n. 167 April - May 2014

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n. 167 April - May 2014
n. 167 April - May 2014
Poste Italiane S.p.A. Sped. in abb. post. - 70% - DCB Trieste | P. O. Box 986 34100 Trieste | ISSN 11222050 | EURO 9,00
contiene I. R.
Juliet 167
Copertina
John Alexander “Crystal Head Vodka” (bottiglia progettata per Dan Aykroyd),
ph courtesy Grappa Francoli, Ghemme
Focus
40 | Web & Digitale. Gino Roncaglia - Bill Viola / Luciano Marucci
52 | Medium VisivoSonoro / Loretta Morelli
56 | Yerbossyn Meldibekov. L’identità nomade / Emanuela Zanon
60 | Le forme desideranti. Andreas Zingerle / Gianluca Ranzi
62 | Parliamo di te. Wolfgang Becksteiner / Chiara Longari
64 | Elda Lovetti. Pittura di fuoco / Liviano Papa
71 | Patrik Hábl. “Regulovaná Náhoda” / Emanuele Magri
79 | Marco Dianese. Portare L’arte a tavola / Marie V. G. Palladino
80 | Multisensorialità. L’officina dei sensi / Rodolfo Bisatti
Intervista
44 | Diego Bergamaschi. vastari.com / Francesca Polo
50 | La galleria del futuro. Thaddaeus Ropac / Giulia Bortoluzzi
69 | “Livect”. Salvo Nostrato / Marcello Francolini
70 | Filippo Del Corno. Fare cultura a Milano / Luciano Marucci
72 | Tony Fiorentino. Il multidsiciplinare / Maria Vinella
77 | Studio Tommaseo. Quarant’anni! / Gianfranco Paliaga
82 | Matthew Rose. Pezzi di carta? / Deianira Tolema
85 | Nick Cave. Soundsuits / Leda Cempellin
Inchiesta-Dibattito
46 | L’Arte della Sopravvivenza (20) / Luciano Marucci
Reportage
48 | India 1. New Delhi / Emanuele Magri
76 | Novara. Cantiered’arte / Liviano Papa
66 | India 2. Kolkata / Emanuele Magri
Recensione
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54 | Crystal Head. Ghemme & Aykroyd / Fabio Fabris
58 | “Thank You For Liberating Us! And Making
the World a Safer Place!” / Andrew Gilbert
74 | Oho e Nazareno. “Guardachetipo” / Andrea Baffoni
75 | Schermi delle mie brame / Ivana Mulatero
78 | Caroline Le Méhauté. Silent / Emanuela Zanon
Incontri
68 | Appuntamento in studio #1. Cristian Chironi / Gino Pisapia
Fotoritratto
73 | Sebastião Salgado / Fabio Rinaldi
87 | Federico Luger / Luca Carrà
Presentazione
81 | Federica Amichetti Il. filo della vita / Nikla Cingolani
Rubrica
83 | P. P.* Bianco-Valente / Angelo Bianco
84 | Ho del mercato / Angelo Bianco
86 | Giuseppe Collovati / Serenella Dorigo
88 | Recensione mostre / AAVV
93 | "Il mio Pazzo Mondo" / Pino Boresta
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50 | JULIET 167
INTERVISTA
Takeshi Murata "Bernie's" courtesy Galerie Thaddaeus Ropac Paris Salzburg, ph. Charles Duprat
La galleria
del futuro
THADDAEUS ROPAC
interview by G I U L I A B O R T O L U Z Z I
laureata in Filosofia con Pier Aldo Rovatti è curatore e
critico indipendente. Ha creato julietartmagazine.com
e vive più in Francia che in Italia.
Mr Ropac, nel 1982 lei comincia a lavorare come assistente
nello studio di Joseph Beuys che, proprio in quel periodo,
preparava assieme a Norman Rosenthal la mostra “Zeitgeist”
presso il Gropius Bau di Berlino. Beuys è stata una
figura determinante per lei. Può raccontarci il suo primo
incontro? Ne è stato disilluso o le sue aspettative sono state
confermate?
La prima volta che ho visto Beuys è stato a Vienna. Ero molto giovane e lui
presentava un seminario all’Accademia di Belle Arti. Ricordo che la sala
era completamente piena, tutti erano lì per assistere al suo intervento. Io
ero andato a Vienna esclusivamente per vederlo, mi ero messo in piedi su
un tavolo in fondo alla sala perché c’erano troppe persone davanti a me.
Aveva una personalità imponente e una presenza fisica molto importante.
Era un uomo incredibile e un artista straordinario. Aveva un carisma
unico. Quell’incontro è stato fatale per me perché qualcosa è cambiato
per sempre: è stata la mia entrata nel mondo dell’arte. Certo, la mia
vita avrebbe potuto essere più o meno identica anche se non avessi mai
incontrato Beuys, ma la sua presenza mi ha arricchito, confermando il
mio desiderio di voler vivere d’arte. Mi sarebbe piaciuto essere il suo vero
assistente, ma a quel tempo ero molto giovane e lavoravo più che altro come
stagista (anche se non esisteva ancora questo ruolo). L’assistente era una
figura coinvolta direttamente nel suo lavoro mentre io svolgevo mansioni
basilari, il mio impegno nello studio di Beuys è molto distante dall’idea
di assistente che abbiamo oggi. Io non lavoravo dove le opere venivano
prodotte, ma dove venivano installate. Fu in ogni caso un’esperienza
determinante.
Lei lavora oggi con giovani artisti come per esempio Cory
Arcangel o Jules de Balincourt. A questo proposito, cosa ne
pensa dell’accessibilità del mondo dell’arte per un giovane,
oggi?
INTERVISTA
Le cose sono completamente cambiate negli ultimi trent’anni. Trent’anni
fa, il mondo dell’arte era chiuso in una torre d’avorio ed era riservato a
un’élite intellettuale. Oggi invece l’arte è accessibile a tutti e ricopre un
ruolo importante nella società. Non si può non aprire un giornale senza
trovarvi un articolo che parla di arte. Gli artisti sono apprezzati, quasi
come delle popstar. Se da un lato oggi è molto più facile per un artista farsi
riconoscere, dall’altro chiunque può averne accesso e fare qualsiasi cosa
senza alcun limite. È molto difficile oggi trovare gli artisti giusti, e per un
artista distinguersi e spiccare.
Ciò succede anche perché capita spesso che i giovani artisti
vengano “usati” da gallerie o curatori per promuovere sé
stessi o sponsorizzare un messaggio...
I giovani artisti sono di moda, e non solo i giovanissimi. Questo è il punto
cruciale. È molto più semplice identificare ciò che è arte senza qualità da
ciò che è arte di qualità, perché un cattivo prodotto è facile da riconoscere.
Vi sono artisti che si riconoscono più facilmente perché fanno parte di una
corrente ben specifica; ma vi sono anche artisti individuali, come per esempio
Cory Arcangel. Cory è un artista solitario che reinventa linguaggi. Questo è ciò
che mi fa capire se uno è un grande artista: l’invenzione di una nuova lingua.
Chi sono gli artisti che la interessano di più attualmente? Gli
artisti coi quali lavora sono quelli che preferisce?
Certo, vi sono molti artisti coi quali vorrei lavorare o dei quali stimo
il lavoro ma per ovvie ragioni non mi è possibile farlo. Già lavoro con
molti più artisti di quanti normalmente una galleria d’arte farebbe. Sono
estremamente curioso nei confronti degli artisti. Prendiamo per esempio
la mostra che fino al 15 febbraio 2014 presentavamo alla galleria di Pantin
“Empire State. New York Art Now”, comprendeva venticinque artisti
provenienti da New York. Sono stato contentissimo di conoscergli tutti
e di parlare con loro, e sarò felice di acquistare alcune delle loro opere, o
seguire i loro percorsi in futuro, anche se non sarò capace di lavorare con
tutti. Normalmente in galleria cerchiamo d’introdurre un nuovo artista
ogni dodici / diciotto mesi, l’ultimo che ha appena firmato e del quale vado
molto fiero è Oliver Beer (che ha partecipato sia alla FIAC sia alla Biennale
di Lione e che in settembre inaugurerà la sua prima personale a Parigi).
Dagli anni ‘80, com’è cambiato il ruolo del gallerista?
È cambiato molto. Anni addietro le gallerie erano piuttosto piccole. Oggi
invece lavoro con un team di sessantacinque persone. Cerco sempre di
migliorare la nostra struttura organizzativa perché voglio riaffermare nel
tempo l’eccellenza del nostro impegno. Oggi il lavoro della galleria è quello
di gestire carriere, negli anni ‘80 invece il gallerista seguiva l’artista nel
suo atelier, collocava le singole opere una a una. Oggi gli artisti vogliono
fare un percorso importante, sono molto più attenti rispetto a una volta,
non vogliono solo vendere ma essere i migliori. Alcune volte si tratta anche
di gestire i loro atelier, produrre o finanziare la produzione delle opere.
Siamo coinvolti in molti aspetti del loro lavoro, incluse le mostre nei musei
che seguono oggi una struttura completamente diversa.
Nel 1983 lei ha aperto la sua prima galleria a Salisburgo, dopo
sette anni a Parigi e nel 2012 una nuova sede vicino a Parigi,
a Pantin. Ci racconti della specificità della scena artistica
parigina, nella quale lei ha sempre creduto.
Quando ho deciso si aprire un’altra galleria, oltre a quella di Salisburgo, ho
pensato che venire a Parigi mi avrebbe permesso di raggiungere il pubblico
che volevo. Quando ho dovuto scegliere dove aprire un nuovo spazio non
avevo dubbi che sarebbe stato a Parigi. Tra l’altro, è in previsione quest’anno
l’apertura di un’altra galleria, ma non posso ancora ufficializzare dove.
Credo che Parigi sia da sempre stato il miglior ritrovo per gli artisti del XX
secolo, poi ha perso un po’ di supremazia a vantaggio di New York, Londra
e Berlino, ma tutt’ora è uno dei posti migliori per godere d’arte, grazie ai
suoi musei e alla sua storia incredibile. Sono contento di lavorare qui, sono
sempre stato accolto molto bene e con molta curiosità da parte del pubblico.
In conclusione, non posso veramente spiegare perché sono qui piuttosto che
altrove perché ormai Parigi è parte della mia identità.
Per quanto riguarda lo spazio a Pantin, la galleria è
enorme con circa 2000 mq di spazio espositivo. Nel 2012
ha organizzato un’incredibile mostra dedicata ad Anselm
Kiefer e quest’anno il progetto “Disaster, the end of the days”.
Quest’immenso spazio le ha dato l’opportunità di realizzare
progetti su scala quasi museale, inoltre spesso si avvale di
veri e propri progetti curatoriali. Che importanza ha per la
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galleria la specificità di questo spazio espositivo? Sembra che
la missione del gallerista sia cambiata...
Sì, è vero. Vent’anni fa non avrei mai potuto immaginare ciò che siamo in
grado di fare oggi. Nessuno avrebbe potuto. Sto parlando dell’intensità
delle gallerie e della loro dimensione, di gallerie che lavorano oggi come
musei perché hanno disponibilità economica e finanziano gli artisti. La
galleria di Pantin è una delle più grandi a Parigi. Dopo la mostra di Anselm
Kiefer (dove c’erano solo tre grandi dipinti) e quella di Anthony Gormley
(dove era molto complesso spostare le sculture perché troppo alte), ho
pensato che fosse sbagliato limitare gli artisti e che avremmo dovuto
ripensare il nostro ruolo anche in termini di spazio. Abbiamo voluto uno
spazio molto ampio e l’esperienza ci ha dato ragione.
In un’intervista recente a “Der Spiegel” ha detto che “oggi ci
si aspetta di più dai galleristi” e che le istituzioni pubbliche
cercano e hanno bisogno di queste collaborazioni perché
c’è carenza di denaro. Crede che questo significhi più
responsabilità da parte vostra nel definire l’identità di ciò che
oggi è arte contemporanea?
Le gallerie sono sempre state il luogo dove i collezionisti trovavano l’arte e il
pubblico era esiguo. Oggi ai vernissage ci sono moltissime persone, quindi
possiamo dire che il nostro lavoro nel dare forma alla carriera di un artista
è determinante in quanto siamo in grado d’influenzare l’opinione pubblica.
Il ruolo della galleria è molto cambiato. Non possiamo permetterci di fare
quello che vogliamo anche se siamo in un ambiente privato, perché oramai,
visto il numero di persone che ci frequenta, siamo diventati un luogo
semi-pubblico. Oggi è importante pensare a come concepire o curare una
mostra, come produrla professionalmente. Una volta bastava “appendere”,
io appendevo sempre dipinti, ma oggi non si può più, tutti si aspettano
professionalità: il pubblico, l’artista, il curatore, il critico...
Nella stessa intervista lei ha anche detto: “Non vendiamo
semplicemente arte, la piazziamo”. Secondo quali criteri
seleziona possibili compratori?
Abbiamo una grossa responsabilità. Oggi abbiamo o collezionisti e amanti
dell’arte oppure investitori che approfittano del valore sempre crescente
delle opere. Dobbiamo assicurarci di non vendere troppo agli investitori
perché sono solo interessati a ri-vendere e il nostro lavoro non è quello di
aiutarli a investire denaro, bensì quello di costruire collezioni. Io e i miei
dipendenti siamo molto cauti, cerchiamo di non produrre investimenti
al di fuori del mondo dell’arte, vogliamo vendere alle persone giuste e
fortunatamente oggi possiamo anche permetterci, in molti casi, di scegliere
a chi vendere, e ovviamente scegliamo i collezionisti del nostro tempo,
persone che amano veramente l’arte.
In tutti questi anni ha dimostrato un grande senso
d’intuizione e anticipazione. Che consiglio darebbe a un
aspirante giovane gallerista?
Prima di tutto, penso sia importante non credere a tutto ciò che si sente
in giro. Per esempio oggi ci sono molte classifiche, sia in Francia sia in
Germania, liste degli artisti più importanti (succede anche che le persone
arrivino in galleria con la fotocopia dell’articolo). Una volta mi è capitato in
Belgio che qualcuno mi abbia detto: “Ho i soldi, ho studiato arte, ho un’idea,
ho una lista, credo che comincerò a vendere artisti”. Ero esterrefatto. Prima
di lanciarsi in un’attività bisogna sviluppare il proprio occhio e testarlo.
Non conosco molte gallerie di successo dove qualcuno di esterno seleziona
gli artisti. Oggi ci sono persone giovani, ambiziose, anche professionali, ma
che non hanno sviluppato sufficientemente il proprio gusto. Oggi si pensa di
poter fare tutto velocemente. Invece è un lavoro duro. Non si può copiare il
successo. Ogni galleria rappresenta un impegno individuale nel lavoro, nel
talento, nell’essere al posto giusto al momento giusto. Non si può farla facile.
Verso quali scenari si orienta il futuro?
Le gallerie di media dimensione stanno pian piano sparendo, oggi ci
sono quasi esclusivamente grandi gallerie con almeno due o tre spazi
espositivi e che lavorano con numerosi dipartimenti. Non credo che nel
futuro cambierà. Ma penso che ci saranno sempre giovani gallerie che
troveranno nuovi artisti underground. Perché il pericolo è anche quello
di disconnettersi dalla realtà: se c’è bisogno di qualcuno che trovi nuovi
artisti ci sarà sempre una distanza, un intermediario. Difendo l’idea della
galleria col suo spazio e le sue nuove idee, chiunque abbia talento ce la farà,
perché tutto è questione di talento, passione e duro lavoro.