1 Giù, sottoterra, verso la fonte di Aretusa Nicola Setari Me ne andrò

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1 Giù, sottoterra, verso la fonte di Aretusa Nicola Setari Me ne andrò
Giù, sottoterra, verso la fonte di Aretusa
Nicola Setari
Me ne andrò giù, sottoterra
C’è troppo panico in questa città
Me ne andrò giù, sottoterra
C’è troppo panico in questa città
– Jamiroquai, “Deeper Underground”
Sotto i pergolati, dove
i Sovrani dell'Oceano
seggon su troni imperlati,
tra le selve coralline
dell'inquiete onde marine,
sopra cumuli di pietre inestimabili,
e densi raggi di sol luminosi,
che per mezzo a le correnti
tesson reti rifulgenti di vivissimi colori;
e di sotto a le caverne,
dove gli ombreggianti flutti
verdi tanto sono, quanto
è la notte della selva,
pesce-cane e spada nero
nella corsa trapassanti,
sotto la schiuma del mare,
nella loro Casa Dorica.
– Percy Bysshe Shelley, “Arethusa”
(in: Shelley tradotto da Antonio Calitri, 1914, York Printing Company, New York, p. 27
Una scoperta inattesa
Nell’estate del 2012, Adi Gura, il direttore della Braverman Gallery di Tel Aviv (che rappresenta, tra gli
altri, Gilad Ratman), si è presentato al termine di una mia conferenza sul Logbook di dOCUMENTA
(13)1, a Kassel, in Germania, suggerendomi la possibilità di contribuire a questo catalogo. Avevo
aperto la conferenza con una citazione dal Moby Dick di Herman Melville, un romanzo che in quel
momento avevo affrontato solo superficialmente. Forse, quel giorno, il più grande leviatano dei mari
letterari si è immerso “sott’acqua”, trattenendo il respiro da Kassel fino ad oggi, per riemergere qui,
ora, in queste acque.
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Nel quarantunesimo capitolo di Moby Dick, Ismaele, il narratore, paragona i prodigi attribuiti
alla grande balena bianca alle “storie favolose” dei tempi passati, come la storia della fontana di
Aretusa, nei pressi di Siracusa. Quell’analogia tornò a colpirmi qualche giorno dopo che Gilad Ratman
mi aveva invitato a scrivere questo testo. Il mito greco colloca l’origine della fonte nell’antica Grecia,
mentre l’idea di Ismaele che le sue acque dolci non provenissero dall’Ellade, ma dalla Terra Santa, si è
fatta strada, tra i miei pensieri, fino al progetto di Ratman per il Padiglione Israeliano alla Biennale di
Venezia del 2013. Tutti e tre – il romanzo di Melville, il mito greco e l’opera di Ratman – descrivono
delle vie di fuga sotterranee o subacquee. L’artista mi ha incoraggiato a seguire un approccio
riflessivo, basato sulle mie libere associazioni, anziché analitico, per questo testo, che tratta i tre
ritratti dei mondi sotterranei e subacquei come vasi comunicanti, capaci di rivelare una particolare
modalità di creazione artistica. Dopo aver riscoperto, per serendipità, la canzone “Deeper
Underground” della band inglese jazz funk e acid jazz Jamiroquai, mi è tornato in mente anche un
altro vaso comunicante, il film Godzilla. Ciò che segue è il risultato delle mie riflessioni e meditazioni
sul tema.
Scavi, emersioni e sublimazione artistica
Riportare alla luce l’etimologia del verbo inglese “to dig” (scavare) è una di fatica di Sisifo, che ci fa
capire quanto sia difficile cavarsi dalle pastoie del linguaggio, difficile come liberarsi dalle sabbie
mobili. A tradurre efficacemente in immagini quella difficoltà c’è un precedente video di Ratman, The
Boogey Man, nel quale un uomo filma il proprio lento sprofondamento nel fango, reggendo uno
smartphone sopra alla testa. L’origine del verbo “to dig” è incerta. Secondo un dizionario etimologico
online, deriverebbe da “dike” o “ditch” (diga, in Old English; in italiano, la derivazione è dal latino ex
(di, da)-cavare (rendere cavo)): tali nozioni suggeriscono la creazione di barriere per reindirizzare il
corso naturale dell’acqua o lo scavo di pozzi per raccoglierla. L’individuazione e il controllo dell’acqua
appaiono quindi legati all’atto di scavare.
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L’umanità ha utilizzato gli scavi come strategia di sopravvivenza fondamentale fin dai tempi
preistorici, costruendo gallerie sotterranee per collegare le caverne, e creare ambienti più ampi e
sicuri dove vivere. Nel corso dell’antichità, i passaggi sotterranei sono stati utilizzati per collegare
templi e palazzi, catacombe e piazze pubbliche, fortezze e villaggi. Un sottopassaggio pedonale,
costruito a Babilonia tra il 2180 e il 2160 a.C. e lungo circa 900 metri, collegava le due rive del fiume
Eufrate: la sua realizzazione fu resa possibile dalla deviazione temporanea del fiume, nel corso della
stagione secca, tramite un sistema di dighe.
La natura ha scavato tunnel sotterranei ancora più impressionanti, che in taluni casi prendono
la forma di fiumi sotterranei, che s’inabissano attraverso crepacci e cavità e scorrono all’interno delle
caverne, per poi riemergere più a valle – a livello del terreno, nel mare o nei laghi. Queste meraviglie
naturali hanno ispirato miti e leggende sui fiumi ctonii, il più famoso dei quali è l’Inferno di Dante. Nel
valutare l’impatto dei fenomeni naturali sull’immaginazione collettiva, spesso accordiamo più
importanza a ciò che accade in superficie o nei cieli, e assai meno a ciò che sta al di sotto della crosta
terrestre.
In realtà, i corsi d’acqua sotterranei affascinano da sempre poeti e scrittori, perché
rappresentano metaforicamente il subconscio e la sua irruzione nella nostra vita, a volta in forma di
ricordi involontari. Uno dei più celebri esempi letterari di tali reminiscenze è, naturalmente, la
madeleine di Proust. La letteratura stessa si può considerare come una rete di fiumi, le cui
interconnessioni e confluenze sembrano talora sparire sottoterra, per poi riemergere, a generazioni di
distanza o in paesi lontani. Una parola, un’espressione o un libro possono seguire percorsi misteriosi
attraverso il subconscio, per ritornare a galla in un altro momento e luogo, così come i relitti di navi
naufragate in alto mare che avrebbero misteriosamente trovato la via, grazie a correnti sotterranee,
fino a un lago del Monte Strello in Portogallo.2
Mentre andavo alla ricerca dell’etimologia della parola “digging” (scavare, scavo), questi flussi
sotterranei mi hanno regalato uno di questi “relitti”: il ritornello della canzone “Deeper Underground”
di Jamiroquai. “There’s too much panic in this town, I’m goin’ deeper underground” (“C’è troppo
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panico in questa città, me ne andrò giù, sottoterra”) esprime bene l’urgenza di trovare una via di fuga.
Questa fuga può assumere la forma di una sublimazione artistica.
Le fonti di Godzilla
La canzone “Deeper Underground” è stata composta per la colonna sonora del film, di ben scarso
successo, Godzilla, girato nel 1998. Si tratta di un remake americano della celebre pellicola di Ishiro
Honda, del 1954, nella quale il mostruoso e gigantesco rettile Godzilla aveva fatto la sua prima
comparsa. Sebbene la versione americana suggerisse che a causare l’esistenza della terribile creatura
fossero stati i test nucleari francesi nell’Oceano Pacifico, la versione originale giapponese nasceva
come reazione agli effetti dei bombardamenti americani di Hiroshima e Nagasaki nel 1945, ed era
stata prodotta poco dopo il disastroso test nucleare Castle Bravo a Bikini, nelle Isole Marshall, del
1954 — fornendo un quadro assai diverso della nascita di Godzilla. Il fallout di Castle Bravo si estese
ben oltre la zona di sicurezza delimitata dagli Stati Uniti: quasi un centinaio di pescherecci giapponesi
vennero contaminati dalle letali ceneri radioattive. All’epoca degli eventi — che i militari americani
cercarono di occultare — solo una delle barche coinvolte ricevette qualche attenzione da parte dei
media, perché tutti i marinai che erano stati a bordo del Lucky Dragon 5 morirono. E’ possibile che la
forma di Godzilla, così simile a quella di un dragone, e il suo alito infuocato, siano ispirati al nome di
quel peschereccio. Il Godzilla di Honda — una creatura mutante generata dagli esperimenti nucleari
condotti in mare — era una colossale metafora della minaccia posta dall’energia nucleare. Nel film, la
città di Tokyo viene quasi interamente distrutta, dopo che il mostro sorge dalle acque profonde della
sua Baia.
Il nome di Godzilla (“Gojira”, in originale) è composto dalla somma di due parole, con le quali
in giapponese si indicano il gorilla (“gurira”) e la balena (“kujira”). Trasgredendo l’ordine naturale, il
mostro riassume in sé le capacità terrestri e sottomarine di entrambi gli animali, diventando così “il re
dei mostri”, come strillava il titolo della versione americana del film. E’ interessante sottolineare come
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l’inclusione della balena nel nome, suggerisca il legame di Godzilla con un’altra creatura fantastica
degli abissi, Moby Dick.
Non c’è dubbio che, nel concepire Godzilla, Honda avesse ben presente il blockbuster King
Kong, girato da Merian C. Cooper nel 1933. Il protagonista della pellicola è un gorilla gigantesco,
catturato da una troupe di Hollywood e trasportato a New York City, dove viene esposto alle folle
paganti come l’ottava meraviglia del mondo. Tuttavia, l’animale riesce a scappare e, arrampicatosi fino
in cima all’Empire State Building, viene colpito da aerei da guerra americani, cade a terra e muore.
Forse, da giovane Honda aveva visto il film muto Wasei Kingu Kongu, una versione nipponica
del film americano, girata anch’essa nel 1933. Vuole la leggenda che quel film sia andato perduto per
via dei bombardamenti atomici statunitensi sul Giappone, nel 1945. Lo spirito autocritico del King
Kong Americano, nel quale l’avidità senza limiti dell’industria dell’entertainment conduce tutti alla
tragedia — una tragedia innescata dai flash dei fotografi, che fanno impazzire dal terrore Kong, che
così rompe le catene e fugge — nel Godzilla di Honda diventa l’invocazione di una maggiore
consapevolezza ecologica rispetto ai pericoli degli armamenti e dell’energia nucleari. Se, come
sostengo, esiste un legame tra Godzilla e Moby Dick, è King Kong a fare da ponte tra loro.
La critica della società dello spettacolo presente nel King Kong originale riemerge nel video
musicale di “Deeper Undergound”, che è ambientato in un grande cinema, nel quale il pubblico sta
guardando una scena del remake di Godzilla in 3D. Sullo schermo, Godzilla trascina sott’acqua
numerosi pescherecci, poi riemerge e, come se camminasse sull’acqua, si dirige verso gli spettatori,
finché infrange quello che sembrava uno schermo, mentre in realtà è una vetrata. Il cinema si riempie
d’acqua e scoppia il panico. A questo punto, Jay Kay, il cantante della band Jamiroquai, fa il suo
ingresso, e mentre gli spettatori in preda al terrore cercano di fuggire, inizia a cantare e ballare,
saltando tra le poltroncine, sommerse dai flutti dell’oceano.
Avvincente e ben costruito, il video musicale gioca col topos delle immagini che prendono
vita, come la statua nel mito di Pigmalione. L’immagine del cinema allagato, anticipata
dall’affondamento delle barche da parte di Godzilla, visualizza il flusso di coscienza, l’irrompere del
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“mostruoso” subconscio. Il video costituisce quindi un’immagine di produzione d’immagini, una
figura di figurazione, come la caverna di Platone — ciò che l’iconologo W.J.T. Mitchell ha definito
come un hypericon o meta-immagine.3 Ritornerò a questo luogo di produzione d’immagini, così come
all’idea di critica dello spettacolo, nelle mie considerazioni sull’opera di Ratman, ma per ora,
seguiamo Jamiroquai “giù, sottoterra”, per giungere fino ad Ortigia (vicino Siracusa) attraverso il Moby
Dick di Melville.
La fonte di Aretusa e Moby Dick
Esistono due celebri versioni del mito della fonte di Aretusa, una di Pausania4 e l’altra di Ovidio5.
Entrambe raccontano la storia di Aretusa, una ninfa che, mentre si bagna nuda nelle acque del fiume
Alfeo, viene spiata dal dio del fiume, che s’innamora di lei. Aretusa fugge, mentre Alfeo, per inseguirla
e possederla, assume una forma umana. La ninfa implora l’aiuto della dea Artemide, sua protettrice,
che la trasforma in acqua e la trasporta sotto terra sino all’isola di Ortigia, dove versa Aretusa,
liquefatta, in una fontana che esiste fin dai tempi antichi. Ritornando a sua volta liquido, in forma di
corrente sotterranea, Alfeo la segue attraverso il Mar Mediterraneo, fino in Sicilia, dove le loro acque
finalmente si fondono.
In Moby Dick, la fontana viene citata nel quarantunesimo capitolo, in una descrizione delle
abilità prodigiose attribuite alla grande balena da marinai superstiziosi. Una delle più affascinanti, è la
sua presunta ubiquità. Ismaele ci racconta che pare che la balena fosse stata avvistata da navi ai due
capi opposti del mondo, nello stesso istante. Ciò gli fa dedurre che una teoria tanto fantasiosa sia il
risultato della velocità alla quale viaggiano le balene, sfruttando le correnti sotterranee (un fenomeno
che, all’epoca, non era stato verificato scientificamente). Di conseguenza, Ismaele eguaglia la realtà
dei cacciatori di balene alle “storie favolose” sulla fontana di Aretusa e sul lago del Monte Strello. Ciò
che è particolarmente curioso, nella citazione di Melville, è che anziché aderire alla versione
tradizionale del mito, in base alla quale le acque della fontana avrebbero avuto origine in Grecia,
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riaffermando così gli antichi legami tra la madrepatria greca e la sua colonia siciliana, sostiene che “si
riteneva fossero arrivate dalla Terra Santa attraverso un passaggio sotterraneo”.
In Melville Biography: An Inside Narrative,6 Hershel Parker, descrivendo la passione di Melville
per Ie vie d’acqua sotterranee, ipotizza che egli abbia scoperto la storia di Aretusa in Isabel or Sicily: A
Pilgrimage, una novella scritta dal suo amico Henry Theodore Tuckerman in 1839, undici anni prima
della pubblicazione di Moby Dick. Tuckerman dedicava un lungo brano alla storia della Fontana, fedele
alla versione tradizionale e nel quale non faceva menzione della Terra Santa. Melville doveva
conoscere bene il mito, avendolo letto nelle poesie di Milton, Shelley e Pope. Perché, allora, cambiare
l’origine del viaggio subacqueo? Bisogna continuare a leggere, per scoprire la risposta.
Nell’ottantaduesimo capitolo, Melville narra le storie degli eroi leggendari che hanno lottato contro le
balene e dei profeti da esse inghiottiti. Intreccia magistralmente il mito di Perseo con la storia biblica
di Giona. Nel mito greco, Perseo salva Andromeda uccidendo la balena che sta per trascinarla via con
sé. Melville scrive che per secoli lo scheletro di una balena che si diceva fosse proprio quella di Perseo
fu venerato in un tempio pagano dell’antica Joppa (ora Giaffa) e che i Romani, dopo aver conquistato
la città, lo riportarono in Italia, in trionfo, insieme ad altre spoglie. Ismaele quindi conclude: “Ciò che
sembra assai singolare e significativo in questa storia è che Giona era salpato appunto da Joppa”. Per
Melville, la fontana di Aretusa non avrebbe potuto aver origine altrove che in Terra Santa. Ai nostri
giorni, il porto di Giaffa si trova nell’area costiera meridionale della moderna Tel Aviv.
Ma c’è anche un’altra storia che collega Aretusa a Tel Aviv. Il fiume Yarkon termina il proprio
viaggio nel porto cittadino, tuffandosi nel Mediterraneo, dopo essere nato nei pressi dell’attuale
abitato di Tel Aphek. Nelle vicinanze, si può visitare il sito archeologico di Pegai, l’antica città che il
generale romano Pompeo, durante la conquista della Giudea nel 63 a.C., aveva ribattezzato Aretusa,
mettendo in atto il gesto coloniale del dedicare la colonia alla madrepatria, così come l’antica Grecia
aveva fatto con la Sicilia.
Se confrontato con il lungo viaggio imperialistico di Pompeo, il viaggio sotterraneo al cuore
della videoinstallazione The Workshop di Ratman rappresenta un movimento opposto. Anziché
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reclamare un territorio, i viaggiatori di Ratman sembrano in fuga dal proprio. Come Aretusa cerca
rifugio in Sicilia, il gruppo di persone che, da un punto imprecisato di Israele, intraprende il proprio
viaggio sotterraneo, cerca rifugio nel Padiglione Israeliano a Venezia.
Il laboratorio di scultura
In The Workshop, come in altri lavori di Ratman, i membri di questo gruppo eterogeneo — una
trentina di persone (interpretate, per lo più, da amici dell’artista) — sembrano di età e provenienze
diverse, anche se indefinite. Iniziano il loro viaggio all’ingresso della caverna; da lì, intraprendono una
spedizione sotterranea che, dopo molti passaggi impegnativi in galleria, li conduce al Padiglione
Israeliano della Biennale di Venezia. Una volta entrati, v’impiantano un atelier di scultura nel quale
ognuno di loro realizza un autoritratto. In seguito, si dedicano a una sorta di dialogo musicale; i
microfoni collegati alle rispettive sculture emettono una varietà di suoni, mixati da un fonico che è
posizionato vicino alla bocca del tunnel. La figura del fonico era già apparsa precedentemente nel
lavoro di Ratman, nel video Che Che the Gorgeous (2005), che ritrae un gruppo di creature umanoidi
mostruose, immobilizzate e apparentemente moribonde di sete, in un paesaggio desolato. Nel video,
il suono che sembrano produrre quelle figure sofferenti è in realtà creato da un piccolo gruppo di
performer e registrato da un fonico in uno studio. Al termine di Che Che the Gorgeous, scopriamo che
la scena è un set cinematografico; entrando nel quadro, i membri della troupe aiutano le creatureattori a rimuovere i propri costumi ingombranti.
Nel caso di The Workshop, lo spettatore contempla le azioni del gruppo attraverso una
videoinstallazione su più schermi, collocata nello spazio dell’atelier di scultura. Una serie di monitor è
distribuita sul pavimento del padiglione e ognuno trasmette una parte diversa dell’azione. Gli episodi
non sono organizzati in ordine cronologico: è lo spettatore a dover ricostruire il racconto. L’unica
traccia visibile degli eventi narrati dall’opera è il buco nel pavimento del padiglione. Come le figure
nel video, anche gli spettatori hanno viaggiato sino a raggiungere il Padiglione Israeliano e sono
diventati consapevoli del processo di produzione artistica, così come delle visite in quello spazio che
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hanno preceduto la loro. Lo spettatore è collocato in una posizione auto-riflessiva, che Ratman
indirizza ai processi di produzione e contemplazione dell’arte. Usa questa autoriflessività in modo
diverso da Cooper, ma, in ogni caso, chiede al pubblico di assumere un atteggiamento critico nei
confronti della rappresentazione artistica.
Ad aggiungere un altro strato all’opera è il viaggio che ci ha condotti a questa scena, iniziato in
una terra dove il problema della produzione di immagini ha una storia millenaria. Agli antichi popoli
ebraici venne trasmesso il Secondo Comandamento, che vieta di creare immagini scolpite. Nel suo
insieme, la videoinstallazione, che è frammentata in modo da spezzare un flusso lineare del tempo,
illustra l’allestimento di un luogo di produzione d’immagini, e al tempo stesso riflette sulle condizioni
di possibilità di tale produzione. In quanto tale, è un esempio dell’hypericon di Mitchell. L’iconologo
americano spiega che questo genere d’immagini nascono dalle nostre ansie relative alle immagini, e
ci costringono a riconsiderarne le basi teoriche. The Workshop di Ratman è un hypericon possente,
perché collega simbolicamente un luogo di proibizione delle immagini a uno di produzione delle
immagini, percorrendo una strada intermedia tra i due estremi. I suoni che udiamo nella
videoinstallazione di Ratman sono prodotti dagli attori soffiando nelle sculture; se da un lato, tale
gesto esprime il desiderio umano di istillare vita negli idoli, dall’altro lo destabilizza attraverso la
mancanza di senso degli atti vocali prodotti. Tale ambivalenza rispetto alla produzione d’immagini,
che colloca il lavoro al limite dell’ambito artistico (e lo salva dal tradursi in sola politica o commercio
camuffato da arte), è essenziale nel progetto di Ratman.
E allora affidiamoci ancora una volta al ritornello di Jamiroquai —“I'm goin' deeper
underground / There's too much panic in this town”— e riflettiamo su questo testo. Potremmo
scoprire, come già Melville e molti altri, che la fonte di Aretusa, che abbiamo utilizzato come analogia
per il lavoro di Ratman, è la fonte dell’arte. E’ il luogo dove il viaggio interiore di elaborazione del
trauma, della paura e del desiderio attraverso la sublimazione artistica può sboccare in superficie,
dove può assumere le forme di animali e creature fantastici. La bellezza e la difficoltà dell’arte sta nel
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suo dover andare “Sotto i pergolati, dove / i Sovrani dell’Oceano / seggon su troni imperlati” per
arrivare fino a casa.
Nicola Setari (nato a Bruxelles nel 1978) è un teorico della cultura, scrittore ed editor. I suoi campi di
ricerca sono cultura visuale e media studies, con un'attenzione particolare per l'iconoclastia
contemporanea. Ha un dottorato in storia dell'architettura e scienze dell'arte (IUAV, Venezia) ed è
stato uno degli Agenti di Documenta(13) a Kassel.
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The Logbook, volumi 2/3 del catalogo di dOCUMENTA (13), presenta la “navigazione” di dOCUMENTA (13) dal momento della nomina di
Carolyn Christov Bakargiev a direttore artistico, al termine del 2008, alla sua esecuzione nell’estate del 2012 attraverso una serie di
corrispondenze via email, interviste e foto. Pubblicato da Hatje Cantz, nel giugno 2012.
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Oltre alla fonte di Aretusa, l’Ismaele di Melville cita anche questo caso, come esempio dei prodigi dei tempi antichi.
3
W.J.T. Mitchell, What Do Pictures Want? The Lives and Loves of Images (Chicago: University of Chicago Press, 2005).
4
Pausania, Periegesi della Grecia, 5. 7. 2.
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Ovidio, Metamorfosi, 5.407 e 487.
5 H. Parker, Melville Biography: An Inside Narrative (Evanston, IL: Northwestern University Press, 2013).
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