leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri

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leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri
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Prima edizione: gennaio 2012
© 2012 by William Landay
© 2012 by Fanucci Editore
Il marchio Timecrime è di proprietà
di Sergio Fanucci
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384 – email: [email protected]
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Stampato in Italia – Printed in Italy
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
Prima parte
Cerchiamo di essere concreti nelle nostre aspettative sul diritto penale... [Perché] dobbiamo soltanto immaginare di incontrare, grazie
a un espediente del viaggio nel tempo, il nostro primo antenato
ominide, Adamo, un proto-uomo, basso di statura, ricoperto da una
folta peluria, da poco diventato bipede, intento a cercare cibo nella
savana africana tre milioni di anni fa o giù di lì. Dunque, non possiamo non concordare sul fatto che, qualsiasi sentenza emettessimo
a favore di questa creaturina intelligente, sarebbe comunque incauto vezzeggiarla.
REYNARD THOMPSON, Una teoria generale sulla violenza umana (1921)
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Davanti al gran giurì
Signor Logiudice: Declini le sue generalità, per piacere.
Testimone: Andrew Barber.
Signor Logiudice: Che professione svolge, signor
Barber?
Testimone: Ho fatto il vice procuratore distrettuale in questa contea per 22 anni.
Signor Logiudice: ‘Ho fatto.’ Adesso che professione svolge?
Testimone: Immagino che si potrebbe dire che sono
disoccupato.
Nell’aprile del 2008, Neal Logiudice mi notificò finalmente
un mandato di comparizione davanti al gran giurì. Ormai era
troppo tardi. Troppo tardi per la sua causa, certo, ma troppo
tardi anche per Logiudice. La sua reputazione era già irrimediabilmente rovinata, insieme alla sua carriera. Un pubblico
ministero può tirare avanti per un po’con una reputazione rovinata, ma i suoi colleghi lo guarderanno come lupi e, alla fine, sarà costretto ad allontanarsi, per il bene del branco. L’ho
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William Landay
visto accadere parecchie volte: un vice procuratore distrettuale è insostituibile un giorno, già dimenticato il seguente.
Ho sempre avuto un debole per Neal Logiudice (si pronuncia la-giu-dis). Entrò nello studio del procuratore distrettuale circa dodici anni prima rispetto a questo episodio, appena uscito dalla facoltà di Giurisprudenza. Allora aveva
ventinove anni, era basso, i capelli gli si stavano diradando e
il ventre era un tantino prominente. Aveva la bocca piena di
denti: doveva chiuderla con la forza, come una valigia stracolma, il che gli conferiva un’espressione scontrosa. Ero solito ammonirlo di non assumere quell’atteggiamento davanti
alle giurie – a nessuno piacciono le persone bisbetiche – ma
lo faceva inconsciamente. Si avvicinava al banco della giuria
scuotendo il capo e torcendo le labbra come un professore o
un prete, suscitando in tutti i giurati il desiderio segreto di
pronunciarsi contro di lui. Nello studio, Logiudice era una
specie di maneggione e leccapiedi. Veniva canzonato di continuo. Gli altri vice procuratori distrettuali lo prendevano
sempre in giro, ma veniva tiranneggiato da chiunque, perfino da chi collaborava con lo studio a distanza: poliziotti, assistenti giudiziari, segretarie, gente che di solito non manifestava in modo così palese il proprio disprezzo per i pubblici
ministeri. Lo chiamavano Milhouse, facendo riferimento a
un personaggio imbranato dei Simpson, e si inventavano un
migliaio di varianti del suo cognome: Losciocco, Lostupido,
Giudizioso, e così via. Ma, per me, Logiudice era a posto. Era
soltanto uno sprovveduto. Armato delle migliori intenzioni,
rovinava la vita della gente senza mai perderci sopra nemmeno un minuto di sonno. Dopotutto, dava la caccia soltanto ai cattivi. Questa è la convinzione erronea dei pubblici ministeri – ‘Sono cattivi perché io gli faccio causa’– e Logiudice
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In difesa di Jacob
non fu certo il primo a essere tratto in inganno da essa, quindi gli perdonavo la sua rettitudine. Mi piaceva, perfino. Ero
dalla sua parte proprio a causa delle sue stranezze, il nome
impronunciabile, i denti sporgenti – che tutti i suoi coetanei
avrebbero raddrizzato con apparecchi costosi, pagati da
mamma e papà – e perfino l’ambizione pura e semplice. Vedevo qualcosa in quel tipo. Un’aria di risolutezza nel modo
in cui resisteva nonostante i continui rifiuti, limitandosi a sopportare all’infinito. Era chiaramente un figlio della classe operaia risoluto a prendersi quello che a molti altri era stato semplicemente concesso. Da quel punto di vista, e solo da quello,
suppongo, era esattamente come me.
Adesso, dodici anni dopo il suo arrivo nello studio, nonostante tutte le sue manie ce l’aveva fatta, o quasi. Neal Logiudice era il primo vice, il numero due nello studio del procuratore distrettuale della contea di Middlesex, il braccio destro
e il principale patrocinatore del procuratore distrettuale.
Quel ragazzo che una volta mi aveva detto ‘Andy, sei esattamente quello che voglio diventare un giorno o l’altro’ subentrò a me in quell’incarico. Avrei dovuto aspettarmelo.
Quella mattina, nell’aula del gran giurì, i giurati erano di un
umore cupo e abbattuto. Erano seduti, più di una trentina di
uomini e donne che non erano stati abbastanza furbi da trovare un modo per sottrarsi a quell’incombenza, tutti stipati su
quelle sedie di scuola munite di banchetti a forma di lacrima
al posto dei braccioli. Ormai avevano capito abbastanza bene
come funzionava il loro incarico. I gran giurì restano in carica
per mesi e capiscono piuttosto rapidamente in cosa consiste il
loro compito: accusare, puntare il dito, indicare il colpevole.
L’azione giudiziaria dei gran giurì non è un processo. In
aula non c’è nessun giudice e nemmeno un avvocato della
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William Landay
difesa. Tiene banco il pubblico ministero. Si tratta di un’indagine e, in teoria, di un freno ai poteri del pubblico ministero, dal momento che il gran giurì decide se egli disponga di
prove sufficienti per trascinare in aula un indiziato. Se ci sono prove a sufficienza, il gran giurì concede al pubblico ministero la possibilità di incriminarlo, il suo lasciapassare per
il tribunale di seconda istanza. Altrimenti, gli consegna un
invito a non procedere e il caso è chiuso ancor prima di cominciare. In realtà, gli inviti a non procedere sono rari. Quasi tutte le giurie incriminano. Perché non farlo? Vedono solo
un aspetto del caso.
E tuttavia, in questo caso, sospetto che i giurati sapessero
che Logiudice non aveva argomenti validi. Non quel giorno.
La verità non sarebbe stata scoperta, non con prove così trite
e contaminate e con tutto quello che era successo. Era già passato più di un anno, più di dodici mesi da quando era stato
ritrovato nei boschi il cadavere di un quattordicenne con tre
coltellate disposte in fila sul petto come se fosse stato infilzato con un tridente. Ma il problema non era tanto la tempistica. Era tutto il resto. Che fosse troppo tardi il gran giurì lo sapeva.
Lo sapevo anch’io.
Solo Logiudice non si era scoraggiato. Increspò le labbra
in quel suo strano modo. Passò in rassegna i suoi appunti su
un blocco giallo e rifletté sulla domanda successiva. Stava facendo esattamente quanto gli avevo insegnato. La voce che
gli risuonava nella mente era la mia: Non importa quanto
siano deboli i tuoi argomenti. Attieniti al sistema. Sta’alle regole del gioco come negli ultimi cinquecento e passa anni,
usa la stessa, infima tattica che ha sempre contraddistinto i
controinterrogatori: blandisci, incastra, fotti.
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In difesa di Jacob
Disse: «Ricorda quando sentì parlare per la prima volta
dell’omicidio del giovane Rifkin?»
«Sì.»
«Me lo descriva.»
«Mi pare di aver ricevuto prima una chiamata dal CPAC,
l’unità per il controllo e la prevenzione del crimine, cioè dalla polizia di Stato. Poi me ne arrivarono subito altre due, una
dalla polizia di Newton e una dal procuratore distrettuale di
turno. Forse ho invertito l’ordine ma, in pratica, il telefono
iniziò a squillare senza sosta.»
«Quando accadde?»
«Giovedì 12 aprile 2007 intorno alle nove del mattino, subito dopo il rinvenimento del cadavere.»
«Perché chiamarono lei?»
«Ero il primo vice. Venivo informato di tutti gli omicidi
della contea. Era la procedura consueta.»
«Ma non teneva per sé tutte le cause, vero? Non indagava
di persona e non portava in tribunale tutti i casi di omicidio
che si verificavano?»
«Naturalmente no. Non ne avevo il tempo. Tenevo per me
pochissimi omicidi. Assegnavo la maggior parte dei casi ad
altri vice procuratori distrettuali.»
«Ma questo lo tenne per sé.»
«Sì.»
«Decise subito di tenerlo per sé oppure lo decise solo in
seguito?»
«Lo decisi quasi subito.»
«Perché? Perché voleva questo caso in particolare?»
«Avevo stretto un accordo con il procuratore distrettuale,
Lynn Canavan: di certi casi mi sarei occupato di persona.»
«Che genere di casi?»
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William Landay
«Quelli che richiedevano la precedenza assoluta.»
«Perché lei?»
«Perché ero l’avvocato con maggiore anzianità di servizio
nello studio. Canavan voleva accertarsi che i casi importanti fossero affrontati adeguatamente.»
«Chi stabiliva se un caso richiedeva la precedenza assoluta?»
«In un primo tempo, io. Naturalmente dopo aver consultato il procuratore distrettuale ma, all’inizio, le cose tendono
a evolversi piuttosto in fretta. Di solito, non c’è tempo per
una riunione.»
«Quindi, lei stabilì che l’omicidio Rifkin era un caso che richiedeva la precedenza assoluta?»
«Certo.»
«Perché?»
«Perché riguardava l’omicidio di un ragazzo. Penso che avessimo anche il timore che il caso potesse esplodere attirando l’attenzione dei media. Era quel tipo di caso. Si era verificato in una città benestante e aveva coinvolto una vittima
benestante. Ci eravamo già trovati alle prese con alcuni casi
simili. All’inizio, non sapevamo nemmeno di cosa si trattasse di preciso. Sotto certi aspetti sembrava un omicidio scolastico, come alla Columbine. Sostanzialmente, non sapevamo
cosa diavolo fosse, ma puzzava di caso importante. Se non si
fosse rivelato tale, l’avrei passato a qualcun altro in seguito,
ma in quelle prime ore dovevo accertarmi che tutto fosse fatto nel modo giusto.»
«Informò il procuratore distrettuale di avere un conflitto
di interessi?»
«No.»
«Perché no?»
«Perché non ne avevo.»
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In difesa di Jacob
«Suo figlio Jacob non era un compagno di classe del ragazzo morto?»
«Sì, ma non conoscevo la vittima. Per quanto ne sapevo,
non lo conosceva nemmeno Jacob. Non avevo mai nemmeno sentito nominare il ragazzo morto.»
«Non conosceva il ragazzo. D’accordo. Ma sapeva che lui
e suo figlio frequentavano lo stesso anno alla stessa scuola
media della stessa città?»
«Sì.»
«E tuttavia non pensava che sussistesse un conflitto? Non
pensava che la sua obiettività avrebbe potuto essere messa
in dubbio?»
«Naturalmente, no.»
«Nemmeno col senno di poi? Insiste a... Nemmeno col senno di poi pensa che le circostanze conferissero a tutto ciò una
parvenza di conflitto?»
«No, non c’era nulla di sconveniente. Non c’era nemmeno
nulla di strano. Il fatto che abitassi nella città in cui si verificò l’omicidio era un bene. Nelle contee più piccole, il pubblico ministero risiede spesso nella comunità in cui si verificano i reati e spesso conosce le persone coinvolte. E allora?
Allora è ancor più incentivato a catturare l’assassino? Non si
tratta di un conflitto di interessi. Ascolti, il succo del discorso è che ho un conflitto con tutti gli assassini. È il mio lavoro. Fu un crimine orribile; faceva parte del mio lavoro contribuire a risolverlo. Ero risoluto a fare soltanto questo.»
«D’accordo.» Logiudice abbassò gli occhi sul blocco. Era
inutile attaccare il testimone all’inizio della sua deposizione.
Senza dubbio, sarebbe tornato su quel punto più tardi, nel
corso della giornata, quando fossi stato stanco. Per il momento, era meglio tenere bassa la temperatura.
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William Landay
«Conosce i diritti che le vengono garantiti dal quinto emendamento?»
«Naturalmente.»
«E vi ha rinunciato?»
«A quanto pare sì, visto che sono qui e che sto parlando.»
Dal gran giurì si levarono delle risa soffocate.
Logiudice posò il blocco e, con esso, parve mettere da parte per un istante la sua strategia. «Signor Barber – Andy –
posso chiederle una cosa? Perché non vi si è appellato? Perché non è rimasto in silenzio?» Non pronunciò la frase seguente: È quanto avrei fatto io.
Per un attimo pensai che fosse una tattica, una specie di
messinscena. Ma Logiudice sembrava fare sul serio. Temeva
che avessi in mente qualcosa. Non voleva essere imbrogliato né fare la figura dello sciocco.
«Non desidero rimanere in silenzio. Voglio che emerga la
verità» risposi.
«A qualsiasi costo?»
«Credo nel sistema, come lei e come tutti i presenti.»
In effetti, questa non era esattamente la verità. Non credo
nel sistema giudiziario, perlomeno non ritengo che sia particolarmente efficace perché si scopra la verità. Nessun avvocato ci crede. Abbiamo visto tutti troppi errori, troppi esiti sbagliati. Il verdetto di una giuria è solo una supposizione,
generalmente una supposizione a fin di bene, ma è semplicemente impossibile distinguere la realtà dalla finzione con
un semplice voto. Tuttavia, nonostante ciò, credo nel potere
del rituale. Credo nel simbolismo religioso, nelle toghe nere
e nei tribunali con le colonne di marmo simili a templi greci.
Quando celebriamo un processo, diciamo la messa. Insieme
preghiamo di fare ciò che è giusto e di essere protetti dal pe-
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In difesa di Jacob
ricolo, e vale la pena di farlo, sia che le nostre preghiere vengano realmente ascoltate sia che non lo siano.
Naturalmente, a Logiudice non interessavano questo genere di solenni stronzate. Viveva nel mondo binario della
legge, colpevole o non colpevole, ed era determinato a tenermi inchiodato lì.
«Crede nel sistema, vero?» Tirò su col naso. «Bene, Andy,
allora torniamo a questo. Lasciamo che il sistema faccia il suo
dovere.» Rivolse alla giuria uno smaliziato sguardo d’intesa.
Forza, Neal. Non permettere al testimone di andare a letto con la giuria; tu devi andare a letto con la giuria. Saltaci
dentro e accoccolatici accanto sotto le coperte e lascia il testimone fuori al freddo. Sogghignai. Avrei voluto alzarmi e applaudire, se avessi potuto, perché gli avevo insegnato io a
comportarsi così. Perché avrei dovuto negarmi un po’ di orgoglio paterno? Non dovevo essere stato poi così male: dopotutto, avevo trasformato Neal Logiudice in un legale semidecente.
«Insomma, vada avanti» dissi, strofinando il muso contro
il collo della giuria. «Smettila di perdere tempo e va’ avanti,
Neal.»
Mi scoccò un’occhiata, poi prese di nuovo il blocco giallo
e lo passò in rassegna alla ricerca del punto in cui era rimasto. Potevo praticamente leggere cosa pensava scritto a chiare lettere sulla sua fronte: Blandisci, incastra e fotti. «D’accordo,» disse «riprendiamo dal momento immediatamente
successivo all’omicidio.»
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La nostra combriccola
Aprile 2007. Dodici mesi prima
Quando i Rifkin aprirono la loro casa per la Shiv’ah, il periodo di lutto ebraico, sembrava che fosse presente tutta la città. La famiglia non avrebbe potuto dolersi in privato. L’omicidio del ragazzo era un evento pubblico e lo sarebbe stato
anche il lutto. La casa era così piena che, quando il mormorio
della conversazione cresceva, l’intera faccenda iniziava ad assomigliare in modo imbarazzante a una festa, finché la folla
non abbassava all’unisono la voce, quasi fosse stata girata
una manopola invisibile.
Rivolgevo a tutti espressioni di scusa mentre mi facevo
largo tra la ressa, ripetendo: ‘Permesso’e voltandomi da questa e quella parte per fendere la folla.
La gente mi fissava incuriosita. Qualcuno disse: ‘È lui, è
Andy Barber’ ma io non mi fermai. Ormai erano passati
quattro giorni dall’omicidio e sapevano tutti che mi stavo oc-
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In difesa di Jacob
cupando del caso. Ovviamente volevano pormi delle domande sui sospettati, gli indizi e quant’altro, ma non osavano farlo. I dettagli dell’indagine non erano importanti, in
quel momento contava solo il fatto nudo e crudo che un ragazzo innocente era morto.
Assassinato! La notizia li colse di sorpresa. A Newton non
si verificavano crimini di cui parlare. Quel che i residenti sapevano riguardo alla violenza proveniva necessariamente
dai telegiornali e dai programmi televisivi. Avevano dato
per scontato che i crimini violenti si verificassero solo in città e nelle classi inferiori di quei buzzurri metropolitani. Naturalmente si sbagliavano, ma non erano degli idioti e non
sarebbero rimasti altrettanto sconvolti dall’omicidio di un
adulto. Ciò che rendeva così sacrilego l’omicidio Rifkin era il
fatto che coinvolgesse un ragazzo della zona. Era una profanazione dell’immagine che Newton aveva di sé. Per un po’,
nel centro di Newton aveva campeggiato un’insegna che descriveva il luogo come ‘una comunità di famiglie, una famiglia di comunità’, e spesso si sentiva ripetere che Newton era
un bel posto in cui crescere i figli. Ed era vero. Pullulava di
centri per la preparazione ai test scolastici d’ammissione e di
insegnanti privati per il doposcuola, di palestre per il karate
e di tornei di calcio. I genitori più giovani soprattutto apprezzavano quest’idea che Newton fosse un paradiso per i bambini. Molti di loro avevano lasciato la città, più sofisticata e
alla moda, per trasferirsi qui. Si erano sobbarcati spese ingenti, la monotonia che rimbambisce e la delusione frustrante insita nell’adattarsi a una vita convenzionale. Per questi
abitanti divisi da opinioni ambivalenti, l’intero quartiere
provinciale aveva senso solo perché era un bel posto in cui
crescere i figli. Vi avevano investito tutto.
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William Landay
Spostandomi da una stanza all’altra, passai da una tribù
all’altra. I ragazzi, gli amici della vittima, si erano ammassati in una cameretta sul davanti della casa. Parlavano a bassa
voce, gli occhi sbarrati. Una ragazza aveva le guance imbrattate di mascara e lacrime. C’era anche mio figlio, Jacob, seduto su una sedia bassa, allampanato e dinoccolato, lontano
dagli altri. Fissava il display del cellulare, disinteressato alla
conversazione che si svolgeva intorno a lui.
La famiglia, stordita dal dolore, si trovava nel soggiorno lì
accanto: nonne attempate e cugini neonati.
Finalmente, in cucina, trovai i genitori dei ragazzi che avevano frequentato le scuole di Newton insieme a Ben Rifkin.
Era questa la nostra combriccola. Ci conoscevamo da quando i nostri figli si erano presentati al primo giorno di scuola,
otto anni prima. Ci eravamo ritrovati in migliaia di occasioni: quando accompagnavamo i bambini a scuola il mattino e
quando andavamo a prenderli il pomeriggio, durante interminabili partite di calcio, nel corso di eventi organizzati dalla scuola per raccogliere fondi e a una memorabile rappresentazione di La parola ai giurati. Tuttavia, a parte poche
amicizie intime, non ci conoscevamo poi così bene. Certo,
c’era cameratismo tra noi, ma non reali rapporti. La maggior
parte di queste conoscenze non sarebbero sopravvissute dopo che i nostri figli si fossero diplomati alla scuola superiore.
Ma, in quei primi giorni dopo l’omicidio di Ben Rifkin, ci illudemmo di essere intimi. Era come se, all’improvviso, ci fossimo rivelati a vicenda.
Nell’ampia cucina dei Rifkin – piano cottura Wolf, frigorifero Sub-Zero, banconi di granito, armadietti bianchi in stile
inglese – i genitori dei compagni di scuola erano stretti in
gruppetti di tre o quattro e si scambiavano confessioni intime
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In difesa di Jacob
a proposito dell’insonnia, della tristezza e di un terrore incrollabile. Continuavano a parlare della Columbine, dell’11 settembre e di come la morte di Ben li avesse indotti ad aggrapparsi ai loro figli finché potevano. Le emozioni esasperate di
quella serata risultarono intensificate dalla luce calda della
cucina, proiettata da un lampadario composto da globi arancione brunito. Quando entrai nella stanza, in quella luce che
sembrava prodotta da un camino, i genitori si stavano concedendo il lusso di confessare i propri segreti a vicenda.
Davanti all’isola della cucina, una delle madri, Toby Lanzman, stava sistemando gli antipasti su un vassoio quando
entrai nella stanza. Teneva un asciugamano sulla spalla. Mentre lavorava, i tendini le spiccavano sugli avambracci. Toby era
la migliore amica di mia moglie Laurie, uno dei pochi legami
durevoli che avevamo stabilito qui. Mi vide cercare mia moglie e mi indicò la parte opposta della stanza.
«Si sta prendendo cura delle madri» disse.
«Vedo.»
«Be’, in questo momento qualche cura materna fa comodo a tutti.»
Grugnii, le rivolsi un’occhiata perplessa e mi allontanai.
Toby costituiva una tentazione. La mia unica difesa contro
di lei era una ritirata tattica.
Laurie era circondata da un piccolo gruppo di madri. I suoi
capelli, che erano sempre stati folti e ribelli, erano raccolti in
una crocchia approssimativa sulla nuca e tenuti fermi da un
grosso fermaglio di tartaruga. Massaggiò il braccio di un’amica per consolarla. La donna si piegò visibilmente verso di lei,
come un gatto che venisse accarezzato.
Quando la raggiunsi, Laurie mi cinse la vita con il braccio
sinistro. «Ciao, tesoro.»
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William Landay
«È ora di andare.»
«Andy, lo dici da quando siamo arrivati.»
«Non è vero. L’ho pensato, ma non l’ho detto.»
«Be’, ce l’hai scritto in faccia.» Sospirò. «Sapevo che saremmo dovuti venire con due auto diverse.»
Le ci volle un attimo per capire cosa provavo. Non voleva
andarsene, ma capiva che mi trovavo a disagio, che lì mi sentivo al centro dell’attenzione e che, tanto per cominciare, non
ero molto loquace: le chiacchiere in una stanza affollata mi
esaurivano sempre. Ciascuna di queste cose doveva essere
soppesata. Una famiglia va gestita, come qualsiasi altra organizzazione.
«Va’pure» decise. «Mi farò accompagnare a casa da Toby.»
«Sul serio?»
«Sul serio. Perché no? Porta con te Jacob.»
«Ne sei sicura?» Mi protesi verso il basso – sono più alto
di Laurie di quasi trenta centimetri – per sussurrarle in modo volutamente udibile: «Perché vorrei tanto trattenermi.»
Rise. «Va’. Prima che cambi idea.»
Le altre ci fissarono tetramente.
«Va’. Il tuo cappotto è nella camera da letto al piano di sopra.»
Salii al piano superiore e mi ritrovai in un lungo corridoio.
Lì il rumore era smorzato, il che mi fu di sollievo. L’eco della
folla continuava a ronzarmi nelle orecchie. Mi accinsi a cercare i soprabiti. In una camera da letto, che apparentemente apparteneva alla sorellina del ragazzo morto, c’era una montagna di cappotti appoggiati sul letto, ma il mio non era nel
mucchio.
La porta della camera accanto era chiusa. Bussai, la aprii
e infilai la testa all’interno per sbirciare.
La stanza era buia. L’unica luce proveniva da una lampa-
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In difesa di Jacob
da a stelo di ottone nell’angolo opposto. Il padre del ragazzo
morto se ne stava seduto su una poltrona, sotto quella luce.
Dan Rifkin era piccolo, snello, fragile. Come sempre, i capelli erano tenuti in ordine dalla lacca. Indossava un completo
scuro dall’aria costosa. Sul risvolto c’era uno squarcio di circa
cinque centimetri che simboleggiava il suo cuore spezzato;
aveva rovinato un completo costoso, pensai. Nella luce fioca,
gli occhi apparivano infossati e orlati da cerchi bluastri come
la mascherina di un procione.
«Ciao, Andy» disse.
«Scusa. Stavo solo cercando il mio cappotto. Non volevo
infastidirti.»
«No, vieni qui a sederti per un attimo.»
«No. Non voglio intromettermi.»
«Ti prego, siediti. C’è una cosa che voglio chiederti.»
Mi sentii mancare. Ho visto la sofferenza di persone sopravvissute all’omicidio dei propri cari. Il mio lavoro mi costringe a vederla. I genitori di bambini uccisi sono quelli che
se la passano peggio e, a mio parere, i padri se la passano ancora peggio delle madri perché viene insegnato loro a essere
stoici, a comportarsi da uomini. Degli studi hanno dimostrato che spesso i padri di ragazzi assassinati muoiono nel giro
di pochi anni dall’omicidio, sovente di arresto cardiaco. In realtà, muoiono di dolore. A un certo punto, il pubblico ministero si rende conto a sua volta di non riuscire a sopravvivere a quel genere di strazio. E visto che non può seguire i padri
sottoterra, si concentra invece sugli aspetti tecnici del lavoro.
Lo trasforma in un mestiere come un altro. Il trucco consiste
nel tenere a distanza la sofferenza.
Ma Dan Rifkin insistette. Agitò il braccio come un vigile
che indica alle automobili di avanzare e, dal momento che
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William Landay
non avevo scelta, chiusi delicatamente la porta e mi sedetti
sulla poltrona accanto alla sua.
«Vuoi qualcosa da bere?» Sollevò un bicchiere di whisky
color rame, liscio.
«No.»
«Ci sono novità, Andy?»
«Purtroppo no.»
Annuì e spostò lo sguardo verso un angolo della stanza, deluso. «Mi è sempre piaciuta questa stanza. È qui che vengo a
pensare. Quando succede una cosa simile, si passa parecchio
tempo a pensare.» Mi rivolse un sorrisetto tirato, come per dirmi: Non preoccuparti, sto bene.
«Immagino che sia così.»
«La cosa che non riesco a superare è perché questo tizio l’ha fatto.»
«Dan, non dovresti proprio...»
«No, ascoltami fino alla fine. È solo che... non... non ho bisogno che qualcuno mi tenga la mano. Sono una persona razionale, tutto qui. Ho delle domande. Non sui dettagli. Quando abbiamo parlato, tu e io, si è sempre trattato di dettagli: le
prove, le procedure processuali. Ma sono una persona razionale, d’accordo? Sono una persona razionale e ho delle domande. Altre domande.»
Sprofondai nella mia poltrona e, mentre acconsentivo, sentii le spalle rilassarsi.
«Bene. Allora, ecco come stanno le cose: Ben era un bravissimo ragazzo. Questo è il primo punto. Naturalmente, nessun
ragazzo merita di fare questa fine. Lo so. Ma Ben era davvero un bravo ragazzo. Era bravissimo. Ed era soltanto un ragazzo. Aveva quattordici anni, per amor di dio! Non ha mai creato problemi. Mai. Mai, mai, mai. Allora, perché? Qual era il
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In difesa di Jacob
movente? Non alludo alla rabbia, all’avidità, alla gelosia, a
quel tipo di ragioni, perché in questo caso non può esserci un
movente normale, non può proprio esserci, non ha alcun senso. Chi poteva provare quel genere di... di collera nei confronti di Ben, nei confronti di qualsiasi ragazzino? Non ha proprio alcun senso. Non ha proprio alcun senso.» Rifkin si posò
sulla fronte la punta di quattro dita della mano destra e tracciò lentamente dei cerchi sulla pelle. «Quel che intendo dire
è: cosa differenzia queste persone da noi? Perché, naturalmente, ho provato anch’io queste cose, questi moventi – la rabbia,
l’avidità e la gelosia – anche tu li hai provati, tutti li hanno provati. Ma non abbiamo mai ucciso nessuno. Capisci? Non potremmo mai uccidere qualcuno. Ma certe persone lo fanno,
certe persone ci riescono. Perché?»
«Non lo so.»
«Tu probabilmente ci trovi un senso.»
«No. In realtà no.»
«Ma parli con loro, li incontri. Cosa dicono gli assassini?»
«La maggior parte di loro non parla un granché.»
«Non glielo chiedi mai? Non perché l’hanno fatto, ma cosa li rende capaci di farlo in primo luogo.»
«No.»
«Perché no?»
«Perché non mi risponderebbero. I loro avvocati non permetterebbero loro di rispondere.»
«Gli avvocati!» Agitò la mano.
«La maggior parte di loro non saprebbe rispondere comunque. Gli assassini ragionevoli – che bevono Chianti,
mangiano fave e quant’altro – sono una pura invenzione. Esistono solo nei film. Comunque, questi tipi dicono un sacco di
stronzate. Se dovessero rispondere, probabilmente parlereb-
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William Landay
bero della loro infanzia difficile o giù di lì. Si dipingerebbero
come vittime. È la solita storia.»
Annuì, invitandomi a continuare.
«Dan, il punto è che non puoi torturarti per trovare un
motivo. Non c’è. Quello di cui stai parlando non ha nulla a
che fare con la logica.»
Rifkin scivolò leggermente sulla poltrona, concentrandosi, quasi avesse bisogno di riflettere ancora un po’sull’intera
faccenda. Aveva gli occhi lucidi ma la voce era ferma, calma.
«Gli altri genitori chiedono cose di questo genere?»
«Chiedono cose di tutti i tipi.»
«Li rivedi dopo che il caso è chiuso? I genitori, intendo.»
«A volte.»
«Voglio dire dopo parecchio tempo, anni.»
«A volte.»
«E loro... come ti sembrano? Stanno bene?»
«Alcuni di loro, sì.»
«Ma alcuni no.»
«Alcuni no.»
«Cosa fanno quelli che riescono a riprendersi? Qual è la
chiave di tutto? Deve esserci uno schema. Qual è la strategia, quali sono le procedure migliori? Cosa funziona nel loro
caso?»
«Vengono aiutati. Fanno affidamento sulle loro famiglie e
sulle persone che li circondano. Si rivolgono a gruppi di sostegno per i sopravvissuti. Possiamo mettertici in contatto.
Dovresti parlare con il rappresentante delle vittime. Ti indirizzerà a un gruppo di sostegno. È di grande aiuto. Il punto
è che non puoi farcela da solo. Devi tenere presente che là
fuori ci sono altri che hanno già vissuto questa esperienza
prima di te e sanno cosa stai passando.»
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In difesa di Jacob
«E cosa succede agli altri, ai genitori che non ce la fanno?
Quelli che non riescono a riprendersi?»
«Non sarai uno di quelli.»
«Ma se lo sarò? Cosa accadrà a me, a noi?»
«Non permetteremo che accada. Non pensarci nemmeno.»
«Ma capita. Capita, vero? Sì.»
«Non a te. Ben non vorrebbe che ti accadesse.»
Silenzio.
«Conosco tuo figlio» disse Rifkin. «Jacob.»
«Sì.»
«L’ho visto a scuola. Sembra un bravo ragazzo. Un bel ragazzone. Devi esserne orgoglioso.»
«Sì.»
«Mi pare che ti assomigli.»
«Sì, me l’hanno detto.»
Trasse un respiro profondo. «Sai, mi capita di pensare ai
compagni di classe di Ben. Mi sento legato a loro. Voglio vederli avere successo, capisci? Li ho visti crescere, mi sento vicino a loro. È strano? Provo questa sensazione perché mi fa
sentire più vicino a Ben? È per questo che mi sto attaccando
agli altri ragazzi? Perché è questo che sembra, vero? Mi pare
insolito.»
«Dan, non preoccuparti delle apparenze. La gente può pensarla come vuole. Che vada al diavolo. Non puoi preoccuparti di questo.»
Si massaggiò ancora un po’ la fronte. Il suo strazio non sarebbe potuto essere più evidente nemmeno se fosse stato
sdraiato a terra in un lago di sangue. Volevo aiutarlo. Allo stesso tempo, volevo allontanarmi da lui.
«Mi sarebbe d’aiuto sapere e vedere il caso risolto. Perché
l’incertezza... ti prosciuga. Mi sarà d’aiuto quando il caso sa-
27
William Landay
rà risolto, vero? In altri casi di cui sei stato testimone, questo
aiuta i genitori, vero?»
«Penso di sì.»
«Non intendo metterti sotto pressione. Non intendo darti questa idea. È solo che penso che mi sarà d’aiuto vedere il
caso risolto e sapere che quel tizio è... rinchiuso in prigione. So
che lo farai. Naturalmente ho fiducia in te. Voglio dire, naturalmente. Non dubito di te, Andy. Sto solo dicendo che mi sarà d’aiuto. A me, a mia moglie e a tutti. Credo che sia ciò di
cui abbiamo bisogno. Che il caso sia chiuso. È quello che ci
aspettiamo da te.»
Quella sera, io e Laurie eravamo a letto a leggere.
«Continuo a pensare che sia un errore riaprire la scuola
così presto.»
«Laurie, ne abbiamo già parlato.» La mia voce risuonò annoiata. Era un film già visto. «Jacob sarà perfettamente al sicuro. Lo porteremo noi stessi e lo accompagneremo fino alla
porta. Sarà pieno di poliziotti. Starà più al sicuro a scuola che
in qualsiasi altro luogo.»
«Più al sicuro. Non puoi saperlo. Come fai a saperlo? Nessuno ha idea di chi sia questo tipo o di dove si trovi o di quale sarà la sua prossima mossa.»
«Prima o poi devono riaprire la scuola. La vita continua.»
«Ti sbagli, Andy.»
«Quanto tempo vuoi che aspettino?»
«Finché non avranno acciuffato quel tipo.»
«Potrebbe volerci un bel po’.»
«E allora? Qual è la cosa peggiore che potrebbe succedere? I ragazzi si perderebbero qualche giorno di lezione. E allora? Perlomeno starebbero al sicuro.»
28
In difesa di Jacob
«Non è possibile tenerli completamente al sicuro. Là fuori c’è un mondo enorme. Enorme e pericoloso.»
«D’accordo, più al sicuro.»
Mi posai il libro sulla pancia, dove formò un piccolo tetto.
«Laurie, se si tiene chiusa la scuola, si trasmette a questi ragazzi il messaggio sbagliato. La scuola non dovrebbe essere
pericolosa. Non è un luogo di cui dovrebbero aver paura. È
la loro seconda casa. È il posto in cui trascorrono la maggior
parte della giornata. Vogliono andarci. Vogliono stare con i loro amici, non chiusi in casa e nascosti sotto il letto così che
l’uomo nero non possa raggiungerli.»
«L’uomo nero ha già raggiunto uno di loro. Questo fa di
lui tutt’altro che uno spauracchio.»
«D’accordo. Ma capisci cosa voglio dire.»
«Oh sì, capisco cosa vuoi dire, Andy. Ritengo solo che ti
sbagli. La massima priorità è tenere fisicamente al sicuro i ragazzi. Poi potranno stare con i loro amici o quant’altro. Finché non acciufferanno quel tipo, non puoi assicurarmi che i
ragazzi staranno al sicuro.»
«Hai bisogno di una garanzia?»
«Sì.»
«Prenderemo quel tipo» dissi. «Te lo garantisco.»
«Quando?»
«Presto.»
«Come fai a saperlo?»
«Me lo aspetto. Li prendiamo sempre.»
«Non sempre. Ti ricordi di quel tizio che uccise la moglie,
l’avvolse in una coperta e la infilò nel bagagliaio della Saab?»
«Prendemmo quel tipo. Solo che non riuscimmo a... d’accordo, quasi sempre. Li prendiamo quasi sempre. Ti prometto che acciufferemo questo tipo.»
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William Landay
«E se ti sbagli?»
«Se mi sbaglio, sono certo che me lo farai notare.»
«No, intendo dire se ti sbagli e qualcuno farà del male a
un povero ragazzo.»
«Non succederà, Laurie.»
Si accigliò ma si arrese. «Con te non si può litigare. È come continuare a sbattere contro un muro.»
«Non stiamo litigando. Stiamo discutendo.»
«Sei un avvocato; non capisci la differenza. Io sto litigando.»
«Senti, cosa vuoi che dica, Laurie?»
«Non voglio che tu dica nulla. Voglio che mi ascolti. Sai, essere sicuri di sé non significa avere ragione. Pensaci: potremmo mettere in pericolo nostro figlio.» Mi posò la punta di un
dito contro la tempia e premette, un gesto per metà scherzoso, per metà seccato. «Pensaci.»
Si voltò, appoggiò il libro sopra a una pila traballante sul
suo comodino e si coricò rivolgendomi le spalle, rannicchiata come un bambino nel corpo di un adulto.
«Su,» dissi «vieni qui.»
Arretrò fino ad appoggiare la schiena contro di me. Fino ad
avvertire un po’ di calore o di solidità o di qualsiasi altra cosa
volesse da me in quel momento. Le massaggiai il braccio.
«Andrà tutto bene.»
Sbuffò.
Dissi: «Immagino che rimediare con il sesso sia fuori discussione.»
«Pensavo che non stessimo litigando.»
«Io no, ma tu sì. E voglio che tu lo sappia: è tutto a posto,
ti perdono.»
«Ah. Forse, se mi dici che ti dispiace...»
«Mi dispiace.»
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In difesa di Jacob
«Non sembri dispiaciuto.»
«Sono sinceramente, profondamente dispiaciuto. Davvero.»
«Adesso, di’ che hai torto.»
«Che ho torto?»
«Di’ che hai torto. Vuoi farlo o no?»
«Uhm. Allora, giusto per essere chiari, mi basta dire che ho
torto e una bellissima donna farà l’amore con me in modo appassionato.»
«Non ho detto in modo appassionato. Solo normale.»
«Va bene, allora, se dirò che ho torto, una bellissima donna
farà l’amore con me senza nemmeno un briciolo di passione
ma con una tecnica piuttosto soddisfacente. È così che stanno
le cose?»
«Con una tecnica piuttosto soddisfacente?»
«Con una tecnica strabiliante.»
«Sì, avvocato, le cose stanno così.»
Posai il mio libro, la biografia di Truman scritta da McCullough, sul comodino, in cima a una pila scivolosa di riviste
patinate, e spensi la luce. «Scordatelo. Non ho torto.»
«Non importa. Hai detto che sono bellissima, quindi ho
vinto comunque io.»
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3
Di nuovo a scuola
Nelle prime ore del mattino seguente si levò una voce nel
buio, nella stanza di Jacob, un gemito: quando mi svegliai,
scoprii che il mio corpo si stava già muovendo, tirandosi su
con un balzo e trascinandosi fino ai piedi del letto. Ancora
intorpidito dal sonno, uscii dall’oscurità della stanza, passai
nella luce grigia dell’alba in corridoio e mi ritrovai di nuovo
al buio nella camera da letto di mio figlio.
Premetti l’interruttore sulla parete e regolai l’oscuratore
graduale. La stanza di Jacob era ingombra di oggetti: enormi
scarpe da ginnastica, un MacBook ricoperto di adesivi, un
iPod, testi scolastici, diversi romanzi, scatole di scarpe piene
di vecchie figurine di giocatori di baseball e fumetti. In un angolo, una Xbox era collegata a un vecchio televisore. I dischetti della Xbox, principalmente giochi di ruolo e di combattimento, e le loro custodie erano accatastati lì vicino. Com’è
ovvio, c’era della biancheria sporca, ma anche due pile di biancheria pulita piegata con cura e consegnatagli da Laurie, che
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In difesa di Jacob
Jacob si era rifiutato di riporre nella cassettiera perché era più
facile prendere gli indumenti puliti direttamente dalle pile.
Sopra a una bassa libreria c’era un gruppo di trofei che aveva
vinto quando giocava a calcio, da bambino. Non era mai stato un granché come atleta, ma allora tutti i bambini ricevevano un trofeo: nel corso degli anni, si era semplicemente limitato a lasciarli dov’erano. Le statuette erano posate lì come
reliquie, ignorate e praticamente invisibili. C’era anche il poster d’epoca di un famoso film truculento degli anni Settanta,
Cinque dita di violenza, che ritraeva un uomo con addosso un
completo da karate intento ad abbattere una parete di mattoni con un pugno. (‘Il capolavoro delle arti marziali! Gustatevi
un incredibile attacco dopo l’altro! Impallidite davanti al rituale proibito del palmo d’acciaio! Acclamate il giovane guerriero che tiene testa da solo ai malvagi signori della guerra delle
arti marziali!’) La confusione lì dentro era così assoluta e costante che io e Laurie avevamo smesso da tempo di litigare
con Jacob per convincerlo a riordinare. Anzi, avevamo perfino smesso di notarla. Secondo una teoria di Laurie, il caos era
una proiezione della vita interiore di Jacob – entrare nella sua
camera da letto era come entrare nella mente confusa di un
adolescente –, quindi era stupido sgridarlo. Credetemi, è quello che succede quando si sposa la figlia di uno strizzacervelli.
Per me, era solo una stanza disordinata e mi faceva infuriare
tutte le volte che ci entravo.
Jacob era sdraiato su un fianco lungo il bordo del letto e
non si muoveva. Aveva la testa inarcata all’indietro e la bocca aperta come un lupo che ululasse. Non russava, ma quando respirava, emetteva un suono intasato perché era alle prese con un lieve raffreddore. Tra un respiro e l’altro, diceva
piagnucolando: «N... n...» No, no.
33
William Landay
«Jacob» sussurrai. Protesi una mano per accarezzargli la
testa. «Jake...»
Gridò di nuovo. I suoi occhi fremettero sotto le palpebre.
All’esterno, un tram procedeva sferragliando, il primo
veicolo pubblico diretto a Boston sulla linea di Riverside.
Passava tutte le mattine alle 6:05.
«È solo un sogno» gli dissi.
Provai una piccola ondata di soddisfazione nel consolare
mio figlio in quel modo. Il che scatenò una di quelle fitte di
nostalgia a cui sono soggetti i genitori, un vago ricordo di Jake a tre o quattro anni, quando facevamo un rituale prima di
andare a letto; gli chiedevo: Chi vuole bene a Jacob? E lui rispondeva: Il papà. Era l’ultima cosa che ci dicevamo ogni sera prima di andare a dormire. Ma Jake non aveva mai bisogno di rassicurazioni. Non gli passava mai per la mente che
i papà potessero scomparire, perlomeno non il suo. Ero io
che avevo bisogno del nostro piccolo botta e risposta. Quando ero un bambino, mio padre non c’era mai. Lo conoscevo
a malapena. Avevo quindi stabilito che i miei figli non si sarebbero mai trovati in quella situazione; non avrebbero mai
saputo cosa significa essere senza padre. Com’era strana
l’idea che nel giro di pochi anni Jake mi avrebbe lasciato. Sarebbe andato all’università e la mia esperienza quotidiana di
padre costantemente presente si sarebbe conclusa. L’avrei visto sempre meno e, alla fine, il nostro rapporto si sarebbe ridotto a poche visite all’anno durante le vacanze e i fine settimana estivi. Non riuscivo proprio a immaginarlo. Che
cos’ero se non il padre di Jacob?
Poi mi sovvenne un altro pensiero, inevitabile date le circostanze: senza dubbio anche Dan Rifkin intendeva tenere il
figlio lontano dai pericoli quanto me e, senza dubbio, era im-
34
In difesa di Jacob
preparato quanto me a dirgli addio. Ma Ben Rifkin giaceva
nella cella frigorifera del dipartimento di medicina legale
mentre mio figlio era sdraiato nel suo letto caldo, l’uno diviso dall’altro solo dalla sorte. Mi vergogno ad ammettere che
pensai: Grazie a dio. Grazie a dio è stato ucciso suo figlio, non
il mio. Pensai che non sarei riuscito a sopravvivere a una simile perdita.
Mi inginocchiai accanto al letto, cinsi Jacob con le braccia e
posai la testa contro la sua. Ricordai di nuovo che quando era
piccolo, non appena si svegliava, ogni mattina Jake era solito
attraversare il corridoio con passo felpato e l’aria assonnata
per venire ad accoccolarsi nel nostro letto. Adesso, tra le mie
braccia, era indicibilmente alto, ossuto e goffo. Bello, i riccioli scuri e la carnagione rosea. Aveva quattordici anni. Di certo, non mi avrebbe mai permesso di tenerlo in quel modo se
fosse stato sveglio. Negli ultimi anni era diventato un po’
scontroso, solitario e rompiscatole. Avolte era come avere un
estraneo in casa; un estraneo vagamente ostile. Laurie sosteneva che era un comportamento tipico degli adolescenti. Stava sperimentando personalità diverse per prepararsi a lasciarsi per sempre alle spalle la fanciullezza.
Rimasi sorpreso quando il mio tocco calmò davvero Jacob,
ponendo fine a qualsiasi brutto sogno stesse facendo. Trasse
un sospiro e si voltò. Il respiro si rilassò, assumendo un ritmo
tranquillo, e Jacob si abbandonò a un sonno profondo, più
profondo di quanto io sia capace adesso. (A cinquantun anni, sembrava che avessi dimenticato come dormire. Mi svegliavo diverse volte nel corso della notte e raramente dormivo per più di quattro o cinque ore.) Mi piacque pensare di
averlo calmato, ma chi poteva saperlo? Magari non si era
nemmeno accorto che della mia presenza.
35
William Landay
***
Quella mattina eravamo tutti e tre irritabili. La riapertura
della scuola McCormick solo cinque giorni dopo l’omicidio
ci aveva scosso tutti. Seguimmo la nostra solita routine –
doccia, caffè e ciambelle, un’occhiata per controllare le email,
i risultati sportivi e le ultime notizie – ma eravamo tesi e impacciati. Alle sei e mezzo eravamo già tutti in piedi, anche se
ciondolavamo e finimmo per essere in ritardo, il che non fece altro che accrescere l’ansia.
Laurie, in particolare, era nervosa. Non penso che avesse
paura solo per Jacob. Era turbata per l’omicidio, nello stesso
modo in cui le persone sane rimangono sorprese quando si
ammalano gravemente per la prima volta. Ci si potrebbe
aspettare che aver vissuto per tutti quegli anni con un pubblico ministero avesse preparato Laurie meglio dei suoi vicini.
Ormai avrebbe dovuto sapere che – sebbene fossi stato così insensibile e cinico da farglielo notare la sera precedente – la vita continua davvero. Alla fine, perfino la violenza più cruda si
riduce a una materia processuale: una gran quantità di carta,
qualche reperto, una dozzina di testimoni sudati e balbettanti. Il mondo distoglie lo sguardo, e perché non dovrebbe farlo? Le persone muoiono, alcune in modo violento; sì, è una
tragedia, ma che a un certo punto smette di essere sconvolgente, perlomeno per un vecchio pubblico ministero. Laurie aveva assistito diverse volte alla procedura, guardando da sopra
la mia spalla, ma era comunque sconcertata dall’irruzione della violenza nella sua vita. Lo lasciava trasparire in tutti i movimenti, nell’andatura impacciata, nel tono smorzato della voce. Si sforzava di mantenere un contegno, ma non ci riusciva.
Jacob fissava il suo MacBook e masticava in silenzio la sua
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In difesa di Jacob
gommosa ciambella congelata, riscaldata nel forno a microonde. Laurie cercò di farlo uscire dal guscio, come sempre,
ma lui non volle saperne.
«Come ti senti all’idea di tornare, Jacob?»
«Non lo so.»
«Sei nervoso? Preoccupato? Cosa?»
«Non lo so.»
«Come fai a non saperlo? Chi altri dovrebbe saperlo?»
«Mamma, adesso non mi va di parlare.»
Era l’espressione educata che gli avevamo insegnato a
usare invece di limitarsi a ignorare i suoi genitori. Ma ormai
aveva ripetuto ‘adesso non mi va di parlare’ così tante volte
e in modo così meccanico che era scomparsa qualsiasi traccia di educazione.
«Jacob, non puoi semplicemente dirmi se ti senti bene così che non debba preoccuparmi?»
«Te l’ho appena detto. Non mi va di parlare.»
Laurie mi lanciò uno sguardo esasperato.
«Jake, tua madre ti ha fatto una domanda. Non muori se
le rispondi.»
«È tutto a posto.»
«Penso che tua madre si aspettasse una risposta un po’più
precisa.»
«Papà, smettila...» Tornò a rivolgere la sua attenzione al
computer.
Mi strinsi nelle spalle guardando Laurie. «Il ragazzo ha
detto che è tutto a posto.»
«L’avevo capito. Grazie.»
«Non preoccuparti, mamma. Va tutto benissimo, fine della storia.»
«E tu, marito?»
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William Landay
«È tutto a posto. Adesso non mi va di parlare.»
Jacob mi scoccò un’occhiata scontrosa.
Laurie sorrise con riluttanza. «Ho bisogno di una figlia
per pareggiare il conto, qui. Datemi qualcuno con cui parlare. È come vivere con due tombe.»
«Quello di cui hai bisogno è una moglie.»
«Mi era già passato per la mente.»
Accompagnammo entrambi Jacob a scuola. La maggior
parte degli altri genitori fece la stessa cosa e, alle otto in punto, l’edificio sembrava un luna park. Davanti all’istituto c’era
un piccolo ingorgo, costituito da monovolume della Honda,
berline e SUV. Alcuni furgoni dei notiziari, dotati di paraboliche, schermi e antenne, erano parcheggiati nelle vicinanze.
Alcune transenne della polizia impedivano l’ingresso a entrambe le estremità del viale d’accesso circolare. Un poliziotto di Newton montava la guardia vicino all’entrata della
scuola. Un altro aspettava a bordo di un’automobile. Gli studenti si facevano largo tra questi ostacoli, la schiena curva
sotto gli zaini pesanti. I genitori indugiavano sul marciapiede o accompagnavano i figli fino alla porta d’ingresso.
Parcheggiai la monovolume lungo la strada quasi a un
isolato di distanza e restammo seduti, gli occhi sbarrati.
«Caspita» mormorò Jacob.
«Caspita» convenne Laurie.
«È assurdo» esclamò Jacob.
Laurie aveva un’aria affranta. La mano sinistra dalle dita
affusolate e le belle unghie lucide le penzolava dal bracciolo. Aveva sempre avuto delle mani incantevoli, eleganti; le
tozze mani da donna delle pulizie che aveva mia madre
sembravano le zampe di un cane accanto alle sue. Mi protesi per prenderle la mano, intrecciando le dita con le sue così
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In difesa di Jacob
che i nostri due palmi componessero un pugno. La vista della sua mano nella mia mi rese per un attimo sentimentale. Le
rivolsi un’occhiata di incoraggiamento e agitai le nostre mani allacciate. Per me era una grande dimostrazione di emotività, e Laurie mi strinse la mano per ringraziarmi. Si voltò
di nuovo a guardare attraverso il parabrezza. I capelli scuri
erano striati di grigio. Rughe sottili si diramavano dagli angoli degli occhi e della bocca. Eppure, in qualche modo, mentre guardava dalla parte opposta mi parve di vedere anche
il suo volto più giovane, privo di rughe.
«Cosa c’è?»
«Nulla.»
«Mi stavi fissando.»
«Sei mia moglie. Ho il permesso di fissarti.»
«È previsto dalla legge?»
«Sì. Posso fissare, sbirciare, mangiare con gli occhi, tutto
ciò che voglio. Fidati di me. Sono un avvocato.»
Un matrimonio felice si trascina dietro una lunga scia di ricordi. Una singola parola, un gesto o un tono di voce possono rievocare un’infinità di reminiscenze. Io e Laurie civettavamo così da più di trent’anni, dal giorno in cui ci eravamo
conosciuti all’università e ci eravamo innamorati entrambi alla follia. Naturalmente, adesso le cose erano cambiate. A cinquantun anni, l’amore era un’esperienza più tranquilla. Superavamo le giornate insieme. Ma entrambi sapevamo
com’era iniziato tutto: ancora adesso, nel pieno della mezza
età, quando penso a quella splendida ragazza, provo in parte l’emozione del primo amore, che continua a brillare costante come una spia luminosa.
Ci avviammo verso la scuola, inerpicandoci sulla collinetta su cui sorge l’edificio.
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William Landay
Jacob salì in mezzo a noi. Indossava una felpa col cappuccio di un marrone sbiadito, jeans cascanti e Adidas Superstar
vintage. Teneva lo zaino sulla spalla destra. Aveva i capelli
un tantino lunghi. Gli ricadevano sulle orecchie, con un’onda sulla fronte che quasi gli copriva le sopracciglia. Un ragazzo più audace avrebbe accentuato questo aspetto e si sarebbe messo in mostra, ma non era da Jacob. Un accenno di
anticonformismo era il massimo che avrebbe arrischiato. Sul
suo volto era dipinto un sorrisetto stupito. Sembrava divertito da tutta quell’eccitazione che, innegabilmente, spezzava
la noia dell’ultimo anno di medie.
Quando raggiungemmo il marciapiede davanti alla scuola, venimmo assorbiti da un gruppo di tre giovani madri, i
cui figli frequentavano tutti la classe di Jacob. La più forte e
la più socievole di loro, il capo implicito, era Toby Lanzman,
la donna che avevo visto alla Shiv’ah dei Rifkin la sera prima. Indossava i pantaloni neri e lucidi di una tuta da ginnastica, una maglietta attillata e un berretto da baseball che lasciava spuntare la coda di cavallo da un buco sul retro. Toby
era una fanatica della forma fisica. Aveva un corpo esile da
podista e un volto privo di pinguedine. I padri degli studenti si sentivano eccitati e intimoriti dalla sua struttura muscolosa, ma la trovavano comunque elettrizzante. Per quanto mi
riguarda, pensavo che valesse una dozzina di altri genitori
presenti. Era il tipo di amica che si desidererebbe avere vicino durante un’emergenza. Il tipo che ti resterebbe sempre
accanto.
Ma se Toby era il capitano di quel gruppo di madri, Laurie
ne costituiva il vero centro emotivo, il cuore e probabilmente
anche il cervello. Laurie era l’amica intima di tutte. Quando
qualcosa andava storto, quando una di loro perdeva il lavoro
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In difesa di Jacob
o un marito se ne andava o un figlio aveva difficoltà a scuola,
chiamavano lei. Senza dubbio, erano attratte dalla stessa qualità di Laurie che attraeva me: aveva un calore cauto, intellettuale. In momenti di forte emotività, avevo la vaga sensazione
che quelle donne fossero le mie rivali in amore, che volessero
da Laurie alcune delle stesse cose che volevo io (approvazione,
amore). Quindi, quando le vidi radunate nella loro famiglia
ombra, con Toby nel ruolo del padre severo e Laurie in quello
della madre affettuosa, mi risultò impossibile non sentirmi almeno un po’geloso ed escluso.
Toby ci incluse nella piccola cerchia sul marciapiede, dando il benvenuto a ciascuno di noi secondo un cerimoniale ben
preciso che non ho mai capito del tutto: un abbraccio a Laurie, un bacio sulla guancia a me – smack, mi disse nell’orecchio
– e un semplice ciao a Jacob. «Non trovate che tutto questo sia
terribile?» sussurrò.
«Sono sconvolta» confessò Laurie, sollevata all’idea di trovarsi tra le sue amiche. «Non riesco proprio a elaborare questa faccenda. Non so cosa pensare.» La sua espressione era
più confusa che angosciata. Non riusciva a trovare un senso
in quanto era accaduto.
«E tu, Jacob?» Toby puntò gli occhi su Jacob, decisa a ignorare la differenza d’età tra loro. «Come stai?»
Jacob si strinse nelle spalle. «Sto bene.»
«Sei pronto a tornare a scuola?»
Jacob liquidò la domanda con un’altra, più energica scrollata di spalle – le sollevò e poi le lasciò ricadere – per dimostrarle che sapeva di essere stato trattato con condiscendenza.
«Ti conviene andare, Jake, altrimenti arriverai in ritardo.
Ricordati che devi superare un controllo di sicurezza» dissi.
«Sì, d’accordo.» Jacob roteò gli occhi come se tutta quella
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William Landay
preoccupazione per la sicurezza dei ragazzi fosse l’ennesima
conferma dell’eterna stupidità degli adulti. Non capivano
che era troppo tardi?
«Muoviti» dissi ancora, sorridendogli.
«Non hai armi o oggetti appuntiti?» chiese Toby con un
sorrisetto compiaciuto. Stava citando una direttiva emanata
tramite email dal preside, che esponeva svariate nuove misure di sicurezza per la scuola.
Jacob sollevò con il pollice lo zaino di alcuni centimetri
dalla spalla. «Soltanto libri.»
«Allora va bene. Muoviti. Va’ a imparare qualcosa.»
Jacob rivolse un cenno della mano agli adulti, che sorrisero con benevolenza, e si allontanò strascicando i piedi, superando le transenne della polizia e unendosi alla marea di studenti diretti verso l’ingresso della scuola.
Quando se ne fu andato, il gruppo rinunciò a fingersi allegro. L’intero fardello della preoccupazione calò su tutti.
Perfino Toby parve in difficoltà. «Qualcuno si è messo in
contatto con Dan e Joan Rifkin?»
«Non credo» disse Laurie.
«Dovremmo proprio farlo. Intendo dire che dobbiamo
farlo.»
«Poveretti! Non riesco nemmeno a immaginare cosa provino.»
«Credo che nessuno sappia cosa dirgli.» Fu Susan Frank a
prendere la parola, l’unica donna del gruppo con addosso abiti adatti per andare al lavoro. Portava un tailleur da avvocato
in lana grigia. «Intendo dire, di cosa si può parlare? Sul serio,
cosa diamine si può dire a qualcuno dopo un evento simile?
È così – non saprei – devastante.»
«Nulla» convenne Laurie. «Non c’è assolutamente nulla
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In difesa di Jacob
che si possa dire per raddrizzare le cose. Ma non importa quello che diremo; basta che ci mettiamo in contatto con loro.»
«Lasciategli capire semplicemente che pensate a loro» le
fece eco Toby. «Tutto quello che possiamo fare è comunicargli che li stiamo pensando.»
«Cosa ne pensi, Andy? Immagino che tu lo faccia in continuazione, vero? Parlare con le famiglie dopo un evento simile» mi chiese Wendy Seligman, l’ultima donna presente.
«La maggior parte delle volte non dico nulla. Mi limito ad
attenermi al caso; non parlo di nient’altro. Quanto a tutto il
resto, non posso fare un granché.»
Wendy annuì, delusa. Mi considerava un tipo noioso, uno
di quei mariti che dovevano essere tollerati, la metà meno importante di una coppia sposata. Ma ammirava Laurie, che
sembrava eccellere in tutti e tre i distinti ruoli tra i quali quelle donne si destreggiavano: mogli, madri, e solo in ultima
istanza, sé stesse. Se Laurie mi trovava interessante, presumeva Wendy, allora dovevo avere un lato nascosto che non mi
prendevo la briga di condividere, il che significava che forse
ero io a considerarla noiosa e indegna dello sforzo richiesto
da una vera conversazione. Wendy era divorziata, l’unica
madre divorziata o single del loro gruppetto, ed era incline a
presumere che gli altri la analizzassero alla ricerca di difetti.
Toby cercò di alleggerire l’atmosfera. «Sapete, per tutti
questi anni abbiamo tenuto lontano i bambini dalle pistole
giocattolo, dai programmi televisivi e dai videogiochi violenti. Io e Bob non permettevamo ai bambini nemmeno di
avere delle pistole ad acqua, per amor di dio, a meno che non
sembrassero qualcos’altro. E nemmeno in quel caso le chiamavamo pistole; le chiamavamo spruzzini o quant’altro, capite, come se i bambini non lo sapessero. E adesso è succes-
43
William Landay
so questo. È come se...» Sollevò le mani per l’esasperazione
in modo comico.
Ma la battuta cadde nel vuoto.
«È ironico» convenne Wendy in tono cupo, per far capire
a Toby che l’aveva ascoltata.
«È vero» sussurrò Susan, di nuovo a beneficio di Toby.
«Credo che abbiamo sopravvalutato quanto possiamo fare in qualità di genitori. Tuo figlio è tuo figlio. Ti ritrovi quello che capita» disse Laurie.
«Quindi avrei potuto dare ai bambini quelle maledette pistole ad acqua?»
«Probabilmente, sì. Con Jacob... non so. A volte mi chiedo
se siano mai contate davvero tutte le cose che abbiamo fatto
e di cui ci siamo preoccupati. È sempre stato come adesso,
soltanto più piccolo. Per tutti i nostri figli è lo stesso. Nessuno di loro è poi così diverso da com’era da piccolo.»
«Sì, ma non è cambiato nemmeno il nostro modo di essere genitori. Quindi, magari, gli stiamo semplicemente insegnando le stesse cose.»
Wendy disse: «Non ho un modo di essere genitore. Mi limito a improvvisare strada facendo.»
«Anch’io. Tutti noi. Tranne Laurie. Laurie, probabilmente tu
hai un modo di essere genitore. Anche tu, Toby» rispose Susan.
«No.»
«Oh, sì, invece! Probabilmente avete letto dei libri sull’argomento.»
«Io no.» Laurie sollevò le mani come per dire: Sono innocente. «Comunque, il punto è questo: quando sosteniamo di
poter condizionare i nostri figli affinché si comportino in questo modo o in quell’altro, penso che ci illudiamo. È quasi tutto innato.»
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In difesa di Jacob
Le donne si guardarono l’un l’altra. Forse Jacob aveva delle caratteristiche innate, non i loro figli. Non come Jacob, perlomeno.
«Qualcuno di voi conosceva Ben?» chiese Wendy. Alludeva a Ben Rifkin, la vittima dell’omicidio. Non l’avevano mai
conosciuto. Chiamarlo per nome rappresentava una sorta di
adozione.
«No. Dylan non è mai stato un suo amico. E Ben non ha
mai praticato nessuno sport o quant’altro» rispose Toby.
«Qualche volta ha frequentato dei corsi con Max. Lo vedevo. Sembrava un bravo ragazzo, ma chi può saperlo?» disse Susan.
«Questi ragazzi hanno una vita propria. Sono sicura che
custodiscano i loro segreti» disse Toby.
«Proprio come noi. Proprio come noi alla loro età, in quanto a ciò» disse Laurie.
«Ero una brava ragazza. Alla loro età non ho mai dato ai
miei genitori motivo di preoccuparsi» disse Toby.
«Anch’io ero una brava ragazza» disse Laurie.
«Non eri poi così brava» dissi io, intromettendomi.
«Lo ero finché non ho conosciuto te. Tu mi hai corrotta.»
«Davvero? Be’, ne vado piuttosto fiero. Dovrò aggiungerlo al curriculum.»
Ma appena dopo avere menzionato il nome del ragazzo
morto, quegli scherzi erano inappropriati e mi sentii a disagio e in imbarazzo davanti a quelle donne, la cui suscettibilità era molto più evidente della mia.
Ci fu un momento di silenzio, poi Wendy aggiunse, senza riflettere: «Oh mio dio, quei poveri genitori. Quella madre! E noi siamo qui a dire: La vita continua e si torna a scuola, mentre il suo bambino non tornerà mai più.» Gli occhi le
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William Landay
si riempirono di lacrime. L’orrore insito nella situazione era che
un giorno, senza che tu avessi alcuna colpa...
Toby si fece avanti per abbracciare l’amica, e Laurie e Susan carezzarono la schiena di Wendy.
Escluso, rimasi lì per un attimo con un’espressione ottusa
e benevola – un sorriso tirato, uno sguardo più dolce –, poi
mi scusai e andai a verificare i controlli di sicurezza all’ingresso della scuola prima che la situazione degenerasse in
ulteriori piagnistei. Non riuscivo a capire del tutto la profondità del dolore di Wendy per un ragazzo che non conosceva; lo interpretai come l’ennesimo sintomo della vulnerabilità emotiva di quella donna. Inoltre, il fatto che Wendy
avesse ripetuto le mie parole della sera precedente – ‘la vita
continua’– parve schierarla dalla parte di Laurie in un litigio
che si era appena risolto. Tutto sommato, era il momento opportuno per tagliare la corda.
Mi diressi verso il controllo di sicurezza che era stato allestito nell’atrio della scuola. Consisteva in un lungo tavolo dove i cappotti e gli zaini venivano ispezionati a mano e in una
zona in cui i poliziotti di Newton, due uomini e due donne,
passavano le bacchette di un metal detector lungo il corpo
dei ragazzi. Jake aveva ragione: l’intera faccenda era ridicola. Non c’era motivo di pensare che qualcuno avrebbe introdotto un’arma nella scuola o che l’assassino avesse qualche
legame con la scuola stessa. Il corpo non era nemmeno stato trovato nei terreni tutt’attorno. Quella messinscena aveva
senso solo per i genitori ansiosi.
Al mio arrivo, il rito kabuki della perquisizione di ogni studente si era interrotto. Con un tono di voce sempre più stridulo, una ragazzina stava trattando con un poliziotto mentre
un secondo agente stava a guardare con la bacchetta in posi-
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In difesa di Jacob
zione di portat’arm sul petto, come se avessero potuto chiedergli di utilizzarla per prenderla a bastonate. Capii che il
problema era la sua felpa, su cui campeggiava la scritta FCUK.
Il poliziotto riteneva che quello fosse un messaggio ‘istigatore’ e di conseguenza, secondo le regole di sicurezza improvvisate dalla scuola, proibito. La ragazza gli spiegò che erano
le iniziali di un marchio di abbigliamento che si poteva trovare in qualsiasi centro commerciale e poi, ammesso che alludessero a una parolaccia, come poteva qualcuno venirne
istigato? Non aveva intenzione di rinunciare alla felpa, tra
l’altro molto costosa, e perché avrebbe dovuto permettere a
un poliziotto di gettare una felpa costosa in un cassonetto della spazzatura senza una buona ragione? Si trovavano in una
situazione di stallo.
Il suo avversario, il poliziotto, aveva le spalle incurvate.
Aveva allungato il collo in avanti così che la testa gli sporgesse dinanzi al corpo, conferendogli un aspetto rapace. Ma
quando mi vide avanzare verso di lui, si raddrizzò tirando
indietro il capo.
«Tutto a posto?» gli chiesi.
«Sì, signore.»
Sì, signore. Odiavo gli automatismi linguistici adottati dai
dipartimenti di polizia, i finti ranghi militari, la catena di comando e giù di lì. «Riposo» dissi per fare una battuta, ma il
poliziotto abbassò lo sguardo sui propri piedi, imbarazzato.
«Salve» dissi alla ragazza, che sembrava di seconda o terza media. Non la riconobbi come una compagna di classe di
Jacob, ma avrebbe potuto esserlo.
«Salve.»
«Che problema c’è? Forse posso esserti d’aiuto.»
«Lei è il padre di Jacob Barber, vero?»
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«Proprio così.»
«Non è una specie di poliziotto o qualcosa di simile?»
«Sono solo un procuratore distrettuale. E tu chi sei?»
«Sarah.»
«Sarah. D’accordo, Sarah. Qual è il problema?»
La ragazza fece una pausa, incerta. Poi proruppe in un altro profluvio di parole: «È solo che stavo cercando di dire a
questo agente che non deve portarmi via la felpa, che la riporrò nel mio armadietto oppure la metterò al rovescio, fa lo
stesso. Ma a lui non piace quel che c’è scritto sopra, anche se
nessuno se ne accorgerà e in ogni caso non c’è niente di male, è solo una parola. È tutto così...» Omise l’ultima parola:
stupido.
«Non sono stato io a inventare le regole» le spiegò semplicemente il poliziotto.
«Non dice nulla! Cioè, è proprio questo il punto! Non dice quello che lui sostiene che dica! Comunque, gli ho già promesso che la metterò via. Gliel’ho detto! Gliel’ho ripetuto circa un milione di volte ma lui non vuole darmi retta. Non è
giusto.»
La ragazza era sul punto di piangere, il che mi ricordò la
donna adulta che avevo appena lasciato sul marciapiede, anche lei quasi in lacrime. Cristo, era impossibile liberarsi di
loro.
«Be’,» suggerii al poliziotto «penso che andrà bene se si limiterà a lasciarla nel suo armadietto, non crede? Non riesco
a immaginare che danno possa derivare da ciò. Me ne assumerò ogni responsabilità.»
«Ehi, è lei il capo. Come vuole.»
«E domani,» dissi alla ragazza per ingraziarmi il poliziotto «forse ti conviene lasciarla a casa.»
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Le strizzai l’occhio, e la ragazza raccolse le sue cose allontanandosi velocemente lungo il corridoio.
Mi misi di fianco al poliziotto oltraggiato e guardammo
entrambi attraverso il portone della scuola, in direzione della strada.
Passò qualche istante.
«Ha fatto la cosa giusta» dissi. «Probabilmente non avrei
dovuto immischiarmi.»
Naturalmente, erano entrambe fandonie. Senza dubbio,
lo sapeva anche lui. Ma cosa poteva fare? La stessa catena di
comando che lo costringeva a far rispettare una stupida regola adesso lo costringeva a essere deferente con un corpulento avvocato idiota con un completo dozzinale addosso,
che non sapeva quanto fosse difficile fare il poliziotto né che
solo la minima parte del loro lavoro finiva nei rapporti della polizia che raggiungevano sprovveduti e incontaminati
procuratori distrettuali rintanati nei loro tribunali come monache in un convento. Puah.
«Non fa niente» mi rispose.
E davvero non importava. Ma rimasi comunque lì per un
po’, a far fronte comune con lui per accertarmi che sapesse
da che parte stavo.
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