Servizi per l`infanzia: la fine del paradosso

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Servizi per l`infanzia: la fine del paradosso
Pubblicato su NEODEMOS.it il 26 febbraio 2014
Servizi per l’infanzia: la fine del
paradosso
STEFANO MOLINA
Nei giorni 21-23 febbraio si è tenuto a Reggio Emilia Educazione e/è politica. Generare alleanze nel
sistema dei servizi per l’infanzia, il 19° Convegno Nazionale dei servizi educativi e delle scuole
dell’infanzia. L’impressionante partecipazione di pubblico – in primis personale educativo – ha
testimoniato della grande vivacità del settore, ma pure delle diffuse preoccupazioni circa gli effetti
della crisi sull’offerta e sulla domanda di servizi rivolti ai bambini e alle bambine fino a sei anni di
età.
Segnali di crisi
Il quadro è in effetti tutt’altro che confortante: per quanto concerne la fascia da 0 a 3 anni, in
presenza dei vincoli stringenti del patto di stabilità alle finanze comunali, l’offerta di posti in nidi
pubblici o convenzionati ha grandi difficoltà ad espandersi e talvolta persino a mantenere le
posizioni raggiunte; la soluzione delle sezioni primavera (che consente l’iscrizione alle scuole
dell’infanzia già a partire dal 25° mese di età) sembra tramontare non tanto a seguito delle
ragionevoli critiche ad esse mosse dai pedagogisti e dagli psicologi dell’età evolutiva, quanto più
banalmente per la diminuzione dei fondi dedicati.
Quanto poi alla fascia da 4 a 6 anni, è davvero inquietante il fatto che il tasso di partecipazione alle
scuole dell’infanzia, che era prossimo al 100% fino a pochi anni fa, stia diminuendo con grande
rapidità, presumibilmente per effetto della contrazione dei redditi disponibili delle famiglie e per
l’aumento del “tempo libero” a disposizione dei genitori (mi scuso per l’eufemismo). Di questo passo,
una delle soglie indicate dalla strategia Europa 2020 (frequenza delle scuole dell’infanzia da parte di
almeno il 95% della popolazione a partire dai 4 anni) verrà sì varcata dall’Italia, ma nel senso
opposto rispetto a quanto auspicato.
Un settore strategico
Sono dunque numerosi i sintomi di disinvestimento nei confronti di un settore che andrebbe invece
considerato assolutamente strategico: perché, oltre a migliorare il benessere attuale di bambini e
famiglie, consente di perseguire altri importanti obiettivi per la collettività, quali la conciliazione tra
vita familiare e lavoro, la crescita dell’attività femminile e delle pari opportunità di reddito e di
carriera per le madri; il sostegno alle coppie che desiderano avere figli; il contrasto precoce – e
come tale più efficace – delle disuguaglianze e dell’esclusione sociale; l’integrazione delle famiglie di
origine immigrata, per le quali i servizi per l’infanzia costituiscono il primo luogo in cui vengono
trattate “alla pari”, e non in una prospettiva emergenziale o assistenziale. Inoltre, da alcuni anni la
ricerca educativa sostiene che la diffusione di servizi per l’infanzia di qualità crea basi più robuste
per la successiva costruzione del capitale umano: secondo autori molto accreditati, tra i quali il
premio Nobel James J. Heckman, l’aver frequentato nidi e scuole dell’infanzia di qualità favorirebbe
nei bambini lo sviluppo di capacità cognitive e relazionali in grado di generare consistenti frutti
lungo tutta la carriera scolastica e universitaria, nonché sul mercato del lavoro.
Fine del paradosso
Per la messa a fuoco della dimensione strategica dei servizi per l’infanzia può essere interessante
sottolineare un importante cambiamento avvenuto sulla scena italiana degli ultimi venti anni.
Facciamo un passo indietro. Nel 1991, sull’onda
dell’insoddisfazione per un sistema scolastico
statunitense che si era rivelato fragile e poco efficace, la
rivista Newsweek andò alla ricerca di esperienze
internazionali di elevatissima qualità, dalle quali trarre
insegnamenti. Tra le “10 migliori scuole del mondo”,
individuò per la fascia prescolastica la scuola Diana di
Reggio Emilia, rappresentativa di un sistema di nidi e
scuole dell’infanzia ispirato agli ideali pedagogici di
Loris Malaguzzi. Il riconoscimento internazionale, primo
di una lunga serie, arrivò in una fase storica in cui paradossalmente le coppie di Reggio e più in
generale dell’Emilia Romagna avevano quasi smesso di mettere al mondo figli: la loro fecondità era
infatti tra le più basse del continente, inferiore a un figlio per coppia. Altre regioni italiane, come la
Sicilia e la Campania, presentavano la situazione opposta: all’assenza di servizi per la prima infanzia
le coppie rispondevano con una fecondità del momento pari a 1,8 figli per coppia, non lontana dalla
soglia di sostituzione (figura 1).
Una relazione chiaramente negativa tra disponibilità di servizi per l’infanzia e fecondità rendeva
difficile sostenere che i primi aumentassero i gradi di libertà dei genitori in merito alle decisioni
procreative, e dava invece argomenti ai difensori di una visione più tradizionale della famiglia,
contraria alla deprivatizzazione dell’infanzia e all’erosione degli inderogabili compiti educativi delle
madri.
A distanza di venti anni la situazione è radicalmente mutata (Figura 2), come peraltro già segnalato
da Neodemos (vedi A. Rosina, La nuova geografia della demografia italiana). La relazione tra
disponibilità di servizi per la prima infanzia e fecondità nelle regioni di Italia ha cambiato di segno e
da chiaramente negativa è diventata positiva. In altre parole, le coppie hanno ripreso a far figli dove
i servizi per l’infanzia sono più diffusi e di miglior qualità. Mentre ne fanno sempre di meno dove i
servizi sono assenti.
Quali sono le implicazioni di tale ribaltamento? Un primo effetto consiste nel fatto che sotto
pressione demografica sono finite proprio le strutture migliori, che in tempi di risorse scarse hanno
dovuto fare i conti sia con un aumento non sempre previsto degli utenti, sia con una loro maggiore
eterogeneità: come è noto, la ripresa della fecondità è stata trainata in tutto il Centro-Nord dalle
cosiddette seconde generazioni di immigrati. Le educatrici hanno dovuto così affrontare problemi
inediti e per i quali non erano state formate, quali quelli posti dal bilinguismo e dal non sempre
semplice rapporto con genitori stranieri (per non parlare delle reazioni dei genitori italiani).
Ma vi è anche una considerazione di ordine più generale: anche alla luce del fatto che sono le
persone più istruite e quelle che vengono da lontano che dimostrano una maggiore propensione ad
affidare i figli ai servizi per la prima infanzia[1], qualità e quantità localmente disponibili di tali
servizi danno oggi un contributo più importante di quanto non si pensi alla costruzione del futuro di
una città o di una regione, necessariamente impegnate nella competizione tra territori per attrarre e
trattenere persone, per creare lavoro e per generare risorse da redistribuire. Quella vecchia
copertina di Newsweek ci suggerisce una spiegazione del perché Reggio nell’Emilia sia diventata,
venti anni dopo, il centro urbano con la più pronunciata crescita demografica a livello nazionale.
[1] Si veda la presentazione Uso dei servizi per la prima infanzia: opinioni e preferenze dei genitori a
Torino (2013), scaricabile dal sito www.fga.it. Si veda anche di Francesco Zollino Il difficile accesso
ai servizi di istruzione per la prima infanzia in Italia: i fattori di offerta e di domanda (2008), nonché
di Daniela Del Boca, Silvia Pasqua e Simona Suardi Childcare, family characteristics and child
outcomes: An analysis of Italian data (2013).