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Ragion di Stato
di Alberto Benedetto
Racconto di Alberto Benedetto – Anno 2016
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“Io Bernardo, fedele servitore del Cavalier Ottone di Grandson che ho servito fedelmente per molti anni, giunto
ormai alla fine della mia vita, all’interno di queste mura di pietra del monastero che vide la sconfitta dei barbari
infedeli sotto le sante armi di Carlo Magno, ho deciso di raccontare la triste vicenda del mio signore che
nonostante l’età avanzata non rinunciò a difendere il suo onore e quello del suo glorioso casato dalle infamanti
accuse di un vile avversario avido di impossessarsi delle sue ricchezze come già aveva fatto con quelle della sua
consorte e desideroso di acquistare con la menzogna ed il tradimento meriti agli occhi del duca”.
Queste erano le prime parole che tradusse Niccolò, uno studioso del periodo basso medioevale che un po’ per
caso si era trovato tra le mani quello strano manoscritto dimenticato nei polverosi scaffali dell’archivio storico.
Aveva ricevuto l’incarico di mettere in ordine un’infinità di carte e documenti per consentirne la scansione e la
memorizzazione elettronica ma un giorno, quasi per caso, si era imbattuto in un cofanetto di legno nascosto al
fondo di un vecchio armadio. Il cofanetto era stato legato con uno spago sul cui nodo era stata fatta colare della
cera rossa che portava impresso un sigillo.
Con un po’ di sorpresa Niccolò aveva prelevato il cofanetto e lo aveva posto sulla sua scrivania dove grazie alla
lampada da tavolo riuscì a scoprire a chi era appartenuto quel sigillo. Con sommo stupore riconobbe nel sigillo
la persona di papa Felice V, ultimo antipapa del grande scisma d’Occidente. A lato del cofanetto, tra il coperchio
e lo spago, era stato inserito un foglio arrotolato chiuso con un nastro ma privo di sigillo. Per evitare di rovinare
il documento, di cui non conosceva né la natura né il contenuto, lo studioso si infilò i guanti e con cautela sfilò il
foglio e con molta attenzione sciolse il nodo del nastrino che lo chiudeva. Poi sempre misurando i suoi
movimenti srotolò il documento ed iniziò la sua lettura. Era scritto in un latino assai stentato, probabilmente
vergato da un segretario che si occupava dell’archiviazione dei documenti di corte; il testo della lettera vietava a
chiunque di aprire quel cofanetto senza aver preventivamente chiesto l’autorizzazione al duca Amedeo VIII o a
suo figlio Ludovico.
Nonostante la tentazione di aprire il cofanetto fosse forte, Niccolò preferì avvisare i suoi superiori della
scoperta; ovviamente il cofanetto venne immediatamente preso in custodia dal responsabile dell’archivio e
collocato in una cassaforte nascosta nel grande sotterraneo.
Erano passate molte settimane prima che un impiegato del ministero lo convocasse per consegnargli una lettera
in cui veniva finalmente autorizzato ad aprire il cofanetto. Nessun clamore, nessuna cerimonia. Il cofanetto
infatti era stato sottoposto a diverse analisi ed alla fine era risultato che al suo interno era custodito un piccolo
libricino, una specie di breviario. Sarà anche stato antico, ma secondo quelli che l’avevano studiato dal di fuori
era sicuramente privo di alcun valore poiché le radiografie non avevano evidenziato la presenza di gemme o di
oro ne di incipit realizzati con quel prezioso materiale.
Niccolò si ricordava ancora l’emozione dell’apertura del cofanetto. Gli era stato consegnato dal responsabile
dell’archivio che l’aveva appoggiato su un lungo tavolo in una sala collocata nel seminterrato dove la luce del
sole faceva capolino tra le grate della piccola finestra da cui si potevano scorgere le ombre dei passanti e sentire
l’eco dei loro discorsi.
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Con delicatezza Niccolò tagliò lo spago collocandolo insieme al sigillo su di un foglio di carta velina. Con la
macchina fotografica immortalò tutti i dettagli del sigillo e poi fotografò ogni centimetro del cofanetto. Non
aveva niente di artistico, ma la sua formazione lo obbligava a non tralasciare alcun dettaglio che magari a
posteriori avrebbe potuto essere decisivo. Apertolo, si trovò di fronte ad un vecchio libretto abbastanza mal
ridotto ma rilegato con una copertina in pelle anch’essa consumata. A suo interno il libro racchiudeva una serie
di pagine realizzate su fogli di carta vergati a mano. Con delicatezza estrasse il contenuto dalla scatola e
lentamente iniziò a sfogliare le pagine; per fortuna l’inchiostro era ancora ben leggibile. Il testo sembrava scritto
in lingua volgare, ma non presentava miniature o disegni e la scrittura non era né elegante né elaborata, ed in
molti tratti non aveva un andamento lineare; forse era stata scritta da una persona anziana.
Il responsabile dell’archivio si dedicò alla compilazione del verbale mentre Niccolò continuava a scattare
fotografie del documento facendo attenzione a non usare il flash per evitare di comprometterne l’integrità.
Firmato il verbale, il responsabile comunicò allo storico le regole a cui avrebbe dovuto sottostare se voleva
continuare a svolgere l’incarico che gli era stato affidato: ogni mattina avrebbe ricevuto il libro da un addetto
affinché potesse procedere alla traduzione del testo. Al termine della giornata avrebbe dovuto restituire il libro
che sarebbe stato nuovamente ricollocato all’interno della cassaforte. Ovviamente Niccolò si era impegnato a
mantenere la più assoluta riservatezza in merito al contenuto del libro e aveva accettato di non pubblicare alcun
articolo o libro in merito a questa scoperta prima della presentazione del suo lavoro di traduzione ai
responsabili dell’archivio e del ministero.
Ripresosi dai ricordi Niccolò continuò il suo lavoro cercando di rispettare le scadenza imposte dal ministero.
Adesso lo storico stava rileggendo la traduzione che l’aveva occupato per alcune settimane. Non poteva più
tergiversare; la settimana successiva avrebbe incontrato i suoi responsabili per presentare il frutto del suo
lavoro e non poteva permettersi errori se voleva dimostrare che aveva i numeri per ambire ad altri e più
importanti incarichi. Il testo che aveva tradotto proseguiva raccontando il viaggio della salma di Ottone da
Bourg-en-Bresse fino a Losanna dove venne tumulato nella tomba che si era fatto preparare.
Proseguendo nella traduzione, Niccolò scoprì che, proprio davanti al monumento funebre del suo signore,
Bernardo giurò di riabilitare il suo nome di fronte ai vivi anche a costo della sua vita. Non poteva sopportare
l’onta dell’infamia che i vincitori avevano imposto anche al suo monumento funebre; lui, Ottone, consigliere del
Conte Rosso, abile cavaliere e provetto rimatore che con le sue poesie aveva allietato la nobiltà savoiarda
durante le lunghe sere invernali alla corte del conte non poteva essere ricordato come un traditore ed un
assassino.
Incuriosito dall’episodio Niccolò aveva cercato notizie in merito al luogo di sepoltura di questo Ottone e senza
uscire dalla stanza, usando solo il suo tablet, riuscì ad ottenere le risposte che stava cercando. Scoprì che
Ottone era rappresentato da una statua, rivestita di una cotta metallica che gli proteggeva anche il capo, a cui
però avevano tagliato le mani, cosa che accadeva a chi perdeva un’ordalia a quel tempo quale monito per
quanti, colpevoli, avrebbero deciso di sottoporsi al Giudizio di Dio sperando così di evitare la condanna degli
uomini.
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Da questo giuramento scaturì la decisione di Bernardo di ritirarsi in un monastero: “mentre rientravo nei
territori che avevano visto compiersi le gesta del mio signore maturai l’idea di chiedere asilo in un monastero. In
questo modo avrei goduto della protezione dell’abito benedettino e nello stesso tempo avrei pregato per la
salvezza del mio signore invocando la misericordia di Dio e l’intervento dell’arcangelo Michele che avrebbe
punito i suoi assassini. Decisi di raggiungere un monastero che non fosse in Savoia, terra ormai ostile, ed iniziai il
mio peregrinare alla volta di Roma. Ero convinto che Nostro Signore avrebbe guidato i miei passi e mi avrebbe
indicato il luogo dove avrei trascorso la mia vita da religioso. Attraversai le montagne insieme ad un gruppo di
pellegrini di ritorno da Santiago de Compostela a cui decisi di unirmi per evitare di affrontare quel pericoloso
viaggio da solo, e con loro mi fermai presso l’abbazia di San Michele all’imbocco della Val di Susa, passaggio
obbligato per quanti, mercanti o pellegrini, dalla Gallia volevano recarsi in Italia. Era l’inizio dell’autunno
quando percorsi i ripidi sentieri del monte Pirchiriano su cui si erge maestoso il nostro monastero voluto dal
santo padre Giovanni Vincenzo. Lungo la salita ebbi la certezza che quello sarebbe stato il mio monastero;
oltrepassando le pesanti porte di legno ero consapevole di lasciarmi la precedente vita alle spalle, ma la mia
determinazione era più forte delle mie paure e dei miei ricordi. Varcai deciso la soglia di quel luogo di spiritualità
e di pace e come un agnello che segue il gregge affrontai i ripidi scalini in pietra che portano alla chiesa del
monastero. Nella mia salita era accompagnato dallo sguardo dei corpi mummificati dei frati collocati nelle
nicchie ricavate nella pietra. Ogni scalino, ogni colonna, ogni ornamento ricordava al viandante la caducità della
vita umana, la miseria dell’uomo. Al termine dello scalone raggiunsi insieme ai miei compagni di viaggio uno
spiazzo da cui potei contemplare il panorama dei monti ricoperti da alberi le cui foglie dal verde stavano
passando al giallo. Mentre i miei compagni si concedevano il giusto riposo dopo un’intera giornata di cammino,
chiesi al monaco guardiano di incontrare l’abate del monastero perché avevo una comunicazione da
trasmettergli. Quindi attesi pazientemente che il monaco guardiano m’introducesse al cospetto dell’abate, il
venerando Guglielmo di Challant, che ebbi modo di incontrare quando soggiornò alcuni giorni presso il castello
del mio signore. Finalmente il monaco guardiano mi fece cenno di entrare nella chiesa per essere ricevuto.
Passai sotto lo stretto portale sul cui architrave è scolpito lo zodiaco quale monito ai presenti della caducità
della vita e che la ricerca di ricchezze e di gloria è una vana consolazione alla miseria della condizione umana.
Sentivo il cuore battermi forte; speravo che l’abate mi riconoscesse in modo da rendere più semplice la mia
richiesta di fermarmi in quell’oasi di pace e mentre procedevo all’internodi quel santo luogo di preghiera
ripassavo il mio discorso che tante volte avevo detto e ridetto sulla strada che da Losanna mi portava al mio
destino. Sarei stato in grado di reggere allo sguardo dell’abate sapendo di mentirgli o sarei stato fulminato
dall’ira di nostro Signore?
Senza rendermene conto mi ritrovai al cospetto del venerando abate. Era seduto al suo posto nel coro assorto
nella preghiera. Passai veloce accanto al leggio sopra il quale era appoggiato un prezioso libro e mi recai al suo
cospetto. Istintivamente mi inginocchiai davanti alla sua persona e gli chiesi la sua benedizione. L’abate stese le
mani sopra la mia testa e pronunciando una benedizione fece il segno della croce. Quindi mi invitò ad alzarmi e
mi domandò da dove venissi e dove ero diretto.
Improvvisamente il suo santo sguardo fece crollare le mie certezze, la mia lingua diventò secca e dalla gola non
uscivano parole. Accortosi del mio disagio il venerando abate si alzò e mi invitò a seguirlo. Si fermò accanto al
leggio e mi disse che quel libro a cui non avevo dato alcuna importanza era il breviario di San Michele delle
Chiuse, il libro che regolava le preghiere dei monaci del monastero. Quindi mi chiese se sapevo leggere e mi
invitò a leggergli le prime righe della pagina aperta. Era un versetto del Vangelo che più o meno diceva: “State
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attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è
ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli”. Sembrava un passo scelto apposta per l’occasione; il
mio spirito vacillò ancora; forse era un monito di nostro Signore, forse voleva rendere giustizia al mio signore
solo per vanagloria e non per spirito di giustizia. Mi feci comunque coraggio e finalmente riuscii a dirgli chi ero e
che volevo entrare in monastero per fuggire dal mondo perché lo ritenevo inadatto alla mia salvezza poiché la
malvagità e l’ingiustizia che vedevo in ogni strada creava in me solo odio e risentimento, sentimenti che invece
di portarmi a nostro Signore mi avrebbero portato direttamente tra le fiamme ed i tormenti dell’inferno. Avevo
avuto la possibilità di viaggiare e vedere una parte del mondo, ma alla fine avevo visto che tutto quest’odio
aveva generato solo uomini intenti ad arricchirsi ed a dissetarsi alla fonte dell’arroganza e della violenza. Il
venerando abate mi domandò perché ero giunto a quelle conclusioni ed io gli chiesi se aveva avuto notizie di un
Giudizio di Dio tenutosi alcuni mesi prima a Bourg-en-Bresse. A quel punto l’abate Guglielmo si ricordò di me.
Sul suo viso comparve una nube di tristezza; mi disse che aveva sempre stimato il mio signore e non aveva mai
creduto alle infamanti accuse che gli venivano mosse. Certo, mi disse, sapeva che Ottone aveva preso
seriamente la sua carica di consigliere del defunto conte e che quindi non aveva mai esitato a dare il suo parere
quando interrogato anche se alle volte le sue osservazioni erano in contrasto con il pensiero della corte e dello
stesso Amedeo. Mi fece molte domande sulla sua vita quando fu costretto ad abbandonare in fretta i suoi
territori per cercar rifugio in Inghilterra e poi in Francia, ma stranamente non mi chiese nulla sulla sua fine.
Ad un certo punto la campana cominciò a suonare; era giunto il momento della preghiera; l’abate Guglielmo mi
congedò affidandomi ad un monaco che mi accompagnò insieme ai miei compagni di viaggio nel dormitorio in
cui venivano ospitati i pellegrini.
Congedandomi mi disse che mi avrebbe concesso un po’ di tempo per riflettere sulla mia scelta prima di
decidere se prendermi tra i novizi; voleva essere sicuro che la mia scelta fosse dettata dalla mia ricerca della
salvezza e non dalla contingenza della situazione.
Dopo alcuni giorni che trascorsi passeggiando in solitudine tra i boschi e guardando la pianura che si apriva
sotto il mio sguardo intervallando le mie riflessioni con i ritmi e le preghiere dei confratelli, chiesi di incontrare
l’abate per confermargli la mia volontà. Avevo finalmente capito qual era la mia vera aspirazione e perché
ormai quarantenne non avevo ancora trovato la meta cui giungere. Grazie alla preghiera ed alla meditazione
capii finalmente che avevo perso tempo cercando onori e approvazione tra gli uomini anziché dedicarmi
totalmente a Dio. Conscio di ciò e non volendo perdere tempo da dedicare al servizio di Dio gli domandai di
essere ammesso come novizio tra i suoi monaci; avrei fatto i lavori più umili, mi sarei messo a disposizione dei
più poveri ed al servizio dei pellegrini che chiedevano ospitalità al monastero pur di fermarmi in quel luogo dove
la mano di Dio mi aveva condotto. I primi tempi furono assai duri; non ero abituato a pulire pavimenti, lavare le
ciotole e bicchieri o ad aiutare i monaci nella cura dell’orto, ma alla fine, grazie all’aiuto di nostro Signore, riuscii
a superare queste difficoltà e dopo alcuni anni divenni finalmente monaco”.
Il tempo, scandito dal suono della campana e dalle preghiere, passava lento ed io, misero servo di nostro
Signore, mi dividevo tra lo scriptorium, l’orto e la cura dei viandanti. Vista la mia conoscenza di testi di medicina
che avevo copiato frequentemente negli ultimi anni venni destinato alla farmacia del convento come aiuto del
fratello farmacista che ormai avanti negli anni faceva sempre più fatica a preparare infusi e medicamenti.
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Ben presto divenni esperto anche in quest’arte e lentamente sostituii l’anziano confratello nella cura dell’orto dei
semplici, dove mi dedicai alla coltivazione delle più preziose erbe del convento, con cui l’anziano monaco
preparava tisane e medicamenti prima che anche questo compito passasse a questo indegno servo di nostro
Signore. Così passarono quasi dieci anni della mia nuova vita. Ero convinto di aver chiuso con il mio passato
quando improvvisamente si ripresentò all’improvviso.
Era ancora inverno ed i bucaneve stavano iniziando a comparire nei prati ancora occupati dalle copiose nevicate
quando venni chiamato da un confratello; lasciai sul tavolo le erbe che stavo usando per preparare la tisana per
il nostro reverendo abate, ormai prossimo ad incontrare nostro Signore, e corsi velocemente nella sua cella
presso il letto su cui era adagiato. Attorno a lui i monaci pregavano per accompagnarlo nel suo ultimo viaggio.
Quando mi riconobbe mi fece cenno di avvicinarmi e presami la mano mi sussurrò nell’orecchio di non
dimenticare il giuramento che avevo fatto sulla tomba del mio signore. A quelle parole rimasi pietrificato;
pensavo di aver chiuso con il passato e non volevo abbandonare la nuova vita che avevo intrapreso con tanto
entusiasmo. Nonostante la mia faccia il reverendo abate con le ultime forze rimaste mi disse di recarmi presso il
monastero di Notre Dame di Ganagobie in Provenza dove avevano bisogno di un farmacista; l’abate lesse il
dubbio sul mio volto, ma mi rassicurò dicendomi che con l’aiuto di nostro Signore avrei trovato la strada che
cercavo da tanto tempo. In ogni caso la decisione era già presa; infatti aveva già avvisato l’abate del monastero
inviandogli una lettera prima dell’inverno. Mi ordinò, non appena avessi ricevuto la sua risposta, di recarmi
senza indugio presso la nuova sede ricordandomi la regola dell’obbedienza al proprio abate. Lo sforzo fu
immensamente grande; subito dopo le forze lo abbandonarono e prima di mezzogiorno la sua anima era già
salita in cielo accompagnata dalle preghiere dei suoi monaci.
Erano appena passati i riti pasquali quando abbandonai il monastero che mi aveva accolto e protetto dal
mondo. Con passo lento mi avviai verso Torino, dove affittai una mula che caricai con il mio misero bagaglio, e
da qui proseguii il mio cammino verso il mare attraversando le montagne presso il passo del Tenda.
L’attraversamento delle montagne fu molto rapido perchè per paura di aggressioni, assai frequenti in quelle
zone, decisi di aggregarmi ad un gruppo di cavalieri di passaggio. Finalmente dopo un viaggio massacrante
raggiunsi Nizza; mancava ormai poco alla meta. Avrei dovuto percorrere un tratto di strada in mare e poi
arrampicarmi sulle montagne della Provenza.
Prima di imbarcarmi, però, decisi di recarmi al Santuario della Signore della Misericordia, eretto da alcuni
marinai spagnoli che si erano salvati da una tempesta grazie al suo miracoloso intervento. Qui pregai la Madre
di nostro Signore affinchè vegliasse su di me e sui miei compagni di viaggio.
Giunto il giorno stabilito mi recai al porto dove a fatica trovai la nave che mi avrebbe portato a destinazione. Il
turbinio di persone che si muoveva lungo le banchine come api in un alveare mi mandò in confusione; non ero
abituato a quel via vai di gente e di bestie. Dovetti persino tapparmi le orecchie per non sentire le bestemmie
delle persone addette allo scarico delle barche.
Il campanile di una chiesa vicina segnava l’ora sesta quando finalmente raggiunsi la mia nave. La sua forma era
tondeggiante e lo scafo, assai panciuto affondava nell’acqua a causa del pesante carico che trasportava. I
marinai erano intenti ad aprire la vela triangolare sistemata sull’unico albero della nave. Aiutato da alcuni
marinai, salii a bordo e mi andai a sistemare in un angolo del ponte in attesa della partenza. Dal mio cantuccio
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osservai l’abilità dei marinai addetti ai due timoni di poppa nel far muovere la nave in mezzo a quel vespaio. Il
viaggio durò due giorni e fu piacevole; un vento delicato gonfiò le vele senza increspare il mare permettendomi
di osservare la costa e gli uccelli del cielo che non facevano che ricordarmi ancora una volta la grandezza di
nostro Signore.
Di prima mattina raggiungemmo il porto della città dove lentamente le persone stavano confluendo per le loro
quotidiane attività. Attraccammo alla banchina insieme ad alcune piccole barche di pescatori che portavano a
riva il frutto delle loro fatiche. Prima di scendere dalla nave benedissi l’equipaggio come mi aveva chiesto il
comandante di quell’imbarcazione e sperduto tra la folla e gli animali stracarichi di merci mi diressi verso la
città. Sapevo che il viaggio era ancora lungo e quindi decisi di chiedere ospitalità all’abbazia di San Vittore da
dove proveniva il nostro compianto papa Urbano che di malavoglia fu costretto dalla cattiveria dei romani ad
abbandonare in tutta fretta la città di Pietro dopo aver tentato vanamente di porre rimedio alla perdizione che
da decenni regnava tra quelle sante mura. Decisi quindi di raggiungere in tutta fretta le pendici del monte di
Santa Genevievre per chiedere ospitalità a quella comunità di santi monaci, custodi della cultura e delle
tradizioni della Provenza. Qui approfittai della pace del chiostro per riposarmi e per continuare i miei studi sulle
erbe officinali sfruttando il loro piccolo ma prezioso orto. Qui appresi l’arte della lavorazione della ptàrmica,
erba utile per curare i traumi e le calvizie ma usata anche da esseri diabolici per causare una morte
immediatadnel disgraziato che volevano uccidere.
Era ormai giugno inoltrato quando iniziai il mio viaggio verso Ais de Provença, la città che aveva dato i natali ad
Eleonora di Provenza, andata in sposa al buon re Enrico III d’Inghilterra. Avevo affittato una mula su cui oltre al
mio povero bagaglio caricai anche diversi vasi di ptàrmica seccata oltre che diversi semi di questa meravigliosa
erba poichè pensavo avrebbero potuto essermi utili nel mio nuovo laboratorio.
Giunto in questa meravigliosa città, cercai una stanza per passare la notte; la trovai in una locanda a due passi
dalla cattedrale di San Salvatore. L’edificio sembrava sfidare le leggi della natura tanto era malconcio, ma
almeno all’interno sembrava pulito. Portai la mula nella stalla e poi lasciai il mio bagaglio nella stanza che l’oste
mi indicò. Prima di uscire diedi un’occhiata al letto: con mio grande disappunto trovai tra la paglia e la coperta
una vastissima varietà di insetti. D’istinto volevo correre dall’oste a protestare, ma poi mi ricordai del mio voto
di povertà ed accettai la prova a cui nostro Signore mi stava sottoponendo. Decisi quindi di uscire per cercare
una bancarella che vendesse della lavanda che avrei usato per lavarmi dopo una notte passata in compagnia di
simili compagni. La ricerca non fu semplice, ma alla fine riuscii a comprarne una grande quantità per poche
monete.
Prima di tornare alla locanda entrai nella cattedrale per recitare le preghiere; qui trovai la pace che stavo
cercando dopo tanto camminare. Le campane suonavano il vespro quando mi recai alla locanda e mi sedetti ad
un tavolo in attesa della cena.
Non era ancora alto il sole quando lasciai la città per dirigermi a Manosque, la penultima tappa del mio lungo
cammino, città le cui possenti mura stonano con il paesaggio tranquillo caratterizzato da dolci colline dove i pini
contendono lo spazio a lecci e vigne. Nonostante la breve distanza, impiegai molto tempo per raggiungere la
città a causa delle ripide e tortuose stradine che doveva percorrere la mia mula con il suo carico di preziose
erbe. Nel primo pomeriggio scorsi finalmente le possenti mura della città e poco dopo entrai nel borgo passando
sotto la porta Saunerie sormontata da alcune bifore da dove un gruppo di armigeri osservava l’orizzonte alla
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ricerca di pericoli. Passando per varie piazzette raggiunsi una piccola chiesa dove avrei ottenuto ospitalità per la
notte. Lasciai riposare la mula nella stalla e mi recai nella chiesa di Nostra Signora di Roumi per recitare il mio
uffizio divino. Terminate le preghiere chiusi il mio breviario ed alzando lo sguardo scorsi una maestosa statua di
Nostra Signora con il Bambino; decisi di avvicinarmi per accendere una candela e chiedere la sua protezione per
l’ultimo tratto di strada che avrei dovuto percorrere lungo i ripidi versanti della vallata in cui si trovava il mio
nuovo monastero.
Tornai quindi dal parroco che mi aveva accolto per la notte cenando insieme a lui. Il frugale pasto fu condito da
piacevoli chiacchiere. Gli raccontai della mia vita nell’abbazia di San Michele e lui in cambio mi raccontò la storia
di questo antico borgo saccheggiato e distrutto molti anni prima dai pirati saraceni. Mi raccontò anche la storia
miracolosa della Madonna con il Bambino che avevo visto nella chiesa in cui mi ero fermato a pregare. In breve,
mi spiegò che poco prima della venuta dei pirati saraceni, un abitante dell’antico borgo nascose la statua dentro
un sarcofago affinchè non venisse profanata. Quando i saraceni abbandonarono il borgo non lasciarono in piedi
neanche una pietra; solo molti anni dopo gli abitanti decisero di ricostruire la loro città, ma nessuno sapeva
dove era stata nascosta la statua di nostra Signora anche perché chi l’aveva nascosta era morto anni prima
senza lasciar detto a nessuno dove l’aveva seppellita. Ma un giorno un contadino che stava lavorando i campi
con i suoi buoi vide che le sue bestie all’improvviso si fermarono davanti a dei rovi inginocchiandosi. L’uomo si
fece coraggio e si aprì un varco tra i rovi. Penetrando al loro interno trovò il sarcofago con dentro la statua che
venne collocata immediatamente nella chiesa ed eletta a protettrice della città appena ricostruita.
Sul subito non diedi peso a questo racconto miracoloso, ma oggi, dopo molti anni, ho capito che quella storia in
realtà era un segnale posto sul mio cammino: la verità si può nascondere per tanti motivi, ma alla fine viene
sempre fuori anche se si è cercata di occultarla bene. E non sempre il suo ritrovamento provoca gioia nel cuore
del suo scopritore, come ho avuto modo di sperimentare sulla mia pelle.
Il giorno seguente mi incamminai verso nord e ben presto mi trovai a risalire la stretta vallata dove scorre il
fiume Durance tra due pareti rocciose quasi verticali. Era quasi l’ora nona quando raggiunsi il monastero di
Nostra Signora di Ganagobie. Giunto in cima alla salita che portava al monastero scorsi la chiesa dal cui
campanile le campane stavano chiamando a raccolta i monaci. Arrivato davanti all’edificio non potei non
osservare la sua semplice facciata in pietra ed il portale in stile arabeggiante sormontato da un timpano che
raffigura Cristo con i simboli degli Evangelisti mentre nell’architrave erano raffigurati i suoi apostoli.
Legata la mula, entrai in chiesa dove non potei non notare i mosaici che raffigurano la lotta delle virtù e dei vizi.
Mi fermai al fondo e mi unii al coro dei confratelli che stavano recitando le preghiere. Quando l’eco dell’ultima
salmodia si spense tra le colonne della chiesa mi feci avanti presentandomi all’abate. Questi diede ordine ad un
monaco di portare la mula nella stalla mentre io come un indifeso agnello lo seguii attraverso una porta che
comunicava con il chiostro e che consentiva l’accesso sia al refettorio che alla sala del capitolo dove venni
introdotto e presentato alla comunità. Mentre camminavo in silenzio lungo il chiostro scorsi tra gli archi, che
reggevano il tetto, un piccolo orto; il mio compito sarebbe stato quello di renderlo degno del suo nome oltre che
preparare medicamenti e tisane con le sue preziose erbe.
I primi mesi di lavoro furono particolarmente duri. L’abate mi aveva affidato come aiutante un giovane novizio,
figlio di gente della zona che si rivelò particolarmente utile nei lavori di risistemazione dell’orto. Grazie alle sue
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forti braccia divisi l’orto in quattro quadrati ed in ogni quadrato piantai le differenti piante ed erbe che avevo
trovato aggiungendovi anche la lavanda e la preziosa ptàrmica con cui avevo preparato diversi unguenti che
utilizzavo per curare i vari acciacchi dei monaci. Dopo quasi un anno di intenso lavoro il monastero produceva
sufficienti quantità di salvia, che usavo per curare i nervi, basilico, menta con cui curavo i problemi di digestione,
rosmarino, melissa con cui preparavo dei calmanti, anice, finocchio per curare i problemi intestinali, malva e
valenziana. Per semplificare il lavoro di manutenzione dell’orto, con il consenso dell’abate, realizzai dei canaletti
che partendo dal pozzo centrale consentivano di distribuire l’acqua a tutto l’orto senza bisogno di portarla di
pianta in pianta.
Nel piccolo locale adibito a farmacia feci realizzare dai confratelli abili nell’arte della falegnameria una serie di
armadi in cui, custoditi da vasi in terracotta, conservai le erbe essiccate e diverse spezie che ero riuscito ad
ottenere come ad esempio il pepe, il cardamomo, la cannella, lo zenzero e la canfora e polveri come l’allume, lo
zolfo, l’arsenico ed il mercurio. Al centro della stanza feci realizzare un tavolo necessario per la preparazione dei
medicamenti oltre che dei fornelli necessari per l’essicazione e la bollitura delle erbe. Inotre chiesi all’abate la
possibilità di allevare delle api necessarie per la produzione di miele e di cera d’api con cui potevo preparare gli
impiastri.
Dalla farmacia ben presto uscirono, grazie anche all’aiuto del mio giovane aiutante Martino, a cui insegnai oltre
l’arte della farmacia anche a leggere ed a scrivere, tisane, impiastri e cataplasmi oltre che balsami e pomate e
con il tacito consenso dell’abate e con la collaborazione dei monaci che si occupavano della produzione del vino
anche alcuni distillati realizzati con una ricetta di mia invenzione, costituita da un insieme di diverse erbe, radici
e spezie, che ottenenero un discreto successo presso la gente dei villaggi vicini e che procuravano del guadagno
aggiuntivo al monastero.
Quando il giovane farmacista divenne esperto nella sua arte ritenni di aver esaurito il mio incarico e quindi
chiesi all’abate il permesso di ritornare al mio precedente monastero, ma questi mi incaricò di realizzare un
piccolo ospedale all’interno del monastero affinchè potessero essere curati anche gli abitanti dei villaggi vicini.
Per rispettare il voto di obbedienza mi dedicai al nuovo incarico realizzando all’interno di un edificio in disuso un
piccolo luogo dove accogliere e curare i malati. Creai un piccolo armarium pigmentorum et librorum dove
conservare le essenze necessarie per i medicamenti da usare per i pazienti e conservare i miei preziosi libri, un
infirmorum per i pazienti meno gravi ed un cubiculum valde infirmorium per quelli gravi oltre ad una piccola
cappella in cui raccogliersi in preghiera. Feci in modo che tutte le stanze fossero dotate di una finestra per
garantire luce e ricambi d’aria agli infermi come prescrive Avicenna nei suoi scritti che ebbi modo di leggere
nello scriptorioum dell’abbazia di San Michele. Imposi poi ai monaci incaricati dell’assistenza ai malati rigide
norme per la pulizia personale e degli ambienti e raccomandai loro di arieggiare gli ambienti affinché il morbo
non appestasse l’aria delle stanze.
Sempre nello spirito di assistenza al prossimo, come ci insegnò nostro Signore, organizzai anche delle visite ai
vari villaggi della zona con lo scopo di portare la Parola di Dio tra la gente ed assisterla qualora fosse troppo
malata per poter raggiugere il monastero.
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Io ero un semplice monaco farmacista, ma ben presto mi trovai a fare anche in un certo qual modo anche il
medico; rimasi comunque fedele alla regola del nostro santo fondatore non limitandomi solo alla cura del corpo,
ma anche a quella dell’anima.
La mia giornata iniziava prima dell’alba e si concludeva al vespro; durante tutto il giorno vagavo tra i piccoli
paesi abbarbicati nella stretta gola ed isolate case dove poveri contadini cercavano di sopravvivere con quel
poco che nostro Signore concedeva loro. Mi spostavo prevalentemente a piedi accompagnato dal giovane
novizi, Martino, che mi aiutava a reggere il peso della piccola farmacia che mi portavo dietro.
Quando entravo nella casa del malato per prima cosa parlavo un po’ con lui e con i famigliari e poi cercavo di
capire quali erano i sintomi della malattia, non trascurando comunque la cura dell’anima del malato. Il mio
intervento si limitava alla preparazione di cataplasmi o ad impiastri di erbe polverizzate utili per la cura delle
principali malattie, ovvero infiammazioni e dolori alla gola ed allo stomaco, ma di fronte a malattie a me
sconosciute mi limitavo a confortare spiritualmente il malato e consigliavo ai parenti di chiamare un medico
nella speranza che questo avrebbe forse potuto curarlo.
Erano passati ormai tantissimi anni da quando avevo deciso di abbandonare il corrotto mondo degli uomini e
pensavo di aver definitivamente chiuso il mio rapporto con il passato e le ingiustizie subite dal mio signore
quando improvvisamente le vecchie ferite vennero nuovamente aperte.
In un freddo giorno di gennaio venni chiamato con urgenza nel piccolo ospedale che avevo creato per assistere
un cacciatore che si era ferito dando la caccia ad un cinghiale. L’animale, colpito dalla freccia del cacciatore,
nell’estremo tentativo di salvarsi, caricò il povero uomo che per sfuggire alla sua furia non trovò di meglio che
arrampicarsi su di un alto albero. Ma la velocità della bestia fu tale che l’uomo si salvò da morte sicura ma si
procurò una profonda ferita alla gamba causata dai denti dell’animale. Le sue condizioni erano critiche poiché
l’uomo aveva perso molto sangue ed era stato trovato solo dopo molto tempo da alcuni contadini di passaggio;
oltretutto dal la ferita mal curata dai soccorritori iniziò a uscire un liquido purulento e puzzolente. L’uomo in
preda a forti febbri delirava; accanto a lui alcuni monaci pregavano per la sua anima. Giunto accanto al malato
osservai la ferita. Per prima cosa, con l’aiuto di Martino, tolsi la benda e guardai la ferita. Dopo averla pulita,
applicai sulla gamba un unguento a base di pece, resina di pino, olibano, fieno greco e bolo armeno. Dopo aver
fasciato il tutto chiesi a Martino di bagnare la fronte del malato con acqua fresca nella speranza di abbassare la
febbre, mentre io mi univo ai monaci in preghiera. Per diversi giorni trascurai la mia attività all’esterno del
monastero per dedicarmi a questo paziente. Fu durante un cambio della fasciatura che dalla tonaca uscì il
medaglione che portavo al collo dal giorno precedente al duello del mio signore, un ciondolo in argento che mi
aveva regalato con una forma a campana sul quale erano incise le parole che componevano il suo motto,
ovvero “Petite cloche, grand son”. Non so per quale strano destino, ma quando il malato vide quel ciondolo si
svegliò all’improvviso; come spinto da una forza misteriosa, mi afferrò un braccio e urlò con tutte le sue forze
che finalmente era arrivato il tempo. Ripetè la frase varie volte, poi cadde nuovamente nel suo stato di
incoscienza. Martino mi guardò stupito, mentre io in tutta fretta rimettevo sotto la tonaca il piccolo ciondolo.
Nel pomeriggio, mentre riordinavo la piccola farmacia dell’ospedale, Martino mi chiese spiegazioni sul ciondolo
e su quella persona. Non volli raccontare al giovane nulla; mi limitai a dire che il ciondolo era un regalo di una
persona a me cara, morta da ormai tanti anni, e che non avevo mai visto prima quella persona. Una volta
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terminato il mio lavoro andai in chiesa dove rimasi in preghiera fino al vespro. Dentro di me si stavano agitando
i fantasmi di un passato che credevo ormai dimenticato.
Il malato rimase all’ospedale in stato di incoscienza per molti giorni, poi finalmente le cure e le preghiere
sortirono il loro effetto. Piano piano il malato, ormai sottoposto solo alle cure dei monaci che si occupavano
dell’ospedale, iniziò ad alzarsi dal letto e prendendo sempre più confidenza con le sue gambe e con il luogo dove
si trovava iniziò a girovagare per il monastero. E nei suoi giri un giorno mi trovò nel chiostro dove mi ero
fermato per aiutare Martino a sistemare l’orto piantando nuovi semi che erano arrivati da Marsiglia.
L’uomo attese seduto vicino ad una colonna che terminassi il mio lavoro e poi si avvicinò con l’intenzione di
scambiare due parole. Io cercai di evitare l’incontro, ma l’uomo fu più rapido di me a bloccarmi la strada.
Si presentò come Giovanni, un savoiardo che aveva deciso di abbandonare il suo precedente lavoro per fare il
cacciatore di orsi e di lupi con l’intento di vendere le loro preziose pelli. Mi ringraziò per le cure che l’avevano
salvato e dell’impegno con cui i monaci si dedicavano all’ospedale. Io lo ringraziai ricordandogli però che la sua
guarigione era un dono di nostro Signore, non certamente opera dei miei medicamenti che non avevano nulla di
miracoloso o di magico come invece riteneva la maggior parte della gente. Stavo per andarmene quando le sue
parole inchiodarono i miei piedi alle pietre che rivestivano il chiostro. Ricordo ancora le sue parole:
-
Io quel ciondolo lo riconosco; venne dato da un vecchio e stanco cavaliere al suo servitore quale pegno
per i suoi servigi e come ricordo di un giuramento che lo obbligava a difendere il suo nome ed il suo
onore anche dopo la sua morte.
Con il viso pallido come se avessi visto un fantasma mi voltai e lo fissai negli occhi. Nessuno sapeva di quel
ciondolo; o meglio, solo chi era presente alla vestizione di Ottone per il tragico duello poteva aver assistito a
quella scena. Lo straniero, comprendendo il mio stupore, proseguì il suo discorso. Mi raccontò di aver osservato
Ottone tutta la notte mentre era raccolto in preghiera nella chiesa di nostra Signora, su ordine di un nobile
savoiardo e poi di averlo seguito fino alla sua tenda dove all’alba era entrato per indossare la sua armatura.
Fece con un coltello un piccolo taglio nel tessuto in modo da poter sbirciare all’interno e proprio grazie a questo
buco riuscì a vedere il momento in cui il povero cavaliere mi donava il ciondolo.
Stava ancora parlando quando fuggii lontano da lui e da quei ricordi che con fatica avevo nascosto nella mia
anima. Perché, mi chiedevo, il mio passato si rifaceva prepotentemente avanti? A quale scopo? Cosa voleva Dio
da me?
Avevo talmente paura di vedere il fantasma di Ottone comparire nella mia stanza per accusarmi di non averlo
vendicato che preferii passare tutta la notte in preghiera all’interno della chiesa del monastero. Ma più cercavo
di pregare e più i ricordi affioravano nella mia testa. Davanti ai miei occhi vidi scorrere i momenti di quel tragico
giorno; rividi Ottone, vestito della sua armatura, pronunciare il suo ultimo discorso, professare la sua innocenza
e chiedere a Dio di guidare la sua mano per affermare la sua giustizia e gettare ai suoi piedi i bugiardi che lo
stavano accusando. Al termine del suo discorso calò il silenzio davanti al palco dove era seduto il conte con la
sua corte. Il nervosismo era evidente sulle facce dei presenti. Tutti attendevano un gesto o una parola del
principe. Passò diverso tempo prima che Amedeo pronunciasse alcune parole ed invocando la giustizia di nostro
Signore desse inizio al Iudicium Dei. I due contendenti, l’onesto Ottone di Grandson ed il suo sfidante, il vile
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Gerardo d’Estavayer che indossava i colori di colui che l’aveva pagato per tradire Dio ed il mio signore, indossati
gli elmi si portarono all’interno del campo delimitato da una palizzata costruita apposta per la prova del ferro
che avrebbe sancito il trionfo della verità di fronte alle menzogne. L’eccitazione montava sugli spalti, sia tra i
nobili che tra i popolani accorsi ad assistere allo spettacolo. I due cavalieri si presentarono a cavallo davanti al
vescovo per professare il voto di combattere solo per la verità e poi si diressero verso le due estremità opposte
del campo. Entrambi i contendenti guardavano nervosamente il conte in attesa di un suo cenno. Poi come se
avessero liberato i demoni dell’inferno i due cavalieri si gettarono uno contro l’altro con la lancia in resta. Le
armature lanciavano bagliori sotto i raggi del sole, i cavalli alzavano nuvole di polvere con i loro possenti zoccoli.
Poi un fragore di legno in frantumi contro il duro ferro delle corazze. Entrambi i cavalieri sobbalzarono sulle loro
selle cercando di ritrovare l’equilibrio perduto. Entrambi riuscirono a raggiungere a cavallo le estremità opposte
del campo per iniziare un nuovo assalto, ma il mio signore, il cavaliere che ebbi l’onore di servire, perse
l’equilibrio e cadde a terra esanime. Un pezzo della lancia avversaria aveva trapassato l’armatura colpendolo a
morte. Nessun grido di gioia si levò dagli spalti. I popolani, delusi dalla velocità con cui si era svolto lo
spettacolo, tornarono alle loro case, mentre le dame abbandonavano velocemente gli spalti per non vedere il
triste spettacolo della rimozione del corpo di Ottone. Subito il conte diede l’ordine di portare il defunto nella sua
tenda per essere ricomposto per le esequie. Io seguii il triste corteo fino alla sua tenda dove diedi seguito alle
sue ultime volontà. Con la sua sconfitta aveva definitivamente perso titoli e proprietà, ma lui voleva esser
sepolto nella tomba che si era fatto preparare. Chiesi di poter parlare con Amedeo per ottenere il suo consenso
alla tumulazione, ma non ce ne fu alcun bisogno perché venni raggiunto quasi subito da un suo armigero che mi
consegnò una lettera in cui mi autorizzava a seppellirlo nella sua tomba a condizione, però, che dalla sue statua
venissero staccate le mani essendo Ottone morto durante un Iudicium Dei che confermava agli occhi di tutti la
sua colpevolezza.
Travolto dall’onda dei ricordi caddi addormentato sul pavimento dove all’alba mi trovò Martino preoccupato
perché non mi aveva visto rientrare nella mia cella.
Per diversi giorni evitai lo sguardo di quell’uomo ed ogni suo contatto. Con mille scuse evitavo di recarmi
all’ospedale e trovavo qualsiasi scusa per uscire dal monastero. Quando il cacciatore lasciò il monastero, per me
fu una grande gioia. Ma i ricordi affioravano continuamente nella mia testa ed in ogni istante della giornata
sentivo la voce di Ottone che mi chiedeva di mantenere fede al giuramento. Avevo la sensazione che il ciondolo,
per ogni giorno passato fuggendo dal mio giuramento, si stringesse sempre più attorno al mio collo. Ripresi
comunque la mia attività al di fuori del monastero sempre seguito dal mio apprendista Martino che giorno dopo
giorno diventava sempre più sicuro nell’arte della farmacia.
Passò la primavera e l’estate, ma all’inizio dell’autunno il fantasma di Ottone tornò con prepotenza nella mia
vita.
Era una calda mattina di ottobre quando attraversai da solo un fitto bosco di castani da cui pendevano i ricci
che custodivano il prezioso frutto, dono della misericordia di nostro Signore. Ero perso nella contemplazione
della bellezza del creato quando sentii dei lamenti provenire da dietro un fitto cespuglio di rovi. Sembrava che
un uomo stesse chiedendo aiuto. Raccolsi un grosso ramo da terra da usare come bastone, nel caso invece di un
uomo dentro il cespuglio avessi trovato un animale da cui difendermi, e piano piano mi avvicinai alla fonte del
lamento. Spostati alcuni rami pieni di spine scorsi una figura che riconobbi immediatamente; era il cacciatore
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dal quale stavo fuggendo. Il mio sguardo incrociò il suo; sembrava che mi stesse aspettando da una vita. Non
sopportando il suo sguardo girai la testa per capire come mai l’uomo stesse chiedendo aiuto: era stato colpito
alla schiena da una freccia. L’uomo aveva cercato di strapparla via dalla carne, ma invano.
Conscio della sua prossima fine mi chiese di avvicinarmi a lui; voleva parlare ma la voce era fioca come le sue
ultime forze. Mi disse che ormai era spacciato; avrebbe pagato per i suoi grandi peccati, ma voleva che l’aiutassi
a riparare al male fatto in modo da evitare le fiamme dell’inferno sperando nella misericordia divina.
Lasciai per terra la mia borsa e mi avvicinai al suo viso. Con le poche forze rimaste mi raccontò la sua vita non
tralasciando i dettagli più crudeli.
Mi disse che prima di fare il cacciatore di frodo era stato uno sgherro di un potente signore della Savoia che
parteggiava per Madame la Juene, o meglio, per suo fratello. Era incaricato di spiare la corte dei Savoia per
favorire, anche con il tradimento e la corruzione, il partito favorevole al duca di Berry. Durante il suo soggiorno
presso la corte aveva scoperto che il giovane conte aveva creato attorno a sé molto malumore e molti nemici
mangiavano alla sua tavola, a cominciare da suo cugino, il Principe di Piemonte, che voleva prendere il suo
posto, e dalla madre, Madame la grand, che non voleva rinunciare al suo potere a favore del figlio. La stessa
moglie, Madame la juene, dissimulava il suo profondo odio nei confronti del conte per le continue avventure
galanti di suo marito che avvenivano alla luce del sole infangando il suo onore e quello della sua famiglia.
Suo compito era quello di far credere al conte, tramite la sua più stretta cerchia di collaboratori oportunamente
corrotta dai soldi del suo signore, che la sua vita fosse minacciata dal cugino piemontese e dai nobili a lui fedeli.
In realtà doveva agire affinchè a corte venisse favorito dal conte il partito fedele al Duca di Berry, feudatario del
suo signore, in modo che con un piccolo aiuto la futura vedova ereditasse i feudi del marito per poi consegnarli
al fratello. Il tempo passava però senza grandi risultati anche perché il Cavaliere di Grandson, da sempre fedele
al conte ed a sua madre, Madame la grand, creava una sorta di barriera attorno al conte proteggendolo da
questi complotti che avvenivano nel silenzio.
L’occasione gli venne fornita in occasione di una battuta di caccia che si tenne in primavera presso la città di
Ivrea. Il conte durante un inseguimento ad un cinghiale cadde da cavallo ferendosi ad una spalla. Il primo a
soccorrerlo fu proprio il Grandson il quale scendendo da cavallo sguainò la sua spada probabilmente per
difendere il ferito in caso di ritorno dell’animale. Ben presto vennero in suo soccorso anche gli altri nobili del
seguito. Portato al castello, venne immediatamente curato, ma grazie ai soldi che lo sgherro diede ad alcuni
camerieri affinchè facessero circolare alcune voci, riuscì a convincerlo che il cavaliere aveva volontariamente
provocato la sua caduta per poi colpirlo a morte e solo grazie all’intervento degli altri nobili non aveva portato a
termine il piano per ucciderlo. Riuscì anche a instillare il dubbio nella cerchia dei suoi fedelissimi che dietro il
fallito attentato ci fosse la mano del cugino torinese il quale aveva sperato, uccidendolo, di prendere il controllo
del giovane erede condividendo il potere con Madame la grand. Finalmente si aprì una crepa nel cordone
protettivo del giovane conte il quale appena rimessosi in salute decise di trasferirsi nel castello di Chambery
dove si sentiva più al sicuro.
Con l’arrivo della stagione della caccia il conte si trasferì nel castello di Ripaille; ad inizio ottobre partecipò ad
una battuta di caccia con Giovanni d’Avanchier de la Coste, su amico, presso la foresta di Moyez. Poteva essere
una buona occasione per portare a termine l’incarico; in questo modo avrebbe ricevuto quanto promessogli per
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poi fuggire a Venezia per iniziare una nuova vita al servizio della Serenissima sempre desiderosa di abili agenti
disposti a tutto.
Da lontano lo sgherro seguì il conte ed il suo gruppo. Non fu facile seguirli per quei boschi fitti di vegetazione.
Poi all’improvviso sentì suonare un corno. Finalmente avevano trovato la selvaggina. Era un grosso cinghiale
che disperatamente cercava di fuggire dai cani e dai cacciatori. Essendo abituato a muoversi senza essere visto,
riuscì a precedere la bestia per farla andare verso una zona priva di vie di fuga; l’animale, sentendosi in
trappola, anziché aspettare il colpo fatale puntò dritto verso il cavallo del conte che si stava preparando a
scoccare la freccia. Il cavallo spaventato s’impennò improvvisamente sbilanciando il conte che nella sua caduta
si trascinò dietro il pesante cavallo. Prontamente soccorso dai compagni, venne liberato dal peso dell’animale;
da lontano riuscì a vedere che il conte perdeva molto sangue dalla coscia destra. II sangue venne fermato grazie
ad una fasciatura provvisoria; poi il ferito venne rimesso a fatica sul suo cavallo e scortato fino al castello dove
venne visitato dal medico di corte, il Besuchi, che inviò immediatamente a Thonon alcuni uomini affinchè gli
procurassero le medicine di cui aveva bisogno. Passavano i giorni, ma la salute del conte non migliorava così
come la ferita non si rimarginava. Il suo volto era sempre più pallido tanto che a corte si diffuse la voce di un
avvelenamento; lo stesso Besuchi decise di far bere il malato solo in brocche e bicchieri realizzati con bolo
armeno per proteggerlo da ulteriori avvelenamenti e la stessa madre Bona fece arrivare da Chambery il suo
prezioso unicorno che immergeva nell’acqua che il figlio beveva.
A questo punto il cacciatore perse i sensi; ma io ero troppo interessato a conoscere i fatti e quindi presi dalla mia
borsa alcune erbe che riuscirono a rianimarlo. Con maggior fatica il moribondo continuò il suo racconto.
La malattia del conte allarmò anche il re di Francia; doveva garantire che in caso di morte del giovane conte le
redini del feudo passassero nelle mani della sorella, Madame la grand, in modo da controllare il prezioso
passaggio attraverso le montagne. Non poteva permettersi di perdere all’improvviso una pedina così
importante. Per questo motivo non esitò ad inviare, su richiesta della sorella, il suo medico personale, Giovanni
di Grandville, un medico boemo che aveva studiato medicina a Padova. Sembrava che la fortuna fosse dalla
parte dei fedeli del duca di Berry; in caso di morte del conte sarebbe stato facile incolpare il medico straniero e
quindi eliminare in un solo colpo dal consiglio di reggenza del giovane erede sia Madame la grand che il suo
scomodo fratello Luigi a vantaggio della moglie Bona e soprattutto di suo fratello, il Duca di Berry. Parlando con
alcuni valletti di corte e grazie al vino che offrivo loro a fiumi, riuscì a far circolare la voce che il nuovo medico
avesse ricevuto ordini segreti dal re di Francia per consentire alla sorella di continuare a governare nell’interesse
del fratello e non del legittimo erede. A corte il clima di sospetto cresceva tanto che con l’avanzare della
malattia il castello venne chiuso agli estranei, ma lo sgherro era comunque riuscito a crearsi una rete di
informatori che lo tenevano aggiornato su quanto stava succedendo all’interno delle mura che proteggevano il
povero conte dai pericoli.
Ci fu un momento di silenzio e poi il moribondo riprese la sua confessione
Le notizie che arrivavano dal castello erano terrificanti: infatti venne informato con dettagli raccapriccianti in
merito allo stato di salute del conte. Mi raccontò che il malato non riusciva ad aprire la bocca né per parlare che
per mangiare. Poi la lingua e la pancia diventarono sempre più gonfie, segno evidente dell’assunzione di un
potente veleno. Ormai a corte tutti avevano paura a mangiare o a bere. Il panico si stava diffondendo
rapidamente e molti nobili con varie scuse riuscirono ad allontanarsi dal castello. Anche il cavaliere di Grandson
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fu uno di quelli che abbandonarono il castello per tornare nei suoi feudi. Solo i più fedeli restarono accanto al
malato. Verso la fine di ottobre la situazione precipitò: il conte era afflitto da dolori terribili soprattutto alla nuca
e da forti e frequenti crisi spasmodiche. Verso la fine dell’agonia il malato ebbe la schiena talmente arcuata che
per poter riposare alcuni dei suoi servitori furono costretti a sedersi sul suo ventre per fargli assumere una
posizione normale. Il cacciatore mi disse che anche i medici che assistevano impotenti erano sconcertati dagli
effetti di questo veleno; mai avevano visto una cosa simile. Era appena iniziato novembre quando il giovane
conte morì. Venne subito sepolto a Ripaille mentre il giovane erede venne preso dalla nonna che lo portò con sé
a Chambery. Fu nominato un consiglio di reggenza presieduto da Madame la grand che escluse del tutto la
madre Bona. In questo clima di incertezza e di sospetto fu gioco facile far circolare varie voci. Tutti erano
sospettabili; dalla madre che voleva continuare a regnare, prima in nome del figlio ed adesso del nipote, dalla
moglie che si diceva fosse furiosa con il marito a causa dei suoi continui tradimenti al suo cugino, il Principe di
Piemonte, che con il controllo dell’erede mirava a controllare la Savoia.
Ormai tutti sapevano che il conte era stato avvelenato e la fuga di Giovanni di Grandville non fece che
confermare i sospetti su Madame la grand e su suo fratello Luigi. Il medico boemo, sentendosi accusato
dell’avvelenamento e temendo per la sua vita, decise di abbandonare la Savoia per la Francia attraversando ii
feudi del Grandson che non si preoccupò di fermarlo; solo quando entrò nei territori del Duca di Berry si riuscì a
catturarlo. II fuggiasco venne rinchiuso nel castello di Usson in attesa che lo stesso duca arrivasse per assistere
al suo interrogatorio. Il suo compito in quel momento consisteva solo nel riferire al suo signore quanto avveniva
a Chambery e così fece. Nel frattempo il medico venne sottoposto ai primi interrogatori, ma siccome non
confessava fu oggetto delle cure del miglior carceriere del duca che prima con la corda e poi con il cavalletto
riuscì a farlo confessare. Questi accusò il Cavaliere di Grandosn di averlo corrotto su ordine di Madame la grand
affinchè somministrasse il più potente dei veleni al figlio che stava per privarla del suo potere.
Di fronte a queste rivelazioni capii finalmente il perché all’improvviso e senza alcun preparativo il mio signore mi
comunicò di prepararmi per un viaggio in Inghilterra dicendomi di preparare un bagaglio leggero. Viaggiammo
infatti veloci come il vento portando con noi solo monete, gioielli e documenti e lasciando nel castello tutto il
resto. Il mio signore galoppava senza sosta fermandosi solo per mangiare e per far riposare i cavalli. Io avevo
sempre pensato che avesse ricevuto ordini particolari e segreti da parte di Madame la grand al fine di assicurare
la successione dell’erede ma evidentemente mi sbagliavo. Non potevo però credere che il mio signore fosse
coinvolto nell’avvelenamento e quindi dissi al moribondo che stava mentendo. Questi mi chiese dell’acqua e poi
continuò il suo racconto. Io lo ascoltavo sempre più incredulo. Non potevo immaginare che la malvagità umana
potesse raggiungere livelli simili.
Mi disse che quando il Principe di Piemonte incontrò un messaggero proveniente da Usson si chiuse nella sua
stanza per un giorno intero. Poi alla sera incontrò Bona di Borbone con la quale si intrattenne per molte ore in
una camera secondaria del castello lontano da orecchie indiscrete. Il giorno seguente Bona di Borbone ed il
Principe di Piemonte istituirono un tribunale con l’intento di giudicare i colpevoli dell’avvelenamento del giovane
conte. I giudici si misero immediatamente all’opera interrogando chiunque avesse avuto contatti con i
sospettati. Durante il processo vennero prodotte testimonianze e documenti ed alla fine i giudici condannarono
a morte il cavaliere di Grandson confiscandone i beni ed al carcere a vita Giovanni di Grandville. Occorreva però
allontanare anche il pericolo di avvelenamento dal giovanissimo erede e quindi lo stesso Principe di Piemonte,
basandosi solo sul sospetto che fosse stata la stessa madre ad ordinare ad Ottone di avvelenare il figlio, la
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estromise dal consiglio di reggenza mandandola in esilio. Ma ben preso il Principe si accorse del grave errore
che aveva fatto; esiliando Madame la grand aveva consegnato il feudo al duca di Berry. Non potendolo
accettare l’errore, in qualità di capo della commissione d’inchiesta, decise di riaprire il processo. Venne
nuovamente interrogato il medico che con la promessa della libertà ritrattò tutto quanto. Disse che in realtà
aveva curato il conte per prevenire le calvizie e per fornirgli una medicina che ne aumentasse la prestanza
sessuale per garantire un nuovo erede alla sua casata. Confermò poi che la ferita alla gamba non era così grave
da provocarne la morte e senza nemmeno ricorrere alla tortura dichiarò che secondo il suo parere la causa della
morte del conte era sicuramente il veleno. Scagionò Madame la grand accusando del complotto solo il Cavaliere
di Grandson, come suggerito dal Principe, che avrebbe corrotto lo speziale di corte, un certo Pietro di Lompnes,
affinchè mischiasse del veleno insieme alle erbe che gli aveva chiesto di preparare per vendicarsi di uno sgarbo
che aveva subito tempo prima dal conte. Immediatamente lo speziale venne prelevato dalla sua bottega; non
bastarono le disperate urla della figlia a salvarlo dai suoi carnefici.
Mai situazione fu più confusa.
Il mio signore, preoccupato, mi chiese di vigilare affinchè lo speziale anche sotto tortura non facesse mai il nome
di Madame la jeune, magari spinto dagli stessi giudici, perché il fratello stava segretamente trattando per il suo
nuovo matrimonio con un potente feudatario e non voleva avere intoppi. In tutti i modi lo sgherro cercò di
entrare nel carcere dove era rinchiuso, ma invano. Mi disse che la stessa figlia non riusciva ad incontrare il
padre. Ma l’anziano speziale nonostante l’età non cedeva di fronte ai suoi giudici che dovevano trovare un
colpevole al più presto per riabilitare i membri più influenti della corte. I giudici decisero quindi di sottoporre il
prigioniero ai tormenta. Dapprima venne portato nella sala dove erano conservati gli attrezzi e le macchine per
la tortura. Il poveretto venne fatto sedere su di uno sgabello da dove assistette impotente alla territio verbalis a
cui lo sottoposero i giudici. Non ottenendo alcuna confessione lo sottoposero alla territio realis dove uno dei
giudici gli illustrò con dovizia di particolari ogni strumento di tortura non tralasciando i dettagli sulle sofferenze
inferte. Ma l’anziano non cedette nemmeno di fronte a questa prospettiva. Per diverse settimane il poveretto
venne sottoposto a tortura. Dapprima la corda, poi la scottatura effettuata con spade scaldate sulla brace ed
appoggiate incandescenti sulla pianta del piede. Nemmeno il cavalletto lo piegò. Alla fine di ogni supplizio il
poveretto veniva buttato nella sua cella priva di finestre e con poca paglia su cui dormire, ma questo
trattamento non lo piegava. Fu allora che gli venne un’idea diabolica; sapendo che anche ai carcerati sottoposti
a tortura non veniva mai negata l’assistenza spirituale, si travestì da frate, rubando il saio ad un domenicano
che con una scusa aveva fatto venire in una casa fuori mano, e si recò alla prigione dove le guardie lo fecero
entrare senza difficoltà. Qui riuscì a incontrare il povero speziale; piangendo gli giurò di essere innocente e di
voler solo tornare a casa da sua figlia. Era quello che voleva sentire. Spinto dall’avidità della ricompensa, si
trasformò nel serpente che tentò Eva. Gli disse che doveva confessare la sua colpa per sperare di salvare la sua
anima e soprattutto sua figlia. All’udire quella parola il poveretto lanciò un disperato grido. Gli giurò piangendo
che sua figlia era innocente, che dovevano lasciarla stare. Lo pregò di proteggerla e di accompagnarla di
nascosto da alcuni suoi parenti presso il villaggio di Saint-Pierre-d’Albigny, ai piedi del castello di Miolans.
Senza avere un goccio di pietà fece credere al poveretto che sua figlia era stata arrestata con l’accusa di essere
una fattucchiera e che a breve sarebbe stata sottoposta al giudizio del tribunale dell’inquisizione. Il poveretto
cadde sul suo misero giaciglio; con la promessa che se avesse confessato avrebbe avuto salva la sua anima ed
avrebbe salvato sua figlia dal rogo, il poveretto, urlando, chiese al suo carceriere di poter parlare con i giudici.
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Non potendo farsi trovare nella cella con lui per paura di esser scoperto, con una scusa lo lasciò al suo destino. Il
poveretto venne condannato al patibolo sapendo di essere innocente ma con la sicurezza di aver salvato sua
figlia.
Di fronte a questa crudeltà il mio cuore cedette e dal viso iniziarono a colare alcune lacrime; il racconto di
quell’uomo mi aveva sconvolto. Volevo solo abbandonarlo al suo destino affinchè pagasse per tutti i suoi crimini.
Lasciai la sua mano e mi alzai, ma il poveretto mi chiese di aspettare perché la sua anima era piena di peccati
che lui voleva confessare prima di morire.
Mi disse che prima di abbandonare la città volle assistere al supplizio del poveretto. Il condannato venne legato
alla coda di un asilo che venne fatto sfilare per le vie della città; l’immagine del poveretto che sfinito cadeva più
e più volte lungo le vie ancora lo tormentava nelle sue notti insonni. Mi raccontò del suo atteggiamento
dignitoso nel salire i pochi gradini che lo portavano al patibolo dove il boia lo stava aspettando con la sua
lucente spada. In breve la sua testa venne spiccata. Il suo corpo, invece, venne legato per se estremità a quattro
muscolosi cavalli che in breve ne straziarono le membra che poi vennero mandati ai confini del feudo quale
monito per i traditori. Mi raccontò che abbandonò la città sconvolto perché si era reso conto di aver commesso
un grave peccato facendo condannare un innocente; per dimenticare passò da una locanda all’altra bevendo e
giacendo con diverse donne, ma il rimorso non lo abbandonava. Decise quindi di chiedere al suo signore la
ricompensa per abbandonare quei luoghi che ad ogni passo gli ricordavano i suoi crimini. Avuta finalmente
quanto pattuito, si recò a Venezia dove passò diversi anni al servizio di alcuni nobili spiando, intimidendo e
qualche volta partecipando ad affogamenti , sfruttando i tanti canali della città, di gente che non piaceva ai suoi
padroni. Il ricordo dei suoi misfatti era cancellato dalla vita dissoluta che viveva insieme ai suoi compagni.
Ma ben presto il passato lo riportò in Savoia. A Venezia, infatti, era stato coinvolto nell’assassinio di un giovane
appartenente ad una potente famiglia veneta. Il giovane amava giocare ed aveva perso molto denaro; lui
doveva solo minacciarlo, spaventarlo, ma la reazione del giovane lo sorprese e quindi per difendersi dovette
ucciderlo abbandonando poi il suo corpo in un canale. Per evitare il patibolo abbandonò precipitosamente
Venezia per cercare rifugio presso la corte del suo signore. Questi lo accolse nuovamente tra i suoi sgherri e gli
affidò un nuovo incarico. In quel periodo, infatti, erano successe alcune cose che avevano riaperto il processo
per avvelenamento del conte. Quasi contemporaneamente il medico boemo ed il confessore del conte, padre
Franezon, avevano scagionato dall’accusa di avvelenamento il povero speziale di corte. Lo stesso Franezon,
aveva trascritto su di una pergamena, che consegnò ai giudici, la confessione del povero speziale che pochi
istanti prima di andare al patibolo aveva professato la sua innocenza raccontando nei particolari cosa era
accaduto e come aveva agito. Evidentemente le prove dovettero essere consistenti se la memoria del poveretto
venne riabilitata ed il suo corpo venne ricomposto e seppellito in terra consacrata.
Bisognava però trovare un colpevole; il mio signore mi comandò di trovare un agnello sacrificale facendo in
modo che il sospetto ricadesse sul Principe di Piemonte che si era rifiutato di affidargli un incarico a corte viste le
sue simpatie per il partito del duca di Berry. Non poteva cancellare l’offesa con una guerra in cui sarebbe
sicuramente risultato perdente, ma voleva comunque fargliela pagare. Lo sgherro passò quindi alcuni giorni in
una locanda alle porte di Chambery in attesa di trovare la persona giusta. Parlava ed offriva da bere ad ogni
viandante per conoscerne le vicende ed il luogo d’origine.
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Una sera arrivò alla locanda un giovane; lo sgherro ne approfittò per carpire la sua storia e tra un bicchiere di
vino ed una zuppa di cipolle riuscì a scoprire che quel giovane, rimasto orfano, aveva abbandonato un piccolo
villaggio nei pressi della città di Pinerolo per raggiungere dei suoi lontani parenti che lavoravano tessuti in città.
Mi disse che quella giovane vittima innocente si chiamava Bernardo. Approfittando del sonno causato dai
bicchieri di vino, infilò nella bisaccia del giovane un sacchetto di pelle contenente delle pietre di un rosso
sgargiante. Quindi, lasciando del denaro sul tavolo per pagare l’oste, lasciò la locanda per andare a riferire al
suo signore il quale, tramite le sue amicizie, organizzò l’imboscata al giovane.
Questo poveretto, ripresosi dall’ubriacatura, si avviò tranquillo alla porta di accesso alla città ignaro del destino
che lo attendeva. I soldati, avvertiti, perquisivano chiunque volesse entrare controllando anche negli angoli più
nascosti carri e merci. Il giovane che aveva fretta di entrare sorpassò tutte le persone ed i carri in attesa e così
facendo attirò l’attenzione di un soldato che fermatolo iniziò a frugare nella sua bisaccia. Trovato il sacchetto
con lo strano contenuto, il giovane venne immediatamente arrestato e portato davanti al sergente che
comandava quel gruppo di soldati. Il ragazzo giurò di non aver mai visto prima quel sacchetto e di non
conoscerne il contenuto. Accusò la persona che aveva incontrato la sera prima in una locanda, ma non sapeva il
suo nome né tantomeno descriverlo. Venne portato nelle prigioni mentre il sergente si recò alla locanda per
verificare la storia del giovane, ma l’oste, che non voleva avere guai, negò di aver visto un uomo in compagnia
del ragazzo. Fu la sua condanna. Davanti ai giudici professò la sua innocenza, ma poi sotto gli effetti della
tortura a cui i giudici lo sottoposero confessò non solo di trasportato il veleno, ma addirittura di averlo egli
stesso somministrato al povero conte offrendogli della frutta in occasione di una sua battuta di caccia. Confessò
inoltre di aver ricevuto il veleno da uno sconosciuto nei pressi del castel novo a Pignerol, palazzo di proprietà dei
Principi d’Acaja. Con la confessione il povero ragazzo perse la testa sul patibolo, mentre il suo padrone ottenne
la tanto bramata vendetta, poiché a seguito di quella confessione i Principi di Piemonte furono costretti a
tornarsene nei loro possedimenti.
Io rimasi pietrificato di fronte a quella rivelazione. Mai avrei immaginato che un uomo potesse arrivare a tanto.
Dentro di me lo spirito si ribellava. Le mani volevano afferrare una pietra per uccidere quel peccatore che non
solo aveva dannato per sempre la sua anima, ma aveva causato la morte di tanti innocenti e costretto il mio
signore a morire per difendere il suo onore. Ma un rivolo di sangue uscendo dalla bocca del moribondo mi fece
desistere dai miei propositi. Ormai mancava poco per quel peccatore; avrebbe risposto dei suoi peccati davanti
al Sommo Giudice. Credevo che mi chiedesse di assolverlo dai suoi peccati, invece mi chiese di finire un’opera
che avrebbe voluto portare a termine se non fosse stato scoperto dai guardaboschi del feudatario proprietario
del bosco. Mi disse di recarmi nella sua casa appena fuori dal paese e di recuperare un sacchetto pieno di
monete ottenute con il suo lavoro di cacciatore di frodo. Mi disse che l’aveva nascosto sotto una tavola di legno
del pavimento. Dovevo appoggiare le spalle al camino e contare cinque passi quindi spostarmi a destra di due
tavole. Avrei visto una piccola incisione che indicava quale asse sollevare. Mi chiese di consegnare il sacchetto
alla figlia dello speziale di Chambery come riparazione per il male che aveva fatto a suo padre. Voleva che
spiegassi alla donna i motivi del suo agire implorandone il perdono. Non fece in tempo a finire la supplica che il
suo capo si piegò all’indietro lasciandomi improvvisamente solo in mezzo alla boscaglia.
Il rumore prodotto dal latrare di cani sempre più vicini mi fece sobbalzare.
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Presi la mia bisaccia ed a passo svelto mi incamminai verso il villaggio. Lungo il sentiero cercavo un motivo per
non esaudire la richiesta del moribondo, ma senza accorgermene alla fine mi trovai davanti ad una misera casa
in pietra con il tetto in paglia. La porta di legno sgangherata era socchiusa. Come guidato da una forza
misteriosa, mi avvicinai ad una finestra da dove osservai l’interno. Non vidi nessuno e quindi decisi di entrare.
Ovunque regnava disordine. La casa era costituita da un unico ambiente che fungeva da cucina e da camera da
letto. Nel camino appesa ad una barra di ferro pendeva una pentola di rame ormai consumata dal quale
proveniva l’odore di una zuppa andata a male. Decisi di verificare se il moribondo aveva detto la verità o aveva
mentito un’altra volta. Appoggia la schiena al camino e poi feci cinque passi in avanti. Quindi contai due assi a
destra. Abbassai lo sguardo, ma non vidi i segni di cui l’uomo mi aveva parlato. Spostai la polvere che giaceva
sul pavimento con il piede, ma non vidi nulla. Prima di andarmene decisi di chinarmi sul pavimento e con le mani
cercai il segno. Dopo poco le mie dita sentirono qualcosa e, dopo aver tolto un po’ di terra, trovai l’intaglio.
Provai a sollevare la tavola con le dita, ma questa opponeva troppa resistenza. Mi guardai intorno e vidi sul
tavolo un coltello che usai per far cedere la tavola di legno. Misi le mani nello spazio vuoto e trovai un sacchetto
di pelle. Dopo averlo prelevato, lo posai sul tavolo e aprendolo scorsi molte monete di varia provenienza. Avevo
poco tempo; decisi di prendere il sacchetto e di portarlo al monastero; al sicuro nella mia cella avrei deciso cosa
fare.
Dovetti faticare non poco per convincere Martino che tutto andava bene e che il mio strano comportamento
fosse dovuto solo alla stanchezza ed alla voglia di tornare in Piemonte nel mio monastero. In realtà la mia
anima era tormentata ed agitata da opposti sentimenti. Pietà verso il moribondo, senso di giustizia nel voler
riscattare le vittime di quella diabolica macchinazione, desiderio di vendicare il mio signore raccontando a tutti
la verità. Ma come raccontare la verità, ammesso che quella del moribondo fosse la verità, senza documenti o
prove? Avrei dovuto sottopormi ad un Iudicium Dei come il mio signore?
Intanto trascorrevano i giorni, le settimane ed i mesi senza che trovassi una soluzione al mio tormento. Passavo
intere nottate immerso nella preghiera ed intensificavo il mio lavoro tra i malati dei villeggi vicini, ma il mio
tormento non diminuiva. Il fuoco che divorava la mia anima aumentava ogni giorno di più.
Con l’arrivo dei bucaneve decisi di chiedere all’abate il permesso di ritornare all’abbazia di San Michele; avevo
bisogno di riposo e di quella pace che avrei trovato solo tra i miei monti. L’abate, che era a conoscenza del mio
malessere, decise di lasciarmi partire. Mi chiese però di portare con me Martino affinchè potesse completare la
sua formazione religiosa e diventare finalmente monaco. Quando diedi la notizia al ragazzo e, questi fu ben
contento di seguirmi. Passammo un’intera settimana ad organizzare la partenza. Preparammo il nostro
bagaglio e un piccolo bauletto in cui riposi con cura i semi di alcune piante a me utili e dei vasetti in terracotta
con le erbe che avrebbero potuto servire durante il viaggio. La borsa con il denaro del cacciatore la nascosi
invece sotto la tonaca.
Partimmo all’alba di un giorno di tarda primavera; con noi portavamo un mulo carico dei nostri pochi bagagli e
delle provviste necessarie per raggiungere Chambery. Passammo per il borgo di Gap e poi proseguimmo nel
Delfinato dove notai un certo nervosismo di Martino, ma non volli approfondire i motivi del suo malessere. Solo
quando ci lasciammo alle spalle Grenoble per costeggiare le montagne di Chamechande ed il monte Granier, il
nervosismo del giovane scomparve all’improvviso.
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Una sera davanti al piccolo fuoco che avevamo acceso per cenare decisi di chiedere al giovane i motivi del suo
nervosismo. Non fu facile strappargli le parole dalla bocca. Era come se un macigno schiacciasse la sua anima.
Poi con gli occhi lucidi mi raccontò la sua storia. Era figlio di un guardaboschi al servizio di un feudatario del
Delfinato. Un giorno passeggiando per i boschi vide un gruppo di giovani ragazze e si fermò a parlare con loro.
Anche nei giorni seguenti ritrovò il felice gruppetto e ben presto gli incontri divennero quotidiani; ma tra tutte
quelle fanciulle solo una lo colpì nell’anima. Era bella, allegra, dai capelli neri e con gli occhi verdi. Aveva la pelle
bianca come il latte e due labbra rosse come il fuoco. I due giovani con il passare dei giorni iniziarono ad
abbandonare la compagnia del gruppo preferendo passeggiare da soli per i boschi. E nei boschi un giorno li
scorse suo padre mentre mano nella mano avvicinavano le loro giovani labbra una all’altra. Il padre di Martino
non si fece scorgere dai giovani, ma la sera, quando il giovane fece rientro a casa gli ordinò di preparare il suo
bagaglio perché avrebbe dovuto accompagnarlo in un viaggio che doveva fare dalle parti di Marsiglia. Il
mattino seguente il giovane salutando la madre e le sorelle vide dai loro occhi scendere delle lacrime. Pensò che
fossero lacrime di preoccupazione visto che era la prima volta che abbandonava la casa, ma ben presto, lungo la
strada, capì che quelle erano in realtà lacrime di addio. Il padre, infatti, per evitare problemi con il feudatario,
decise di rinchiudere il giovane Martino in un monastero per allontanarlo dalla giovane fanciulla, ma anche per
proteggerlo dalla vendetta del padre della ragazza grazie al vestito che avrebbe indossato. Solo allora capii il
perché dopo tanti anni quel giovane novizio non aveva ancora professato alcun voto. Lo consolai stringendolo
forte come un padre fino a quando sfinito non si coricò sulla terra avvolgendosi nel suo mantello. Io invece
rimasi tutta la notte a pensare; dovevo trovare una soluzione per quel giovane che era stato costretto a seguire
una strada scelta da altri. Al mattino al primo levar del sole ci mettemmo in viaggio ed a tarda serata
raggiungemmo Chambery dove prendemmo alloggio presso la collegiata di Sant’Andrea dove trovavano riposo i
corpi del signori del Delfinato. Dovevamo ancora fare molta strada, ma io volevo fermarmi in città fintantoché
non fossi riuscito ad ottenere informazioni sulla figlia del povero speziale. Trovai varie scuse con Martino; lo
mandai a comprare provviste, a cercare un montanaro che potesse guidarci per i passi alpini, a fare commissioni
inutili mentre io con la scusa di trovare delle spezie necessarie per il monastero passavo di bottega in bottega.
Dicendo di cercare un vecchio speziale che una volta mi aveva procurato spezie dal lontano oriente cercavo di
avere informazioni su dove avrebbe potuto trovarsi la povera figlia. Stavo per perdere le speranze quando uno
speziale mi raccontò la triste storia del povero speziale Pietro. Mi disse che non aveva più notizie di sua figlia da
diversi anni, ma che l’ultima volta l’aveva vista presso il villaggio di Saint-Pierre d’Albigny, proprio sotto il
castello di Miolans dove lavorava come lavandaia. Per nostra fortuna il villaggio era sul nostro percorso e quindi
qualche giorno dopo partimmo alla volta del paese.
Arrivati presso il villaggio di Saint-Pierre d’Albigny proposi a Martino una sosta; di fronte al suo stupore trovai la
scusa di essere indisposto a causa dell’aria di montagna; infatti, mentii, nel mio viaggio verso la Francia avevo
appositamente preso la nave per evitare di soffrire di questi disturbi. Per mia fortuna Martino credette alla mia
giustificazione. Prendemmo alloggio in una piccola locanda posta vicino ad un piccolo canale dove alcune
lavandaie erano solite lavare i panni. Poi con la scusa che i nostri vestiti erano impolverati per il lungo cammino,
chiesi all’oste di indicarmi una lavandaia a cui dare l’incombenza di lavarli. Mi propose alcuni nomi ed io
ovviamente scelsi quella che si chiamava Beatrice. Questo era infatti il nome della figlia dello speziale Pietro.
Il giorno seguente con il cuore che batteva forte mi recai presso la casa di questa lavandaia; mi aprì la porta una
ragazza sui vent’anni, dai capelli corvini e la pelle olivastra. Pensai di aver sbagliato persona perché l’età non
coincideva, ma poi alle sue spalle comparve una donna più anziana che scoprii essere sua madre.
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Gli lasciai i vestiti dicendole che sarei passato dopo alcuni giorni a ritirarli; in realtà speravo che le nuvole
minacciose che circondavano la cima dei monti ci impedissero la partenza per il tempo sufficiente a compiere la
missione che mi aveva affidato il moribondo prima di morire. Nel lasciare la casa notai lo sguardo di Martino e
quello della giovane ragazza, ma per il momento non ci diedi più di tanto peso.
I giorni seguenti, come avevo previsto, furono carichi di pioggia; passammo la maggior parte del tempo nella
locanda allontanandoci solo per raggiungere la piccola chiesa del borgo dove ci dedicammo alle nostre
preghiere. Tornato il sole la lavandaia riuscì a far asciugare i nostri vestiti e verso fine settimana ci raggiunse
alla locanda dove ripresi i vestiti saldammo quanto pattuito. Dopo aver cenato salimmo nella nostra stanza
dove con Martino preparammo il modesto bagaglio per la partenza. Io non riuscivo a prendere sonno
tormentato dal rimorso di non esser riuscito a compiere le ultime volontà del moribondo. Decisi quindi di
scendere per fare una passeggiata quando, aperta la porta, sentii un forte odore di fumo, scesi di corsa le scale
e mi trovai nella sala da pranzo ormai completamente avvolta dalle fiamme. Ritornai al piano superiore dove
svegliai Martino e poi le altre persone che si trovavano nelle varie stanze. Alcune persone, svegliate dal suono
delle campane che avvertivano la gente del pericolo, appoggiarono delle scale di legno alle finestre da dove si
calarono le persone. Martino riuscì a fuggire coperto solo del mantello mentre io scesi per ultimo portando con
me solo una piccola bisaccia contenente le erbe ed i semi che avevo preso nel monastero ed il sacchetto con il
denaro.
Quando mi girai indietro vidi la locanda completamente avvolta dalle fiamme. Con orrore vidi uscire persone
completamente avvolte dalle fiamme. Senza esitare tornai indietro per soccorrere i feriti che vennero portati su
barelle improvvisate all'interno della piccola chiesa con il disappunto dell'anziano parroco. Occupai la sacrestia
della chiesa trasformandola nel mio laboratorio dove grazie all'aiuto di Martino preparammo i primi
medicamenti. Quando i primi raggi del sole rischiararono la notte della locanda non rimanevano che poche travi
carbonizzate ed un cumulo di pietre.
Nei giorni seguenti Martino ed io assistemmo i malati aiutati anche da altre persone tra cui Caterina, la figlia
della lavandaia che aveva gentilmente fornito all povero Martino alcuni indumenti visto che a causa
dell'incendio era rimasto solo in camicia e braghe.
I giorni passavano e molti dei feriti chiudevano tra le sofferenze la loro esistenza; nonostante tutti i miei sfori, le
ferite che avevano riportato nell'incendio erano troppo gravi. Io cercavo di curarli soprattutto nello spirito
sapendo che poco poteva fare la medicina.
Nel frattempo tra Martino e Caterina la complicità aumentava sempre di più tanto che la madre della giovane,
un pomeriggio venne in sacrestia per parlarmi con la scusa di portarmi del bucato pulito per i feriti. Senza giri di
parole mi disse che dovevo proibire al giovane monaco di frequentare sua figlia; un uomo di chiesa non poteva
sedurre una giovane fanciulla per poi abbandonarla appena ottenuto il suo scopo. La feci accomodare su di uno
sgabello vicino ad un grosso tavolo su cui avevo sistemato i vasetti con le mie erbe mentre io mi sedetti su una
sedia posta di fronte a lei. La rassicurai dicendole che Martino non era un monaco ma un giovane venuto nel
monastero per imparare l'arte delle erbe e delle spezie e che non lo sarebbe mai diventato perché la sua
vocazione era quella di stare nel mondo e non in un monastero.
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Ma mentre le parlavo mi accorsi che un velo di tristezza scese sul suo viso; forse quelle erbe e spezie avevano
risvegliato in lei dei tristi ricordi. Ne approfittai per chiederle il perché di quella tristezza, ben conoscendone le
ragioni. La donna era restia ad aprire il suo cuore, ma alla fine, forse cedendo al peso che appesantiva la sua
anima, decise di confidarsi chiedendomi di non rivelare a nessuno quanto mi stava per raccontare. Mi raccontò
che suo padre era uno speziale di corte del conte Amedeo e che per sua sfortuna aveva preparato i
medicamenti che causarono la morte del giovane conte che si era ammalato improvvisamente ed era morto per
avvelenamento a causa di una congiura di palazzo di cui suo padre non sapeva nulla. Tra i singhiozzi mi
raccontò il suo arresto dicendomi che l'ultimo ricordo del vecchio fu il suo sguardo disperato quando venne
legato e preso in custodia dai soldati. Urlò con tutto il fiato che aveva in corpo che era innocente e che dovevo
credergli e poi che mi amava, che ero la sua unica ragione di vita.
Le porsi un bicchiere d'acqua per farla calmare e le proposi di prendere una tisana alla melissa per rilassarsi, ma
lei rifiutò.
Mi disse che dopo l'esecuzione del suo amato padre le venne consegnata una sua lettera; le diceva di essere
innocente e che aveva accettato la sua triste sorte solo per salvarla. Non poteva permetterle che le venisse fatto
del male solo perchè lui non voleva confessare un crimine che non aveva commesso.
Fui io che presi un bicchiere d'acqua che bevvi come se dentro il mio corpo ardesse un fuoco caldissimo. Io
sapevo chi e perchè aveva spinto quell'uomo ad accollarsi una colpa non sua. Avevo bisogna di aria e proposi
alla donna di accompagnarla alla sua casa affinchè si riposasse.
L'accompagnai sorreggendola quando il suo corpo cedeva a causa delle terribili emozioni che aveva vissuto; per
sdebitarsi la donna invitò me e Martino a fermarci per la cena. Non ebbi bisogno di avvisare Martino perchè
questi comparve qualche tempo dopo in compagnia della giovane figlia della lavandaia. Era ormai chiaro che
entrambi i giovani provavano un sentimento puro e vero. Io ero contento perchè non volevo che Martino
scegliesse una strada che non aveva voluto. La cena fu assai semplice, ma il clima che si respirava era allegro e
spensierato. L'amore che stava nascendo tra i due giovani contagiava anche noi. Stavamo per andarcene
quando la donna ci propose di dormire in una stanza attigua alla cucina; era la vecchia stanza coniugale che era
rimasta disabitata dal giorno in cui suo marito era morto. Da quel giorno infatti la donna aveva sempre dormito
nel letto con la figlia.
Quando i due giovani si congedarono, ognuno andando nel proprio letto, la donna mi chiese notizie del giovane.
Io gli raccontai che era originario della Provenza ma sapendo di mentire gli dissi che il giovane, essendo portato
per lo studio, era stato accompagnato dal padre, guardaboschi di un potente feudatario della regione, nel
monastero di Nostra Signora di Ganagobie affinchè potesse dedicarsi allo studio.
Stavo per congedarmi quando la donna mi chiese se ero interessato a vedere le carte di suo padre; magari avrei
trovato qualche ricetta per preparare tisane o unguenti che avrebbero potuto aiutare altra gente. Con
gratitudine accettai l'offerta e mi recai a dormire. Forse non tutte le speranze di riparare ai torti subiti erano
cadute. Con questa convinzione mi stesi nel letto e dormii per tutta la notte, cosa che non avveniva da diverso
tempo.
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Passai i giorni successivi dividendomi tra la chiesa dove assistevo i feriti con l’aiuto di Martino a cui ben presto si
unì anche Caterina e lo studio delle carte del povero speziale. La donna aveva conservato i fogli del padre in un
baule di legno insieme ad alcuni strumenti del suo lavoro. Gli scritti contenevano le istruzioni che i medici
affidavano ai pazienti o allo stesso speziale affinchè preparasse tisane, unguenti o medicamenti, oppure erano
ricette di sua invenzione contro vari dolori. Al fondo del baule trovai pure una serie di fogli rilegati con una
copertina di cuoio che riportavano le spese dell’attività dello speziale divise per acquisti di materiale e per la
vendita dei medicamenti. Passai intere nottate a leggere al lume di candela fogli e fogli di ricette, da quelle che
curavano la stitichezza a quelle che servivano per far ricrescere i capelli o a far passare i dolori della dentizione
ai neonati. Tutte le ricette si ispiravano al Thesaurus pauperum di Pietro Yspanico, opera che avevo avuto modo
di consultare nell’abbazia di San Michele, e che prevedeva per ogni malattia un rimedio semplice da utilizzare
per curarla oltre alle istruzioni per raccogliere e conservare le erbe lungo tutto l’anno.
Non trovando nulla tra i fogli di ricette dedicai la mia attenzione al registro degli acquisti. Sulle pagine ingiallite
erano riportate le sostanze che lo speziale aveva acquistato negli ultimi anni della sua attività. Nell’elenco erano
presenti: olio, vino, aceto, uova, miele, olio rosato, acacia, millefoglio e tasso barbasso per la cura delle
emorroidi, antimonio, biacca, sterco di colombo per la cura delle calvizie, cenere di lucertola usata per far
ricrescere i capelli o di rana piccolina per far cadere i peli. Trovai anche riportato l’acquisto di edera bianca per la
cura dei dolori alla testa o rose bollite per curare il gonfiore degli occhi oltre che alloro, camomilla e altre erbe.
Non trovai alcuna sostanza che potesse essere usata per creare un potente veleno come quello che aveva ucciso
il giovane conte. Rilessi le varie ricette e trovai anche quelle commissionate da Giovanni di Grandville per curare
il conte. Si trattava di un sapone a base d’edera verde, tuorli d’uovo ed infuso di mirra usate per favorire la
ricrescita dei capelli, infusi di avellana cotta nel vino ed unguenti a base di betonica usati per abbassare la
febbre del malato. Approfittando delle assenza della figlia e di Martino ebbi anche modo di parlare con la donna
la quale mi confermò che suo padre non aveva ricevuto visite da sconosciuti in negozio e né ebbe incontri
segreti. Suo padre era vedovo da anni e l’unica sua preoccupazione era accasare la figlia per garantirle un
futuro; mai avrebbe commesso azioni che avrebbero potuto pregiudicare la sua reputazione.
Avendo terminato le ricerche senza alcun risultato decisi di intraprendere il cammino che mi rimaneva; ne diedi
comunicazione a Martino il quale improvvisamente divenne triste e scontroso tanto che un pomeriggio gli
proposi di fare una passeggiata nei boschi con la scusa di cercare alcune erbe che mi sarebbero servite
all’abbazia. Con riluttanza mi seguì nei boschi. Passeggiammo in silenzio ascoltando il canto degli uccelli ed i
passi veloci degli animali che scappavano al nostro passaggio. Ci fermammo in una piccola radura che si apriva
tra alti alberi di noce. Ci sedemmo sul tronco di un albero caduto e mangiammo un po’ del formaggio che mi ero
portato dietro. Quindi chiesi al giovane la ragione del suo improvviso cambio di umore. Martino fece parecchia
resistenza, ma alla fine decise di confidarsi come con un padre, così mi disse. Mi implorò di lasciarlo nel villaggio
perché lui non aveva alcuna intenzione di farsi monaco. Voleva sposare Caterina e per ottenere il suo scopo era
disposto a fare anche il taglialegna. Qualsiasi lavoro e qualsiasi fatica non lo avrebbero di certo scoraggiato.
Finalmente avevo la certezza dei suoi sentimenti. Gli dissi di non preoccuparsi e di confidare in nostro Signore.
Sul far della sera tornammo a casa. La sera parlai con Beatrice, le diedi garanzie sulla serietà del giovane e sulle
sue reali intenzioni. La donna non era contraria al loro matrimonio, ma era dubbiosa su come il giovane, che
non aveva un lavoro, avrebbe potuto mantenere Caterina e i loro figli. Le chiesi di fidarsi di me e di ospitare il
giovane ancora qualche giorno perché io dovevo tornare a Chambery per risolvere alcune questioni che avevo
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lasciato in sospeso. Le chiesi però di non dire nulla a Martino. La mattina seguente al comparire dei primi raggi
del sole partii alla volta della città. Tornai alcuni giorni dopo verso l’ora nona sfinito dalla fatica ma contento per
aver usato il denaro del povero cacciatore sia per riparare ai torti che aveva arrecato alla famiglia dello speziale
che per garantire il futuro ai due giovani. A Chambery avevo infatti usato il denaro per comprare il diploma da
speziale per Martino, che ormai ritenevo pronto per l’esercizio della nostra professione, e con il denaro restante
avevo contrattato l’affitto di una bottega all’ingresso della città praticamente pronta per ospitare una nuova
farmacia. Dopo cena diedi l’annuncio ai due giovani che con le lacrime agli occhi mi abbracciarono e mi
baciarono. Negli occhi della donna, resi duri dagli eventi patiti, vidi gratitudine. Forse sua figlia avrebbe vissuto
una vita migliore della sua grazie alla generosità di uno sconosciuto. Alla sera, al chiarore della luna, garantii
alla donna che tutto era avvenuto onestamente; le raccontai che prima di farmi monacolavoravo come
segretario per un importante feudatario savoiardo ed alla sua morte, prima di entrare in monastero, avevo
dato ad un banco i miei pochi denari affinchè potessero fruttare perché magari un domani mi sarebbero serviti.
La donna credette alle mie parole e si ritirò. Io guardando il cielo stellato pensai al cacciatore e allo speziale;
provai una profonda soddisfazione per il mio operato perché ero certo di essere stato il tramite per mezzo del
quale nostro Signore rendeva giustizia a coloro che, innocenti, avevano sofferto per colpa di altri.
Prima di partire celebrai l’unione di Martino con Caterina e poi caricati i miei pochi bagagli su di una mula partii
alla volta delle montagne. Nonostante fosse inizio settembre riuscii a passare velocemente tra monti e valli
incontrando sul cammino numerosi pellegrini che si recavano a Santiago. Quando finalmente arrivai ai piedi del
monte Pirchiriano fui assalito dai ricordi e da un senso di incertezza. Erano passati ormai molti anni da quando
ero partito e sicuramente tante cose erano cambiate e tanti fratelli non c’erano più. Mi feci coraggio e percorsi
l’irto sentiero che portava all’abbazia. Prima di varcarne il portone mi recai al piccolo cimitero per pregare sulla
tomba del vecchio abate. Poi finalmente rivolsi i miei passi verso il robusto portone in legno dove venni accolto
da un nuovo guardiano. Gli dissi chi ero e che dovevo incontrare il nuovo abate; per tutta risposta il giovane
monaco mi riprese perché era da quasi un mese che aspettavano il mio arrivo e, non vedendomi arrivare,
preoccupati, avevano inviato alcuni messaggeri lungo il percorso per avere mie notizie. Io non risposi ma
salendo il ripido scalone in pietra pensai a come giustificarmi con l’abate.
L’abate mi convocò il giorno seguente e, come avevo previsto, mi chiese conto del viaggio e del perché ero
arrivato da solo. Gli raccontai della disgrazia avvenuta nel villaggio di Saint-Pierre d’Albigny e della richiesta
della gente di assistere i feriti. Gli raccontai anche di Martino e della sua scelta di vivere la vita secolare e non
quella monastica a cui il padre l’aveva obbligato. L’abate volle sapere quale vita avrebbe condotto il giovane ed
io, sapendo di mentire, gli dissi che aveva sposato una brava ragazza figlia di uno speziale che aveva deciso di
prendere come socio il ragazzo vista la sua conoscenza delle erbe e la sua abilità nel preparare i medicamenti.
Venni quindi congedato. Non avendo nulla da fare mi recai in chiesa a pregare; dovevo chiedere perdono a
nostro Signore per aver volutamente travisato la realtà per coprire le mie manovre anche se la mia anima non si
sentiva in colpa sapendo che tutto quello che avevo fatto era a gloria di nostro Signore ed a beneficio di due
anime innocenti che meritavano di vivere la loro vita. Rimasi in chiesa fino all’ora di pranzo e poi venni
nuovamente convocato dall’abate che mi disse che il mio posto in farmacia era stato preso da un altro monaco,
Sebastiano, che aveva accudito il piccolo orto dei semplici ed aveva continuato il mio lavoro di farmacista. Mi
ordinò di affiancare Sebastiano guidandolo con la mia esperienza ed aiutandolo nei suoi lavori. Mi chiese
inoltre, evidentemente informato dall’abate di Ganagobie, di preparare il liquore alle erbe che tanto successo
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aveva avuto di là dalle montagne per garantire al monastero entrate supplementari che avrebbero consentito di
procedere alle riparazioni urgenti del tetto della chiesa. Il lavoro non fu semplice perché non avevo a
disposizione tutte le erbe che avevo trovato nel Delfinato, ma con un po’ di impegno riuscii ad ottenere un
liquore che aveva anche proprietà digestive e che ancora oggi è apprezzato dai pellegrini di passaggio presso la
nostra abbazia oltre che dalla gente dei villaggi vicini.
Anche se il lavoro e la preghiera occupavano la mia vita, un senso di vuoto permaneva nel mio spirito. Avevo sì
aiutato a riparare ai torti subiti da un innocente, ma non avevo vendicato il mio signore che sempre più spesso
affollava i miei sogni chiedendomi di rispettare il giuramento. Sentivo che le forze mi stavano abbandonando ed
un senso di impotenza mi stava lentamente distruggendo. Ormai a causa dell’età il lavoro manuale stava
diventando sempre più faticoso e l’abate decise di esonerarmi da queste incombenze affidandomi la direzione
dello scriptorium dove per passare il tempo mi dedicai alla lettura di alcuni testi di medicina presenti nella
biblioteca dell’abbazia. Ed è grazie ad un libro che credo di aver reso giustizia al mio signore; infatti leggendo il
Viaticum peregrinantis di Costantino Africano scoprii una malattia, già nota ai medici greci, che aveva sintomi
simili a quelli che condussero alla morte il giovane conte. Parlavano di difficoltà ad aprire la bocca, di lingua e
ventre gonfi oltre che di una curvatura innaturale della schiena. Purtroppo tale malattia non aveva alcuna cura
e chi la contraeva non aveva alcuna possibilità di sopravvivere; solo un miracolo avrebbe potuto far guarire il
malato. Non essendo un magister medicinae, però, tenni per me questo segreto. Solo quando tempo dopo
presso la nostra abbazia chiese ospitalità un magister della scuola salernitana che doveva recarsi a Parigi per
insegnare all’università cittadina ebbi la certezza che i sintomi manifestati dal malato potevano essere ricondotti
a questa malattia mortale. Il magister, infatti, mi raccontò di aver avuto esperienza diretta di un paziente, un
fabbro, che prima di morire aveva manifestato sintomi simili. Mi raccontò che tempo prima si era ferito con una
vecchia lama arrugginita e che la ferita non riusciva a rimarginarsi. Per questo andò da lui, ma purtroppo
nessuna cura funzionò ed il poveretto morì tra atroci sofferenze.
Dopo questa rivelazione decisi di mettere per iscritto le conclusioni delle mie ricerche affinchè Vostra Signoria,
nella sua infinita saggezza e magnanimità, possa finalmente rendere giustizia al mio signore, il Cavaliere Ottone
di Grandson che morì per difendere l’onore del suo nome ed il lustro del suo Casato da sempre fedele servitore
della Vostra gloriosa Casa scagionandolo da ogni accusa.
Io attendo fiducioso il giorno del Giudizio sicuro di aver mantenuto fede a tutti i giuramenti fatti e nella certezza
che le preghiere del mio caro Martino potranno accorciare la mia permanenza nel Purgatorio a causa del mio
comportamento, in verità non consono all’abito che indegnamente indosso, consentendomi di giungere alla
gloria di nostro Signore”.
Con questa speranza si chiudeva lo scritto che Niccolò aveva tradotto.
Il giovane ricercatore, orgoglioso del suo lavoro, chiuse il portatile e mentre lo riponeva nella sua valigetta
commentò con un filo di amarezza: “ancora una volta ha vinto la ragion di stato!”.
Racconto di Alberto Benedetto – Anno 2016
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Considerazioni finali
La vicenda narrata è una pura invenzione anche se i fatti che fanno da cornice al racconto sono veramente
accaduti.
Il conte Amedeo VII di Savoia, noto anche come Conte Rosso per la sua abitudine di indossare vestiti di questo
colore, morì infatti a soli 31 anni a seguito delle ferite riportate da una caduta a cavallo occorsa durante una
battuta di caccia.
I sintomi della malattia del conte, che i contemporanei descrissero con dovizia di particolari, per l’epoca
potevano far pensare ad una morte per avvelenamento. Anche la situazione politica che stavano vivendo i suoi
stati poteva portare un contemporaneo a propendere per un avvelenamento anche se oggi gli storici ed i
medici propendono più a ritenere la morte del conte dovuta a cause naturali; la sintomatologia descritta, infatti,
è associabile al tetano, una malattia prodotta da un batterio che si insinua nelle ferite e nei tagli per poi
diffondersi rapidamente all’interno del corpo. Questa malattia era già stata descritta dai medici Greci, ma
all’epoca era incurabile. Solo con gli studi di due medici dell’Università di Torino, Carle e Rattone, venne chiarito
il meccanismo di contagio e di diffusione, mentre solo negli Anni Venti del Novecento venne scoperto, quasi per
caso, il vaccino che avrebbe permesso di curare questa terribile malattia.
Ovviamente i contemporanei non potendo trovare una spiegazione scientifica ad una morte così improvvisa e
violenta, non poterono che pensare ad un complotto ordito da persone che con la morte del conte avrebbero
ricavato ricchezze e potere. Vennero quindi sospettate la moglie Bona che mal sopportava i tradimenti del
marito e la madre Bona che con l’indipendenza del figlio avrebbe perso il diritto di governare i feudi in nome del
figlio. La posta in gioco era notevole poiché chi controllava la Savoia di fatto controllava la via di transito delle
alpi e quindi attorno al processo gravitarono notevoli interessi che via via mutavano al mutare della situazione
politica del tempo.
Purtroppo a fare le spese di questo intrigo “internazionale” furono degli innocenti che pagarono con la vita il
gioco di alleanze e di interessi oltre che l’ignoranza medica del tempo.
Ottone di Grandson, invece, pagò con la vita la sua richiesta di rientrare in possesso dei suoi feudi che confiscati
vennero dati al suo più acerrimo avversario il quale, per tutelare i suoi interessi a discapito del Grandson, pagò
un giovane cavaliere squattrinato affinchè l’affrontasse in una prova del ferro a cui Ottone non sarebbe di certo
sopravvissuto.
Per ironia della sorte, il cavaliere di Grandson morì contravvenendo agli editti di Amedeo VI, noto come Conte
Verde e padre di Amedeo VII, che non credendo nella validità dell’ordalia la vietò in tutti i suoi territori.
Ancora una volta la ragion di stato ebbe la prevalenza su qualsiasi cosa!
Racconto di Alberto Benedetto – Anno 2016
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