Disabilità e presupposti etico-antropologici della riabilitazione
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Disabilità e presupposti etico-antropologici della riabilitazione
Disabilità e presupposti etico-antropologici della riabilitazione In questa breve riflessione mi limiterò a mettere in luce i fondamentalissimi presupposti etico-antropologici della riabilitazione, come pratica nei confronti dei soggetti con disabilità. Svilupperò quattro passaggi: una presentazione dei soggetti implicati nella relazione; i ‘soggetti’ della riabilitazione; il contesto culturale; la pratica della riabilitazione come forma della cura. 1. I soggetti in gioco Anzitutto, vorrei proporre una fenomenologia e dunque una comprensione dell’esperienza dei soggetti e delle relazioni che sono in gioco nella riabilitazione. Si tratta di un approccio ben diverso da quello utilitaristico/strumentale. La pratica della riabilitazione è una ‘strategia’ costituita da varie fasi, dalla diagnosi alla prognosi alla terapia, passando dalla ricerca alla fisioterapia. In questo senso la riabilitazione è una pratica di cura e quindi ha un carattere etico (libero) fondamentale. Essa coinvolge diversi soggetti, in relazione tra loro. È su questi soggetti che mi vorrei qui soffermare. Non va dimenticato questo profilo di relazione, ed etico, che è fondamentale nella riabilitazione: il fisioterapista, il medico, l’operatore sanitario, il ricercatore, lo scienziato, non sono semplicemente dei tecnici o degli esperti, non sono macchine, automi, ma persone che non hanno a che fare con corpi-oggetto (Körper), ma che si prendono cura di un’altra persona, nel suo corpo proprio (Leib). 2. Il soggetto della riabilitazione Chi sono coloro che sono ‘oggetto’ della riabilitazione? È evidente che essi non sono semplicemente ‘oggetto’, ma sono soggetto della cura, impegnati attivamente in essa. La loro collaborazione è decisiva, per una buona riuscita della riabilitazione. Proprio per questo non si può dimenticare negare la ferita e la fragilità della carne (corpo proprio). Essa può avere diverse origini: l’handicap (per nascita o successivo) l’incidente con conseguenze (danni) irreversibili, anche se non mai incurabili la lesione cerebrale, legata a eventi fisici traumatici ... Non si deve dimenticare che la ferita della carne è ferita anche del Sé e implica un vissuto profondo, simbolico e relazionale. Per meglio comprendere questa ‘ferita’ – più profonda – della malattia, mi pare molto istruttiva e suggestiva la fenomenologia della malattia elaborata dalla Toombs (una filosofa, di orientamento fenomenologico, e insieme una malata di sclerosi multipla), la quale propone di interpretare l’handicap o la malattia come l’esperienza vissuta di ‘un senso globale di disordine’, un senso di non-senso, che tocca la totalità del soggetto, nelle sue relazioni al mondo e a se stesso (e, aggiungiamo, a Dio), a partire da uno sconvolgimento del corpo vissuto. Questo sconvolgimento esibisce ‘un modo tipico di essere’ e quindi una vera e propria condizione ontologica del sofferente che viene da questa studiosa caratterizzata come 1 ‘perdita di integrità’, ‘perdita di certezza’, ‘perdita di controllo’, ‘perdita della libertà di agire’ e ‘perdita del mondo familiare’. a) La perdita di integrità: viene esperita e si manifesta in forme molteplici: sconvolgimento o indebolimento del corpo, ‘perdita dell’integrità totale del corpo’1, cambiamento di piani e progetti, impedimenti nelle scelte, impossibilità (più o meno) di agire. Tra il sé e il corpo si rompe la percezione della ‘fondamentale unità’ che noi ne abbiamo ordinariamente. Il corpo diventa oggetto obbligato dell’attenzione: è conosciuto come alieno, diviene rivelatore di una presenza nascosta e oscura ed è legato ad un acuto senso di ‘alterità’. La malattia, dice la Toombs, ‘forza una persona a riconoscere in modo esplicito la tenue natura dell’integrità fisica’2 e la corrispettiva perdita di controllo del funzionamento del corpo. La disabilità, e la malattia, non è solo minaccia al corpo, ma è sempre anche una minaccia al sé, con tutto ciò che questo comporta: lo sconvolgimento delle relazioni con gli altri, del lavoro, del senso della vita addirittura. Nella malattia, dice Toombs, ‘tutto cambia e il cambiamento è «terrificante»’3. Perciò essa, al di là di una questione fisica riguarda la condizione ontologica del nostro essere nel mondo. b) La perdita di certezza. Alla perdita di integrità è legata la perdita di certezza: nella malattia cade l’ingenua assunzione della ‘indistruttibilità personale’ e si accresce il senso della vulnerabilità. Da qui l’ansia, la paura, che spesso il malato – e a volte il soggetto con disabilità – comunica agli altri con difficoltà o manifesta con capricci, ingenui e infantili. Il malato vive generalmente la malattia come un ‘evento inatteso’ e perfino come una ‘capricciosa interruzione’ dei propri progetti e del piano di vita, un qualcosa che dall’esterno colpisce e sconvolge. c) La perdita del controllo – o senso di impotenza –. A questo senso di perdita si accompagna anche ‘una acuta coscienza di «perdita di controllo»’4. La malattia appare difficile o impossibile da dire e da controllare. Il malato ha un’acuta coscienza di perdita di controllo sulla ‘situazione presente’5: non può cancellare la trasgressione collegata alla malattia e oltretutto ‘adesso non può cambiare le circostanze presenti’6. Il senso d’impotenza è paradossalmente maggiore nella medicina moderna, che incrementa l’attesa e a volte l’illusione ‘circa il potere della tecnologia e le capacità della scienza moderna’. Spesso il paziente si rivolge al medico nutrendo verso di lui ‘attese irrealistiche’ e, nel caso in cui questi non le possa esaudire, si sente abbandonato e la situazione gli appare ancor più fuori controllo. A tale proposito nota bene la Toombs: ‘la tecnologia che promette redenzione paradossalmente intensifica la perdita di controllo sperimentata nella malattia’. La relazione tra medico e paziente appare così in tutta la sua asimmetria e diseguaglianza. d) La trasformazione (perdita) della scelta libera. In collegamento a questa condizione di asimmetria, il paziente perde gradualmente la capacità di fare scelte motivate, convinte e fondate. Certo, il paziente ‘competente’ – in grado di intendere e di volere – è l’ultimo responsabile di tutte le scelte che riguardano la sua cura. E tuttavia, nota giustamente la Toombs, benché tali decisioni avvengano sempre dopo aver consultato il medico, ‘la persona malata quasi sempre si sente 1 S.K. TOOMBS, The Meaning of Illness. A phenomenological Account of the Different Perspectives of Physician and Patient, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht – Boston – London 1992, 90. Ho approfondito questa riflessione in M. CHIODI, L’enigma della sofferenza e la testimonianza della cura, Glossa, Milano 2003. 2 S.K. TOOMBS, The Meaning of Illness, 91. 3 S.K. TOOMBS, The Meaning of Illness, 92 cita da A.W. FRANKL, At the Will of the Body, Houghton Mifflin Company, Boston. 4 S.K. TOOMBS, The Meaning of Illness, 93. 5 S.K. TOOMBS, The Meaning of Illness, 94. 6 S.K. TOOMBS, The Meaning of Illness, 94. 2 inadeguata al compito’7, perché sente di non avere le conoscenze necessarie per poter prendere decisioni buone – questo anche quando il paziente è medico –. È molto difficile prendere decisioni giuste quando il proprio futuro è incerto. Tanto più che queste decisioni coinvolgono il piano personale di vita e dunque il sistema etico ari riferimento. Anzi, spesso – nota giustamente la Toombs senza tuttavia avvedersi che qui si aprirebbe la possibilità di un senso praticabile per vivere la malattia – la malattia costringe un individuo a rendere espliciti i principi che orientavano le sue scelte e le azioni. e) La trasformazione e perdita del mondo familiare. Infine la malattia comporta ‘una perdita del mondo familiare’8. Per il paziente è impossibile partecipare alle attività normali del mondo della vita, che tra l’altro continuano e ciò accresce il suo senso di isolamento e solitudine. Certo, gli altri possono partecipare alla sua situazione, ma essi rimangono solo alla periferia della sua esperienza. Cambia in lui l’esperienza dello spazio e del tempo. Tutto il mondo che prima era familiare ora ‘è permeato di un senso globale di disordine. È un mondo nel quale non si è più a casa propria’9. Tutto, nella malattia, acquista un significato diverso. 3. Il contesto post-moderno e la sofferenza Queste esperienze ‘personali’ sono da interpretare all’interno di un contesto culturale che, se offre straordinari e incredibili vantaggi, presenta anche aspetti problematici che rischiano di aumentare ancor più le difficoltà personali. È un contesto assai variegato e complesso, anche se è caratterizzato da alcuni elementi comuni che cerchiamo in parte di sintetizzare: 3.1. Anche se un po’ sommariamente, nella nostra cultura il dolore tende ad essere considerato a priori e sempre in-utile, secondo un prevalente approccio utilitaristico. Perciò il dolore viene fuggito, come se fosse sempre una parentesi che ci impedisce di vivere oppure viene soltanto aggredito con ogni ‘mezzo’ tecnico-strumentale. Certo, senza dubbio la tecno-scienza ci offre preziosissimi strumenti di diagnosi e di terapia, ma questo – da solo – sarebbe molto riduttivo. E soprattutto il dolore non è una parentesi da fuggire. Ma è un momento forte dell’esistenza umana, da vivere. Il dolore – come le altre esperienze della vita – può essere molto istruttivo, guardandoci da qualsiasi apologia o elogio del dolore. E perciò anche il sofferente non va isolato, emarginato, ma va ascoltato: da lui c’è sempre molto da imparare. Allo stesso modo, è giusto curare tecnicamente un handicap, una malattia. Ma evidentemente ciò non basta. Una cura solamente tecnica non è una presa in carico del malato, con il suo vissuto. È semplicemente questione tecnica. Che riduce il soggetto a oggetto. Invece il corpo è sempre corpo proprio. La questione che più positivamente si pone qui è di pensare e vivere il ‘senso’ del dolore e del patire nella storia dell’uomo. 7 S.K. TOOMBS, The Meaning of Illness, 95. S.K. TOOMBS, The Meaning of Illness, 96. 9 S.K. TOOMBS, The Meaning of Illness, 97. 8 3 3.2. In stretto legame a questa riduzione utilitaristica del dolore, c’è il rischio del predominio della ragione tecnica e strumentale (tecnicismo). L’enorme sviluppo della tecnica e della scienza è un tratto tipico della modernità, non solo nel campo della salute e della medicina. H. Jonas ha sottolineato, in Il principio responsabilità, come la tecno-scienza abbia avuto oggi, rispetto a un tempo, una particolare estensione del suo potere, sia in ordine di tempo (oggi prendiamo decisioni che avranno conseguenze tra centinaia di anni) che di estensione spaziale (come dimostra, sempre più, quel che chiamiamo globalizzazione). La tecnica e la scienza estendono enormemente le nostre possibilità. Innegabili sono i vantaggi: e questi sono evidenti nel campo della riabilitazione, dalla ricerca alle ‘applicazioni’ della cura. Ma non dobbiamo dimenticare i problemi, gli svantaggi, i rischi. Sinteticamente, potremmo indicare in due aspetti il limite della scienza e della tecnica: (*) anzitutto, l’occultamento del limite. Il superamento straordinario, in tutti i campi, dei limiti imposti all’uomo dalla natura, grazie alla tecnoscienza, espone realmente al rischio del delirio di onnipotenza. Contro questo, a volte si dice: ‘occorre mettere dei limiti alla scienza’ – ma l’espressione è ambigua. Rischia di dimenticare che noi non dobbiamo ‘mettere’ i limiti, dobbiamo soltanto ‘riconoscerli’ o meglio riconoscerne il senso. Il limite, la passività, fa parte costitutiva dell’esperienza umana universale. Ed è una menzogna credere o far credere che non ci siano i limiti – in particolare il limite, la soglia, che è la morte –, e che questi siano sempre superabili. È vero che limiti di ieri oggi sono superati: ma proprio in ciò consiste l’illusione tecnicistica, nel credere che un giorno non ci sarà per l’uomo più nessun limite. In sostanza, è molto importante, per la stessa ‘qualità di vita’ imparare a convivere con il limite creaturale e la propria finitudine. Anzi, è importante scoprire in esso anche sempre una possibilità, un tempo buono (come nella malattia: occorre imparare a vivere malati). Il limite è una esperienza di passività che chiede di essere vissuta (e, in questo quadro, se possibile, superata). Del resto, sempre è a partire da ciò che tu non vuoi che è possibile volere. (*) In secondo luogo, la riduzione dell’agere al facere. Tutto viene ridotto al produttivo, all’efficienza, e dunque all’economia, al mercato (altro aspetto oggi assai rilevante). Questo è certo un aspetto costitutivo e necessario dell’esperienza umana. Ma è molto importante ricordare che il facere, produttivo, è sempre un agere responsabile. Quando si mette in atto una pratica o uno strumento riabilitativo, si va ben al di là di uno strumento tecnico. Nella tecnica l’uomo dispone di sé e dell’altro. Occorre dunque ‘trasgredire’ questa visione riduttiva puramente tecnico-strumentale (e pure economica). C’è un agire che va oltre, nel quale l’uomo non vuole solo produrre (e scartare); c’è un agire il cui senso non è di produrre ‘qualcosa’ (facere), ma di cambiare e determinare se stessi (agere). Anzi, radicalmente, ogni facere è un agere. L’agire fa appello alla responsabilità radicale, a ciò che io faccio di me nell’agire quotidiano. 4 3.3. Nella comunità cristiana, viceversa, spesso si fanno dei discorsi doloristici, a rischio di compiacimento del dolore proprio e altrui. Alla radice di questo c’è anche una cattiva comprensione del dolore di Gesù: Gesù non ha scelto il dolore fine a se stesso, non lo ha amato né se ne è compiaciuto – basterebbe pensare alla sua attività di guarigione, nei miracoli –. E nemmeno noi dobbiamo compiacerci del suo dolore, come se in questo modo noi acquistassimo un merito dinanzi a Dio. La fede ebraica, e soprattutto cristiana, ha effettivamente spezzato ogni logica ‘retributiva’ dinanzi al dolore. Gesù stesso ha imparato l’ubbidiena dalle cose che ha patito (cfr. Eb 5,8), ma ha attraversato il dolore vivendolo nel suo aspetto radicale di ‘prova’. Come appare sulla croce, egli ha vissuto, nello ‘scandalo’ dell’uomo di fede, l’abbandono degli amici e l’abbandono di Dio: così la lamentazione del salmo 22, che resiste a ogni facile strumentalizzazione del dolore, nell’ottica della volontà di Dio o della sua salvezza. La lamentazione, anche di Gesù, attesta questo ‘scarto’. La croce non è il dolore. È l’amore del Figlio, che vive il suo abbandono, mettendosi nelle mani del Padre. Quindi attenzione alla (falsa) compassione, al pietismo verso chi soffre. Attenzione a quei bei discorsi, così compiaciuti del dolore altrui, sul tipo degli amici di Giobbe’. L’altro ci potrebbe dire: visto che tu dici che è così bello ‘soffrire’, facciamo cambio? “Gli amici di Giobbe finiscono col considerare questo lebbroso un peccatore e con l’accusarlo di colpe gravi. Ma questo non è stato il loro primo movimento. Essi erano venuti per consolarlo; anzi, hanno saputo tacere per sette giorni! Poi le loro parole consolatorie Giobbe le aveva trovate senza sapore, e lo aveva detto con franchezza. Per quanto si cerchi di consolarlo, egli ne soffre ancora di più: “credete forse che non sarei capace anch’io di dire ciò che voi dite, se s’invertissero i ruoli?”. È ciò che i consolatori non sopportano ... Ben presto gli amici di Giobbe, che erano venuti per consolarlo, lo ingiuriano. Questo gioco psicologico non è che una variazione raffinata del tema fondamentale: colui che muore è escluso; a questo punto quale parola può raggiungerlo?”10. Il dolore è da vivere. Esso ha straordinarie possibilità, nascoste. 4. La riabilitazione come relazione di cura L’aiuto, la cura, la sollecitudine, la prossimità al sofferente. È questo il nostro compito. E ciò è particolarmente vero nella pratica della riabilitazione. E questo è ciò che deve ‘passare’ in essa. La cura è una forma di relazione che qualifica – dovrebbe qualificare – ogni nostra relazione all’altro. Questo non va dimenticato da parte di chiunque faccia parte della complessa strategia della ‘riabilitazione’: nella presa in carico dell’altro – nella sua globalità, corporeo/affettiva, intelligente e libera –, dal quale mi lascio interpellare io rispondo alla sua presenza, certo secondo la concreta relazione che mi lega a lui. Nella cura dell’altro, ne va di me. 10 P. BEAUCHAMP, All'inizio, Dio parla, (Bibbia e Preghiera, 14), ADP, Roma 1992, 193-194. 5 Le cure della riabilitazione (to cure) sono una forma necessaria, ma non sufficiente, della cura (to care). Nelle ‘cure’ deve attuarsi la relazione. * Nella riabilitazione si tratta di un compito che è nostro: perché è un compito e un impegno, non individuale, ma sempre in collaborazione con altri. Anzitutto, ci sono le famiglie, spesso da supportare, aiutare, coinvolgere bene (a volte sono molto attente, a volte sono stanche, a volte sono lacerate, a volte sono abbandonate ...) * Poi è compito della équipe specializzata dove ognuno ha una competenza, che deve ‘svolgere’ bene senza perdere il punto di vista dell’intero: il medico, il ricercatore, il fisiatra, il fisioterapista, il logopedista, il ricercatore, lo scienziato, il neurologo, l’infermiere, lo psicologo, l’ingegnere. * Questo compito è poi svolto da diversi centri, in relazione tra loro: ospedali, cliniche, case di cura e di riposo, centri di riabilitazione specialistici. Ma nessuno di questi centri può diventare un ‘ghetto’ e cioè uno spazio chiuso, che segrega e separa. Importante è il nesso circolare con il territorio: il centro deve incidere ed esser presente sul territorio e la società civile deve lasciarsi trasformare ed esser trasformata da esso. * Molto importante è anche il ruolo e la testimonianza della comunità cristiana: la sollecitudine, verso i disabili e le loro famiglie dovrebbe essere ‘pane quotidiano’ e attenzione prioritaria in una comunità parrocchiale e nelle famiglie tutte (altro che ‘fregarsi le mani, contenti, se il figlio è sano!). Quali sono gli spazi che le nostre comunità danno ai disabili e quali possibilità di servizio e di testimonianza dei disabili? Un’importante funzione di stimolo, ma evitando ogni chiusura a ghetto, sotto questo profilo è legata ai gruppi e ai movimenti ecclesiali – e in genere a tutti i movimenti di volontariato –, che dedicano una specifica attenzione alla disabilità o alla malattia: essi sono segni importanti, sono una testimonianza della ‘carità’, della cura, della presa in carico e dell’amore verso una forma di povertà oggi spesso poco considerata. Ma sono anche luoghi decisivi di nuovi spazi di aperture a forme diverse di relazioni umane, capaci di accoglienza e di ospitalità reciproca. don Maurizio Chiodi Bosisio Parini 11 dicembre 2010 6