, anche l’esistenza di tali provvedimenti ministeriali – dal
13
«184-bis. Sottoprodotto. – 1. È un sottoprodotto e non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a),
qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti condizioni:
a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui
scopo primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;
b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso dello stesso o di un successivo processo di
produzione o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla
normale pratica industriale;
d) l’ulteriore utilizzo è legale, ossia la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti
pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non porterà a impatti complessivi negativi
sull’ambiente o la salute umana.»
14
Così si è espressa unanimemente in sede di prima lettura tutta la dottrina: S. COREZZI, Attività di prevenzione e
riutilizzo al debutto, in Guida al dir., Dossier n. 1, febbraio 2011, pag. 70; F. GIAMPIETRO, A. MURATORI, D. RÖTTGEN,
Il D.Lgs. n. 205/2010 sui rifiuti: prima lettura, in Ambiente e sicurezza, 2011, pag. 109.
6
valore nulla più che esplicativo – trova corrispondenza nel secondo comma dell’art. 5 dir.
2008/98/CE: il quale prevede infatti la facoltà (e non già un obbligo) di «adottare misure per
stabilire i criteri da soddisfare affinché sostanze ed oggetti specifici siano considerati prodotti e non
rifiuti». Del resto, ove si ragionasse diversamente, ritenendo che occorrerebbe attendere i decreti
ministeriali per individuare in concreto la categoria dei sottoprodotti, si aprirebbe nel frattempo un
inspiegabile quanto intollerabile vuoto normativo, tale da generare esiziali paralisi produttive e
incertezze presso gli organi accertatori e gli organismo giurisdizionali [15].
Tanto precisato, pare opportuno procedere a una breve ma separata analisi delle specifiche
condizioni cumulativamente richieste dall’art. 184-bis per il riconoscimento di un sottoprodotto. Il
tutto alla luce della giurisprudenza comunitaria che ha portato all’emanazione dell’art. 5
2008/98/CE [16].
a) Il sottoprodotto quale sostanza-oggetto strettamente inerente alla produzione. – Il primo
indice di riconoscimento del sottoprodotto su cui pone l’attenzione il legislatore nazionale può
apparire quasi scontato. Il riferimento è a quanto stabilito dalla lettera a dell’art. 184-bis ove si
precisa che sottoprodotto può essere solo «la sostanza o l’oggetto […] originato da un processo di
produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo primario non è la produzione di tale
sostanza od oggetto». Sostanzialmente negli stessi termini si esprime l’incipit del comma 1 dell’art.
5 dir. 2008/98/CE e la successiva lettera c) dello stesso articolo, ove si prevede che sottoprodotto è
solo «una sostanza od oggetto derivante da un processo di produzione il cui scopo primario non è
la produzione di tale articolo» aggiungendosi poi che dev’essere «parte integrante del processo di
produzione».
In realtà, quest’indice di riferimento è meno ovvio di quanto taluni ritengano. Tramite esso,
infatti, il legislatore non si prefigge di tracciare – come alcuni commentatori hanno equivocamente
teorizzato – la linea superiore del sottoprodotto, distinguendolo dal prodotto principale. Esso
intende semmai circoscrivere il concetto di sottoprodotto solo ed esclusivamente alle realtà
produttive, nelle quali tale residuo è generato di fatto (ossia naturalmente e/o necessariamente)
come conseguenza diretta del processo destinato a produrre qualcos’altro, in ragione delle materie
prime utilizzate o delle tecnologie di processo seguite.
Da ciò ne deriva – anzitutto – che non sarebbe possibile individuare un sottoprodotto in un
contesto antropico diverso da quello produttivo, quand’anche l’attività svolta abbia valore
15
Si giustificano così le perentorie prese di posizione della dottrina per la quale è incontestabile che la nozione
di sottoprodotto è di per sé immediatamente applicabile alle nuove condizioni»: F. GIAMPIETRO, I decreti tecnici
attuativi della nozione (legislativa) di sottoprodotto e di materia prima secondaria: obiettivi e funzioni, in Ambiente e
sviluppo, 2010, pag. 942.
16
V. in particolare supra § 1-c.
7
economico, come l’attività commerciale o di servizio, e sebbene quella stessa materia in ambito
produttivo ben potrebbe costituire un sottoprodotto [17]. Così, per esemplificare, nei cartonifici, i
ritagli delle scatole ben potrebbero costituire dei sottoprodotti destinati alle cartiere, là dove quegli
stessi imballaggi, se risultanti da un’attività di confezionamento, non potrebbero costituire
sottoprodotti, bensì dei semplici rifiuti (al più) recuperabili e in quanto tali delle materie prime
secondarie.
Non solo. Questo primo criterio di riconoscimento è importante nella misura in cui chiarisce
che il sottoprodotto, oltre a riguardare solo i contesti produttivi, deve scaturire direttamente dal
processo di produzione primario. Ciò significa, per esemplificare, che gli eventuali imballaggi delle
materie prime impiegate in un’industria, sebbene ineriscano a un’attività autenticamente produttiva,
e quand’anche fossero conservati e destinati a una cartiera, non potranno mai qualificarsi come
sottoprodotti, proprio perché essi non costituiscono, in senso stretto, un derivato diretto e
necessario del processo di produzione. Si tratterebbe di comuni “rifiuti di consumo” tutt’al più
assoggettabili a un’operazione di “recupero”.
b) La riutilizzazione certa. – Il secondo requisito costitutivo del sottoprodotto (quello
previsto, sostanzialmente negli stessi termini, dalla lettera b dell’art. 184-bis e dalla lettera a
dell’art. 5 dir. 2008/98/CE) assume un ruolo quanto mai strategico nella definizione in esame.
Intento della giurisprudenza comunitaria che lo coniò e del legislatore che lo ha recepito è infatti
quello di evitare che la figura del sottoprodotto sia sfruttata dagli operatori economici per gestire
illegittimamente degli autentici rifiuti, così da trasformare un tale concetto in una specie di “cavallo
di Troia” capace di erodere dall’interno la politica di controllo ambientale. Per questa ragione il
sistema esige – da sempre – che il riutilizzo, che contraddistingue il “residuo-non rifiuto” dallo
“scarto-rifiuto”, deve essere un requisito certo del derivato produttivo [18].
Beninteso: stabilendo che deve essere «certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato», la
lettera b dell’art. 184-bis non fa riferimento (esclusivamente) a un requisito oggettivo dello scarto,
quasi che nel novero dei sottoprodotti si possano includere solo le sostanze intrinsecamente vocate,
per caratteristiche naturali o merceologiche, al riutilizzo. La certezza, oltreché da elementi oggettivi,
ben può desumersi in termini soggettivi, ossia in forza di una assodata volontà in tal senso del
17
Se ne trova conferma anche nella disciplina transitoria e finale che ha accompagnato l’introduzione del nuovo
art. 184-bis d.lgs. 152/2006, la quale, per estenderne il raggio d’applicazione oltre l’ambito produttivo, vale a dire al
«materiale che viene rimosso, per esclusive ragioni di sicurezza idraulica, dagli alvei di fiumi, laghi e torrenti», ha
dovuto fare leva su una previsione ad hoc, ossia sul comma 13 dell’art. 39 d.lgs. 205/2010.
18
Su tale requisito v., diffusamente, Corte giustizia, 18 dicembre 2007 (C-263/05), Repubblica italiana, nonché
nella giurisprudenza interna Cass. pen., sez. III, 13 aprile 2010, n. 22743, in Foro it., 2010, II, pag. 421; Cass. pen., sez.
III 9 aprile 2010, n. 13493 che ha negato la qualificazione di sottoprodotto, vuoi per l'incertezza sulla destinazione
finale del residuo produttivo (sconoscevasi infatti l'azienda del reimpiego) vuoi perché il materiale era stato ceduto a un
supposto intermediario.
8
produttore e dell’eventuale acquirente. Ciò che rileva è la prospettiva certa del reimpiego, senza che
siano richieste prove formali, tassative o tipiche per la dimostrazione di tale indice prospettico
(anche se è consigliabile munirsi di documentazione relativa ai rapporti contrattuali fra produttore,
utilizzatore, intermediario, ecc.). Inevitabile sarà, dunque, in questi casi una valutazione induttiva
(di riutilizzo certo), nell’ambito della quale finiranno per giocare un ruolo decisivo gli elementi già
valorizzati in tal senso dalla giurisprudenza interna e comunitaria.
Così, per esemplificare, un giudizio di certezza del riutilizzo ben potrà fondarsi sulla
«esistenza di contratti a lungo termine tra il detentore del materiale e gli utilizzatori successivi»
[19]; ma può dipendere anche dalla percezione del residuo (quale rifiuto oppure come ulteriore
merce) da parte dei soggetti che operano all’interno dell’impresa [ 20], ovvero ancora può derivare
dal profitto ricavato dal produttore nella sua commercializzazione [21]. E d’altro canto, in senso
inverso, la certezza del riutilizzo può essere compromessa dalla presenza di altri indizi: come, per
esempio, la mancanza di un mercato di destinazione, il precario stato di conservazione o la tendenza
al suo accumulo presso l’impresa produttrice. Anzi, a questo riguardo, va registrata l’enunciazione
giurisprudenziale di una vera e propria presunzione contraria alla qualificazione di sottoprodotto,
ogni qual volta la durata del deposito del residuo produttivo presso l’impresa che lo genera abbia
una carattere indeterminato o possa costituire una fonte di pericolo ambientale [22].
Tanto chiarito, sempre con riferimento all’indice prospettico del riutilizzo certo, va segnalata
un’altra opportuna precisazione operata dal legislatore italiano rispetto alla più stringata
formulazione adottata dall’art. 5, lett. a, dir. 2008/98/CE. Quest’ultima si limita infatti ad alludere
all’ulteriore riutilizzo certo; la lett. b dell’art. 184-bis d.lgs. 152/2006 precisa invece, in modo
assolutamente pertinente, che il certo reimpiego del sottoprodotto può indifferentemente avvenire,
sia da parte dello stesso produttore, sia da parte di terzi. Ciò scongiura la riproposizione
giurisprudenziale di quell’interpretazione restrittiva del concetto di sottoprodotto, secondo cui per
essere tale il derivato secondario della produzione dovrebbe essere riutilizzato direttamente dal
produttore [23].
19
Comunicazione interpretativa della Commissione COM/2007, 59 del 21.2.2007, pag. 7.
In tal senso v. già Corte Giustizia, 15 giugno 2000, (C-418/97 e C-419/97), ARCO.
21
V. in argomento, soprattutto, Corte giustizia, 18 aprile 2002 (C-9/00), Palin Granit; Corte giustizia, 18
dicembre 2007 (C-263/05), Repubblica italiana, per le quale il valore economico del materiale pur indicando una
maggiore probabilità che tale materiale venga riutilizzato, non costituisce di per sé un indizio da solo sufficiente.
Rimane certo – nondimeno – che un prezzo elevato, superiore o nella media dei prezzi di mercato, può indicare che il
materiale non è un rifiuto, così come, all’opposto, un prezzo troppo basso o simbolico potrebbe celare pratiche elusive.
22
Corte giustizia 18 dicembre 2007 (C-263/05), Repubblica italiana, punto 39.
23
Così ad esempio, inspiegabilmente, T AR Torino Piemonte, sez. I, 25 settembre 2009, n. 2292 Assoc. ab. Alta
Val Lemme e altro c. Prov. Alessandria e altro, in Ragiusan 2009, 307-308, 142, la quale – di questo passo – si è posta
in contrasto con quanto esplicitamente stabilito dalla stringente giurisprudenza comunitaria, a partire dalla sentenza sul
c.d. letame spagnolo: Corte giustizia 8 settembre 2005 (C-416/02), Regno di Spagna.
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Detto questo, a scanso di equivoci, va ulteriormente chiarito che la precisazione operata dal
legislazione italiano nella nuova definizione di sottoprodotto, oltre ad essere in linea con la
giurisprudenza comunitaria, risulta perfettamente consonante anche al tenore della direttiva. Già in
sede di primo commento si era infatti osservato che la formulazione testuale della lettera a, dell’art.
5 dir. 2008/98/CE, non specificando lo scopo, il settore merceologico e la destinazione finale della
merce-residuo, s’incentrava su una deliberata omissione: e ciò – si è detto – proprio al fine di
evitare di «porre dei limiti, in sede legislativa, al tipo di reimpiego, nel tempo, dei sottoprodotti
(sostanzialmente illimitato e non prevedibile in astratto)» [24].
c) Il riutilizzo diretto. – Senza dubbio, l’indice attualmente previsto dalla lettera c dell’art.
184-bis d.lgs. 152/2006 [25] costituisce un decisivo quanto auspicato miglioramento rispetto alla
definizione di sottoprodotto un tempo prevista dall’art. 183, lett. p, d.lgs. 152/2006: il quale al n. 4
prevedeva infatti che il residuo produttivo, per essere considerato “sottoprodotto”, non dovesse
richiedere «trattamenti preventivi o trasformazioni preliminari»: ossia – come si soleva dire –
dovesse essere impiegato “tal quale”. Di questo passo ci si prefiggeva di tracciare una netta linea di
separazione tra il concetto di sottoprodotto e quello di “materie prime secondarie”: le quali,
scaturendo da un’attività di recupero degli scarti di produzione, attraversavano una fase (quella
antecedente al recupero) in cui il materiale deve considerarsi ed essere gestito a tutti gli effetti come
rifiuto (v. il previgente art. 183, lett. h, d.lgs. 152/2006).
Tale soluzione definitoria aveva finito però per generare incoerenze e contrasti interpretativi,
in merito alla nozione di rifiuto, specie tra la giurisprudenza interna e quella comunitaria. Stando a
una parte della nostra giurisprudenza, infatti, sarebbe stata sufficiente una qualunque forma di
trattamento affinché il derivato produttivo non potesse essere qualificato come sottoprodotto [26].
Dal canto suo invece la giurisprudenza comunitaria, seguita da altra parte della più attenta
giurisprudenza italiana, ha più opportunamente distinto tra “trasformazioni preliminari” (o attività
di recupero completo, in seguito alle quali è generata una materia prima secondaria) e interventi
riconducibili alla “normale pratica industriale” che, essendo di carattere minimale e, pertanto, non
trasformativi dell’identità del bene (come la cernita, la selezione, la frantumazione, il
24
P. GIAMPIETRO, Nozione comunitaria di sottoprodotto. Per una corretta attuazione della disciplina
comunitaria, in www.lexambiente.it, § 7.
25
Può essere considerato un sottoprodotto solo «la sostanza o l’oggetto [che] può essere utilizzato direttamente
senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale»
26
Cfr. fra le più recenti Cass. pen., sez. III, 13 aprile 2010, n. 22743, cit.; Cass. pen., sez. III, 25 novembre 2009,
n. 773, in Dir. e giur. agr., 2010, 254 con nota di S. MARASCIALLI, Il sottoprodotto: la distinzione dal rifiuto e la sua
lunga evoluzione concettuale; Cass. pen., sez. III, 28 gennaio 2009, n. 10711, in CED Cass. pen. 2009.
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consolidamento, ecc.) non equivalgono ad attività di recupero vero e proprio e sono pertanto
perfettamente compatibili con la nozione di sottoprodotto [27].
Vero quanto sopra, non può allora che condividersi la soluzione adottata dall’art. 5 della
direttiva e dal nuovo art. 184-bis, i quali, sulla scorta di quest’ultimo indirizzo giurisprudenziale, si
sono prefissi di specificare meglio il tradizionale requisito dell’utilizzo tal quale, ammettendo che
un sottoprodotto non perda la sua natura solo per il fatto di essere in qualche modo “maneggiato” o
“trattato”, sempreché tali trattamenti rientrino nella normale pratica industriale o produttiva. Il
riferimento è a tutti quegli interventi (non di trasformazione o di recupero completo, secondo il
lessico precedente) i quali non incidono o fanno perdere al materiale la sua identità e le
caratteristiche merceologiche e di qualità ambientale, che esso già possiede fin dalla sua origine in
quanto residuo produttivo, ma che si rendono utili o funzionali per il suo ulteriore e specifico
utilizzo, presso il produttore o presso ditte terze (anche in altro luogo e in distinto processo
produttivo) [28], come le operazioni di lavaggio, essiccazione, raffinazione, selezione, cernita,
vagliatura, macinazione, frantumazione, raffreddamento, conservazione, consolidamento, ecc.
Per quanto controversi in letteratura, appare peraltro superfluo indugiare oltremodo sui
concetti di “trattamento consentito” e “normale pratica industriale”. Al di là della diversità di
opinioni, la linea di tendenza che emerge dalle già citate fonti comunitarie va nel senso di un
ampliamento del novero dei trattamenti compatibili con la qualificazione di sottoprodotto, e ciò
nell’ottica di stimolare lo sviluppo del mercato delle c.d. merci-residuo, la cui crescita costituisce –
nelle più illuminate moderne prospettive – una conveniente misura di tutela dell’ambiente. Per un
verso, infatti, il commercio di tali sostanze riduce la mole degli scarti produttivi destinati allo
smaltimento, con tutti i vantaggi ambientali e il risparmio economico che una tale riduzione
comporta. Per altro verso, il commercio dei sottoprodotti limita – e in alcuni settori azzera – lo
stesso fabbisogno di materie vergini che, dove possibile, è sempre bene siano sostituite da
surroganti di origine produttiva.
d) L’utilizzo legale. – Con perfetta concordanza terminologica, l’art. 184-bis, lett. d, d.lgs.
152/2006 e l’art. 5, lett. d, dir. 2008/98/CE prevedono, quale ultimo requisito strutturale del
sottoprodotto, che possano così qualificarsi solo quei residui produttivi il cui «ulteriore utilizzo è
27
V., in primis, Corte giustizia, 15 giugno 2000, n. 418, ARCO Chemie Nederland; nello stesso senso nella
giurisprudenza italiana v. ad esempio TAR Piemonte, 25 settembre 2009, n. 2292, in Ragiusan 2009, 307-308, 142;
Cons. St., sez. V, 19 febbraio 2004, n. 674, in Foro amm. CDS, 2004, 460, nonché, da ultimo: Cons. Stato, Sez. IV, 16
febbraio 2010, n. 888, in Dir. e giur. agr. 2010, 6, 405.
28
Quanto mai eloquente sul punto la Comunicazione interpretativa della Commissione COM/2007, 59 del
21.2.2007, stando alla quale: «Alcune operazioni sono condotte nel luogo di produzione del fabbricante, altre presso
l'utilizzatore successivo, altre ancore sono effettuate da intermediari. Nella misura in cui tali operazioni sono parte
integrante del processo di produzione (…), non impediscono che il materiale sia considerato un sottoprodotto» (punto
3.3.2).
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legale»: il che si verifica ogni qual volta «la sostanza o l’oggetto soddisfa, per l’utilizzo specifico,
tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non
porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana».
Più che una condizione ulteriore, queste disposizioni pongono, in realtà una “clausola di
riserva” – già presente in forma estesa nel n. 3 della lett. p del previgente art. 183 d.lgs. 152/2006 –
in forza della quale può parlarsi di sottoprodotto solo se il suo successivo reimpiego non è vietato e
non risulta dannoso per l’ambiente.
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