come cambia la democrazia - Rocca
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Rivista della Pro Civitate Christiana Assisi periodico quindicinale Poste Italiane S.p.A. Sped. Abb. Post. dl 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Perugia e 2.70 02 15 gennaio 2016 Yemen una guerra dimenticata Segenet Kelemu l’Africa che ce la fa clima il bicchiere mezzo pieno di Parigi economia tra banca e cliente consapevolmente mobbing al lavoro come difendersi etica l’utero in affitto e la legge Cirinnà teologia Giubileo e indulgenze come cambia la democrazia TAXE PERCUE – BUREAU DE POSTE – 06081 ASSISI – ITALIE ISSN 0391 – 108X Rocca 4 7 sommario 11 13 15 16 19 20 23 24 26 28 15 gennaio 2016 31 34 37 02 40 43 Ci scrivono i lettori Anna Portoghese Primi Piani Attualità Vignette Il meglio della quindicina Maurizio Salvi Yemen Una guerra dimenticata Romolo Menighetti Oltre la cronaca Evasori fiscali Pietro Greco Cambiamenti climatici Il bicchiere mezzo pieno di Parigi Tonio Dell’Olio Camineiro Colonia e il corpo delle donne 46 49 50 52 54 56 Roberta Carlini Economia Tra banca e cliente consapevolmente 57 Oliviero Motta Terre di vetro Un passo dopo l’altro 58 Come cambia la democrazia Ritanna Armeni Una democrazia senza partiti 58 Giancarla Codrignani La barra dei principi in nuovi contesti evolutivi 59 Fiorella Farinelli Mass media La scommessa del giornale del sabato Conversazione con Roberta Carlini 59 Daniele Doglio Comunicazione Emotivamente 60 Rosella De Leonibus I volti del disagio Mobbing al lavoro: come difendersi 60 Giovanni Sabato (a cura di) L’intervista a Segenet Kelemu L’Africa che ce la fa 61 62 Cristiana Pulcinelli Psichiatria in Africa Le catene dei malati mentali Marco Gallizioli Che cos’è la religione Guardando all’Oriente 63 Giannino Piana Etica L’utero in affitto e la legge Cirinnà Lidia Maggi Qohelet Rischiare futuro Carlo Molari Teologia Giubileo e indulgenza Stefano Cazzato Maestri del nostro tempo Margaret Gilbert La filosofia del noi Giuseppe Moscati Nuova Antologia Guido Morselli Una scrittura nata felicemente postuma Vincenzo Andraous La guerra degli innocenti Paolo Vecchi Cinema Perfect Day Roberto Carusi Teatro Dramma a lieto fine Renzo Salvi Rf&Tv Bestemmia scroll Mariano Apa Arte Beato Angelico Michele de Luca Fotografia Jakob Tuggener Alberto Pellegrino Fotografia Mario Dondero Giovanni Ruggeri Siti Internet Internet in chiaroscuro Libri Carlo Timio Rocca Schede Organizzazioni in primo piano Eca (Commissione economica per l’Africa) Luigina Morsolin Fraternità Betlemme e dintorni L’INTERVISTA l’Africa che ce la fa intervista a Segenet Kelemu U na tecnologia made in Africa che moltiplica i raccolti proteggendoli dagli insetti nocivi senza bisogno di pesticidi, preserva e arricchisce il suolo e produce un eccellente foraggio. È il cosiddetto push-pull, sviluppato per gli agricoltori africani da un centro di ricerche d’eccellenza dell’Africa orientale: il Centro internazionale per l’ecologia e la fisiologia degli insetti (Icipe) di Nairobi in Kenya. L’ha presentata Segenet Kelemu, la prima donna a divenire direttore generale dell’Icipe, alla tavola rotonda «Chiedi all’Africa. Le biotecnologie in ambito agricolo possono fare la differenza?», organizzata dalla Twas di Trieste, l’Accademia mondiale delle scienze che opera in nu- merosi paesi in via di sviluppo. Biologa molecolare e patologa vegetale, insignita di vari premi internazionali fra cui L’OréalUnesco Award for Women in Science, inserita da Forbes Africa fra le 100 donne africane più influenti nel 2014, Kelemu è un emblema dell’Africa che ce la fa, sviluppando scienza e tecnologie per i propri bisogni contando sulle proprie forze. Dei propri uomini e delle proprie donne. Perché una tecnologia simile è così importante? In Africa orientale i cereali sono fondamentali per milioni di agricoltori, per il consumo familiare e come fonte di reddito. Ma sono minacciati su molti fronti: gli insetti parassiti, le erbe infestanti, e l’erosione del ROCCA 15 GENNAIO 2016 a cura di Giovanni Sabato 37 . L’INTERVISTA suolo favorita da pratiche agricole disattente. Perciò la sicurezza alimentare di milioni di abitanti è sempre in bilico. L’Icipe, con una ricerca guidata allora dal suo scienziato Zeyaur Khan (membro Twas), con partner di altri paesi ha realizzato una tecnologia che affronta tutte queste minacce in modo relativamente semplice ed economico e senza pesticidi o erbicidi. E come funziona? È stata chiamata «push-pull», cioè «spingi-tira», perché allontana gli insetti nocivi dalle colture alimentari con una doppia azione. Ai cereali si inframmezzano piante che emettono naturalmente sostanze repellenti, che respingono gli insetti. Lungo i bordi del campo si piantano invece altre piante che attirano gli insetti dannosi e li stimolano a deporre su di sé le uova, ma non le lasciano sviluppare e quindi bloccano la proliferazione dei parassiti. ROCCA 15 GENNAIO 2016 Come è stata accolta? Questo è un punto chiave. Il push-pull è stato introdotto in Kenya nel 1997 e oggi lo usano oltre 110mila coltivatori in tutta l’Africa orientale, e si pensa di esportarlo nelle piantagioni di caffè e di cotone in Sud America. Ma non è stato un successo facile. Da un lato ci è voluta una ricerca scientifica rigorosa, in collaborazione con una storica società di ricerca agricola britannica, la Rothamsted Research. Dall’altro lato, un continuo confronto con i contadini cui era destinata. Non dobbiamo dare per scontato che quel che proponiamo noi sia il bene. Le comunità a cui sono destinati gli interventi non vanno trattate da «beneficiari», pronti ad accogliere qualsiasi cosa venga offerta, ma da «clienti», che adotteranno le soluzioni proposte solo se le troveranno rispondenti alle loro esigenze e compatibili con le loro culture e abitudini. Come ha sempre rimarcato Khan, questa filosofia è stata la chiave del successo: la tecnologia funziona perché è stata sviluppata in Africa e non calata dall’alto. Gli stimoli giunti da chi quelle piante doveva coltivarle, mangiarle e venderle, e l’inclusione delle conoscenze indigene nel lavoro di innovazione, sono stati fondamentali per arrivare a tecnologie appropriate e flessibili, adattabili alle diverse situazioni. 38 In che senso? Innanzitutto, senza l’apporto dei contadini la tecnologia non sarebbe mai nata nella sua forma attuale. Quando Khan ha iniziato a lavorarci, la sua prima preoccupazione erano gli insetti trivellatori, le cui larve scavano nei fusti distruggendo fino all’80% del raccolto. Per i piccoli coltivatori affrontarli era difficile: i pesticidi costano e rischiano di danneggiare l’ambiente, mentre le varietà di cereali più resistenti agli insetti sono adottate con riluttanza per il sapore inusuale. Come tutti, i contadini preferiscono i gusti cui sono abituati. Perciò Khan ha cercato metodi di contrasto ai parassiti basati su nemici e repellenti naturali. Dopo aver esaminato quasi 600 specie vegetali, gli sembrava di aver trovato la soluzione perfetta: una pianta che attira le femmine degli insetti e le induce a deporre le uova, ma non permette alle larve di svilupparsi. Ma i contadini erano perplessi: fare la fatica di coltivare un’erba in più priva di usi diretti, solo per controllare gli insetti, non li convinceva. Così Khan ha dovuto cambiare strada: lavorando con loro, ha ripreso i suoi esperimenti e ha trovato un’altra pianta che, oltre ad attirare gli insetti nocivi, serviva da foraggio. I contadini l’hanno provata, e con grande soddisfazione: i danni da trivellatori sono scesi sotto il 10% del raccolto. E il push? È nato anch’esso da un’esigenza dei contadini. In alcune regioni del Kenya il mais è stato attaccato da un nemico ancor più insidioso: l’erba infestante Striga, capace di spazzare via interi campi. Qui lo sforzo di introdurre la tecnologia pull sembrava inutile: a che serviva salvare il mais dagli insetti per vederlo spazzato via dalla Striga? Così è nata la parte push della tecnologia: Khan è tornato a sperimentare fino a trovare il desmodio, un legume che non solo respinge i trivellatori ma inibisce nel terreno la crescita della Striga. E in più arricchisce il suolo di azoto ed è anch’esso un ottimo foraggio. So che avete richiesto una valutazione indipendente… Era un passo doveroso, perché non possiamo essere noi stessi a giudicare il nostro lavoro. Nel 2009, quando il push-pull era ormai in uso da anni, l’Icipe ha commissionato a un istituto terzo una valutazione auto- E cosa è emerso? L’operazione ha confermato la validità e l’apprezzamento del push-pull. All’epoca la tecnologia era stata adottata da un quinto dei contadini delle aree interessate, e ha ridotto sensibilmente la vulnerabilità delle famiglie: i più hanno visto moltiplicarsi tre o quattro volte le rese di mais, hanno allevato più bestiame grazie al foraggio, e hanno investito il maggior reddito per migliorare istruzione dei figli, nutrizione, salute e abitazioni. E anche l’ambiente ne ha beneficiato. Ci sono state anche lamentele, come l’impossibilità di ruotare le colture, come si faceva prima, per coltivare anche legumi commestibili come i fagioli. Così, di nuovo, la tecnologia è stata riadattata per introdurre anche la produzione di legumi commestibili, e renderla più flessibile sotto vari aspetti per lasciare più spazio alle esigenze individuali di ciascuno. E di recente, sotto la pressione dei cambiamenti climatici che iniziano a farsi tangibili, ne è stata sviluppata una versione adatta ai climi più aridi. Lei è la prima donna a giungere alla testa dell’Icipe e tiene molto a rimarcare il contributo femminile alla vita e ai progressi dell’Africa, delle contadine come delle scienziate. Come mai? Perché sono ruoli tanto fondamentali quanto ignorati. Io stessa sono cresciuta in un villaggio dell’Etiopia sopportando il carico ineguale di lavoro che grava sulle donne rurali africane. Ho sperimentato di persona fatiche e successi dell’agricoltura africana passando dal badare ai campi al guidare un importante centro di ricerca. Perciò ho voluto che nel 2015 l’Icipe pubblicasse «From Lab to Land: Women in ‘push–pull’ agriculture», un rapporto che racconta i ruoli delle donne di tutta l’Africa orientale su entrambi i versanti della tecnologia, nella sua ideazione e nella sua adozione. Le donne più anziane che raccontano le loro storie in questo rapporto vengono da un mondo in cui era raro che una ragazza completasse la scuola primaria. In certi luoghi quel mondo esiste ancora, ma accanto oggi c’è un altro mondo in cui per le donne è normale finire gli studi elementari. E molte vanno oltre. Come sta contribuendo il push-pull a questo cambiamento? Le donne, come dicevo, fanno il grosso del lavoro dei campi, ma spesso hanno scarsa voce nella loro gestione e non hanno accesso alle risorse e alle tecnologie che possono migliorare il loro lavoro. Secondo la Fao in Africa orientale il faticoso lavoro di chinarsi a pulire a mano i terreni dalle erbe infestanti è svolto al 90% dalle donne, e assorbe il 50-70% del tempo di lavoro nei campi. Perciò il push-pull – che non solo aumenta le rese ma riduce lavori faticosi come questo – è una tecnologia che avvantaggia in particolare le donne. Non a caso il 60% dei contadini che l’hanno adottata sono donne. Non devono più chinarsi a strappare le erbacce. Non devono più fare chilometri per andare a raccogliere erba per il bestiame, magari di scarsa qualità. Questa è emancipazione femminile, pura e semplice. Quando Khan si è posto il problema di fare accettare la tecnologia, gli era chiaro che dovevano accoglierla prima di tutto le donne e le ha coinvolte fin dai primi incontri. Quando cercavamo una versione tollerante alla siccità, sono state le contadine a farci orientare sulla pianta prescelta, la Brachiaria, più facile da coltivare di altre che in teoria erano altrettanto adatte. E ora ho la netta sensazione di un cambiamento in atto: le donne hanno un ruolo sempre maggiore nelle decisioni. Alcuni ambientalisti propongono il push-pull come alternativa «naturale» agli organismi geneticamente modificati (Ogm). Lei che ne pensa? Questa contrapposizione non ha ragion d’essere. Nessuna tecnologia è un proiettile magico che risolve tutto: ci vuole un ventaglio di strumenti. Per alcune esigenze gli Ogm sono la risposta ideale, per altre lo è il push-pull, o tante altre soluzioni ancora. L’importante è che le colture Gm non siano prodotte solo dalle aziende private: devono lavorarci anche i centri di ricerca pubblici, così che lo scopo primo non sia il profitto ma le esigenze dei contadini e dei consumatori. E parecchie istituzioni pubbliche ci stanno lavorando, anche in Africa. ROCCA 15 GENNAIO 2016 noma per misurarne la validità, l’impatto sulle vite dei contadini e delle loro famiglie, e le loro percezioni al riguardo, anche per individuare i punti da perfezionare. a cura di Giovanni Sabato 39