[brescia - 33] broadsheet/cultura/cultura-02

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[brescia - 33] broadsheet/cultura/cultura-02
Data e Ora: 03/07/08
00.47 - Pag: 33 - Pubb: 03/07/2008 - Composite
CULTURA
Giornale di Brescia
GIOVEDÌ 3 LUGLIO 2008
33
Filippo Fasser anticipa il contenuto del libro, frutto degli studi più aggiornati
Perl’anticaliuteriabresciana
ilcatalogo(ininglese)èquesto
Marco Bizzarini
passato un anno dalla mostra
È
di liuteria «Giovanni Paolo
Maggini, secoli di dettagli», allesti-
ta a Palazzo Martinengo per iniziativa della Provincia di Brescia e del
festival «Nuove Settimane Barocche». L’esposizione ha costituito
un forte stimolo per approfondire
e aggiornare gli studi sull’antica
liuteria bresciana nei secoli XVI e
XVII, con riferimento all’opera non
solo del Maggini, ma anche di
Gasparo da Salò e di altri maestri;
per questo motivo, nell’estate del
2007, sono stati invitati a Brescia
alcuni dei più accreditati esperti a
livello mondiale, i quali hanno potuto effettuare sugli strumenti ad
arco un’articolata serie di analisi,
osservazioni e misurazioni.
Un lavoro lungo e complesso,
che ben presto confluirà in un
imponente catalogo - più di trecento pagine con quaranta schede,
una decina di saggi e centinaia di
riproduzioni fotografiche ad alta
qualità - pubblicato dall’editore
Eric Blot di Cremona.
In previsione di una diffusione
internazionale (gran parte degli
strumenti esposti a Brescia proveniva da collezioni americane o dell’estremo oriente), il libro uscirà
direttamente in lingua inglese.
Il liutaio concittadino Filippo
Fasser, coordinatore della mostra
di Palazzo Martinengo, sfoglia con
soddisfazione le bozze del catalogo: sarà questo, per i prossimi
anni, il testo di riferimento sulla
liuteria classica bresciana.
- Maestro Fasser, quali sono i
principali elementi di novità emersi dagli studi?
«Le sorprese non mancano. Per
esempio, il famosissimo violino
"Ole Bull" del museo di Bergen, in
Norvegia, oggi non viene più considerato opera di Gasparo da Salò.
È un cambio di prospettiva molto
forte rispetto all’opinione corrente. Lo storico della liuteria John
Dilworth, uno specialista di tecniche costruttive, nel saggio scritto
per il nostro catalogo dubita perfino che l’"Ole Bull" sia di origine
bresciana».
- Per quanto riguarda gli strumenti selezionati per la mostra
sono
emersi
dubbi
di
attribuzione?
«Abbiamo incaricato John
Topham, uno dei massimi specialisti in materia, di effettuare un’analisi dendrocronologica su un ampio campione di strumenti e in
nessun caso si è riscontrata un’incompatibilità fra l’età del legno e
le attribuzioni tradizionali. C’è però un aspetto su cui vorrei richiamare l’attenzione. Dalle ricerche
archivistiche effettuate in questi
anni, tra gli altri, da Ugo Ravasio
sappiamo che a Brescia, nel Cinquecento, erano attivi innumerevoli liutai. Oggi, però, sopravvivono
principalmente strumenti attribuiti a Gasparo, a Maggini, o a Pellegrino de Micheli. Ci sono quindi
due possibilità: o gli strumenti
degli altri maestri sono andati
completamente perduti, oppure
fra le opere attualmente attribuite
a Gasparo e Maggini si possono
nascondere strumenti spuri, seppur riconducibili alla stessa epoca e alla scuola bresciana. Personalmente, non mi sentirei di escludere quest’ultima possibilità».
- Ci sono novità biografiche su
singoli liutai?
«Grazie alle ricerche di Ugo Ravasio abbiamo ora la definitiva
certezza che Giovanni Battista Rogeri, attivo a Brescia dal 1664, era
originario di Bologna. Non è vero
che dopo la peste del 1630, causa
della morte del Maggini, l’attività
liutaria cessò completamente in
città. È fra l’altro significativa la
presenza di una comunità di tedeschi, impegnati soprattutto nella
costruzione di strumenti a corde
pizzicate quali liuti, chitarre e
colascioni. Accanto al personaggio già noto di Matteo Railich, a
cui è attribuito il liuto basso
(1641) dei Civici Musei di Brescia,
sono ora emerse notizie su Michele
Aisele, che nei documenti si defini-
Il famoso violino
«Ole Bull»
non sarebbe
di Gasparo da Salò
sce "di natione todesco, leutaro in
Brescia"».
- Tra Otto e Novecento si accesero infinite polemiche sull’invenzione del violino, attribuita dapprima
a Gasparo da Salò, quindi al cremonese Andrea Amati. Qual è oggi
il parere degli esperti?
«È una questione del tutto superata poiché il violino non fu inventato dal nulla e dev’essere piuttosto considerato il risultato di de-
cenni di sperimentazioni, da parte
non solo dei liutai, ma anche dei
numerosi e importanti musicisti
attivi in quest’area. Lo storico della liuteria Carlo Chiesa riassume
il problema in questi termini: i più
antichi strumenti ad arco oggi
noti, appartenenti alla tipologia
dei violini e delle viole, mostrano
un percorso bresciano e uno cremonese, forse derivanti da un modello comune (presumibilmente bresciano), che si evolvono più o
meno contemporaneamente e in
parallelo, differendo per caratteristiche costruttive, scelta dei legni
e delle vernici, impostazione delle
bombature. Dilworth arriva perfino a ipotizzare che la famosa commissione di 38 strumenti da parte
di Carlo IX ad Andrea Amati abbia favorito, nella scuola cremonese, il precoce sviluppo di una tecnica costruttiva su larga scala che
sarebbe stata l’arma vincente nel
mercato del futuro. Anche se il
violino cremonese divenne nel Seicento il modello dominante, questo fatto non deve condizionare il
nostro modo di studiare la liuteria
bresciana del Cinquecento che rimane un fenomeno del massimo
interesse».
Nelle foto
accanto: uno
strumento
realizzato da
Gasparo da Salò
attorno al
1550-1560 e il
particolare del
riccio di un’altra
creazione dello
stesso maestro
Nell’altra
immagine: Filippo
Fasser, già
coordinatore
della mostra di
liuteria «Giovanni
Paolo Maggini,
secoli di dettagli»,
seduto al suo
tavolo di lavoro
La liutaia concittadina Giovanna Chittò racconta il lavoro, fatto con il marito Antoine Laulhère, per reintegrare l’orchestra che allietò Luigi XIV
Mani bresciane per i 24 violini della reggia di Versailles
convincenti a sostegno delle loro
ipotesi; nel 2000 l’incontro con Patrick Cohen Akenine, direttore delle Folies Françoises e noto violinista barocco francese, e con i due
liutai accende la scintilla del progetto: ricostruire gli strumenti perduti e riaccendere Versailles della
magia del suono barocco.
«Per noi - spiega Giovanna Chittò - è stata la realizzazione di un
sogno inatteso: lavorare con amici
musicisti per reinventare degli
strumenti dimenticati, ritrovare il
loro fascino e il loro carattere,
accettare i rischi di fare scelte
estetiche e sonore della nostra epoca, per
arrivare a intravedere e sentire questi antenati dell’attuale viola, con la speranza
di aver contribuito al
ripristino di voci altrimenti condannate
al silenzio».
Il lavoro di ricerca
è lungo; si studiano le
forme, le vernici, i materiali. E gli
antichi strumenti tornano a prendere vita: «In totale sono dodici,
ma le tipologie di strumenti sono
tre: l’haute-contre, la taille e la
quinte. L’haute-contre misura solo
2 cm più di un violino e nonostante le sue dimensioni ridotte è accordata come una viola, il che la
rende un violino "imperfetto". La
sua piccola cassa di risonanza le
impone una corda grave sorda e
senza vitalità che, infatti, non è
quasi mai suonata. La piccola
cassa dà allo strumento un suono
peculiare sulle corde acute, la rende diversa dal violino e adatta al
"controcanto". La taille è invece lo
strumento più vicino alla viola
attuale. Ha una presenza sonora
piuttosto precisa e dinamica e
una risonanza molto diversa da
quella dell’haute-contre. La quinte, infine, sembra a prima vista
uno strumento "impossibile", con
la sua cassa di risonanza di 52,5
cm: assomiglia ad una viola tenore o a un violoncello da bambino...
che si suona al collo! Questo strumento di dimensioni estreme è di
gran lunga il più sorprendente. La
quinte è mantenuta vicino al collo
da una cinghia; questa posizione
dà alla mano sinistra una notevole libertà di movimento, dato che
la mano non porta lo strumento, e
consente una facilità di gioco sorprendente. Accordata come le altre "tailles de violon", la sua risonanza è chiara e molto potente,
equilibrata sulle quattro corde. Né
viola né violoncello, il suono della
quinte è davvero originale, il che disegna interessanti prospettive per
il suo utilizzo musicale
futuro».
Terminata la ricostruzione e il lavoro dei liutai, ora la sfida passa ai
musicisti, che dovranno
riscoprire tutte le potenzialità degli strumenti
"perduti": «Per ora la
strada è solo aperta - spiega ancora la Chittò - qual era esattamente
l’accordatura di questi strumenti?
com’erano suonate davvero le
quintes? Il direttore delle Folie
Françoises e i musicisti che si
cimentano attualmente nelle prove hanno davvero molto da lavorare...». Già molto fitto il calendario
della rinata orchestra. In ottobre i
ventiquattro violini torneranno nel
palazzo di Versailles; nei mesi seguenti sono previsti master class
con Sigisvald Kujiken e Benoît
Douchy. Gli strumenti saranno poi
disponibili per l’affitto per musicisti e orchestre europee.
«Ci auguriamo che questo sia
solo un primo passo per il recupero dei tanti strumenti che la storia
della musica ha prodotto e che
sono stati inghiottiti dal silenzio.
L’amore e la passione con cui ci
dedichiamo al nostro lavoro vogliono essere un contributo in questa direzione».
Erano
gli antenati
dell’attuale
viola
Uno degli strumenti costruiti per l’occasione e, nel riquadro, Giovanna Chittò
Andrea Faini
R
icostruire l’orchestra dei ventiquattro violini del Re Luigi
XIV e ritrovare il suono perduto
che vibrò nelle sale di Versailles. È
l’impresa che, con il marito Antoine Laulhère, ha realizzato Giovanna Chittò, liutaia bresciana che
oggi risiede e lavora in Francia,
nella periferia di Parigi. Appassionata dal violino sin dalla più giovane età, Giovanna Chittò scopre i
segreti della costruzione dello strumento nella Scuola di Liuteria di
Cremona, per poi perfezionarsi in
Francia. Nel 2007, la grande sfida:
la commissione dei dodici strumenti mancanti per ricostituire l’orchestra del Re. La storia recente dei
ventiquattro violini di Re Luigi
XIV comincia in realtà negli anni
Settanta, quando due musicologi Jean Durand e Edmond Lemaître
- intuirono che l’orchestra di Lully
e Rameau, i protagonisti della scena musicale dell’epoca, comprendeva anche strumenti ad arco inconsueti, non catalogabili secondo
le classificazioni tradizionali.
A lungo circondati dallo scetticismo degli studiosi internazionali, i
due raccolsero prove sempre più
Sostiene di averlo scoperto un professore olandese, Berend Stoel, dopo avere sottoposto ad una tac cinque strumenti
Il segreto degli Stradivari? È nella densità del legno
LONDRA
M
istero risolto. Il suono inconfondibile e irreplicabile - sino
ad oggi - dei violini Stradivari è
tutta una questione di densità del
legno. Il segreto, insomma, sta nel
materiale, non nel disegno.
È la tesi sostenuta da Berend
Stoel, professore all’Università di
Leiden, Olanda. Il quale, per scoprire la verità, ha sottoposto ad
una tac - assistito dal liutaio americano Terry Borman - cinque Stradivari e sette strumenti contemporanei.
Ecco il responso: la densità del
legno usato dal maestro cremonese è più omogenea di quella dei
violini moderni, in particolare se si
considera le singole lastre di acero
e abete con cui gli strumenti sono
costruiti.
«Le capacità di vibrazione e di
propagazione del suono di un violino - ha detto Stoel - dipendono
dalla geometria dello strumento e
dalle proprietà del materiale usa-
Antonio Stradivari in un celebre ritratto di Edgar Bundy
to. I nuovi test hanno permesso di
indagare la densità del legno ad un
livello altissimo, anello per anello,
senza rovinare gli strumenti musicali». Particolare non trascurabile,
visto che i circa 650 Stradivari
rimasti oggi in circolazione - dei
1100 costruiti dal maestro cremo-
nese - hanno quotazioni da capogiro. Il 16 maggio 2006, ad esempio,
l’esemplare chiamato «Martello»
venne battuto all’asta organizzata
da Christie’s per la cifra record di
1,75 milioni di sterline.
Antonio Stradivari, con l’aiutante Giuseppe Guarneri del Gesù,
iniziò a costruire violini nel 1680
dopo essersi sistemato nella città
lombarda di Cremona. Il maestro
ebbe una vita molto lunga: 93
anni. E a tutt’oggi si crede che i
migliori violini prodotti dal maestro siano quelli costruiti nel primo quarto del XVIII secolo.
Sinora, tuttavia, nessuno era
mai riuscito a comprendere il segreto degli Stradivari, capaci di
produrre note di una qualità mai
raggiunta.
Un lusso, quello di poter maneggiare uno Stradivari, concesso solo
a pochi eletti.
Il professor Stoel - che ha pubblicato il suo studio nel giornale online «Public Library of Science» - ha
spiegato, appunto, che questa unicità dipende dall’età del legno impiegato: durante l’estate, infatti,
gli alberi possiedono una densità
maggiore rispetto a al periodo primaverile. E gli strumenti di Antonio Stradivari sembrano avere un
perfetto equilibrio tra legno primaverile e legno estivo: da qui lo
straordinario suono dei suoi violini.
Il violino conosciuto con il nome «Il Martello»
Un momento dei restauri. A destra: la Pala restituita alla sua bellezza
Risplende il Romanino padovano
Con il Crocifisso di Giotto, la
Pala di Santa Giustina del Romanino è il dipinto più celebre
della pur ricchissima Pinacoteca dei Civici Musei di Padova.
Questo capolavoro, dalle imponenti dimensioni (è alto quasi 7
metri e largo oltre 3 e mezzo),
opera cruciale nel percorso artistico del maestro lombardo, è
stato sottoposto a un intervento
che ha interessato tutte le superfici dipinte, la cornice e la
struttura lignea formata da 12
tavole collocate su un telaio di
cinque travetti orizzontali e sei
verticali che, incastrati tra loro,
si sono dimostrati "macchina"
efficacissima atta a sostenere la
vasta superficie dipinta limitandone flessioni e spanciamenti.
La Pala, raffigurante la «Madonna con il Bambino e i santi
Benedetto, Giustina, Prosdocimo, Scolastica; Pietà, santi Luca, Mattia, Massimo, Giuliano
da Padova e tre santi martiri
innocenti» fu commissionata a
Girolamo da Romano detto Romanino (Brescia, 1485/86 ca1562) dalla potente comunità
benedettina di Santa Giustina e
la sua collocazione sull’altare
maggiore della basilica (ora Coro Vecchio) risale a 494 anni fa
(8 luglio 1514). Soppresso il monastero in seguito ai Decreti
Napoleonici del 1810, l’opera restò al suo posto sino al 1866 anno dell’annessione del Veneto allo Stato italiano - quando
Andrea Gloria ne suggerì il trasferimento alla Pinacoteca Civica, con molte altre opere provenienti dal monastero.
L’iconografia del dipinto trova origine in una precisa richiesta della committenza ed è strettamente legata alla storia della
basilica e dell’ordine. La Pala commenta Franca Pellegrini,
Conservatore del Museo d’Arte
medioevale e moderna e direttore del progetto di restauro (coordinato da Pinin Brambilla
Barcilon, direttrice dei Laboratori di restauro del Ccr "La Venaria Reale"), «costituisce uno
dei caposaldi cronologici nel catalogo di Romanino. Da quest’opera infatti la critica ha preso le mosse per definire l’attività giovanile del pittore, segnata
dalla costante dialettica tra la
cultura lombarda (Bramante,
Bramantino, Zenale) e quella
veneziana (Giorgione, Tiziano).
La pala, e i tondi in particolare,
mostrano il personale approdo
dell’artista al classicismo cromatico di Tiziano, attivo alla Scuola del Santo nel 1511. A ciò si
aggiunge una carica di forte realismo che rivela la conoscenza
dell’arte nordica e di Dürer».
Questa meravigliosa opera
presentava sollevamenti diffusi
di pellicola pittorica, imputabili
al naturale invecchiamento della preparazione, agli interventi
di restauro e manutenzione precedenti e al movimento delle
fibre del legno. L’intervento è
stato preceduto da analisi diagnostiche non invasive (infrarosso, fluorescenza, radiografie, indagini endoscopiche e chimico
fisiche). L’imponente massa di
informazioni così raccolta ha
permesso di conoscere lo stato
Tondo con martiri innocenti
di salute di ogni singola porzione della Pala, nonché di evidenziare i pigmenti e la tecnica
utilizzati dall’artista e i pentimenti in corso d’opera.
Sulla base dei dati emersi è
stato possibile operare con criteri scientifici in fase di consolidamento di ciò che rischiava di
andare perduto per distacco della pellicola pittorica. Si è proceduto anche a rimuovere inappropriate sovrapposizioni di colore. La Pala restaurata si può
vedere a Padova, ai Musei Civici
agli Eremitani, piazza Eremitani, 8 (orario: tutto l’anno 9-19).
Chiusura: tutti i lunedì non festivi, Natale, Santo Stefano, Capodanno, 1˚ Maggio. Biglietti: cumulativo intero (Musei Eremitani, Palazzo Zuckermann e Cappella degli Scrovegni) 12 €; ridotto 8 €. Info: 049.8204508.