PRO PATRIA MORI…

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PRO PATRIA MORI…
PRO PATRIA MORI…
Prefazione
Siamo gli studenti della quinta ginnasio sezione F del Liceo
Classico Scipione Maffei di Verona e quest'anno, assieme alla
nostra coordinatrice di classe, insegnante di latino e di greco, la
prof.ssa Scandola, abbiamo affrontato la lettura del documento
storico "I Nostri Eroi", una raccolta di biografie e di lettere inviate
dagli studenti della nostra scuola quando si trovavano al fronte
durante la Grande Guerra.
Grazie a questo libro e alle preziose informazioni contenute in
esso, abbiamo conosciuto indirettamente questi giovani che,
seppur distanti da noi di ben cento anni, ci sono sembrati quasi
compagni di scuola, e così abbiamo ritenuto che fosse un
doveroso omaggio alla loro memoria scrivere un elaborato.
Per questo testo abbiamo scelto le vicende di tre personaggi che
ci hanno colpito per la forza dei loro caratteri e delle loro idee, e li
abbiamo "fatti tornare in vita" con il nostro racconto, per il quale
ci siamo ispirati alle biografie reali, che abbiamo integrato con
elementi di fantasia verosimili, laddove le informazioni
scarseggiavano.
Abbiamo dato particolare importanza alla scelta delle storie di
ragazzi nati esattamente cento anni prima di noi per evidenziare
il divario ma per certi aspetti anche la vicinanza che c'è tra i
"vecchi" e "nuovi" ragazzi del '99.
Ai Nostri Eroi
Capitolo I
1° Novembre 1916
Siamo addolorati nell'informarVi della morte dell'impavido Enrico Benini, sacrificatosi con onore la
mattina del 1° Novembre 1916 mentre attaccava la trincea nemica. L'intero Reggimento Bersaglieri
Vi è vicino nel Vostro dolore nell'aver perso un fido ufficiale ma ancor più un carissimo compagno
d'armi ed un affettuosissimo amico. Il ricordo di lui non tramonterà mai, come dal cuore dei
bersaglieri non scomparirà mai il ricordo del dolce sorriso e della grande bontà del loro comandante.
Tullio ripercorreva quella manciata di righe con lo sguardo da ormai diversi minuti. Aveva letto una
prima volta, con la sicurezza che quella dovesse essere un'altra missiva del fratello dalla trincea e
che andò consumandosi man mano che procedeva. Aveva letto una seconda volta, con un nodo
che già gli si andava formandosi in gola, ed ora non riusciva a far altro che far scorrere gli occhi
lucidi su quel foglietto spiegazzato mentre il cuore risuonava attraverso i timpani come un
tamburo.
Alzò gli occhi, e la scena che gli si presentò davanti riuscì solo a stringergli ulteriormente il cuore.
Sua madre, sempre così composta e serena, ora stava a capo chino con le mani in grembo che
andavano a raccogliere occasionalmente una lacrima dagli occhi lividi o che stringevano la stoffa
morbida della gonna. Il padre le appoggiava una mano grave su una spalla e sembrava essere
invecchiato di trent'anni in quel paio di minuti; lui che normalmente aveva energia da vendere.
Li avvolgeva un silenzio immateriale, pregno della mancanza di cui erano appena venuti a
conoscenza. Colui che si occupava di rompere i silenzi più pesanti tra loro era sempre stato il
fratello maggiore, con una battuta per stemperare la tensione o una domanda affettuosa ad uno
dei famigliari; era compito suo, per così dire. Perciò nessuno si azzardò a parlare ancora a lungo,
mentre uno ad uno i componenti della famiglia Benini lasciavano che il dolore si depositasse nella
loro anima, come un masso ponderoso sul fondo di un fiume.
Dopo quella che sembrò un'eternità Tullio si alzò dalla sedia, lasciando la lettera sul tavolo della
sala, e si chinò a cingere con le braccia la madre Antonia con delicatezza. Vederla così devastata,
in netto contrasto dalla donna che lo aveva cresciuto ed educato, era terribile. Lei gli si aggrappò
addosso come avrebbe fatto un naufrago ad un salvagente per non andare alla deriva in quel mare
di sofferenza. «Il nostro povero Riri.» mormorò rauco il padre Clemente. Antonia fu scossa da un
breve sussulto al sentire il vecchio soprannome del figlio, e Tullio le passò piano la mano tra i
capelli neri, chiudendo le palpebre.
Il soprannome “Riri” l'aveva inventato proprio Tullio, quando appena raggiunto il primo anno di
vita aveva cominciato a pronunciare le prime parole, e dopo gli intuitivi “mamma” e “papà” era
arrivato il momento di imparare il nome del fratellone. Enrico, testardo com'era, gli ripeteva il suo
nome fino allo sfinimento, ricevendo però in risposta solo un sorriso sdentato e un biascicato
“Riri”. Tullio era cresciuto – e con lui anche tutti i suoi denti –, aveva imparato a parlare in modo
più che corretto ma “Riri” si era ormai sedimentato all'interno della famiglia come nomignolo
affettuoso per il fratello più grande, adottato prima dai genitori e poi dalle domestiche di turno.
In quel frangente, invece, era solo un peso ulteriore da aggiungere al fardello che tutti loro, da
quel momento in avanti, avrebbero dovuto trascinare con sé.
Il ragazzo sentiva di dover occupare quell'impellente silenzio in qualche modo, per contrastare i
pensieri sempre più invadenti che stavano riempiendo la mente di tutti i presenti. Si schiarì la voce
e parlò con gli occhi ancora pieni di lacrime: «Madre, padre, nella nostra sofferenza dobbiamo
ricordare che il sacrificio di Enrico è stato più che doveroso, e che a noi tocca il compito di onorarlo
come si deve. Non piangete per la sua giovane età» mormorò asciugando una lacrima sul volto
della madre con dita tremanti «ma siatene felici, perché pur essendo tanto giovane ha compiuto
grandi imprese ed è diventato un eroe agli occhi dei suoi commilitoni e di tutta l'Italia.» Clemente
poggiò la mano sulla sua spalla e gli sorrise pensieroso, mentre sua madre gli stringeva una mano
tra le sue e se la portava alle labbra. «Sarai un soldato perfetto.» gli disse suo padre con uno
sguardo denso di fiducia e d'orgoglio, sebbene ancora annacquato dalle lacrime. Tullio annuì
piano, ancora stringendo la mano della madre.
Gli Alpini l'avevano rimandato indietro, è vero, ma solo perché non aveva ancora raggiunto l'età
giusta per entrarvisi. Erano rimasti molto colpiti dal suo spirito d'intraprendenza e dalla sua solida
convinzione, ed ora che Enrico era arrivato a mancare sentiva il desiderio ancora più impellente di
offrire anche la sua vita alla Patria, e nessuno l'avrebbe smosso da tale certezza. Notò con la coda
dell'occhio sua madre che lo osservava con amarezza, probabilmente pensando già al momento
in cui quella stessa scena si sarebbe ripetuta con solo lei e il marito come protagonisti, quando
tutto ciò che rimaneva di Tullio sarebbero state una manciata di lettere scritte frettolosamente e
un'ultima lettera - non sua, ma che recava il suo nome - che attestava la sua morte. Anche le
donne erano destinate a compiere un grande sacrificio in quella guerra: a vedere figli, nipoti,
fratelli e sposi partire per non tornare mai più, nel peggiore dei casi, e nonostante tutto trovare la
forza di non mollare, per il bene della Patria. Era quello l'obbiettivo, rimanere uniti e compatti
contro il nemico comune, senza cedere alla morsa della sofferenza. E la famiglia Benini, da quel
pomeriggio priva di un componente, rimaneva salda anche nel dolore.
L’aula magna del liceo era gremita di studenti, così tanti da impedire a Tullio persino di respirare.
Taluni erano giovani, piccoli, dalle gambe magroline e gli occhi terrorizzati; altri adulti, col petto in
fuori, la postura eretta e lo sguardo serioso. Alcuni di loro stringevano l’elmetto tra le dita
tremanti, tentando di non piangere – non era definibile soldato colui che piangeva – ed altri
ancora si limitavano ad osservare il vuoto, scuotendo ritmicamente il capo. Donne raggruppate in
prima fila premevano le labbra contro fazzoletti bagnati, talvolta tenendo stretto al seno un
bambino ancora piccolo; e poi c’erano quelle che si aggrappavano al figlio maggiore, che
soffocava il dolore in gola, forti per la madre. Tullio era uno di quei figli. E come tutti gli altri,
avrebbe voluto più di ogni altra cosa solo chiudere le braccia attorno alla testa e respingere
qualsiasi voce.
«Benvenuti a tutti.» La voce del preside Fajani emerse molto più chiara e forte rispetto al
mormorio sommesso che dominava la stanza. «E con tutti mi riferisco di ognuno dei presenti della
stanza. Benvenuti studenti del nostro liceo, venuti qui oggi per salutare i vostri compagni di scuola
e di vita; benvenuti fratelli, col nome del vostro stesso sangue bloccato tra i denti; benvenute
madri e padri, ancora memori di quando i vostri figli erano fanciulli che giocavano con l’abaco.
Benvenuti, in questo nostro saluto agli studenti della scuola Maffei caduti tra il primo giugno ed il
dieci novembre 1916.» Il preside fece una pausa, e nell’aula echeggiò un silenzio di raccoglimento.
«Coloro che hanno dato la vita per la loro patria erano per noi adulti ancora, quasi, dei bambini.
Anime spensierate, ma che con forza e onore hanno deciso di indossare l’elmetto e di imbracciare
il fucile per rendere gloria all’Italia. È per questo che ora noi li applaudiremo, prima di dare l’addio
ad ognuno di loro. »
Tullio batté le mani in modo prima smorto, poi un po’ più convinto. Lui era fiero di suo fratello, era
fiero di Enrico. Oltre le dita in movimento sbirciò verso gli altri compagni addolorati e ne vide uno
che, al contrario, esitava e si limitava a guardare per terra, come se non fosse del tutto convinto
delle parole del preside.
Ma presto Fajani riportò l’attenzione di Tullio sul palco. «Sono in tutto trentatré i caduti in questi
sei mesi, ed ora leggerò i loro nomi. Invito cortesemente i parenti stretti ad alzarsi al richiamo del
figlio, o fratello, e ad affiancarmi sul palco.» Con il foglio tra le mani, il preside scandì le lettere dei
soldati scomparsi con voce solenne e, nonostante tutto, fiera. «Bragantini Giovanni. Fronza
Aleardo. Magalini Giuseppe…» Tullio vide donne, uomini, bambini piccoli, fratelli grandi, in alcuni
casi persino sorelle che si tenevano strette alla madre, alzarsi e avanzare verso il palco. Alcuni di
loro li conosceva, altri erano nella sua stessa classe. Ad un certo punto giunse il suo turno. «Benini
Enrico.» E poi, dopo che Tullio e i suoi genitori ebbero fatto qualche passo, «Menini Guido. »
Tullio si voltò brevemente e con gli occhi azzurri scorse rapidamente il ragazzo esitante di poco
prima che si faceva avanti, anche lui con madre e padre. Aveva dolore negli occhi, incertezza,
spavento. Eppure aveva la sua stessa età, Tullio lo aveva già visto durante il normale periodo
scolastico. Riportò lo sguardo sul preside e attese che il palco si riempisse, sempre mano per
mano con sua madre.
E poi Fajani parlò. Parlò a lungo, e con tono fiero e orgoglioso, dei suoi studenti, dei figli dell’Italia,
nati per servire e morti proprio come Dio avrebbe voluto, combattendo senza timore al fronte
nemico. Ricordando come era stata la morte di Enrico – uscito per primo dalla trincea, colpito al
piede dalle schegge di una granata – a Tullio salirono le lacrime agli occhi. Era lui il più fiero di
Enrico, e per lui avrebbe sconfitto gli Austriaci. Per lui avrebbe vinto. Per lui e per l’Italia.
Più tardi, dopo che il preside ebbe stretto la mano a ciascuno di loro elogiando l’onore del loro
parente, dopo che molte madri si furono l’un l’altra consolate abbandonando seppur per poco la
formalità in favore al lutto comune, la riunione terminò. Tullio scese le scale, affondò le mani nelle
tasche e seguì il padre nel chiostro, dove sedevano molti degli studenti. Tra loro c’era anche il
ragazzo esitante di prima. Notandolo guardare il vuoto a gambe incrociate, la schiena contro il
muro, Tullio si congedò dal padre e raggiunse il coetaneo. «Ho notato che siete molto addolorato
per la morte di vostro fratello» esordì, cercando di inserire più delicatezza che confusione nella
voce. «Voi non lo siete?» rispose il giovane Menini, senza alzare lo sguardo.
Tullio si ritrovò preso in contropiede. Si guardò intorno, cercando le parole. «Certamente lo sono.
Ma capite, vostro fratello – Guido, od erro? – è morto per una nobile causa. Il vostro dolore deve
essere trasformato in gioia, perché è anche grazie a lui che un giorno vinceremo. »
«Vinceremo?» Questa volta il ragazzo alzò lo sguardo. Aveva occhi nero pece, ed in essi c’era
talmente tanta tristezza e inquietudine da portare Tullio a esitare nella risposta.
«Vinceremo. Siamo forti, siamo coraggiosi, amiamo il nostro Paese e siamo pronti a morire per
esso.»
Mentre diceva questo, si sedette accanto al compagno. «Voi siete Mario, giusto? Vi conosco di
vista. Sicuramente vostro fratello non avrebbe voluto vedervi rinchiudervi nel dolore e rinunciare
alla salvezza del nostro paese. »
Mario annuì, ma non sembrava molto convinto. «Voi siete? »
«Tullio Benini.» Sorrise al coetaneo. «Un fedele servo d’Italia, proprio come voi, come vostro
fratello, e come mio fratello. Come tutti gli studenti del liceo, e come tutti gli Italiani. »
«Probabilmente siete uno studente modello, dunque. Mi pare crediate nella causa dell’Italia.
Ebbene, io ho un dubbio, anche se non è molto comune o ben apprezzato.» Mario si guardò
intorno, come se avesse paura che qualcuna delle autorità li stesse spiando e che dopo quelle
parole lo avrebbe arrestato. «Io temo per l’Italia. Mio fratello era un soldato con un cuore di leone,
acclamato da tutti, adorato dai miei genitori e dai suoi insegnanti… Ma questo non gli ha impedito
di cadere come tutti gli altri.» Fece una pausa, ma prima che Tullio potesse commentare, aggiunse
«Ho paura che l’Italia non possa farcela. »
Tullio non poté fare a meno di sorridere. «È normale avere paura. Ma la fiducia nel nostro Paese è
l’unica cosa che ci porterà a vincere. Voi dovete avere fiducia, proprio come vostro fratello Guido,
e vedrete che la morte sarà un tratto lontano. E se anche moriremo, allora sarà stato per la causa
migliore.» Il ragazzo si alzò, e Mario con lui. Camminarono per un po’ attorno al chiosco, in
silenzio.
Poi Mario scosse le spalle. «Comunque, basta parlare dei nostri fratelli, porta un certo senso di
pesantezza. Fate già parte di un reggimento? Io mi sono unito qualche mese fa al nono
reggimento di Artiglieria da Fortezza.»
«Terzo reggimento Bersaglieri, da quest’estate. Sono tornato a Verona, a casa, per poco tempo.
Sapete, i miei genitori erano un po’ esitanti all’idea di mandarmi a combattere, ma li ho convinti.
Tra poco tempo ripartirò per il fronte. Voi? »
«Non sono ancora arrivato al fronte vero e proprio, ho solo fatto un po’ di pratica, per il vostro
stesso motivo.» Mario fece un sorriso di circostanza, guardandosi intorno. «Volevo unirmi agli
Alpini, ma dopo la morte di mio fratello…» Si fermò. «Il discorso finisce sempre lì, notate? »
«Non possiamo farci niente, la ferita è ancora aperta.» Tullio gli sorrise, seppur con un lieve
accenno di tristezza, incrociando le braccia. «Forza e coraggio, caro commilitone, un giorno il sole
splenderà più luminoso e noi sorgeremo come Roma su tutti gli altri del popolo del mondo.» Si
volse verso il padre. «Devo tornare a casa, ora. Ma credo ci rivedremo, quantomeno qua a scuola.»
Gli porse la mano, che Mario strinse. Dopodiché Tullio si voltò, affiancò la madre, la abbracciò, le
disse che andava tutto bene. Sì. Andava tutto bene.
Capitolo II
27 giugno 1917
Anche quell’estate, come un pesante coperchio, l’afa incombeva sulla pianura rendendo l’aria
ancora più irrespirabile.
Si sentiva ancora l’odore acre della polvere delle case bombardate qualche giorno prima e un cielo
grigio, dominato da cupe schiere di nuvole, sovrastava quello scenario di tranquilla desolazione.
Agnese Bertoli sedeva composta sull’antica sedia di legno dello studio del marito, gli occhi lucidi
scorrevano velocemente dalla lettera che teneva tra le mani ancora tremanti all’espressione
fredda dell’uomo dinanzi a lei.
«Luigi, ma com’è possibile, ha appena diciott’anni! »
«Non vi è età per il servizio alla patria. Ai miei tempi io ho dato molto più che anima e corpo per la
difesa di questo suolo natio e se sono ancora qui è grazie a quei valorosi compagni che hanno
combattuto per la salvezza. »
«E se morirà? Potrebbe morire, Luigi! Potrebbe morire! È il nostro unico figlio! »
«Ora basta! Nostro figlio partirà, e compirà il suo dovere di cittadino del nostro paese. »
La donna abbassò lo sguardo, trattenendo a stento le lacrime. I passi affrettati intanto
percorrevano il corridoio, senza alcun preavviso, la porta si spalancò e un giovane fece irruzione
nella stanza.
Una figura alta e slanciata, dallo sguardo severo e i capelli scompigliati, catturava in sé
un’impressione di potenza costretta nei lineamenti di un diciottenne. Baciò la guancia della
madre, pallida e sudata e salutò rispettosamente il padre con un «Salve».
«Dunque padre, mi avete chiamato. »
«Sì, figliolo.» L’uomo, che sembrava fatto di pietra, non aggiunse altro prima di passare
solennemente la lettera al figlio.
Gli occhi concentrati saltavano veloci da una parola all’altra. Poi, con aria soddisfatta il ragazzo
posò la lettera sul tavolo accennando un sorrisetto compiaciuto. «A quando la partenza?» non
riuscendo a nascondere un moto di fierezza della voce. Finalmente era giunto quel momento
tanto atteso, finalmente avrebbe potuto vivere la guerra, non leggendo le eroiche azioni di illustri
comandanti ma in prima persona, sulla sua pelle, e tutto sarebbe stato perfetto. Immaginava già
la marcia, il corteo di saluto, le medaglie, l’uniforme, le targhe a lui assegnate per il valore
dimostrato ”Mario Bertoli strenue pugnavit”. E poi l’esercito, schiera di uomini dinanzi alla morte,
marciando compatti, e bellum non era più solo una parola scritta sui libri, ma un marchio di
potenza e superiorità.
Intanto Tullio si rese conto di aver bisogno di prendere una boccata d’aria. Non sapeva se doveva
essere orgoglioso o preoccupato. Gli sembrava di aver fatto un salto nel passato, un mare di
ricordi lo chiamava.
Svoltò l’angolo di corso Santa Anastasia accendendosi l’abituale sigaretta che nei momenti di
insicurezza gli dava conforto e scorse in fondo alla strada la figura minuta di Mario Menini.
«Sei contento allora, Tullio?» Lo apostrofò con sarcasmo.
«A cosa ti riferisci, Mario? »
«So che è arrivata anche a te la lettera per la chiamata alle armi. Moriremo, Tullio. »
«Non è un problema, se gli ideali sono validi. Non la senti anche tu quell’energia, Mario, che ti
spinge a lottare per il tuo Paese? Non capisci che la vita è vana, inutile, che passa veloce e
nemmeno te ne accorgi? Cos’è tutto questo in confronto alla gloria? »
«Ma questo per te è solo un gioco. Com’è stato farsi arruolare a sedici anni? Eri ansioso di vedere
gli occhi della morte? O ci ha pensato tuo fratello per quello, vero? »
Tullio abbassò lo sguardo, cupo, senza aggiungere nulla.
Mario si rese conto di aver esagerato o perlomeno di aver toccato il tasto sbagliato nel momento
meno opportuno. Tirò un’amichevole pacca sulla spalla dell’amico, il quale con voce ferma e sicura
disse:
«Enrico sarà un motivo in più per andare a combattere. La mia patria mi chiama e la voce di mio
fratello mi esorta a dare il meglio di me in quest’impresa. »
«I miei genitori invece sono terrorizzati all’idea di spedirmi su un campo di battaglia. Questa
guerra gli è già costata un figlio: tutta la famiglia ha risentito molto della morte di Guido. Hanno
paura di perdere anche me, Tullio. Credo che non ci sarà nessuna guerra per me, i miei genitori
hanno già contattato la scuola e il preside per fare il possibile. »
«Ma Mario! Ribellati! Non ti possono negare il diritto di salvare la patria, l’opportunità di diventare
qualcuno! »
«Ma di che diritto stai parlando, Tullio! Non abbiamo che diciott’anni, abbiamo una vita davanti,
perché dobbiamo buttarla? »
Mario era tutto rosso in volto, gli occhi colmi di paura, l’espressione allarmata.
«Abbiamo due opinioni differenti a riguardo, Mario. Sappi che io partirò. Ora scusa, ma devo
riferire tale notizia ad Ada, devo andare, altrimenti arriverò in ritardo. A presto. »
E con passo disinvolto se ne andò mentre Mario trascinava le gambe in una qualche direzione, il
capo abbassato e le spalle magre e chiuse. Attorno a lui sentiva il sordo rimbombo della
solitudine, ma era troppo attaccato alla vita quel ragazzo, per assistere alla sua stessa fine.
«Mi dispiace, non so cosa dirvi. Non è possibile rifiutare questa chiamata in un momento di
estrema urgenza come questo. Vostro figlio, Mario Menini, è tenuto a presentarsi al fronte come
tutti i ragazzi dell’annata 1899, chiamati in causa. »
«Signor Preside, lei non capisce! Non può toglierci così nostro figlio! »
«Non sono io che vi tolgo vostro figlio, la nostra patria ha bisogno di lui. »
«Enrico, il nostro amato figliuolo, ha dato la vita per questa patria! Lo sapete! »
«Il massimo che possa fare è spostare il ragazzo dagli Alpini all’Artiglieria. Questo è quanto. Mi
dispiace ma è un periodo ostico per tutti, ricordate che state facendo ciò per la libertà nostra,
vostra e della nazione. Arrivederci, signori Menini, buona giornata. »
«Grazie per la comprensione, arrivederci signor Preside, che Dio sia con voi. »
La signora Menini era abbastanza soddisfatta, perlomeno era certa di aver fatto il possibile per
aiutare suo figlio Mario, per evitargli una morte troppo precoce. Non sarebbe riuscita ad accettare
la perdita di un altro figlio, sebbene potesse sembrare dura era pur sempre una madre e Mario il
suo ultimo figlio.
Capitolo III
27 Agosto 1917
Quella notte Tullio non riusciva a chiudere occhio. L’afa estiva stava andando a sciamare con
l’arrivo di settembre, ma a tenerlo sveglio non era il caldo: sarebbe finalmente tornato al fronte
dopo un breve periodo di permanenza a casa. In seguito alla morte di Enrico, sua madre vedeva
l’esercito con più angoscia che orgoglio, sapendo a cosa stava andando incontro il suo
ultimogenito. Tuttavia Tullio scalpitava, non vedendo l’ora di dare il suo contributo alla causa
comune, onorando in tal modo la Patria, ma soprattutto rendendo giustizia alla morte del fratello,
con il quale era stato molto in sintonia. Si alzò dal letto e avvicinandosi alla finestra posta sulla
parete alla sua destra, osservò il cielo che tante volte aveva scrutato con il fratello nelle lunghe
notti d’estate e il suo pensiero tornò ancora una volta a lui.
Assorto nei suoi pensieri, Mario Menini passeggiava senza meta nel centro città, fumando come
da abitudine la solita sigaretta, quando, alzando lo sguardo, scorse da lontano Mario Bertoli, che
conosceva di vista avendolo incrociato più volte per i corridoi del Maffei. Quest’ultimo camminava
pensieroso, quando trovandosi faccia a faccia, divenne inevitabile salutarsi.
«Ho sentito che anche per te domani è il grande giorno!» iniziò Bertoli.
«Eh già, non parlarmene, questa storia della patria e del dovere mi stanno davvero scocciando, al
contrario mio padre, nonostante la morte di mio fratello va fiero che io sia stato chiamato alle
armi e non fa che ripetere che dovrei sentirmi onorato e imitare l’esempio di Guido. »
«Io la penso diversamente in merito; la guerra rappresenta finalmente la giusta occasione per
concretizzare gli ideali che amate tanto voi che apprezzate tutto ciò che riguarda il classicismo…
Ora siamo soldati, e si deve combattere, e poi morire, e morire felici. La patria ci affida un
compito fondamentale e noi siamo tenuti ad adempierlo al massimo delle nostre capacità e con il
sorriso sulle labbra. Dopotutto, dulce et decorum est pro patria mori, non è vero?”
«Sarà, ma questa Patria non mi sembra molto coerente nel mandare a morire i suoi cittadini in un
campo di battaglia. Piuttosto… Cosa ti ha portato qui a quest’ora? »
«Nulla in particolare, ero solo un po’ sovrappensiero e non riuscendo a dormire… Sai, in queste
circostanze puoi solo riflettere su ciò che ti potrebbe accadere. Ripenso ai bei momenti passati,
tuttavia ritengo che tutto ciò abbia un fine ben preciso e motivato. Per questo sono ansioso di
prendere parte alla guerra. Che ne dici di andare a fare una passeggiata?”
«Certo Mario, diamo un ultimo saluto alla nostra bella città e guardiamola in tutto il suo splendore
da Castel San Pietro, lì la vista è stupenda. »
I due si incamminarono e ammirarono Verona, commentando di tanto in tanto alcuni luoghi dove
avevano vissuto le esperienze più belle della loro infanzia.
Il mattino seguente, ognuno con la testa affollata dai pensieri che li avevano tenuti svegli durante
la notte, indossarono i vestiti migliori che avevano, opportunamente stirati dalle madri ansiose di
vederli eleganti nel giorno della grande occasione.
Menini e Bertoli si erano dati appuntamento davanti alla Stazione Verona Porta Vescovo per
prendere insieme il treno diretto al centro di smistamento di Trento e vedersi un’ultima volta
prima di essere inviati ognuno al proprio Reggimento, quando davanti ai due sopraggiunse un viso
noto, quello di Tullio Benini, che doveva partire a sua volta. I tre decisero quindi di sedersi nella
stessa carrozza, per passare insieme le ultime ore che li avrebbero legati alla vita precedente,
quella prima della guerra, perché ognuno aveva il presentimento che, se fossero tornati dal
fronte, niente sarebbe stato più come prima.
«Ecco i tre maffeiani che passano dal De Bello Gallico al Bellum vero e proprio, eh ragazzi? Sarà
fantastico, pensate che condivideremo i momenti vissuti dagli antichi e prodi legionari sulla
nostra pelle.» esordì Tullio.
«Mah, io non sono ancora molto convinto, ma se devo farlo, tanto vale mettercisi d’impegno, che
a fare le cose male non si risolve mai niente.» Disse Menini.
«Facciamo questo per la nostra Nazione, affinché non sia più serva di alleati subdoli e minacciosi,
avanti ragazzi, ci rivedremo tutti davanti al Maffei al nostro ritorno, tanto prevedono una guerralampo, saremo presto a casa e il nostro valore sarà ampiamente riconosciuto. »
In quelle parole, pronunciate con orgoglio, stava tutto l’amore di quei giovani per la loro città, per
le loro famiglie, per gli amici che li avevano sostenuti e che presto avrebbero perso nella mischia
del combattimento, in quel caos che è la prima legge dei conflitti odierni, a ricordare loro la patria
presto sarebbero state solo poche medaglie.
Ma nessuno di loro volle continuare a rimuginare su quei tristi pensieri e ognuno si chiuse in sé
stesso, lo sguardo abbandonato fuori dal finestrino, fino a che il treno giunse presso la stazione di
Trento.
Dopo aver raggiunto il centro di smistamento di Trento ed essere stati sottoposti ad alcuni
controlli ordinari, arrivò il momento per loro di salutarsi: i tre si scambiarono forti strette di mano
come per intendere un «arrivederci» e non un «addio».
Da quel momento le loro strade si divisero: Mario Menini prese parte agli ufficiali della montagna
del terzo sul Carso, Mario Bertoli entrò a far parte dell’Artiglieria a cavallo; Tullio Benini, con suo
grande orgoglio, fu arruolato nella sezione di disinfezione del Corpo Armato.
Del periodo che trascorsero sul fronte rimase ricordo solo ai valorosi compagni che insieme a loro
vissero quella quotidiana lotta per la sopravvivenza che è la guerra, dove gli ideali presto presero a
far parte solamente di un confuso passato che andava scomparendo di giorno in giorno sotto la
polvere delle macerie. Nei momenti di apparente tranquillità, tra un attacco e l’altro, i giovani
pensavano alle loro famiglie e a coloro che avevano lasciato indietro e che attendevano il loro
ritorno; scrivevano loro lettere piene di convinzione e speranza, tenendo per sé l’orrore e la paura
che non riuscivano nemmeno ad esprimere. Le parole vergate in calligrafia affrettata si
susseguivano sulla carta scadente, lasciando a volte intravedere uno spiraglio della malinconica
vita che conducevano i soldati al fronte.
… Ho guardato la fotografia di Guido e ho pensato a lui. Come sarei contento poter fare quello che lui
fece! Ah! Guido, come deve aver goduto quei mesi di Carso al fronte e quei giorni in linea, che
bellezza! Perché sono io senza fratelli, solo figlio unico? Se ne avessi ancora poteri fuggire, volare
anche io al fuoco, all’assalto; essere anche colpito; morire cantando, ridendo; invece devo star qui
fermo aspettando. Mamma, papà, se sapeste quanto faccio per voi! Non sapete quale sforzo io
impieghi per stare nell’Artiglieria. Voi mi fate vile, vergognoso. Soffro nel cuore; sarei al fronte già da
due mesi e forse già morto; ma avrei vendicato prima Guido, lo avrei vendicato con cumuli di morti e
salvato quell’onore per cui egli diede la vita ridendo …
Mario Menini (dal suo memoriale)
Quei giovani ragazzi che già avevano sofferto abbondantemente per la perdita di un familiare, ora
erano i primi a schierarsi in difesa della loro nazione, pronti a dare anche la vita, se necessario.
Capitolo IV
18 Novembre 1917
Tullio si fermò un momento a prendere fiato. Si passò una mano piena di ferite sulla fronte
imperlata di sudore, strinse il fucile e ricominciò a correre.
Le granate esplodevano con un boato tutt’intorno, sollevando nuvole di polvere che ogni volta si
depositavano sulle armi nelle trincee, sui corpi senza vita degli uomini di entrambe le fazioni, sui
vestiti di quelli ancora vivi, sui loro occhi, sulla loro anima, già da tempo grigia e svuotata da ogni
desiderio di combattere questa guerra senza fine.
Non pochi mormorii contrari si erano sollevati quando il comandante del 3 o Reggimento
Bersaglieri aveva annunciato che ci sarebbe stato un ennesimo attacco alla trincea austriaca, per
difendere il Monfenera; solo alcuni occhi si erano illuminati all’idea di scendere in campo, e tra
questi vi erano quelli di Tullio Benini. Nonostante non fosse stato designato per il combattimento,
il giovane era riuscito a convincere il comandante a mandarlo, assieme a molti altri commilitoni,
alla conquista della linea nemica. E lui era stato entusiasta di poter lanciarsi di nuovo nella
mischia.
Ora lui correva rapidamente, chinandosi di tanto in tanto, onde evitare di finire sotto la linea di
tiro di un soldato austriaco riuscito a scorgere la sua figura tra l’abituale confusione della Terra di
Nessuno.
Tullio Benini strenue pugnavit.
Un’ombra si parò davanti al diciottenne, che non fece in tempo a capire se fosse un commilitone
o, al contrario, l’ennesimo nemico, che due boati rimbombarono nelle sue orecchie e due rose di
sangue sbocciarono sul suo ventre. Furono come se mille aghi di fuoco gli avessero trapassato
l’addome, mozzandogli il fiato. Stringendo i denti, Tullio sparò all’uomo davanti a lui, che cadde
con un tonfo.
Trascinandosi con fatica, si sedette dietro un solitario cumulo di pietre che avrebbe potuto offrirgli
riparo dai fuochi incrociati delle due linee. Sfiorò, con un dito, il ventre e una fitta lancinante gli
fece chiudere gli occhi, per trattenere le lacrime di dolore. Era grave, lui lo sapeva: la ferita
bruciava più del sole estivo della sua bella Verona, mentre la testa pulsava e le orecchie
percepivano i rumori tutti ovattati.
Tullio respirava piano, cercando di risparmiare le forze: rimaneva fermo e osservava tutto quello
che era attorno a lui.
Una volta gli avevano detto che, quando si percepisce l’arrivo della morte, come in inverno arriva il
vento freddo carico di neve, quando la si guarda negli occhi, bisogna sorriderle, perché in fondo si
tratta di una vecchia amica che ci aspetta da quando le siamo sfuggiti: si passa tutta la vita
scappando da lei, cercando di nascondersi. Ma bisogna avere coraggio, quando questa si palesa ai
nostri occhi, è necessario affrontarla, soprattutto per un grande ideale, come la Patria.
Gli avevano insegnato ad amarla, a combattere per lei, a fare sacrifici per lei; gli avevano detto
che sarebbe stato ricompensato, che in Paradiso a tutti sarebbe spettato un posto. Ma adesso,
dopo le decine di morti che aveva visto, gli amici e i nemici erano diventati tutti uguali, la sola cosa
che li contraddistingueva era che erano nati dalla parte opposta di una linea immaginaria.
Una volta credeva in tutti questi valori, la Patria, la Virtù, la Guerra, ma ora quelle parole erano
state privato dal dorato valore di cui lui le aveva rivestite, gli avevano fatto perdere troppe
persone importanti per lui.
Forse era questo ciò che doveva aver provato Enrico nei suoi ultimi momenti.
Per Tullio non avevano più significato, le aveva ripetute troppe volte con convinzione, i loro colori
sgargianti, forti, si erano sbiaditi, erano diventate grigie, altre banalissime parole. Il grigio era il
colore di quelli che scomparivano senza lasciare traccia, sprofondavano nell’oblio e venivano
dimenticati sotto le lunghe liste dei caduti. Anche Enrico era diventato grigio, l’ennesima vittima
di una carneficina di uomini tutti uguali, l’ennesimo giovane che non sarebbe tornato a casa dai
familiari.
Tutto questo non era giusto, la vita non era giusta e, come lo era la vita, così lo era la morte.
Perché avrebbe dovuto essere diverso?
Sin da piccoli avevano cominciato a lottare per restare in vita, poi erano cresciuti e la lotta era
diventata guerra; così era giusto, naturale, era il corso delle cose, per sopravvivere bisognava
uccidere un altro, quello che non avevano mai detto loro era che uccidendo, anche qualcosa di
loro moriva. Questo era l’inganno, ogni volta che per mano loro qualcuno scompariva, sentivano
sulle loro spalle gravare il peso delle lacrime che le madri, la famiglia e gli amici avrebbero versato
per questa vittima, che aveva l’unica colpa di indossare una divisa diversa dalla loro e di
combattere per altre cause.
Suo fratello era stato ucciso non da un nemico in carne e ossa, era stato ucciso da ideali, ideali che
parlavano di guerra e di odio, ideali che portavano solo alla morte.
Una volta Tullio soleva guardare la sua vita come se questa fosse un libro lunghissimo, che giorno
dopo giorno veniva scritto con un raffinato inchiostro e una lunga penna. Nelle sue pagine
avrebbe scritto di sentimenti puri, coraggiosi, narrato gesta eroiche e piccole storie, trascritto i
grandi poemi e gli avvenimenti di tutti i giorni, parlato dell’amore, della fratellanza, della Patria
Sarebbe stato un libro lungo e, un giorno, quando sarebbe stato troppo stanco e vecchio per
continuare, l’avrebbe riletto e lasciato aperto sull’ultima pagina bianca. Quel grande libro si era
trasformato in un appunto scritto di fretta sugli angoli delle pagine, un breve resoconto di quanto
avveniva, alcune pagine sarebbero state bianche perché erano molti i giorni di cui non c’era niente
da ricordare, alcune piene di buchi, forse in alcuni punti non si sarebbe potuto nemmeno riuscire a
leggere per le macchie di terra, sangue e fango delle trincee.
Si chiedeva se sarebbe rimasto qualcosa di lui, gli avevano insegnato che di una persona
rimanevano gli ideali e i ricordi che le altre persone avevano di lui; ma lui non era più tanto sicuro
di volere che le sue convinzioni rimanessero, avevano portato solo sventure; per quanto
riguardava i ricordi, erano rimasti in pochi quelli che lo avevano conosciuto. Quindi alla fine capiva
che no, nessuno si sarebbe ricordato di un giovane che era caduto prima del tempo, nessuno
ammirava la frutta caduta ancora acerba, la gente ammirava quelli che avevano concluso il loro
viaggio senza rimpianti; lui non pensava di essere tra quelli.
Tullio scorse due figure avvicinarsi a lui. Forse erano due austriaci, venuti per finirlo; ma quando gli
uomini si avvicinarono, si rasserenò, perché portavano la sua stessa divisa, la divisa italiana.
«Qui c’è un altro ferito», disse la figura più alta delle due. «Sembra grave. Forza, carichiamolo
sulla brandina». I due uomini si sporsero verso il giovane, per sollevarlo, ma Tullio, con enorme
sforzo, rispose debolmente: «Andate, non credo possiate fare qualcosa per me… Vi prego, andate
a salvare altri commilitoni.» I due giovani lo guardarono con rispetto e annuirono.
A Tullio sembrava che le due figure si allontanassero, ma non poteva darlo per certo: l’intero
mondo che lo circondava gli sembrava un regno surreale, un sogno, una proiezione della sua
mente. Ogni cosa sembrava immobile e in movimento allo stesso tempo; il rumore degli spari si
faceva sempre più lontano, sembrava quasi la parte finale di una delle canzoni che lui e Enrico
ascoltavano alla radio anni prima. Enrico… la Patria… lui stesso, sembravano tutte cose così poco
importanti, di fronte al rumore della vita che scorreva.
Gli occhi gli si facevano pesanti, percepiva le forze che lo abbandonavano come un dolce addio, e
il dolore ormai era solo un ricordo lontano. Il cuore sembrava colmare la sua corsa in un eterno
sonno.
BIOGRAFIE
Tullio Benini
Tullio Benini si arruolò come volontario a soli 16 anni negli Alpini.
Rimandato a casa perché troppo giovane, a 17 anni appena
compiuti entrò nell’8° Reggimento Bersaglieri raggiungendo il
fratello Enrico.
L’1 settembre entrò nel corso Plotone Ufficiali, presso la 91°
fanteria al fronte di Posestagno; uscitone il mese dopo con il
grado di sottotenente fu destinato al 3° Bersaglieri presso il Col di
Lana. Il comandante dell’armata dopo la morte del fratello Enrico
lo destinò ad un ufficio di seconda linea per allontanarlo dal
pericolo ma egli insistette per essere rimandato al fronte con i
bersaglieri.
Il 18 novembre 1917 entrò in azione a difesa del Monfenera anche
se non era stato designato per il combattimento, qui cadde
colpito molto gravemente sotto la trincea austriaca, rifiutando
persino l’aiuto dei portaferiti poiché vedeva la morte
soggiungere.
Fu un idealista convinto e amante della Patria, per la quale fu
pronto ad offrire la sua giovinezza, condannando solo alla fine la
crudeltà dello scontro armato in favore di un confronto più
umano e, più che fisico, morale.
Mario Menini
Mario Menini nacque a Venezia il 27 Ottobre 1899 e sia lui che
il fratello Guido frequentarono il Liceo Ginnasio Maffei. Il 22
Luglio 1916 il fratello morì in trincea colpito alla testa, e Mario
inizialmente desiderava rendere onore e giustizia al fratello
entrando negli Alpini; in seguito, per rassicurare i genitori, si
unì al 9° reggimento Artiglieria da Fortezza. Dopo quattro
mesi di istruzione a Verona, divenne allievo ufficiale
all’Accademia di Verona; fu assegnato al 3° reggimento
Artiglieria da Montagna, e andò sul Carso con la 25° Batteria.
Pochi giorni dopo il suo arrivo alla Bainsizza cominciò la
grande ritirata, ed egli insieme ad altri sfuggì a stento
all’accerchiamento. Prese parte a molti combattimenti sul
Monte Tomba. Il 18 novembre 1917 rimase gravemente ferito
da una scheggia di granata, e poco dopo morì nel più vicino
reparto di Sanità; anche a lui fu concessa la Croce per merito
di guerra come a suo fratello.
Mario Bertoli
Mario Bertoli, nato a Verona nel 1899, si iscrisse al Liceo nel
1910. Lo frequentò fino alla seconda classe Liceale, aveva
tendenze molto spiccate per la pratica e un disprezzo per la
speculazione e il classicismo. Di carattere forte e deciso, fu un
alunno fermo e diligente, rispettoso ma non servile. Fu
chiamato alle armi il 17 Giugno 1917 e, entusiasta di indossare
la divisa, fu arruolato nell’Artiglieria a cavallo. Mario non
vedeva l’ora di andare in battaglia, tuttavia, in seguito ad una
brutta caduta da cavallo che gli causò gravi ferite fu costretto
in ospedale per un lungo periodo, qui morì il 16 maggio 1918.
BIBLIOGRAFIA
I Nostri Eroi, A. Mondadori, Verona 1921
Agata La Terza, Manuela Tommasi, La Guerra nello specchio del Liceo, Verona 2014
Realizzato dalla classe 5^F del Liceo Ginnasio Scipione Maffei (Verona)