Stralcio volume

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CAPITOLO 1
PROFILI GENERALI DI DISCIPLINA
1.1. L’affermazione di una politica ambientale dell’Unione Europea
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1.1. L’affermazione di una politica ambientale dell’Unione Europea
Dall’Atto Unico Europeo al Trattato di Lisbona
di Alfredo Rizzo
SOMMARIO: Premessa e questioni terminologiche. – 1. Fondamenti di una politica comunitaria ambientale dall’Atto Unico Europeo al Trattato di Maastricht. – 1.1. Tutela dell’ambiente e regole
del mercato interno. – 1.2. La progressiva definizione dei principi della tutela ambientale. – 2.
Trattato di Nizza e Carta dei Diritti Fondamentali. La tutela dell’ambiente come diritto fondamentale. – 3. Dalla Costituzione Europea al Trattato di Lisbona. – 3.1. La base giuridica degli
atti in materia di tutela dell’ambiente. – 3.2. Le nuove procedure decisionali.
Premessa e questioni terminologiche.
Un chiaro riferimento alla politica ambientale nei trattati comunitari si ha solo
a partire dalla formulazione dell’Atto Unico Europeo: sul piano formale, quindi,
può dirsi che i trattati di Roma non avevano conferito alcuna specifica competenza in capo alle comunità europee in subjecta materia.
Vale la pena osservare, innanzitutto, che pare votato al fallimento qualsiasi
tentativo di reperire, all’interno del sistema dei trattati, una nozione univoca di
ambiente, tanto da far ritenere che ciò sia il risultato di una precisa scelta motivata dalla volontà di evitare che, tramite il ricorso ad una terminologia precisa, si finisca per limitare gli spazi di intervento di una materia di per sé chiamata ad adeguarsi alla continua evoluzione tecnologica e scientifica. In ogni caso, un esempio
di tentativo in questa direzione si ha nella comunicazione della Commissione eu1
ropea in materia di ambiente del 1971 , nella quale tale nozione riceve la seguente definizione: «all the elements which, interacting in a complex fashion, shape the
world in which we live and move and have our being».
Successivamente, la stessa Commissione tenterà una definizione di politica ambientale individuando tre settori di intervento, il primo, concernente l’ambiente
fisico (al cui miglioramento mirano le politiche di riduzione dell’inquinamento,
compreso quello acustico, nonché la gestione delle città e delle campagne e la crea-
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SEC(71)2616 del 22 luglio 1971.
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zione di reti di trasporto e comunicazioni), il secondo, concernente l’ambiente sociale (relativo al miglioramento dei sistemi sanitari, pensionistici, di occupazione,
sicurezza sul lavoro, alloggio e formazione), il terzo, concernente l’ambiente culturale (rispetto al quale rilevano le politiche di insegnamento, formazione, informa2
zione e di creazione di strutture culturali come musei, biblioteche eccetera) .
La vaghezza terminologica in materia ambientale non ha impedito, come vedremo, il radicarsi non solo di una specifica politica ambientale dell’Unione (al di là
dell’individuazione dei settori di intervento di quest’ultima), ma anche di alcuni principi precipuamente sottesi alla realizzazione di tale politica. Questi aspetti, peraltro, riguardano anche il tema dell’individuazione di diritti individuali alla tutela
ambientale. Posta, infatti, la questione dei destinatari di tale tutela, che rileva particolarmente riguardo alle politiche assunte nella dimensione sovranazionale (di per
sé mirante a determinare i comportamenti dei soli Stati), occorre ricordare come un
ampio dibattito, aperto sia a livello nazionale sia a livello europeo e internazionale,
abbia accompagnato la formulazione dell’articolato della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza nel dicembre 2000, ri-proclamata
a Strasburgo nel 2007 ed entrata in vigore, unitamente al Trattato di Lisbona, alla
fine del 2009 (cfr. art. 6 del nuovo Trattato sull’Unione Europea, NTUE). Tra gli
altri temi di discussione, è emerso quello concernente proprio l’individuazione, previa loro corretta definizione, di alcune voci di tutela particolarmente controverse,
tanto per motivi connessi a una non univoca affermazione di tali stessi diritti negli
ordinamenti nazionali, quanto per un’intrinseca difficoltà nel ritenere che alcune
voci di tutela siano dotate di un grado di definizione giuridica sufficiente a dare o3
rigine a dei veri e propri diritti fondamentali .
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Comunicazione della Commissione al Consiglio su un programma delle comunità europee in materia di ambiente presentata il 24 marzo 1972 (GUCE 26 maggio 1972, n. C 52).
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La questione, molto complessa e di taglio prettamente teorico, riguarda trasversalmente diversi aspetti rilevanti dal corpo della Carta dei diritti fondamentali. Come sarà rilevato anche infra (Cap. 2) le
riforme di Lisbona, “transitate” dal testo del trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (mai entrato in vigore), hanno previsto l’inserimento nella Carta di un articolo (art. 52, par. 5) che sancisce una
distinzione tra “diritti” e “principi”. Farebbero parte della seconda categoria diverse voci di tutela, che,
per essere utilmente attivate, necessitano di una disciplina di riferimento (tramite atti legislativi di rango
comunitario, cfr. art. 51 della Carta). Ciò varrebbe, oltre che per alcune voci di tutela nel settore sociale
(v. in tema di diritti degli anziani o dei disabili o per il settore della protezione e sicurezza sociale), particolarmente nel settore della tutela dell’ambiente, che, in effetti, l’art. 37 della Carta si prende cura di non
definire rinviando alle rilevanti disposizioni dell’attuale Trattato sul funzionamento dell’Unione in materia ambientale (TFUE). Sulla rilevanza, per l’ordinamento creato dai trattati, che assumono certi settori di
disciplina particolarmente esposti alla ricerca scientifica e al progresso tecnologico, rilevanti contemporaneamente per la salute umana e la tutela di alcuni diritti umani fondamentali (nel caso di specie, integrità
e dignità della persona), v. Corte giust. 9 ottobre 2001, causa C-377/98, Regno dei Paesi Bassi c. Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea, in Racc., p. I-7079, concernente l’annullamento della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 6 luglio 1998, 98/44/CE, sulla protezione giuridica delle
invenzioni biotecnologiche (rispetto alla quale la Corte ha precisato che «per quanto concerne il materiale
vivente di origine umana, la direttiva 98/44, sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, delimita il diritto dei brevetti in modo sufficientemente rigoroso da garantire che il corpo umano resti effettivamente indisponibile ed inalienabile e venga così salvaguardata la dignità umana», v. pp. 70-75 della sen-
1.1. L’affermazione di una politica ambientale dell’Unione Europea
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Sembra pertanto più conferente svolgere un’analisi diacronica dell’evoluzione
di una “politica ambientale” dell’Unione.
1. Fondamenti di una politica comunitaria ambientale dall’Atto Unico Europeo al Trattato di Maastricht.
1.1. Tutela dell’ambiente e regole del mercato interno.
Anteriormente alle riforme dell’AUE, riferimenti alla tutela dell’ambiente erano riscontrabili nel trattato istitutivo della Comunità europea per l’energia atomica (CEEA c.d. Euratom), sebbene tale tutela fosse concepita come strumentale all’obiettivo di tutela della salute umana. In effetti, anche nella versione attualmente in vigore del Trattato Euratom, gli Stati membri dell’organizzazione devono
adottare fonti interne concernenti applicazioni mediche, la ricerca, i livelli massimi ammissibili di contaminazione radioattiva per le derrate alimentari nonché le
misure di protezione da adottare in caso di emergenza radiologica. Sul piano procedurale, ciascuno Stato membro è tenuto a fornire alla Commissione i dati generali di qualsiasi progetto relativo allo smaltimento di residui radioattivi. La CEEA
assume peraltro competenza esclusiva, rispetto agli Stati membri, riguardo ai controlli concernenti il divieto di distogliere l’utilizzo di materie nucleari dalle finalità civili cui sono destinate dagli stessi Stati membri. La disciplina concernente la sicurezza nucleare trova origine nel Capitolo 3 del Titolo II del Trattato Euratom.
Gli artt. da 30 a 39 di tale Trattato, in particolare, definiscono diversi concetti in
gran parte trasferiti in una disciplina di dettaglio: tra questi, rileva innanzitutto
quello di “standard minimi” (basic standards) che, seguendo la lettera dell’art. 30
Euratom menzionato, concernono la presenza di dosi massime consentite compatibili con un livello adeguato di salubrità, i livelli massimi ammissibili di esposizione a contaminazioni, i principi fondamentali concernenti la salute dei lavora4
tori e della collettività .
tenza, v. anche nostre osservazioni in L’allargamento ad est dell’Unione europea: problematiche del Trattato di adesione, Napoli, 2004, pp. 38-39).
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La direttiva 96/29/Euratom riguardava appunto la fissazione di tali standard per la protezione della
salute dei lavoratori e della collettività dal rischio di radiazioni ionizzanti (GUCE 29 giugno 1996, n. L
159). Per quanto attiene alla disciplina – attuata prevalentemente tramite regolamenti – concernente il
divieto di commercializzazione di prodotti radioattivi nel mercato internazionale cfr. regolamento n.
3955/87 sull’importazione di prodotti agricoli contaminati provenienti da Paesi terzi (GUCE 30 dicembre 1987, n. L 371), si veda la pronuncia della Corte di giustizia nel caso C-70/88, Parlamento europeo c.
Consiglio, in Racc., p. I-4529, c.d. Chernobyl II, nella quale la Corte affermò che l’obiettivo di vietare la
commercializzazione di prodotti consentiva di fondare la base giuridica dell’atto in questione nella norma
del Trattato CE concernente la politica commerciale comune (art. 133 TCE ora art. 207 TFUE). La Corte
in tale occasione ha altresì osservato che il regolamento in questione, in quanto fonte mirante, sin dalla
sua iniziale proposta e impostazione, alla tutela della salute pubblica e non anche allo stabilimento o funzionamento del mercato interno, non avrebbe potuto essere basato sull’art. 100 A del Trattato CE (corri-
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1. Profili generali di disciplina
Si deve notare, tuttavia, come il concetto di tutela ambientale fosse comunque
sotteso agli obiettivi delle comunità economiche europee sin dalle prime versioni
dei trattati istitutivi. Infatti, nell’interpretazione della disciplina comunitaria concernente gli obiettivi della politica agricola comune (PAC, v. ora art. 39 TFUE,
già art. 33 TCE), la Corte di giustizia delle Comunità europee ha segnalato come,
accanto agli obiettivi indicati da tale norma, il legislatore comunitario dovesse tenere in debita considerazione obiettivi di interesse generale quali la protezione
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dei consumatori e la salute e vita delle persone e degli animali . D’altronde, il set6
tore della protezione della salubrità e qualità dei prodotti agricoli ha accompagnato l’evoluzione della PAC proprio in quanto concepita come politica atta, inter alia, ad evitare che gli Stati perseguano unilateralmente proprie politiche agricole agendo a detrimento dell’obiettivo menzionato, concernente la garanzia della
circolazione dei prodotti agricoli nel mercato interno.
Non può apparire casuale, pertanto, il fatto che il principio di precauzione sia
stato enucleato proprio ed anche in occasione di un esame di legittimità di fonti
comunitarie relative al settore fitosanitario e veterinario: la Corte di giustizia ha
infatti rilevato come il perseguimento degli obiettivi di politica agricola non esima
le istituzioni dal perseguire e rispettare anche principi di portata generale come quello concernente la tutela della salute pubblica e il principio di precauzione, consistendo, quest’ultimo, esattamente nel fondare il potere (e l’obbligo) per le istituzioni stesse di intervenire cautelativamente con propri atti – di portata legislativa
o se del caso regolamentare, di natura anche transitoria ed in relazione a situazioni di emergenza – prima ancora che un rischio per la salute pubblica si renda con7
cretamente quantificabile, ma possa ritenersi comunque probabile .
spondente all’attuale art. 114 TFUE). Nel caso C-62/88 Parlamento europeo c. Consiglio, in Racc., p. I1527, c.d. Chernobyl I, invece, la Corte, interpretando il regolamento n. 3954/87 sulla messa in commercio all’interno dell’Unione di prodotti agricoli contaminati, riconobbe l’art. 31 del Trattato Euratom quale corretta base giuridica di tale regolamento.
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Nel settore in questione la stessa Corte ha colto i limiti normalmente applicabili a disposizioni di diritto nazionale contrastanti con obiettivi contenuti in disposizioni dei trattati dotate, peraltro, di efficacia
diretta (cfr. artt. 23 e 28 TCE, corrispondenti agli attuali artt. 28 e 34 TFUE): ciò è valso in particolare
per misure in materia fitosanitaria, come previste da atti di diritto comunitario e ricondotte alla categoria
delle misure dotate di effetto equivalente a restrizioni quantitative all’importazione espressamente vietate
dal menzionato art. 34 TFUE, ma ammesse proprio in quanto giustificate da interessi parimenti rilevanti
per la Comunità (Corte giust. 23 febbraio 1988, causa 68/86, Regno Unito c. Consiglio, in Racc., p. 255).
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La base giuridica di tale politica è stata individuata essenzialmente nell’art. 37 TCE (attuale art. 43
TFUE, ma v. anche art. 152, n. 4, lett. b, TCE corrispondente all’art. 168, n. 4, lett. b, TFUE, norma inerente alla protezione dei consumatori, introdotta dal Trattato di Amsterdam, v. in materia Corte giust. 4
aprile 2000, causa C-269/97, Commissione c. Consiglio, in Racc., p. I-2257, la cui massima rilevante per
questo excursus recita come segue: «… la presa in considerazione della sanità pubblica nell’ambito di atti adottati in base all’art. 43 – coincidente con l’attuale art. 43 TFUE, n.d.a. – è conforme all’art. 129, n. 1, terzo
comma, del Trattato – v. attuale art. 168, n. 4, lett. b, TFUE –. Del resto, la protezione della salute contribuisce
al conseguimento degli obiettivi della politica agricola comune di cui all’art. 39, n. 1, del Trattato – corrispondente all’attuale art. 39, n. 1, TFUE, n.d.r. – segnatamente quando la produzione agricola è condizionata in
modo diretto dal suo smaltimento da parte di consumatori sempre più attenti alla loro salute».
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Corte giust. 5 maggio 1998, causa C-180/96, Regno Unito c. Commissione, in Racc., p. I-2265. In ter-
1.1. L’affermazione di una politica ambientale dell’Unione Europea
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La tutela ambientale è stata presa ulteriormente in considerazione nel contesto
dell’analisi di contenuti ed effetti della libera circolazione dei beni (ed anche in
comparazione con contenuto ed effetti delle regole comunitarie sulla libera concorrenza tra imprese). D’altro canto, pare superfluo ricordare come, sin dalla sua
iniziale formulazione nel Trattato CEE, l’attuale art. 36 TFUE (già art. 30 TCE)
avesse contemplato alcune deroghe alla libera circolazione dei beni, tra le quali
espressamente rientra la tutela della salute umana e degli animali. Al di là di questo
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dato testuale, un certo indirizzo giurisprudenziale ha annoverato la politica ambientale – pur in assenza di alcuna formale base giuridica nei trattati – tra gli
obiettivi della Comunità, riconoscendo altresì che la libertà di commercio costituisce un valore non assoluto, bensì condizionato ad alcuni limiti giustificati dagli
scopi d’interesse generale pur perseguiti dalla Comunità: figurerebbe, tra questi
stessi scopi, anche quello della tutela dell’ambiente.
Così, la tutela ambientale si porrebbe al di fuori dell’ambito applicativo dell’art. 36 TFUE: infatti, tale tutela, sempre secondo la Corte, può essere ammessa
in deroga alla libera circolazione dei beni solamente se attuata tramite misure restrittive applicabili indistintamente a prodotti importati e a prodotti nazionali.
Viceversa, misure discriminatorie, ossia costitutive di disparità di trattamento tra
tali categorie di prodotti, possono essere ritenute ammissibili solo allorché si riesca a dimostrare che esse perseguono chiaramente obiettivi di tutela della salute
umana e degli animali, come espressamente indicato alla citata norma del trattato.
mini ancora più chiari nel caso National Farmers’ Union del 5 maggio 1998, in causa C-157/06, in Racc.,
p. I-2211, ai punti 63 e 64 la Corte preciserà che anche «… quando sussistono incertezze riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, le istituzioni possono adottare misure protettive
senza dover attendere che siano esaurientemente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi. Questa considerazione è corroborata dall’art. 130 R, n. 1, del Trattato CE, secondo il quale la protezione della salute
umana rientra tra gli obiettivi della politica della Comunità in materia ambientale. Il n. 2 del medesimo articolo dispone che questa politica, che mira ad un elevato livello di tutela, è fondato segnatamente sui principi
della precauzione e dell’azione preventiva e che le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle altre politiche comunitari». Infine, nella Corte giust. 21
marzo 2000, causa C-6/99, Association Greenpeace France e a., in Racc., p. I-1651, la Corte interpreta gli
effetti delle disposizioni della direttiva del Consiglio 23 aprile 1990, 90/220/CEE, sull’emissione deliberata nell’ambiente di organismi geneticamente modificati, come modificata dalla direttiva della Commissione 18 giugno 1997, 97/35/CE, recante secondo adeguamento al progresso tecnico della direttiva 90/220,
particolarmente in riferimento alle procedure di rilascio di autorizzazioni al commercio degli o.g.m., specificando, in merito alla assegnazione di rispettive competenze alla Commissione europea, da un lato, e
alle autorità competenti nazionali, dall’altro lato, che «… il rispetto del principio di precauzione si traduce,
da una parte, nell’obbligo, imposto al notificante dall’art. 11, n. 6, della direttiva 90/220, di comunicare immediatamente all’autorità competente ogni nuova informazione in merito ai rischi che il prodotto comporta
per la salute o l’ambiente, nonché nell’obbligo, imposto all’autorità competente dall’art. 12, n. 4, d’informarne immediatamente la Commissione e gli altri Stati membri e, d’altra parte, nella facoltà, attribuita ad
ogni Stato membro dall’art. 16 della direttiva, di limitare o vietare provvisoriamente l’uso e/o la vendita sul
proprio territorio del prodotto per il quale – benché sia stato oggetto di un consenso – vi sono valide ragioni
di ritenere che presenti un rischio per la salute o l’ambiente».
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Corte giust. 7 febbraio 1985, causa 240/83, Association de défense des brûleurs d’huiles usages (ADBHU), in Racc., p. 531.
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1. Profili generali di disciplina
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In una pronuncia successiva la Corte annovera la tutela ambientale tra le misure
configuranti “esigenze imperative” dell’ordinamento comunitario, idonee come
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tali a limitare la libera circolazione dei beni .
I profili problematici sopra brevemente illustrati mettono in evidenza come la
tutela ambientale, nell’ordinamento comunitario, non possa essere ricondotta telle
quelle al sistema di deroghe alla circolazione intracomunitaria dei prodotti e operare, così, a prescindere dalla suaccennata distinzione tra misure a tutela dell’ambiente che abbiano anche natura discriminatoria (tra prodotti “interni” a un singolo Stato e quelli commercializzati da altri Stati dell’Unione) o che invece siano
indistintamente applicabili. Le prime, infatti, secondo l’interpretazione giurisprudenziale accennata, non sarebbero riconducibili alle misure volte alla tutela di “esigenze imperative”, ma dovrebbero espressamente garantire la tutela della salute
umana e degli animali di cui all’art. 36 TFUE.
Tuttavia, un’interpretazione sistematica della giurisprudenza che ha individuato l’indicato discrimen consente di ritenere che la tutela dell’ambiente si sia affermata progressivamente quale parametro che vale a conferire carattere legittimo a
qualsiasi intervento da parte dell’Unione: ciò emerge particolarmente dalle disposizioni che il Trattato di Lisbona cataloga come norme “di applicazione generale”
(cfr. in particolare art. 11 TFUE ma anche, più in generale, art. 3 del nuovo TUE,
che richiama il tema dello sviluppo sostenibile). D’altro canto, una misura nazionale discriminatoria che persegua finalità di tutela dell’ambiente dovrebbe essere
comunque sottoposta a un controllo di livello sovranazionale (cfr. art. 191, par. 2,
secondo sottoparagrafo, TFUE), così come lo stesso principio di proporzionalità
(sebbene di stretta applicazione) potrebbe portare a ritenere comunque ammissi9
Corte giust. 20 settembre 1988, causa 302/86, Commission c. Denmark, in Racc., p. 4607 c.d. “Danish Bottles case”
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Sulla nozione di “esigenze imperative”, intesa come categoria generica di ostacoli non astrattamente
catalogabili, a differenza di quanto previsto dal citato art. 36 TFUE, e applicabili in assenza di disciplina
comunitaria concernente le caratteristiche tecniche di specifiche tipologie di prodotti, v. Corte giust. 20
febbraio 1979, causa 120/78, Rewe-Zentral, in Racc., p. 649, c.d. Cassis de Dijon. Occorre altresì rilevare
che le motivazioni di entrambi i leading cases richiamati fanno riferimento al parametro della proporzionalità per valutare se misure tanto comunitarie (nel caso ADBHU, contenute in una direttiva riguardante
lo smaltimento di oli usati) quanto nazionali (nel caso Danish Bottles, contenute in un regolamento nazionale inerente allo smaltimento di contenitori di birra o bibite analcoliche) volte alla tutela dell’ambiente
fossero proporzionate, per l’appunto, all’obiettivo di tale tutela e, in tal modo, adeguatamente giustificate
nei loro effetti restrittivi di altre libertà pur garantite dal diritto comunitario. Nella sent. Corte giust. 29
aprile 1999, causa C-293/97, The Queen c. Secretary of State for the Environment e Ministry of Agriculture,
Fisheries and Food, ex parte H.A. Standley e a. e D.G.D. Metson e a., in Racc., p. I-2603, la Corte (v. p. 46
ss.), nell’esame della direttiva del Consiglio 12 dicembre 1991, 91/676/CEE relativa alla protezione delle
acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole (GUCE 31 dicembre 1991, n.
L 375), ripercorre i principi che ora si trovano enucleati nell’art. 191 TFUE (già art. 174 TCE) per ritenere infine che l’attuazione di tali stessi principi spetti, a seconda dei casi, alle istituzioni comunitarie così
come a quelle nazionali (rilevando in primis l’azione svolta dalle autorità giudiziarie) e che tale generale
opera di adeguamento ai principi sottesi alla tutela ambientale risponda al più generale criterio di proporzionalità, che, nel caso di specie, metteva a confronto esigenze di tutela della salute pubblica con quelle di tutela della proprietà privata. Sui principi di sussidiarietà e proporzionalità si torna anche infra.
1.1. L’affermazione di una politica ambientale dell’Unione Europea
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bile tale genere di discriminazioni. In buona sintesi, il quadro di regole che, come
si vedrà di seguito, è infine giunto all’attuale formulazione della tutela ambientale
nelle accennate disposizioni generali del TUE e TFUE, consentirebbe di verificare
che, nell’ordinamento giuridico attuale, si è effettivamente realizzato un superamento della distinzione tra misure che ostacolano la circolazione dei prodotti, “discriminatorie”, da un lato, e “indistintamente applicabili”, dall’altro lato, se giustificate da motivi di tutela ambientale. In tal senso, il fatto che l’art. 36 TFUE
continui a non menzionare, anche dopo le riforme di Lisbona, la tutela ambientale, potrebbe non essere d’ostacolo ai fini di tale lettura che vale a dare maggiore
certezza giuridica a un modello di tutela (dell’ambiente) che l’Unione annovera
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ormai chiaramente tra i suoi principali obiettivi .
1.2. La progressiva definizione dei principi della tutela ambientale.
La politica ambientale comunitaria ha trovato inizialmente propria base giuridica negli artt. 100 e 235 del Trattato CE (cfr. ora artt. 95 e 308 TFUE). D’altro
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Secondo l’avv. gen. F. Jacobs (cfr. pp. 232 e 233 conclusioni del 26 ottobre 2000 rese nel caso
C-379/98, PreussenElektra AG c. Schhleswag AG, in Racc., p. I-2099) «Occorre (…) tenere in particolare
considerazione le preoccupazioni ambientali nell’interpretazione delle norme del Trattato sulla libera circolazione delle merci. Inoltre, i danni all’ambiente, anche quando non costituiscono una minaccia immediata –
come spesso accade – per la salute e la vita degli uomini, degli animali e dei vegetali tutelate dall’art. 36 del
Trattato (il riferimento è all’ex art. 36 del Trattato CE nella versione anteriore alla nuova numerazione del
Trattato di Amsterdam, cfr. ora art. 36 TFUE, n.d.r.), possono rappresentare una minaccia più grave, anche
se a più lungo termine, per l’ecosistema nel suo complesso. In tali circostanze sarebbe difficile giustificare il
fatto di riservare all’ambiente un grado di tutela minore rispetto a quello riservato agli interessi riconosciuti
nei trattati sul commercio conclusi molti decenni fa e ripresi nel testo dell’art. 36 del Trattato CE (cfr. art.
36 TFUE, n.d.r.) rimasto invariato a partire dalla sua adozione, nel 1957. In secondo luogo, ammettere che
misure ambientali possano essere giustificate solo qualora siano applicabili indistintamente rischia di vanificare lo scopo ultimo dei provvedimenti. Le misure nazionali per la protezione dell’ambiente possono senz’altro operare distinzioni in base alla natura e all’origine della causa del danno, e pertanto possono essere dichiarate discriminatorie proprio perché si basano su principi accettati come quello “della correzione, anzitutto
alla fonte, dei danni causati all’ambiente” (art. 130 R, n. 2, del Trattato CE, cfr. art. 191, par. 2 TFUE,
n.d.r.). Qualora tali misure abbiano necessariamente un impatto discriminatorio di questa natura, non andrebbe esclusa la possibilità ch’esse siano giustificate». In senso conforme si veda anche il punto 106 delle
conclusioni del 14 luglio 2005 rese dall’avv. gen. Geelhoed nella causa C-320/03, Commissione c. Austria,
secondo cui «a partire dall’adozione dell’Atto unico europeo del 1986, la tutela dell’ambiente è divenuta
sempre più un obiettivo primario della politica comunitaria, espresso non solo nel principio dell’integrazione
politica di cui all’art. 6 CE (corrispondente all’attuale art. 11 TFUE, n.d.r.) ma anche nella dichiarazione
degli obiettivi contenuta all’art. 2 CE (cfr. attuali artt. 2 e 3 nuovo TUE, n.d.r.). Esso è stato inoltre riconosciuto quale motivo di giustificazione di misure restrittive, non già all’art. 30 CE (cfr. art. 36 TFUE, n.d.r.)
bensì agli artt. 95, nn. 4 e 5 CE (cfr. artt. 114, nn. 4 e 5, TFUE, n.d.r.) laddove uno Stato membro desideri
mantenere o adottare misure più restrittive rispetto a quelle di armonizzazione. È vero che, ai sensi dell’art.
95, n. 6, CE (cfr. art. 114, n. 6, TFUE, n.d.r.) la Commissione deve verificare se le misure costituiscano o
meno uno strumento di discriminazione arbitraria o una discriminazione dissimulata nel commercio. Rilevo
come quest’ultimo criterio non escluda che una misura di questo tipo produca effetti diversi sui prodotti nazionali e su quelli importati che, in determinate condizioni, potrebbero essere giusti».
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1. Profili generali di disciplina
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canto, lo stesso art. 2 del Trattato CE prevedeva che la Comunità Europea aveva il compito di «promuovere uno sviluppo armonioso delle attività economiche
nell’insieme della Comunità; un’espansione continua ed equilibrata ed un miglioramento sempre più rapido delle condizioni di vita». Nello stesso periodo si vanno
delineando i principi cui le comunità europee si atterranno nello sviluppo della
propria politica ambientale, tra cui spiccano il principio di prevenzione e quello
di partecipazione/informazione, formulati inizialmente nel I Programma d’azione
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e precisati nel II Programma d’azione .
Il 1987 viene proclamato “Anno europeo dell’ambiente” e in tale contesto viene adottato il IV Programma d’azione in materia ambientale (1987-1992) delle
comunità europee. L’Atto Unico Europeo introduce nel trattato istitutivo delle
comunità europee un nuovo Titolo VII, dedicato all’“Ambiente”, costituito da tre
articoli (130R, 130S e 130T). L’art. 130R, comma 1 impone alla Comunità «di
preservare, proteggere e migliorare la qualità dell’ambiente», contribuendo alla protezione della salute delle persone e assicurando un impiego prudente e razionale
delle risorse naturali. Vengono altresì introdotti i principi dell’azione preventiva,
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della riparazione dei danni alla fonte e dell’inquinatore-pagatore , mentre l’art.
130R n. 2 prevedeva l’integrazione della politica ambientale con le altre politiche
comunitarie. In linea più generale, nello stesso periodo il principio di sussidiarietà
viene concepito quale criterio ordinatore ai fini dell’individuazione del livello ap15
propriato di decisione in campo ambientale ; sotto il profilo procedurale, in tale
stessa fase storica si opta per il criterio dell’unanimità in Consiglio dei ministri
dell’Unione ai fini dell’assunzione di decisioni in materia ambientale.
Con il Trattato di Maastricht sull’Unione Europea del 1993 l’azione in materia
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In materia, rileva la prassi dei c.d. “programmi d’azione”. Dal 1973 a oggi la Commissione europea
ha formulato 6 programmi d’azione in campo ambientale. I primi tre (il primo per il periodo 1973-1976;
il secondo per il periodo 1977-1981; il terzo per il periodo 1982-1986) hanno offerto premessa teorica ad
una politica ambientale delle comunità in assenza di una specifica competenza nei Trattati CECA, CEE
ed Euratom. Successivamente, si ricorda il IV Programma d’azione inerente al periodo 1987-1992; il V
per il periodo 1993-2000 e, da ultimo, il VI Programma d’azione che concerne l’attuale periodo (dal 2001
al 2010). I Programmi d’azione, pur non essendo vincolanti, sono documenti di una certa rilevanza istituzionale che aiutano a comprendere gli indirizzi della Commissione europea per sviluppare la futura legislazione ambientale comunitaria.
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Il II Programma d’azione per l’Ambiente è stato pubblicato nel 1977 (GUCE 13 giugno 1977, n. C/139).
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J.-P. JACQUE, L’acte unique européen, in Revue Trimestrielle de Droit Européen, 1986, p. 608.
15
R. ZACCARIA, Principe de subsidiarité et environnement, in Rev. Eur. Envir., n. 3, 2000, p. 255. Sebbene, nella pratica, la Corte di giustizia, nell’esercizio delle sue competenze relative alla verifica ex post
della legittimità degli atti comunitari, abbia applicato in poche occasioni il test concernente il rispetto del
principio di sussidiarietà da parte di fonti di diritto comunitario derivato (v. estensivamente caso C-491/01,
British American Tobacco, in Racc., p. I-1453 e caso C-377/98, Paesi Bassi c. Consiglio, in Racc., p. I-6229),
il Trattato di Lisbona, come noto, pone al centro dei processi formativi di diritto dell’Unione – c.d. fase
ascendente – il principio in questione attribuendo ai parlamenti nazionali in particolare la possibilità di
sollevare una questione di compatibilità della proposta d’atto presentata dalla Commissione europea tramite il meccanismo predisposto dall’art. 7(3) del Protocollo (2) sull’applicazione dei principi di proporzionalità e sussidiarietà annesso ai Trattati UE e sul Funzionamento dell’UE.
1.1. L’affermazione di una politica ambientale dell’Unione Europea
11
ambientale assume il rango di vera e propria politica della Comunità europea:
tramite tale Trattato, infatti, la tutela dell’ambiente è espressamente richiamata
nel Preambolo mentre all’art. 2 TCE, tra i compiti della Comunità europea, è inserito un riferimento esplicito ad una «crescita sostenibile e non inflazionistica e
che rispetti l’ambiente». Inoltre, le disposizioni in materia ambientale nel corpo
del TCE sono spostate sotto un Titolo XVI, inequivocabilmente intitolato all’“Ambiente” mentre ai tre principi fondamentali inseriti nel Trattato nel 1987 viene
16
aggiunto il principio di precauzione ; significativo è altresì il passaggio al criterio
maggioritario, almeno come possibilità esplicitamente estensibile alle decisioni
consiliari da assumere in campo ambientale (artt. 130 R e S TCE).
Nel frattempo, nell’ordinamento creato dai trattati si consolidano i principi
generali sottesi alla tutela ambientale.
Innanzitutto, il principio di precauzione – che, come visto, è stato sviluppato
dalla Corte di giustizia nell’interpretazione di alcuni aspetti della politica fitosanitaria e concernente la qualità dei prodotti agricoli – è stato formalmente introdotto dal Trattato di Maastricht nel 1993. L’origine del principio ha sede nell’ordi17
namento internazionale , considerando che già la Dichiarazione di Rio firmata
nel 1992 in occasione della Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo
Sviluppo recitava in questi termini: «Ove vi siano minacce di danno serio o irreversibile, l’assenza di certezze scientifiche non deve essere usata come ragione per im18
pedire che si adottino misure di prevenzione della degradazione ambientale» . Restando al livello comunitario, rileva ricordare che, nella sua Comunicazione sul
principio di precauzione del 2000, il Collegio ha rilevato come tale principio riguardi esattamente le attività d’analisi e gestione del rischio, trovando spazio applicativo nei casi in cui i riscontri scientifici risultino insufficienti, non conclusivi
o incerti e là dove la valutazione scientifica preliminare indichi che esistono motivi ragionevoli per ritenere che gli effetti potenzialmente pericolosi sull’ambiente e
sulla salute umana, animale o vegetale sono incompatibili con l’elevato livello di
protezione individuato dall’UE. La Comunicazione precisa inoltre i provvedimenti
che possono essere adottati nel quadro del principio di precauzione: preme in
particolare rilevare il passaggio della Comunicazione in cui si stabilisce che, qualora
un intervento appaia come necessario, i relativi provvedimenti da adottare devono
essere proporzionali al livello di protezione scelto, oltre che non discriminatori
19
nella loro applicazione e coerenti con i provvedimenti similari già adottati . Il
16
Secondo l’art. 130R, punto 2, TCE, «La politica della Comunità in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni della Comunità. Essa è
fondata sul principio della precauzione e dell’azione preventiva, sul principio della correzione, anzitutto alla
fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché sul principio chi inquina paga». Confronta in senso pressoché
ripetitivo art. 191, par. 2, TFUE.
17
Sulle origini del principio cfr. in particolare P. KOURILSKY-G. VINEY, Le principe de précaution.
Rapport au Premier Ministre, Paris, 15 ottobre 1999.
18
Così il Principio 15 della Dichiarazione di Rio.
19
Si veda la Comunicazione della Commissione sul principio di precauzione, Bruxelles, 2 febbraio
12
1. Profili generali di disciplina
principio di proporzionalità rappresenta dunque un elemento costitutivo dei procedimenti applicativi del principio di precauzione, come peraltro la Corte aveva
20
già rilevato in alcuni casi precedenti all’indicata Comunicazione del 2000 .
Il principio dell’azione preventiva ha accompagnato l’evoluzione della tutela
ambientale a livello comunitario per essere stato formulato sin dal I Programma
d’azione ed essere poi specificato nel II Programma d’azione. Già la Prima Diret21
tiva Seveso al suo art. 1 richiamava il principio della prevenzione . Prima della
sua consacrazione nell’Atto Unico Europeo, occorre altresì ricordare che risultavano chiaramente ispirate a tale principio anche altre fonti, come la direttiva
22
85/337/CEE del Consiglio del 27 giugno 1985 concernente quella che oggi è
ampiamente nota come procedura di Valutazione di Impatto Ambientale (c.d.
23
VIA) e, ancora prima, la direttiva 75/442/CEE del Consiglio del 15 luglio 1975 ,
che al suo art. 4 impone agli Stati di fare in modo di eliminare i rifiuti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza pregiudizio per l’ambiente. Questa norma va
ritenuta come fonte attuativa dei citati criteri di precauzione e azione preventiva,
precisandosi che, in particolare per quanto riguarda il principio d’azione preventi24
va, il rischio ambientale può risultare anche solo sufficientemente comprovato .
2000, COM(2000)1 def., che prende in considerazione quei provvedimenti basati su un esame dei costi e
dei benefici potenziali dell’azione – o dell’assenza di azione –, da sottoporre a revisione alla luce di nuovi
dati scientifici e da mantenere in vigore per tutto il tempo in cui altri dati scientifici permangano incompleti, imprecisi o non conclusivi e fino a che il rischio risulti troppo elevato per essere imposto alla società. Infine, tale genere di provvedimenti deve definire le responsabilità – insieme all’onere della prova –
per la produzione dei riscontri scientifici necessari ad una quanto più completa valutazione del rischio.
Queste linee guida proteggono contro il ricorso ingiustificato al principio di precauzione come contro
forme dissimulate di protezionismo.
20
Cfr. supra, note 5 e 10. Si ricorda che l’art. 3B del Trattato CE (che con il Trattato di Amsterdam
diventerà art. 5 CE, corrispondente all’attuale art. 5 TUE) stabilisce i tre principi ordinatori – competenze di attribuzione, sussidiarietà e proporzionalità – dell’azione comunitaria (ora, dell’Unione Europea).
Nel contesto dell’attuazione della politica ambientale dell’Unione, il principio di sussidiarietà ispira in
particolare la ripartizione di competenze tra autorità nazionali e Commissione europea ai fini del rilascio
delle autorizzazioni al commercio di prodotti (nel citato caso Association Greenpeace France la Corte ebbe modo di esaminare le procedure concernenti la commercializzazione degli o.g.m.). Sotto il profilo dell’iniziativa legislativa in subjecta materia, il Trattato di Lisbona fissa regole più stringenti in tema di controllo del rispetto, tramite intervento normativo dell’Unione, dei menzionati principi di sussidiarietà e proporzionalità (cfr. Protocollo sul ruolo dei parlamenti nazionali nell’Unione Europea, segnatamente art. 3,
e Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, segnatamente artt. 6 e 7, v.
supra, nota 15).
21
Ai sensi di tale norma la direttiva 82/501/CEE (GUCE 5 agosto 1982, n. L 230) assumeva come obiettivo principale quello della «prevenzione di incidenti rilevanti che potrebbero venir causati da determinate attività industriali, così come la limitazione delle loro conseguenze per l’uomo e l’ambiente …».
22
In GUCE 5 luglio 1985, n. L 175.
23
In GUCE 25 luglio 1975, n. L 194.
24
La Corte di giustizia utilizza il termine di “rischi noti” per fondare l’azione comunitaria e nazionale
volta a prevenire, ridurre e possibilmente eliminare sin dall’origine fonti di inquinamento. La differenza
tra i due principi – precauzione e azione preventiva – riguarda quindi una sfumatura sul grado di “notorietà” dei rischi comunque sufficientemente prevedibili (cfr. Corte giust. 5 ottobre 1999, causa C-175/98,
Lirussi e Bizzaro, in Racc., p. I-6881, p. 51). Inoltre, considerando che il principio di precauzione risulta
1.1. L’affermazione di una politica ambientale dell’Unione Europea
13
Peraltro, vale la pena osservare che la legislazione comunitaria riconosce anche
alle sanzioni un effetto deterrente (quindi, di per sé preventivo): in particolare, la
responsabilità civile viene concepita quale strumento per imporre standard di
comportamento, e quindi in sostanza come strumento preventivo nella disciplina
25
del danno all’ambiente .
26
Il principio «chi inquina paga» , già recepito in sede comunitaria dal I Programma d’azione in materia ambientale del 22 novembre 1973 e dalla Raccomandazione del Consiglio del 3 marzo 1975 sull’imputazione dei costi e l’intervento dei pubblici poteri in materia d’ambiente, è stato inserito nel testo del Trattato CE tramite l’Atto Unico Europeo. La connessione tra politica ambientale e
aspetti economici attiene alla necessità che – quale elemento incentivante l’inquinatore ad adeguare i propri comportamenti e a investire nella ricerca di metodologie produttive sempre meno inquinanti – i costi ambientali siano presi in piena
27
e adeguata considerazione dalle politiche industriali comunitarie e nazionali .
28
Anche in tale ottica, il Libro Verde sul risarcimento dei danni all’ambiente esamina l’istituto della responsabilità civile quale concetto sotteso all’instaurazione
di una responsabilità per costi legati al risanamento ambientale conseguente a comportamenti individuali, ma a notevole rilevanza sociale (come quelli delle azien29
de), viziati da illiceità . Va quindi sottolineata l’importanza del riconoscimento
del principio “dell’inquinatore pagatore” quale criterio operante per il buon funzionamento del mercato interno: viene, in altri termini, ideato l’obbligo di sopportazione dei costi dell’inquinamento da parte del responsabile anche al fine di
evitare che gli Stati si accollino spese dovute a comportamenti privati che rischiasviluppato giuridicamente in un periodo successivo all’affermazione del principio di azione preventiva,
risulta chiaro come il primo sia valso a conferire maggiore spessore al secondo, cfr. in tal senso L. KRAMER,
Manuale di diritto comunitario dell’ambiente, Milano, 2002. Sulla riferibilità di entrambi i principi al criterio di proporzionalità, nel bilanciamento tra obiettivi di tutela ambientale e garanzia di altre politiche o
libertà di derivazione comunitaria, v. quanto rilevato supra, nota 10.
25
Si veda al riguardo Libro Verde sul risarcimento dei danni all’ambiente COM(93)47, Bruxelles, riprodotto in GUCE 29 maggio 1993, n. C 149 insieme al Libro Bianco sulla responsabilità per danni
all’ambiente, Bruxelles, 9 febbraio 2000, COM(2000)66 def. e la direttiva 2004/35 del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004 sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, in GUUE 30 aprile 2004, n. L 143, il cui obiettivo risulta essere quello di
“istituire una disciplina comune per la prevenzione e riparazione del danno ambientale a costi ragionevoli
per la società” (cfr. 3° “considerando”).
26
Cfr. F. MELI, Le origini del principio “chi inquina paga” e il suo accoglimento da parte della Comunità
europea, in Riv. giur. amb., 1989, p. 218; L. BUTTI, L’ordinamento italiano ed il principio chi inquina paga,
in Contratto e impresa, 1990, p. 561.
27
Cfr. Raccomandazione del Consiglio concernente l’imputazione dei costi e l’intervento dei pubblici
poteri in materia di ambiente del 3 marzo 1975, n. 436 (GUCE 25 luglio 1975, n. L 194), p. 1, secondo
capoverso.
28
Il Libro Verde è stato presentato come Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento e al Comitato Economico e Sociale della U.E. nel maggio del 1993, COM(93)47, Bruxelles 14
maggio 1993, in GUCE 29 maggio 1993, n. C/149.
29
Così si legge nell’Introduzione, punto 1.0 del Libro Verde.
14
1. Profili generali di disciplina
no di falsare – anche se indirettamente – le condizioni necessarie perché si realiz30
zino gli obiettivi di un mercato effettivamente concorrenziale . Il principio può
trovare attuazione tanto tramite misure sanzionatorie quanto tramite l’imposizione di particolari oneri di natura fiscale proporzionali al danno ambientale prodotto o nella fissazione di limiti di emissione e sversamento, o anche nell’imposizione
di obblighi di depurazione. La connessione tra politica ambientale, basata sul
principio in questione, e la politica della concorrenza comunitaria si rende pertanto viepiù palese nella disciplina concernente gli aiuti di Stato, che può riguardare la possibilità per i governi nazionali di concedere misure di sovvenzione alle
imprese che per la loro stessa attività si vedano costrette a sopportare particolari
31
costi connessi al rispetto di obblighi di compatibilità ambientale . Il principio in
questione è poi espressamente menzionato quale criterio inderogabile cui gli Stati
membri devono attenersi anche là dove questi stessi Stati intendano avvalersi della clausola attualmente prevista all’art. 191, par. 5, TFUE. Certa dottrina ritiene
che, accanto al principio citato, gli Stati “in deroga”, ai sensi di tale previsione del
Trattato, dovrebbero parimenti continuare ad attuare proprie politiche ambienta32
li nel rispetto del principio di precauzione .
Il principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, era stato previsto dal I Programma d’azione del 1973 per essere ripreso dal
IV Programma d’azione nel 1987. Tale principio è entrato nel Trattato nel 1987 e la
corretta applicazione va armonizzata con i principi della prevenzione e “chi inquina paga”. Un esempio pratico dell’applicazione di tale principio deriva dal ca33
so Walloon Waste allorché alla Corte fu richiesto di valutare il carattere discriminatorio di misure nazionali tese a limitare l’importazione di rifiuti da un diver30
Secondo la menzionata Raccomandazione del 1975, infatti (cfr. p. 1, al 3° capoverso): «Allo scopo di
evitare che gli scambi e l’ubicazione degli investimenti vengano pregiudicati da distorsioni di concorrenza, il
che sarebbe, incompatibile con il buon funzionamento del mercato comune, è necessario che in tutta la Comunità vengano applicati gli stessi principi per l’imputazione dei costi della protezione dell’ambiente contro
l’inquinamento».
31
Tale approccio è riscontrabile sin da alcune risalenti direttive, come quella del 1975 (n. 439, in
GUCE 25 luglio 1975, n. L 194) sulla gestione di rifiuti da oli usati il cui art. 14 disponeva appunto la
previsione di un’indennità per i servizi di raccolta dei rifiuti in questione, che la Corte di giustizia, nel
citato caso ADBHU (v. supra, nota 7) non ha considerato riconducibile a una misura implicante aiuti di
Stato ai termini dell’attuale art. 107 TFUE. La ratio degli aiuti di Stato nel settore ambientale, in quanto
fondati sul principio “chi inquina paga”, è resa esplicita all’ottavo punto del par. 1.2. dell’introduzione
delle linee guida della Commissione sulla disciplina degli aiuti di Stato in materia ambientale (2008/C
82/01), che recita come segue: «Prevedendo un pagamento a fronte dell’inquinamento prodotto, e quindi la
completa internalizzazione dei costi ambientali, il principio «chi inquina paga» rende conto di queste esternalità negative. Esso è inteso a garantire che i costi privati (sostenuti dall’impresa) rispecchino i costi sociali
effettivi occasionati dall’attività economica. La piena applicazione del principio «chi inquina paga» consentirebbe di porre rimedio al fallimento del mercato. Il principio può essere attuato fissando norme ambientali
obbligatorie o mediante strumenti di mercato. Alcuni strumenti di mercato prevedono la concessione di aiuti
di Stato a tutte o a parte delle imprese che rientrano nel loro campo di applicazione».
32
J.H. JANS-H.H.B. VEDDER, European Environmental Law, Groeningen, 2008, in part. p. 46.
33
Corte giust. 9 luglio 1992, causa C-2/90, Commissione c. Regno del Belgio, in Racc., p. I-4431.
1.1. L’affermazione di una politica ambientale dell’Unione Europea
15
so Stato membro. La Corte, in tal caso, non superò il test circa il carattere (chia34
ramente) discriminatorio delle misure nazionali restrittive , ma ne ammise la giustificazione per ragioni imperative di tutela ambientale alla luce tanto dei criteri di
autosufficienza e prossimità fissati dalla Convenzione di Basilea sul trasporto
transfrontaliero di rifiuti pericolosi, quanto, per l’appunto, sull’indicato criterio
secondo il quale la gestione di rifiuti deve avvenire nel luogo più vicino possibile
a quello in cui i rifiuti stessi sono stati prodotti, con conseguente individuazione
di responsabilità specifiche in capo alle autorità locali e contestuale lettura sfavorevole (sebbene in astratto non esclusa) della circolazione di tale particolare categoria di prodotti nel mercato intracomunitario.
Il principio di prevenzione e il principio “chi inquina paga” verranno spesso
affiancati nel raggiungimento degli stessi scopi, come si ricava d’altronde in materia di responsabilità ambientale, ove i principi vengono richiamati congiuntamen35
te . Secondo la direttiva 2004/35 sulla responsabilità ambientale l’azione di prevenzione prevista all’art. 5 appare essere la concretizzazione congiunta di tali principi, stabilendo che «Quando un danno ambientale non si è ancora verificato, ma
esiste una minaccia imminente che si verifichi, l’operatore adotta, senza indugio, le
misure di prevenzione necessarie». Essendo gli oneri della prevenzione addossati
36
all’inquinatore , l’azione di prevenzione, così come disciplinata nella legislazione
comunitaria, si presenta come valido strumento di applicazione congiunta dei principi caratterizzanti le politiche comunitarie in campo ambientale.
37
Nel frattempo, tramite il Trattato di Amsterdam del 1997 l’articolato dei Trattati CE e sull’Unione Europea viene rinumerato. Gli artt. da 130R a 130T TCE
vengono inseriti nel Titolo XIX e diventano gli artt. 174, 175, 176. Tra gli obiettivi politici fondamentali dell’Unione, all’art. 3 del Trattato sull’Unione viene inse38
rita la politica ambientale mentre l’art. 2 viene in parte modificato . L’art. 6
39
TCE , prevede inoltre l’integrazione delle esigenze ambientali nella definizione e
34
Cfr. supra in tema ostacoli motivati da esigenze imperative diverse da quelle espressamente indicate
all’attuale art. 36 TFUE sul presupposto che, nel caso di specie, trattando di rifiuti, si possa ricondurre la
natura di tali stessi rifiuti alla nozione di “bene” coperta dall’attuale art. 34 TFUE.
35
Ad esempio nel Libro Bianco sulla responsabilità ambientale, cit. nota 25, sub 1.1.
36
Si veda l’art. 8 della direttiva 2004/35, secondo cui: «L’operatore sostiene i costi delle azioni di prevenzione e di riparazione adottate in conformità della presente direttiva».
37
Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997 ed entrato in vigore il 1° maggio 1999.
38
L’art. 2 TCE, così come modificato dal Trattato di Amsterdam recitava: «La Comunità ha il compito
di promuovere nell’insieme della Comunità, mediante l’instaurazione di un mercato comune e di un’unione
economica e monetaria e mediante l’attuazione delle politiche e delle azioni comuni di cui agli articoli 3 e 4,
uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, un elevato livello di occupazione
e di protezione sociale, la parità tra uomini e donne, una crescita sostenibile e non inflazionistica, un alto
grado di competitività e di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di protezione dell’ambiente
ed il miglioramento della qualità di quest’ultimo, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la
coesione economica e sociale e la solidarietà tra Stati membri».
39
L’art. 6 introdotto dal Trattato di Amsterdam recita come segue: «Le esigenze connesse con la tutela
dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni comunitarie
16
1. Profili generali di disciplina
nell’attuazione delle altre politiche e azioni comunitarie, riprendendo quanto prima disposto dall’art. 130R TCE.
L’integrazione delle politiche di tutela ambientale nelle altre politiche dell’Unione è stata promossa tramite numerose iniziative prese dalla Commissione e dal
Consiglio. In particolare, si ricorderà la Comunicazione della Commissione al
Consiglio Europeo dedicata alle strategie per integrare l’ambiente nelle politiche
dell’Unione Europea messa a punto all’indomani del Consiglio di Cardiff nel giu40
gno del 1998. Nel VI Programma d’azione ambientale della Comunità europea
si afferma che il principio in questione deve essere approfondito anche in altre politiche, con chiaro riferimento all’originaria concezione del principio di integrazione esterna concepito dall’Atto Unico europeo. Con questa indicazione e con la
formulazione dell’art. 6 TCE, sostanzialmente confermata dall’art. 11 TFUE, si estende l’esigenza di garantire gli obiettivi di tutela ambientale tramite ricorso al
principio di integrazione che consente di far ritenere la prima integrabile in tutte
le politiche e settori d’azione dell’Unione – il che, stando alla unificazione personale di UE e CE porterebbe a includere nell’ambito indicato dall’art. 11 TFUE
anche l’azione esterna e, con qualche margine di dubbio maggiore, la politica estera
dell’Unione –, con ulteriore rafforzamento, sotto il profilo giuridico, dell’obiet41
tivo, chiaramente indicato nella norma in questione, dello sviluppo sostenibile .
Si noterà altresì che l’art. 37 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, seppure con una locuzione leggermente diversa (riferita specificamente ad
un «alto livello di tutela dell’ambiente e per il miglioramento della sua qualità»)
rispetto alla lettera dell’art. 11 TFUE, si rivela essere una norma che espressamente mira a fare assurgere il principio d’integrazione quale parametro di legittimità
di qualunque intervento dell’Unione e, conformemente all’art. 51 della Carta, degli Stati membri nell’attuazione del diritto della prima. Rimane forse da chiedersi,
con una risposta per ora in senso negativo, se il principio di integrazione valga a
fondare un diritto individuale esercitabile, in caso di sua violazione, da soggetti privati avverso autorità comunitarie o nazionali.
di cui all’articolo 3, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile». Sul punto si vedano M. WASMEIER, The Integration of Environmental Protection as a General Rule for Interpreting
Community Law, in Common Market Law Review, vol. 38, 2001, p. 151.
40
41
Decisione n. 1600/2002, in GUCE 10 settembre 2002, n. L 242.
Sulla possibilità di fondare un’azione legale sul principio di integrazione una dottrina fa riferimento
ad alcune pronunce giurisprudenziali, particolarmente in tema di individuazione della corretta base giuridica di atti delle istituzioni (v. inter alia casi Chernobyl I e II citati supra), ai fini di valutare il maggior
peso degli obiettivi di tutela ambientale in un atto che miri anche a obiettivi di diversa natura comunque
rintracciabili in altre norme di diritto primario comunitario. Secondo altra prospettiva, il principio di integrazione conduce il legislatore comunitario a tenere conto di obiettivi di tutela ambientale anche nella
realizzazione di altre politiche comunitarie, ciò che, d’altronde, come dimostrato anche supra, si è rivelato
essere uno dei caratteri essenziali del diritto comunitario sin dalla definizione di regole e limiti applicabili
alla commercializzazione di prodotti nel mercato interno (in tal senso v. J.H. JANS-H.H.B. VEDDER, European Environmental Law, Groeningen, 2008, p. 16 ss.).