I newyorkesi

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I newyorkesi
LIBRO
IN ASSAGGIO
I NEWYORKESI
DI CATHLEEN SCHINE
I newyorkesi
DI CATHLEEN SCHINE
Prologo
Sono passati diversi anni da quando vivevo nella strada di cui si parla in
questa storia. Non era mai stato uno dei posti alla moda di New York. Non vi
si trovano ville o case di rilevanza storica, né targhe che ricordino ex residenti
illustri. Non era nemmeno particolarmente bello. I palazzi, per quanto vecchi,
erano trascurabili dal punto di vista architettonico. Le attività commerciali
esistevano fianco a fianco con i residenti. Gli edifici di arenaria che
delimitavano i due lati della via erano per la maggior parte suddivisi in
appartamenti, molti dei quali in affitto. Era stato così, grazie all’affitto
calmierato, che la strada era in gran parte sfuggita alla riqualificazione che
aveva interessato le zone limitrofe. Musicisti in difficoltà, attori, segretarie e
lavavetri potevano ancora permettersi di viverci, e continuavano a farlo; alcuni
raggiungendo il successo, altri raggiungendo semplicemente la vecchiaia.
Una casa di riposo per anziani sovvenzionata dal governo che ogni giovedì
sera ospitava gli incontri degli Alcolisti Anonimi contribuiva alla natura
leggermente dissoluta del luogo, così come le due chiese davanti alle quali si
potevano sempre trovare i senzatetto che vi passavano la notte: un uomo
enorme ma dalla barba ben curata di fronte alla chiesa luterana, una donna
psichicamente disturbata sui gradini di quella cattolica. Un bar a un’estremità
della strada garantiva un occasionale ma costante rifornimento di bottiglie di
birra sul marciapiede. La vicinanza al Central Park rendeva la via una delle
preferite dagli accompagnatori di cani, dai quali non ci si poteva certo
aspettare che tenessero conto degli escrementi delle sette o otto bestie da cui
venivano trascinati. E così la strada, che non si era mai contraddistinta per
una particolare bellezza, non era nemmeno particolarmente pulita. Ciò
malgrado, è la più deliziosa in cui abbia mai abitato. E la più interessante.
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“Io abito qui! Abito qui!”
Cominceremo la nostra storia con Jody. Lei viveva in quell’isolato dai tempi
del college, in un monolocale che allora era parso una sistemazione di lusso,
e lo era di certo, specie se paragonato alla stanza del dormitorio da cui
proveniva. Vent’anni dopo, il monolocale non le sembrava più così lussuoso,
ma la luce al mattino era ancora bellissima, l’affitto era rimasto basso e la
grande stanza con il suo magnifico bovindo, il soffitto alto e la cornice a forma
di cordone attorcigliato continuava a essere casa sua.
In fondo al locale, un gradino portava a una minuscola cucina da casa di
bambola, e dietro la cucina un altro gradino conduceva al bagno. Jody aveva
di recente tinteggiato da sé l’appartamento di un giallo pallido chiamato
“peonia nigeriana”. Le modanature e il soffitto, di cui andava particolarmente
fiera, erano smaltati di bianco. Ogni volta che la stanza brillava alla luce del
sole proveniente dal grande bovindo, Jody si congratulava con se stessa per
la serenità della sua ordinata esistenza, trovando conferma del fatto che i fine
settimana trascorsi in cima a una scala fossero valsi la pena. Teneva la scala
nello sgabuzzino della biancheria insieme alle sue costose lenzuola
accuratamente piegate. Jody era in generale piuttosto parsimoniosa, e si
vestiva ai grandi magazzini, ma le lenzuola appartenevano a una categoria
del tutto diversa. Erano oggetti sacrificali offerti con umiltà e timore alle
divinità della notte. Ogni sera Jody distendeva le membra sotto il morbido
cotone egiziano non come una sibarita ma come una penitente, una
pellegrina, una cercatrice, e ciò che cercava era il sonno.
Nel mezzo della notte in cui ha inizio la nostra storia, come nel mezzo di
molte altre notti, Jody giaceva a letto preoccupata. Di giorno era una persona
allegra fino quasi all’eccesso, ma di notte soffriva. I frammenti della sua vita
indaffarata incombevano su di lei come spettri, come uffici fiscali, come
suocere. Jody teneva lo sguardo fisso nel buio e affrontava i propri difetti e le
proprie negligenze. Era un buio pesante quello che la circondava in quei
momenti, caldo e soffocante — l’alito delle recriminazioni —, e allo stesso
tempo vasto, glaciale, indifferente. Jody aveva provato a contare, ovviamente,
e a contare alla rovescia come se stesse per sottoporsi a un’operazione e le
avessero appena somministrato un calmante. Aveva cercato di cantare, a
volte il motivo di un brano a cui stava lavorando, altre volte canzoni di Gilbert
e Sullivan, punti fermi della sua infanzia di cui conosceva tutte le parole. Di
tanto in tanto provava l’impulso di intonare i passaggi più melodici a voce alta
e chiara, facendoli risuonare nella stanza scura. Ma poi rinunciava. Anche se
accanto a lei non c’era nessuno — e capitava spesso che accanto a lei non ci
fosse nessuno —, il suono della sua voce fra i demoni dell’insonnia risultava
stridente, ridicolo.
Il giorno dopo, a scuola, diceva di non avere chiuso occhio. Era una delle
poche ricompense per la sua insonnia: le altre insegnanti annuivano con fare
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non esattamente solidale ma comprensivo, e soprattutto con rispetto.
Avevano tutte passato notti insonni, ma alla fine avevano dovuto ammettere
che Jody era la più insonne di chiunque altra; e ciò le conferiva una posizione
che lei aveva imparato a considerare quasi preziosa.
Jody sorrideva sempre quando descriveva la sua battaglia per addormentarsi.
Il suo abituale e sincero riserbo scompariva, facendola diventare decisamente
compiaciuta. Forse si sarebbe comportata in modo diverso se avesse avuto
l’aspetto dell’insonne. Invece i suoi occhi erano vivaci e luminosi, e sotto di
essi non si notavano cerchi gonfi e scuri. Con i suoi corti capelli biondi, vestita
con camicette ben stirate e pantaloni aderenti, era di una graziosità
estroversa e solare. Aveva un profumo fresco e pulito, e si muoveva con
un’energia morbida e insieme vigorosa. I bambini le volevano bene, lei
lavorava sodo e la gente le era grata. Si rivolgeva a lei quando aveva bisogno
di assistenza o di consigli sul lavoro, e malgrado Jody avesse soltanto
trentanove anni e sembrasse più giovane veniva chiamata affettuosamente la
“cara vecchia Jody”.
Le sue colleghe la rispettavano e con lei si comportavano in modo
amichevole, ma nessuna di loro era sua amica. A volte Jody si chiedeva se
fosse colpa sua. D’altra parte, di chi altri poteva essere? Non è certo colpa del
postino, si diceva. Non è colpa del vicepreside. Non è neanche colpa dei
repubblicani. Ma in che cosa consisteva, allora, la sua colpa? Era un mistero,
un mistero su cui Jody meditava a letto, di notte.
Naturalmente, si era presa un cane. All’inizio aveva deciso per un gatto
pensando che, visto che sembrava lanciata a precipizio verso un’eccentrica
zitellaggine, avrebbe dovuto cominciare a equipaggiarsi. Ma quando era
arrivata all’ASPClA, la società che si occupa della prevenzione delle crudeltà
contro gli animali, aveva visto un vecchio cane, un grosso pit bull incrociato,
così bianco da sembrare quasi rosa, una femmina che scodinzolava con un
tale signorile pessimismo che l’aveva portata a casa con sé. L’aveva
chiamata Beatrice, malgrado avesse giurato di non darle un nome da umano,
trovandola una cosa bizzarra e particolarmente patetica per una donna senza
figli. Ma il cane le sembrava meritare un nome vero. Beatrice non era
giovane. L’ASPCA l’aveva trovata mentre vagava per le strade del Bronx.
Quasi morta di fame e coperta di pulci, era palesemente sopravvissuta a
un’esistenza difficile. Beatrice era un nome con una sua intrinseca dignità, e
Jody pensava che la vecchia cagna lo meritasse.
Ingrassata e ben curata, Beatrice era un animale di nobile aspetto con
enigmatici occhi azzurri che cercavano sempre quelli di Jody con misurata
determinazione. Si muoveva con lentezza e, pur non essendo una
giocherellona, era amabile e sembrava prediligere in particolare gli
sconosciuti, proiettando il corpaccione verso di loro per esprimere il suo
gioioso saluto, ignara che un simile benvenuto poteva non essere sempre
benvenuto. Si fidava di chiunque, e questo testimoniava la sua natura gentile,
visto che fino all’incontro con Jody nessuno aveva mai meritato la sua fiducia.
Ma Beatrice sembrava essere superiore alle brutture del mondo, ed esse a
loro volta sembravano indegne di lei. Aveva visto molto, sembrava dire, perciò
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nulla la sorprendeva più, nulla la spaventava, nulla la turbava. Era fortunata di
essere viva, e ne sembrava consapevole.
Jody accese la luce e guardò Beatrice distesa con le zampe larghe sul
tappetino accanto al letto. Le accarezzò la fronte. La testa di Beatrice era
grossa e squadrata come in un disegno infantile. La bocca era così ampia che
sembrava sorridere. La lingua penzolava fuori come una grossa pezzuola di
spugna rosa. Beatrice alzò il testone e leccò la mano di Jody. Lei le grattò le
orecchie e pensò: invece di un’eccentrica insegnante di musica con un gatto
sono diventata un’eccentrica insegnante di musica con un cane. Invece di
raggomitolarmi davanti al caminetto elettrico con una tazza di tè e il gatto in
grembo, faccio allegre passeggiate sotto la pioggia con il cane al mio fianco.
Anche se forse, pensò mentre la massa bianca di Beatrice balzava sul letto,
non c’è questa gran differenza. E sorrise del suo destino. Aveva preso
Beatrice otto mesi prima, otto mesi di compagnia e adorazione reciproche.
Quando si sentiva sola, guardava Beatrice. Quando aveva bisogno di
qualcuno con cui parlare, parlava con Beatrice. Jody era convinta che la sua
vita, sebbene per gli standard consueti fosse tutt’altro che completa, sarebbe
andata benissimo.
Poi Jody conobbe Everett e si innamorò. Ciò accadde soltanto due giorni
dopo la notte insonne sopra descritta. Alla fine di una lunga settimana
trascorsa a insegnare ai bambini piccoli ad armonizzare e a seguire ritmi in
3/4 con i blocchetti di legno, era uscita a fare una tranquilla passeggiata con
Beatrice. Era febbraio e il cielo restava chiaro sempre più a lungo ogni sera,
ma quel pomeriggio cadeva una neve leggera e il mondo era grigio. Beatrice
correva nel parco eccitata come una bambina, rotolandosi sul leggero strato
bianco che copriva l’erba e scalciando con le sue zampe muscolose. Divertita
e commossa, Jody si trattenne più a lungo del solito malgrado avesse
cominciato a nevicare sul serio, e quando arrivarono a casa era ormai
fradicia. Si fermarono a un semaforo rosso sulla Columbus Avenue, in un
turbine di vento, e fu quando attraversò la strada che Jody vide Everett. Non
conosceva neppure il suo nome, ma quando lui le sorrise attraverso la fitta
nevicata a lei parve di non aver mai visto un uomo più bello. Si voltò e lo
guardò mentre lui entrava nell’emporio all’angolo. Vivrà nei paraggi, si disse
Jody. Sarà uscito a prendere il latte. Lei sarebbe rimasta ad aspettarlo e
l’avrebbe seguito fino a casa, se non fosse stato per il freddo, la vergogna e il
grosso pit buli che le tirava il guinzaglio.
Ora sono proprio una zitella, pensò: innamorarmi di un attraente sconosciuto
incrociato per strada. E, quasi per provarlo, non appena rientrò a casa mise il
bollitore sul fuoco.
Aggiornata il giovedì 17 aprile 2008
Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
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