Diritto e gestione dei beni culturali

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Diritto e gestione dei beni culturali
Diritto e
gestione
dei beni
culturali
A cura di
Carla Barbati
Marco Cammelli
Girolamo Sciullo
IL MULINO
2011
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CAPITOLO 8 - LA DIMENSIONE
ECONOMICA DEL PATRIMONIO CULTURALE
di Alessandro F. Leon e Valerio Tuccini
8.1. INTRODUZIONE
Il capitolo tratta dei legami tra economia, cultura e diritto e mira a esplorare principalmente due argomenti:
-
le motivazioni alla base dell’intervento pubblico nel settore dei beni e delle attività culturali,
intervento che si esplica attraverso sostegno diretto, sussidi e regolamentazione (vincoli, norme, ecc.);
il processo attraverso cui è possibile, sul piano empirico e applicativo, configurare modelli di gestione
culturale sostenibili e innovativi, pre-condizione fondamentale per identificare un coerente assetto
giuridico, istituzionale e amministrativo.
I primi due paragrafi del capitolo hanno una valenza soprattutto teorica, e spiegano in modo breve e
articolato le radici culturali che hanno prodotto - e producono a tutt’oggi - le basi economiche delle scelte
gestionali relative ai beni e alle attività culturali. I tre successivi hanno una valenza di tipo più applicativo ed
empirico, e si basano sull’esperienza di campo degli ultimi decenni per trarre alcune indicazioni fondamentali a
indirizzare il processo di creazione o riorganizzazione di un’istituzione, anche sotto il profilo dei contenuti
giuridici e degli atti amministrativi conseguenti.
Nel corso degli ultimi anni, a seguito di processi che si cercherà di illustrare di seguito, in parallelo agli studi
nazionali e internazionali mirati sull’economia pubblica e le politiche culturali, si è dato crescente rilievo allo
studio delle dinamiche gestionali e organizzative del patrimonio culturale, nella convinzione che, se da un lato
l’intervento pubblico deve apparire indispensabile e meritorio, dall’altro è possibile individuare formule e
modalità organizzative e funzionali in grado di indirizzare le istituzioni culturali su percorsi di efficienza,
massimizzare l’uso delle risorse pubbliche e garantire l’efficacia delle politiche pubbliche cui sono destinate.
L’evoluzione del quadro normativo nazionale degli ultimi decenni, descritta in maniera approfondita in altre
parti del manuale, ha profondamente modificato proprio e soprattutto gli assetti gestionali e istituzionali del
settore culturale, e questo capitolo mira a evidenziare come gran parte delle logiche che l’hanno guidata abbia
radici e motivazioni di natura economica e come a oggi la convergenza di fattori economici, finanziari,
giuridici e amministrativi, oltre che tecnici e culturali naturalmente, rappresenti un elemento fondamentale
per garantire la sostenibilità, l’efficienza e l’efficacia di una politica culturale.
8.2. ECONOMIA E CULTURA: ALLA RICERCA DI UNA GIUSTIFICAZIONE DELL’INTERVENTO
PUBBLICO
La cultura è un settore relativamente recente di approfondimento per l’analisi economica. I primi studi di una
certa complessità risalgono alla metà degli anni sessanta, ma alcuni economisti classici (Smith A., 1776), già
nel XVIII secolo, avevano evidenziano come l’arte fosse in grado di produrre effetti positivi sugli individui,
senza specificarne ulteriormente la natura dal punto di vista teorico. Nell’economia neoclassica, nel secolo
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successivo, il rapporto tra economia e cultura viene occasionalmente trattato (Marshall A., 1972), in
particolare analizzando le peculiarità del consumo di musica (“più la si ascolta, più la si apprezza”).
Si tratta di un concetto che successivamente verrà esplicitato e modellizzato in maniera articolata dalla
scienza economica: diversamente da qualsiasi bene di mercato, per la musica, come per gran parte dei consumi
culturali, l’utilità marginale (ovvero la soddisfazione generata dal consumo di unità addizionali di un bene)
sembra aumentare al crescere delle quantità assunte.
Anche il padre della macroeconomia moderna, appassionato collezionista d’arte, nei suoi scritti fondamentali
(Keynes J. M., 1936, 341) accenna al ruolo civilizzante della cultura nella società e all’importanza dei sussidi
pubblici a sostegno degli artisti. Keynes, tra l’altro, induce il Ministero delle Finanze inglese ad acquistare
alcune collezioni d’arte e sostiene fortemente la creazione dell’Arts Council (istituzione pubblica di assistenza
agli artisti, di cui diviene primo presidente).
Si tratta di accenni, trattazioni occasionali che tuttavia rivelano fin dall’origine le peculiarità di un settore che
costituirà un ambito di studio e sperimentazione di grande rilievo per molti economisti moderni. A partire
dagli anni sessanta e settanta, quando gli studi assumono maggiore organicità, dando avvio a un nuovo
modello di analisi delle relazioni tra economia e cultura (Throsby D., 1994) che si concentra – inizialmente –
soprattutto sullo studio delle motivazioni e delle forme di intervento del settore pubblico. I più importanti
contributi elaborati dagli economisti in questa fase, di provenienza prevalentemente anglosassone, si
concentrano sulle peculiarità dei processi di produzione e consumo del settore culturale e sui motivi per cui
l’intervento dello Stato risulta necessario.
Per primi, Baumol e Bowen, nel 1966 (Baumol, W e Bowen W., 1966), evidenziano le particolarità del
processo produttivo di uno spettacolo teatrale, nel quale la rigida composizione tra lavoro dell’uomo indispensabile e prevalente - e capitale fisico - secondario rispetto a un prodotto essenzialmente creato grazie
ad attori, musicisti o ballerini - rende teoricamente inattuabile (o poco efficace) l’adozione di innovazioni o
tecnologie dirette a migliorare la produttività del settore (difficile, del resto, ipotizzare di sostituire uno dei
componenti di un quartetto d’archi con una registrazione o con soluzioni tecnologiche alternative). Per questo
motivo, le arti della rappresentazione dal vivo sarebbero costrette a una condizione di perenne disequilibrio
rispetto al resto dei settori produttivi (industriali) nei quali, al contrario, l’innovazione determina increment i
di produttività che consentono un progressivo aumento dei livelli salariali. Nell’ipotesi che i salari degli artisti
debbano adeguarsi ai livelli degli altri settori (e non potrebbe essere altrimenti, condividendo lo stesso sistema
economico), lo spettacolo sarebbe affetto da un inevitabile incremento dei costi di produzione (per questo la
teoria di Baumol e Bowen va sotto il nome di “malattia dei costi”). Questo incremento potrebbe essere
coperto da incrementi dei prezzi degli spettacoli, ma oltre certe soglie di prezzo si rischierebbe una forte
contrazione del pubblico (anche se l’elasticità del consumo culturale rispetto al prezzo, cioè la variazione di
quantità domandata conseguente all’aumento del prezzo del bene, - come molti studi successivi hanno
evidenziato - risulta relativamente bassa). L’intervento pubblico, sotto forma di finanziamento, assume
dunque una funzione di riequilibrio della funzione produttiva fondamentale a garantire la sopravvivenza del
settore dello spettacolo dal vivo.
Il modello di Baumol e Bowen ha nel tempo subito varie critiche, riguardanti l’effettiva validità di alcune
ipotesi di base. Non sempre, secondo alcuni (Peacock, A.T., Shoesmith, E., Millner, G., 1982), i salari del
settore culturale si muoverebbero in analogia con il resto dell’economia (gli stessi autori, in alcune
osservazioni empiriche successive, avevano rilevato una possibile fragilità del modello su questo punto) e non
vi sarebbe convergenza unanime neanche sull’andamento della produttività nei settori progressivi. Altri
(Netzer, D., 1978 e Gapinsky, J.H., 1980) hanno osservato che esistono spazi rilevanti per l’introduzione, in
molte aree della produzione culturale, di innovazioni tecnologiche (per restare allo spettacolo, si pensi a luci,
sipari, scenografie, distribuzione, promozione, ecc.).
In generale, l’applicazione della teoria risulta più immediata ed efficace nel settore dello spettacolo che in
quello dei beni culturali (anche se il fattore lavoro, in attività come il restauro, l’accoglienza, la dida ttica, ecc.,
assume comunque un peso rilevante e difficilmente sostituibile) e soprattutto è teoricamente estendibile a
gran parte delle attività dei servizi (con caratteristiche analoghe in termini di composizione tra capitale e
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lavoro). Non è quindi in grado di offrire una giustificazione specifica in merito alla desiderabilità e
opportunità di sostegno al settore culturale. Su questo tema, molti economisti hanno posto particolare rilievo,
cercando di porre in risalto, piuttosto che le dinamiche produttive, i benefici connessi al consumo di cultura,
con l’obiettivo di giustificare l’intervento pubblico dal punto di vista dell’efficienza economica e della giustizia
distributiva.
Un consistente impianto teorico ha in particolare analizzato il problema dei sussidi al settore culturale
collegandoli al tema dei fallimenti del mercato culturale e artistico. In un regime di mercato concorrenziale, vi
sarebbero fattori in grado di impedire al sistema economico di raggiungere un equilibrio ottimale e la
correzione di tali fattori sarebbe alla base dell’intervento dello Stato.
I motivi di un possibile fallimento del mercato, nel settore culturale, possono essere legati a varie motivazioni:
-
un’inefficiente allocazione delle risorse nel settore;
la presenza di effetti economici non direttamente valutabili in termini monetari (esternalità);
un’insufficiente offerta di beni e attività rispetto alla domanda potenziale;
una domanda quantitativamente non adeguata.
Il paradigma teorico neoclassico postula che l’intervento pubblico si rende necessario, data una certa
distribuzione di reddito, solo in caso di concorrenza imperfetta o fallimenti del mercato, fattori in grado di
generare una divergenza tra valori di mercato e valori sociali. Ipotesi di concorrenza imperfetta, nel settore
culturale, sono state avanzate soprattutto in relazione alla irriproducibilità del patrimonio storico, ma le più
consistenti analisi riguardano la categoria dei fallimenti del mercato. Accanto ai fallimenti del mercato , gli
stessi paradigmi analizzano la possibilità che un distorto intervento pubblico possa arrivare a generare anche
un fallimento dello Stato, ovvero un intervento correttivo più distorsivo rispetto alle condizioni di origine.
Una prima argomentazione a riguardo tratta dell’incertezza e del rischio connessi alle caratteristiche del
mercato culturale. Se si ipotizza che gli individui che compongono una collettività siano tendenzialmente
avversi al rischio, esiste la possibilità che il sistema economico assegni un volume di risorse minore ad attività
- come la produzione culturale – a elevata incertezza e, di conseguenza, che l’allocazione delle risorse possa
non essere ottimale rispetto al rendimento potenziale dell’attività culturale.
Le principali critiche a questo approccio evidenziano la presenza, proprio nel settore culturale, di un basso
tasso di avversione al rischio: sono molti, in effetti, gli artisti che “scommettono” sulle probabilità di successo
della loro attività, in considerazione dell’alto rendimento potenziale (in termini di fama e affermazione) che
potranno ricevere.
Un’altra causa di possibile fallimento del mercato culturale potrebbe essere data dalla presenza di una
domanda opzionale. L’ipotesi di base è che tutti gli individui di una collettività traggono beneficio dal
patrimonio culturale, anche coloro che non manifestano un interesse attuale per il suo uso. A essi, infatti, è
comunque lasciata l’opportunità di esercitarne un consumo futuro (opzionale). Parte dei prodotti culturali, in
quanto riproducibili, non sono però soggetti a vincolo di conservazione (si pensi a dischi, libri, film); la
domanda opzionale può quindi fornire solo una giustificazione parziale al sostegno pubblico.
La presenza di effetti non direttamente valutabili in termini monetari rappresenta un'altra rilevante causa di
fallimento del mercato in grado di giustificare il sostegno pubblico alla cultura. Le esternalità (Stiglitz J.E.,
1993). si verificano quando l’azione (attività di produzione o consumo) di un soggetto determina effetti –
positivi o negativi – che ricadono su altri soggetti, senza che per essi venga corrisposta una compensazione.
Le esternalità connesse al processo di produzione e consumo di cultura potrebbero determinare una divergenza
tra i costi e i benefici percepiti dagli individui e quelli sociali, causando un’errata allocazione delle risorse. Le
esternalità generate dal settore culturale sono di varia natura. Sul fronte della produzione, un’impresa che
opera nel settore culturale può ad esempio contribuire a migliorare l’ambiente produttivo, formando lavoratori
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qualificati che verranno poi impiegati in altre imprese o settori. Lo spettacolo dal vivo, ad esempio,
formando gli attori, fornisce alla produzione cinematografica forza lavoro qualificata e motivata.
Sul fronte del consumo, la cultura può contribuire a migliorare la qualità della vita degli individui sotto vari
aspetti: può accrescerne la “socialità”, alimentarne il senso critico, può favorire una maggiore affermazione
dell’identità nazionale, oltre ad alimentare l’economia turistica di un territorio. Tali effetti non sono riflessi dai
valori di mercato (il prezzo del biglietto pagato da un visitatore di un museo è solo in minima parte
commisurato al beneficio atteso dalla visita) e questa divergenza sarebbe alla base di un’allocazione
inefficiente delle risorse nel mercato culturale.
Tra i fallimenti di mercato riconducibili al settore culturale si deve inoltre considerare l’argomento dei beni
pubblici (Stiglitz J.E., 1993; Brosio G., 1986). I beni pubblici sono beni a consumo collettivo (l’uso di un
individuo non ne impedisce l’accesso da parte di altri), e sono fruibili senza eccezioni da tutta la collettività
(impedirne l’accesso risulta tecnicamente impossibile o molto costoso). Queste due caratteristiche sarebbero
alla base di un’inefficiente allocazione delle risorse nel settore culturale, poiché nessun operatore privato
sarebbe in grado di produrre beni il cui prezzo di vendita, in concorrenza perfetta,è pari a zero.
Si tratta di due qualità essenziali a rivelare la presenza di un bene pubblico puro che in economia vengono
definite come non escludibilità e non rivalità. Un bene è non escludibile quando è impossibile (tecnicamente o
economicamente) adottare meccanismi o strumenti di esclusione dal consumo (si pensi a un paesaggio godibile
da chiunque). I beni non rivali sono beni a consumo collettivo per i quali non esiste un problema di
congestione (si pensi a un teatro non affollato, nel quale l’aggiunta di uno spettatore non determina un
incremento del costo di produzione né una modifica delle condizioni per gli altri spettatori). La produzione di
questi beni ad opera del settore pubblico sarebbe quindi la sola opzione efficiente disponibile.
Alcuni beni e attività culturali, in effetti, presentano caratteristiche che, almeno in parte, potrebbero
assimilarli a beni pubblici (Leon, P. 2007). Se per la maggior parte dei beni e servizi culturali considerati
singolarmente è adottabile la qualifica di non rivalità del consumo (anche se il limite della congestione è spesso
riscontrabile), il carattere della non escludibilità appare più raro (forme di esclusione dal consumo culturale
sono nei musei a pagamento, nei teatri, nei parchi); per questo, sono state introdotte definizioni intermedie
come quelle dei beni misti, a consumo collettivo o dei beni di club (Buchanan J.M., 1965). Dal punto di vista
degli effetti positivi prodotti dal consumo, il settore culturale, nella sua interezza, potrebbe comunque
assumere la qualifica di bene pubblico: una collezione museale, pur essendo un bene escludibile e soggetto a
congestione, può dar vita a una serie di benefici (valori formativi, qualità della vita) che ricadono su tutta la
collettività (è quindi nei benefici prodotti che sarebbero riscontrabili la non escludibilità e la non rivalità).
Le varie argomentazioni a sostegno dell’intervento pubblico basate sui fallimenti di mercato si fondano tutte
su un approccio teorico neoclassico, in cui l’intervento dello Stato rappresenta l’eccezione (rispetto a un
sistema in grado di autoregolarsi) e assume una funzione sostanzialmente correttiva e momentanea. A questo
approccio si ricollegano anche le analisi sui cosiddetti “fallimenti dello Stato”, generati da distorsioni
dell’intervento correttivo pubblico che, al pari dei fallimenti “privati”, porterebbero il mercato lontano da
condizioni di equilibrio (Stiglitz J.E., 1993, op. cit.).
Una delle ipotesi fondanti di tali approcci è la sovranità del consumatore, secondo cui l’individuo
perseguirebbe il soddisfacimento dei propri bisogni effettuando scelte di consumo del tutto razionali. Nel
settore culturale, molti economisti hanno tuttavia messo in dubbio l’effettiva capacità di un individuo di
riconoscere il valore del consumo, non tanto per effetto di distorsioni temporanee del mercato, quanto per il
valore intrinseco dei beni e delle attività culturali. La teoria dei beni meritori (Musgrave V.R.A., 1982)
giustifica l’intervento pubblico nel settore culturale ponendo in rilievo il rapporto tra benessere sociale e
utilità individuale. prendendo in considerazione il valore della cultura come bene in sé. In tal modo, non si
giustificherebbe l’intervento dello Stato con la necessità di correggere forme di mercato diverse dalla
concorrenza perfetta, ma riconoscendo al settore pubblico una capacità autonoma di perseguire l’interesse
generale di una collettività (in maniera talvolta più efficace rispetto al singolo individuo). I beni di merito
sono beni che lo Stato offre (o ne proibisce l’uso, nel caso di beni di demerito) in funzione di una valutazione
che esula da una manifestazione di interesse direttamente espressa dai membri di una collettività, ma che si
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collega a un obiettivo di benessere sociale. La scelta pubblica di finanziare beni e attività culturali che,
altrimenti, il mercato fornirebbe in quantità limitate, prescinderebbe da un’effettiva manifestazione di
interesse da parte dei consumatori, poiché la capacità di assegnare un valore coerente al consumo culturale
dipenderebbe da fattori esogeni quali il reddito, il livello di istruzione, il luogo di residenza (Su questo punto,
Fuortes C., 2001).
Se si considera la cultura come un bene di merito, si deve ammettere che lo Stato, in quanto titolare di
obiettivi di benessere collettivo, possa intervenire a sostegno a un settore per il quale solo una quota della
collettività (quella più istruita e benestante) esprime un’effettiva disponibilità a pagare.
La teoria dei beni meritori si collega anche alle giustificazioni legate alla funzione formativa ed educativa
della cultura. Il carattere redistributivo dell’intervento pubblico, in questo caso, sarebbe connesso all’esigenza
di garantire pari opportunità di accesso al consumo culturale per tutti i membri della collettività, in
particolare ai più giovani, in funzione degli effetti positivi che un diffuso consumo culturale sarebbe in grado
di produrre sulla qualità della vita.
Le principali critiche alla teoria dei beni di merito vengono dalla teoria marginalista e contestano fortemente
la compressione del concetto di “sovranità del consumatore” che questo approccio sembra indurre (Leon P.,
2007, op.cit.) fa notare come la gran parte delle forme di mercato non siano di concorrenza perfetta e le scelte
dei consumatori derivino da fattori diversi (psicologia, gusti, ecc).
8.3. L’EVOLUZIONE SUCCESSIVA: STRUMENTI DI VALUTAZIONE E ORGANIZZAZIONE DELLE
ISTITUZIONI CULTURALI
La rassegna delle principali teorie economiche sull’intervento pubblico nel settore culturale fin qui proposta
evidenzia la notevole eterogeneità di argomentazioni e approcci che caratterizza questa materia, una
complessità dovuta essenzialmente alle caratteristiche dei beni e alla presenza di valori culturali che, in
generale, sfuggono a qualsiasi tentativo di valutazione economica (Throsby D., 2001). Nessuna delle
argomentazioni può essere considerata del tutto esaustiva e, per questo, esente da critiche, talvolta anche
molto approfondite (tanto che ancora oggi il dibattito sulle motivazioni dell’intervento pubblico nel settore
culturale non può dirsi effettivamente concluso). D’altra parte, si però deve osservare come in tutte le
economie avanzate, la cultura sia stata e continui ad essere un settore stabilmente sussidiato, evidentemente in
ragione di una preferenza collettiva consolidata e diffusamente riconosciuta per musei, biblioteche, teatri,
eventi e altri prodotti culturali (peraltro, anche nell’ambito delle politiche di aiuto ai Paesi in Via di Sviluppo,
la cultura tende ad assumere un ruolo crescente, nella consapevolezza che essa rappresenti una componente
fondamentale all’attivazione di processi di cambiamento economico e sociale; su questo punto, Throsby D.,
2001, op.cit.).
Anche a questa considerazione si deve il notevole interesse che ha spinto gli studi economici successivi su un
filone di analisi a supporto dei meccanismi allocativi delle risorse pubbliche, in particolare verso la
determinazione delle interdipendenze tra economia e cultura e l’elaborazione di metodologie di valutazione
economica in grado non tanto di legittimare il sostegno, ma piuttosto di indirizzare al meglio le politiche
pubbliche.
L’economia della cultura, in questo ambito, ha mutuato tecniche e modelli ispirati prevalentemente
all’Analisi Costi Benefici (ACB) per qualificare e analizzare il legame tra risorse culturali e benessere sociale e
per sperimentare strumenti e criteri di valutazione di piani e progetti di intervento pubblico nel settore
culturale (Nuti F., 1987; Florio M., 1991; Pennisi G., 1985; Pennisi G. e Scandizzo P.L., 2003).
L’ACB è un filone metodologico che deriva dall’Economia del benessere. L’Economia del Benessere ricerca le
condizioni e i mezzi che permettono di aumentare il benessere economico e affonda le sue radici teoriche in due
teoremi (Teoremi fondamentali dell'economia del benessere); i principali contributi si devono a Pigou A.C.,,
1920; Scitovsky, 1952). Le prime applicazioni di ACB si hanno già negli anni trenta, negli Stati uniti, nella
valutazione di progetti idrici.
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L’idea di base che ne ispira la logica è l’opportunità di confrontare i benefici connessi a una risorsa, misurati in
termini di miglioramenti del benessere collettivo, con i relativi costi, in termini di risorse impiegate e di trarre
da tale confronto indicazioni utili a indirizzare il processo decisionale relativo a interventi di politica pubblica
(investimenti).
Un operatore privato che si appresti a valutare la convenienza di un investimento tenderebbe normalmente a
porre a confronto i costi e i ricavi che derivano dalla realizzazione del progetto: ponendosi dal punto di vista
(naturale) delle scelte imprenditoriali, egli ha come obiettivo principale la massimizzazione del profitto
privato.
Per contro, un soggetto pubblico, ponendosi come obiettivo la massimizzazione del benessere sociale, dovrà
considerare non solo gli impatti finanziari del progetto (costi e ricavi), ma anche gli effetti - positivi e negativi che il progetto è in grado di produrre sulla collettività (costi e benefici). L’Analisi Costi Benefici, per
rispondere a queste esigenze, si compone essenzialmente di due strumenti:
-
-
l’analisi finanziaria, che permette di valutare la convenienza di un progetto dal punto di vista della
redditività dell’investimento e dei costi e ricavi dell’attività economica (adottando un approccio
analogo a quello di un’intrapresa privata);
l’analisi economica, che prende in esame il punto di vista della comunità su cui l’iniziativa insiste e, in
considerazione degli obiettivi di politica pubblica perseguiti dal progetto, ne valuta la coerenza e
l’efficacia prendendo in considerazione non solo gli effetti monetari direttamente tangibili (valutati in
analisi finanziaria), ma anche le esternalità e i benefici indiretti (non valutabili attraverso i prezzi di
mercato); in taluni casi, i prezzi di mercato dei beni possono non essere una misura accurata dei loro
costi e benefici. In tal caso l'analisi costi-benefici tende a "correggere" i prezzi di mercato ricorrendo a
prezzi-ombra.
L’ACB è adottata da tutti gli organismi nazionali e internazionali (anche per la valutazione di progetti di
investimento nei Paesi in Via di Sviluppo): l’OCSE (Little e Mirrlees, 1968) e l’UNIDO (UNIDO, 1972), a
cavallo tra fine anni sessanta e inizio anni settanta hanno prodotto manuali e linee guida per l’applicazione
dell’analisi a progetti e iniziative pubbliche di natura internazionale (in particolare per progetti nei PVS). In
Italia, l’ACB ha trovato un’ampia applicazione nella valutazione di progetti e programmi di conservazione e
valorizzazione delle risorse culturali (Bariletti A. e Causi M., 1998; Mazzanti M., 2003).
Nella valutazione di tali iniziative, l’analisi relativa agli aspetti finanziari fornisce elementi utili a favorire
un’efficiente allocazione delle risorse pubbliche, ma la necessità di giustificare decisioni di spesa pubblica in
termini di benefici collettivi assume un peso fondamentale, poiché si tratta di attività che, dal punto di vista
delle istituzioni culturali, risultano generalmente in perdita (anche per le istituzioni culturali, comunque,
l’obiettivo dell’autonomia finanziaria - pur parziale - e dell’efficienza nell’uso delle risorse rappresentano
obiettivi rilevanti, in uno scenario di risorse pubbliche tendenzialmente scarse).
La valutazione di risorse e progetti riguardanti il settore culturale ha portato a qualificare e specificare le
tipologie di benefici economici associati al patrimonio culturale attraverso il concetto di Valore Economico
Totale (VET), approccio originariamente adottato in economia dell’ambiente per classificare le componenti di
valore di una risorsa naturale (Pagiola S., 1996; Pearce D.W. e Turner R.K., 2002; Pearce D.W., Turner R.K.
e Bateman I., 2006).
Il VET di una risorsa culturale è composto essenzialmente da due componenti legate (Trimarchi M., 2003;
Mazzanti M., 2003, op.cit.):
- ai valori di uso (diretto e indiretto), legati al beneficio che la collettività può ricevere dalla fruizione di
una risorsa in termini di soddisfazione personale (di carattere edonico o educativo.), incremento del
senso critico e della qualità sociale, incremento delle attività economico-commerciali connesse, ecc.
(uso indiretto);
- ai valori di non uso, collegati agli effetti positivi generati dalla disponibilità di risorse culturali anche in
assenza di una fruizione (attuale o futura) e connessi alla mera esistenza di un bene (Benhamou F.,
2004).
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L’identificazione delle categorie di benefici economici legati al patrimonio culturale ha costituito, nel corso
degli ultimi anni, il binario fondamentale per lo sviluppo di un impianto metodologico finalizzato a indirizzare
le strategie di intervento pubblico, sia a livello macro (attraverso la valutazione delle politiche culturali in
termini di analisi costi benefici) sia a livello microeconomico (attraverso il supporto a specifiche iniziative
progettuali).
Sul piano della valutazione delle politiche a livello macro, nel corso degli anni novanta si assiste a un ulteriore
affinamento delle metodologie di analisi e stima delle componenti di valore extramercato (per una trattazione
delle metodologie di stima diretta e indiretta delle componenti di VET nel settore culturale si rimanda alla
letteratura, ad es. Mazzanti M, 2003 op. cit.; Causi M., 1994). Parallelamente, si ha però anche un notevole
impulso degli studi sulla gestione e sulle modalità organizzative delle istituzioni culturali (Hansmann H., 1980;
Frey, B. Pommerehne, W., 1980), utili a indirizzare, anche sul piano microeconomico, le scelte progettuali. La
maggior parte dei contributi prodotti in questo ambito – in particolare in ambiente anglosassone – si è
concentrata sul tema degli assetti organizzativi e finanziari da adottare in funzione di obiettivi di incremento
dell’efficienza e dell’efficacia della produzione di servizi culturali. Tali studi si occupano soprattutto di
analizzare le forme di impresa no profit e le logiche in grado di garantire il perseguimento di obiettivi diversi
dalla massimizzazione del profitto di impresa.
8.4. L’APPROCCIO ITALIANO
La natura e gli obiettivi delle analisi economica degli interventi pubblici sul patrimonio culturale – sia a
livello micro (dei sistemi organizzativi e gestionali) che a livello macro (della valutazione) – hanno assunto un
rilievo diverso a seconda dei diversi ambiti istituzionali in cui si applicano, e una declinazione specifica in
Italia, in ragione della particolare ampiezza del patrimonio (museale, archeologico, musicale) che induce a
compenetrare obiettivi complessi di tutela e conservazione, sviluppo economico, valorizzazione, promozione
(Causi, M. e Mazzanti, M., 2002; Trupiano G., 2002), e di un contesto settoriale caratterizzato da una notevole
complessità istituzionale. Questo contesto ha stimolato lo sviluppo di un’ampia letteratura teorica ed empirica
sugli strumenti di valutazione economica, sia nell’ottica del supporto alle politiche culturali, sia sul piano della
gestione, con una declinazione tanto specifica da configurare, secondo alcuni, una vera e propria via italiana
all’economia della cultura (Santagata, W., Segre, G., Trimarchi, M., 2007).
Gli studi su economia e cultura, in Italia, hanno in verità avuto uno sviluppo tardivo, e le ragioni di un tale
ritardo sono da ricercare in parte proprio nelle caratteristiche del patrimonio. I primi studi economici organici
sul ruolo della cultura in Italia, prodotti solo a partire dalla metà circa degli anni ottanta (Campa G. e Bises
B., 1982), riguardano l’analisi della spesa pubblica settoriale.
La notevole consistenza e diffusione delle risorse archeologiche, artistiche e architettoniche sul territorio
italiano ha indotto gran parte delle politiche nazionali, almeno fino agli anni ottanta, ad assegnare un rilievo
preminente agli obiettivi di conservazione e tutela, in funzione di un notevole rischio di degrado del
patrimonio, sottrazione e depauperamento delle risorse, e anche a fronte di una domanda di uso allora
ristretta solo ad alcune specifiche categorie sociali.
Il crescente interesse per questa materia coincide infatti con i primi tentativi di stimolare, in un contesto di
politiche di questa natura, un progressivo spostamento di attenzione verso la domanda, in corrispondenza con
il crescente interesse del pubblico (nazionale e internazionale) alla fruizione di musei, monumenti, mostre,
teatri, aree archeologiche, e verso gli effetti legati alla fruizione (valori di uso) delle risorse.
Una mole importante di studi economici sul sistema culturale italiano, successivamente, è stata diretta ad
analizzare (oltre che misurare) il ruolo del settore pubblico e fornire strumenti utili a valutare gli effetti delle
politiche (Causi M. e Leon P., 1990; Trimarchi M., 2003, op.cit.). Tali analisi hanno il merito di affermare il
legame potenziale tra patrimonio culturale e sviluppo economico e le particolarità di questo legame in un
contesto territoriale ed economico come quello italiano, nel quale la cultura rappresenta un asset di grande
rilievo per lo sviluppo socio-economico territoriale, dal punto di vista turistico ma non solo; in una prima fase,
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l’enfasi degli studi (e delle politiche) si concentra in particolare sui meccanismi di impatto occupazionale,
in coincidenza con l’avvio di importanti programmi pubblici che, per la prima volta in Italia, guardano alla
cultura non più come a un settore improduttivo e destinato a una fruizione ristretta, ma come una risorsa in
grado di stimolare attività economiche (in particolare turistiche).
Il Fondo Investimenti e Occupazione (FIO - L. 130/83), in particolare, destinava una quota consistente di
risorse a progetti di restauro e conservazione del patrimonio, attività a elevata intensità occupazionale. Un
altro programma quello dei “giacimenti culturali”, destinava consistenti risorse a fini di comunicazione
attraverso le tecnologie. Il secondo programma, in seguito, si rivelerà poco proficuo, in ragione di
un’attenzione eccessiva agli impatti occupazionali immediati e ad una scarsa programmazione delle fasi
successive agli interventi (Leon P., 2007, op.cit.). Il Fondo Investimenti e Occupazione ha comunque avuto il
merito di evidenziare il ruolo della cultura nei processi di sviluppo, favorendo, tra l’altro l’introduzione in
Italia dell’analisi costi-benefici come strumento di supporto alle decisioni pubbliche.
Successivamente, il legame tra cultura e sviluppo viene ulteriormente ampliato e qualificato, in
considerazione del forte legame tra risorse storico-artistiche (diffuse) e comunità locali, valorizzabile non solo
dal punto di vista turistico e occupazionale, ma anche in funzione dello sviluppo sociale delle comunità.
L’analisi economica (Leon, P., Trimarchi, M., 2003; Pennella G. e M. Trimarchi, 1993; Leon P. e Galli G.,
2004; Fuortes C., 1998), in questa fase, contribuisce a dare pieno riconoscimento alla valorizzazione culturale
come componente fondamentale per attivare processi di sviluppo sociale ed economico (accompagnata alla
conservazione che ne rappresenta il presupposto comunque fondamentale), sfruttando la trasversalità del
settore e le forti interdipendenze con alcuni settori economico-produttivi (turismo, commercio, servizi).
Il dibattito che ne segue è ulteriormente alimentato da una serie di dinamiche esogene capaci di modificare
profondamente il quadro istituzionale delle politiche del settore culturale.
Una serie di interventi normativi, a partire dagli anni novanta (proseguendo nel decennio successivo),
intervengono in primo luogo, come noto, a modificare profondamente l’assetto e il regime di competenze
legate alla valorizzazione del patrimonio. Dalla L. Ronchey, che introduce per la prima volta i privati nella
gestione dei musei, per la gestione dei servizi culturali, all’autonomia delle Soprintendenze (Pompei), che
punta a introdurre principi di accountability e autonomia finanziaria nella gestione pubblica; dalle modifiche
al Titolo V della Costituzione, che sanciscono il decentramento di competenze, anche legislative, sulla
valorizzazione, alle norme sui servizi pubblici che permettono, a livello locale, di sperimentare nuovi assetti
per valorizzazione culturale. Si tratta di provvedimenti diretti a modificare le modalità di intervento pubblico
nella cultura, dettate essenzialmente dall’esigenza di far fronte alla progressiva contrazione delle risorse
pubbliche - dettata dal processo di integrazione europea che impone parametri di debito particolarmente
stringenti per l’Italia (Maastricht) - e accompagnati all’affermazione del principio di sussidiarietà che ne ispira
gli indirizzi.
Il principio di sussidiarietà è definito dall'art. 5 del trattato che ha istituito la Comunità Europea e mira a
garantire che le decisioni siano adottate il più vicino possibile al cittadino, verificando che l'azione da
intraprendere a livello comunitario sia giustificata rispetto alle possibilità offerte dall'azione a livell o
nazionale, regionale o locale. Concretamente questo implica che nei settori che di non esclusiva competenza,
l’Unione debba intervenire soltanto quando la sua azione sia considerata più efficace di quella intrapresa a
livello nazionale, regionale o locale.
Nel quadro del processo di riforma dell’assetto del sistema culturale italiano, in effetti, si evidenzia:
- una spinta a formulare una diversa distribuzione delle competenze tra i vari livelli di governo (sussidiarietà
verticale), adottando un progressivo decentramento delle funzioni di valorizzazione verso gli enti
periferici, anche nella consapevolezza che a livello locale si esplicitino gran parte dei legami tra risorse e
collettività;
- uno stimolo a ripensare il rapporto tra pubblico e privato e alla ricerca di forme nuove e diverse di
organizzazione delle istituzioni culturali in grado di contenere il fabbisogno di contributi pubblici, aprire a
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fonti alternative di sostegno e introdurre criteri di
istituzioni culturali (sussidiarietà orizzontale).
efficienza ed economicità nel management delle
All’evoluzione normativa del settore si accompagna necessariamente un’intensificazione di analisi e studi
economici. Aumentando il fabbisogno di strumenti in grado di indirizzare le decisioni di finanziamento
pubblico, viene in particolare stimolata ulteriormente la ricerca di criteri e metodologie di valutazione
economica dei progetti. In questa fase, viene introdotto stabilmente nella “cassetta degli attrezzi” della
valutazione degli investimenti pubblici lo strumento dello “studio di fattibilità”, secondo uno schema che
permette di analizzare contemporaneamente le condizioni tecniche, economico-finanziarie e giuridiche di
sostenibilità e convenienza di un investimento.
La legge n. 144 del 1999, al fine di dare maggiore efficienza e qualità al processo di programmazione delle
politiche di sviluppo, dispone che lo studio di fattibilità è lo strumento ordinario preliminare per la
realizzazione delle opere di importo superiore a 20 miliardi ed è obbligatorio per le opere di importo superiore
ai 100 miliardi. L’approvazione, da parte di appositi nuclei di valutazione, degli studi di fattibilità, secondo
uno schema predefinito (“Guida per la certificazione degli studi di fattibilità”, adottata dalla Conferenza dei
Presidenti delle Regioni e Province autonome l’8 marzo 2001), costituisce titolo preferenziale al fine della
valutazione dei finanziamenti delle opere e requisito indispensabile per l'accesso a taluni fondi.
Il processo di riforma stimola inoltre l’emergere di un ambito di analisi legato alla ricerca delle condizioni utili
a favorire, attraverso processi, procedure e assetti di carattere organizzativo, una maggiore efficienza delle
istituzioni culturali e un uso più razionale delle risorse ai fini di uno specifico obiettivo di politica pubblica
(efficacia). Tale ambito viene affrontato attraverso un duplice approccio:
-
-
da un punto di vista prevalentemente aziendalistico, si analizzano le possibilità di introdurre
meccanismi, forme e strumenti – mutuabili dalla sfera delle imprese private – in grado di migliorare
l’efficienza e aumentare l’autonomia decisionale e finanziaria delle istituzioni (Bagdadli S., 1997; Zan
L., 1999; Solima L., 1998). Ne emerge l’elaborazione di modelli gestionali e assetti organizzativi nuovi,
ispirati soprattutto al mondo delle aziende no profit del mondo anglosassone, in grado di contemperare
vincoli di efficienza con obiettivi di interesse pubblico e che vengono adattate al contesto nazionale,
caratterizzato da un ruolo molto rilevante, tuttora, del sistema pubblico e da una notevole
frammentazione istituzionale; proprio a quest’ultimo tema si rifà la ricerca di soluzioni gestionali
ispirate alla partecipazione di più istituzioni pubbliche e private alla gestione e valorizzazione di una
risorsa, sul modello delle fondazioni di partecipazione (Hinna A., 2005; Hinna A. e Minuti M., 2010).
dal punto di vista dell’economia dello sviluppo e dell’economia pubblica, vengono approfonditi i
legami tra patrimonio culturale, economia e territorio, in particolare sotto il profilo delle reti,
dell’integrazione e dei sistemi culturali territoriali, soluzioni utili a risolvere il problema della
dispersione delle risorse sul territorio (Valentino P. A., Musacchio A. e Perego F., 1999) attraverso
forme di assetto della cultura che integrano più beni, risorse di varia natura, attività economiche e
filiere diverse, operatori pubblici e privati.
All’inizio del decennio in corso, la programmazione dei Fondi Strutturali dell’Unione Europea (Agenda 2000)
arriva a riconoscere pieno rilievo alle risorse culturali come asse di politica per lo sviluppo economico,
destinando un’importante quota del bilancio comunitario a investimenti materiali e immateriali a interve nti
di restauro, nuova realizzazione di musei, biblioteche e teatri, riqualificazione di centri storici (ASSE II –
Risorse Culturali - http://europa.formez.it/). L’incremento dell’offerta culturale fruibile che ne deriva, in
particolare nel Mezzogiorno, contribuisce ad alimentare ulteriormente il fabbisogno di analisi e studi sulla
programmazione delle organizzazioni culturali, sia sul piano gestionale che su quello dei legami con il
territorio. Il patrimonio che le risorse pubbliche permettono di riqualificare, restaurare e rendere disponibile
va infatti gestito e valorizzato al fine di massimizzare l’impatto della spesa per investimenti.
Si profila, in particolare, l’esigenza di declinare l’intero processo di programmazione di un’istituzione culturale:
dalla definizione della mission alla veste giuridica, dall’analisi della domanda potenziale alle condizioni di
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sostenibilità finanziaria e di convenienza economica. Diviene particolarmente evidente, in questa fase, la
necessità di disegnare un percorso analitico che consenta di guidare l’ideazione di un progetto culturale e di
determinare le diverse fasi di intervento coerentemente con gli obiettivi di politica pubblica perseguiti.
Si sviluppa quindi una serie di analisi (Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2003; Ministero per i Beni e
le Attività Culturali, 2004; Ministero per i Beni e le Attività Culturali, 2009; Innovaspettacolo, 2007) di
natura prevalentemente empirica, che mira a fondere in un unico processo valutativo, che sarà spiegato nei
paragrafi successivi, gli elementi principali di riferimento per la progettazione e lo sviluppo di progetti di
gestione e valorizzazione culturale economicamente e finanziariamente sostenibili.
Tali analisi tracciano un percorso diretto a favorire un corretto equilibrio tra obiettivi di efficienza, imposti
dalla necessità di utilizzare al meglio le risorse pubbliche destinate alla politica culturale, e di efficacia,
imposta dalla necessità di garantire il perseguimento degli obiettivi di natura collettiva per cui la stessa
politica culturale è finanziata dallo Stato; oltre che tra obiettivi di conservazione e tutela e obiettivi di
valorizzazione.
Questa esigenza di sintesi, nel complesso iter evolutivo delle normative settoriali, trova applicazione nel
Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio che, all’art. 115, trattando delle forme di gestione adottabili,
prefigura uno schema di valutazione direttamente ispirato agli strumenti di analisi economica descritti,
laddove prescrive che la scelta tra forme dirette e indirette debba avvenire “previa valutazione comparativa,
in termini di efficienza ed efficacia, degli obiettivi che si intendono perseguire e dei relativi mezzi, metodi e
tempi”.
I processi di innovazione istituzionale, normativa ed economica che hanno attraversato il settore culturale nel
corso degli ultimi 20 anni prefigurano, al momento attuale, una gestione e un finanziamento delle istituzioni
culturali che, necessariamente, coinvolge sia le sfere del pubblico che il privato. In un contesto come qu ello
italiano, del resto, la gestione si caratterizza sempre più come multitask e multifinancing, e deve poter essere
diretta ad aumentare l’efficienza e l’efficacia nella fornitura dei servizi in un’accezione non tanto (o non solo)
aziendalistica, ma all’interno di un paradigma che vede il patrimonio culturale come una risorsa economica
che offre servizi privati e pubblici tra loro complementari, e che rimanda a un ruolo che può (e deve) essere
rilevante, per la gestione e il finanziamento, da parte del privato, ma che deve insistere sempre sul supporto
centrale del sistema pubblico (Mazzanti, 2003, op.cit.).
8.5. LA COSTRUZIONE DI UN ASSETTO GESTIONALE E ORGANIZZATIVO DEI BENI
CULTURALI
Sul piano applicato, nell’arco di circa 30 anni, in Italia è stato sviluppato un numero imprecisato di
trasformazioni istituzionali della gestione dei beni culturali. Si tratta certamente di un numero non
elevatissimo di casi, che ha riguardato soprattutto il settore espositivo e lo spettacolo dal vivo, e piuttosto
raramente quello bibliotecario ed archivistico.
Le trasformazioni hanno riguardato nella quasi totalità dei casi il settore pubblico - soprattutto le autonomie
locali - in quanto responsabile e proprietario di un’enorme quantità di beni culturali spesso non utilizzati o
sottoutilizzati, che ne ha percepito per primo le potenzialità, in campo culturale ed economico. I privati, le
banche, le grandi imprese, le grandi famiglie che detengono un ammontare significativo del patrimonio
culturale, persino le fondazioni bancarie, sino ad oggi non si sono prodigati a stimolare, men che meno a
promuovere, la trasformazione gestionale del settore culturale, anche se esiste qualche segno occasionale di
maggiore attenzione.
Lo sviluppo nel tempo di questa esperienza ha una precisa localizzazione territoriale, poiché ha riguardato
soprattutto il Centro Italia (guidato e seguito da amministrazioni regionali come l’Umbria e la Toscana), il
Nord (in alcune città, come Rovereto, Torino, Venezia, Brescia, Mantova) e molto raramente il Mezzogiorno
(Napoli). Questa dinamica complessa ha ovviamente influenzato le tecniche e le scelte da parte delle
amministrazioni pubbliche, imprimendo un’evoluzione sul piano tecnico, finanziario, economico e giuridico
che si è poi riverberato nelle modalità di attuazione e persino nello sviluppo delle norme a livello nazionale.
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In questo capitolo si farà riferimento ad alcune di queste esperienze che non costituiscono ancora un
“corpus” definito e completo. Tuttavia, i casi sono sufficienti a trarre insegnamenti interessanti in grado di
aiutare e guidare lo sviluppo del settore.
Avendo definito le ragioni che sottostanno l’intervento pubblico nel settore dei beni e delle attività culturali,
ed avendo evocato, sotto altri profili, l’importanza dell’organizzazione per un’efficiente ed efficace azione nello
stesso settore, a questo punto è opportuno affrontare le ragioni che presiedono le scelte riguardanti la fase
operativa ed esecutiva della gestione dei beni culturali, in particolare quella relativa alla proposta giuridica
della forma gestionale più appropriata e di tutte le sue conseguenze sul piano delle relazioni interistituzionali.
Tali ragioni saranno presentate secondo un percorso logico unitario, organizzato in base a un approccio che
richiede un certo grado di multidisciplinarità tra aspetti culturali, economici, finanziari, organizzativi e
ovviamente giuridici e istituzionali, poiché essi si presentano strettamente correlati fra loro, concorrendo a
determinare l’insieme di “soluzioni” giuridiche possibili e le conseguenti modalità di partecipazione da parte
dei soci fondatori.
Questa tradizione non è di antica data. Solo negli ultimi 30 anni lo Stato italiano ha cercato di darsi delle
regole per informare il processo decisionale riguardante gli investimenti in grandi infrastrutture, attraverso il
ricorso alle analisi di fattibilità di cui si è parlato, comprendendo fra queste anche l’ambito dei beni culturali.
La fattibilità è considerata pratica fondamentale anche a livello comunitario, il cui scopo è quello di (cercare
di) giustificare grandi opere da includere nella programmazione economica per lo sviluppo europeo, nazionale
e locale. Uno schema di studio di fattibilità prodotto dal Ministero del Tesoro (Ministero del Tesoro – NUVV,
2003) deve contenere obbligatoriamente le seguenti parti: analisi propedeutiche e individuazione del progetto;
fattibilità tecnica del progetto; compatibilità ambientale; sostenibilità finanziaria; convenienza economicosociale; verifica procedurale; analisi di rischio e sensitività.
Queste procedure possedevano un’innovazione fondamentale: si metteva per la prima volta sullo stesso piano
la fattibilità tecnica (architettonica e ingegneristica), la fattibilità economica, la fattibilità finanziaria e infine
la fattibilità amministrativa, istituzionale e giuridica. La quadri-ripartizione degli studi di fattibilità era figlia
dei fallimenti (numerosi) degli studi di fattibilità ai tempi del FIO e della Legge 64 (anni ottanta), all’epoca
concentrati sulla progettazione tecnica (soprattutto), la sostenibilità finanziaria (eccessivamente semplificata)
e la sostenibilità economica, mentre si ignoravano quasi del tutto le condizioni giuridiche ed istituzionali e le
loro conseguenze. Nel campo della valutazione degli investimenti pubblici per i beni e le attività culturali,
come la pratica progettuale ha dimostrato più volte, l’aspetto economico, quello organizzativo e quello
giuridico costituiscono aspetti critici e interagenti per decidere la fattibilità di un investimento.
Cosa determina dunque un modello gestionale sotto il profilo giuridico? Normalmente scaturisce da un
processo di progettazione della gestione di un bene culturale sotto i profili:
-
-
tecnico-scientifico, che comprende temi quali la natura dell’impresa (quale missione ottemperare, quali
obiettivi generali soddisfare, che tipo di azione svolgere, come attuarla, ecc.) e lo sviluppo del programma
di azioni (attività culturali) dell’ente gestore;
organizzativo e finanziario, che riguarda la struttura d’impresa e il suo funzionamento sotto lo stretto
angolo aziendale, in chiave temporale poliennale;
economico, che inquadra la gestione nell’ambito del territorio inglobando tutti gli effetti prodotti dal
progetto (monetari e non monetari), compresi quelli al di fuori degli stretti confini d’impresa culturale.
Le tre componenti di progettazione “informano” la quarta fase del processo di identificazione delle forme
gestionali, che è quella specifica riguardante gli aspetti giuridici, amministrativi e istituzionali.
Questa fase “viene dopo”, sotto il profilo logico, le analisi organizzative ed economico-finanziarie, poiché ogni
proposta dell’assetto giuridico si fonda su un complesso di risposte tecniche al “problema gestionale”. Il
“disegno” giuridico può, a sua volta, fornire comunque elementi aggiuntivi che possono implicare la ricomposizione e la revisione del modello d’impresa identificato precedentemente: tale da produrre un’ulteriore
iterazione, che è frequente soprattutto in periodi storici caratterizzati da frequenti innovazioni normative e
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regolamentari o da altri fattori come i cicli elettorali, la ristrutturazione delle amministrazioni pubbliche,
la scarsità di risorse finanziarie.
La ricerca di un ordine logico e, per quanto possibile, rigoroso nello sviluppo di modelli gestionali, è un aspetto
poco frequentato dalla letteratura economica. Ciò non sorprende, poiché quando si tratta di scendere su un
piano attuativo (fondare un’organizzazione, scegliere uno schema funzionale per i servizi culturali, elaborare i
contratti di servizio, quantificare le risorse pubbliche necessarie e attribuirne l’onere ai soci, fissare i prezzi e le
gratuità dei servizi, ecc.), rende difficilmente applicabili, tout court, i modelli formulati sui tavoli asettici e
stilizzati della teoria standard. Traendo ispirazione dall’economia teorica e dall’economia applicata, la
traduzione di modelli ottimali definiti sul piano teorico nella pratica operativa è irta di difficoltà, tanto che
non esistono linee guida o manualistiche in grado di rispondere sistematicamente e con nettezza alle
complessità tecniche e operative del settore culturale.
La via italiana all’economia della cultura, come accennato, ha sopperito alla carenza di strumenti consolidati
per la costruzione di modelli gestionali attraverso il ricorso a un approccio pragmatico, basato sulle numerose
esperienze e sulle buone (e cattive) pratiche riscontrate sul campo, sviluppato e sedimentato su un periodo di
tempo relativamente lungo.
Tale approccio – di cui si è in parte già accennato nel paragrafo 8.4 - è caratterizzato da alcuni aspetti di
ordine generale (Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, 2008, op.cit.; Innovaspettacolo, 2007, op. cit):
-
-
-
-
è fondato su un piano microeconomico, relativo al singolo caso gestionale di uno o più beni culturali. Si
tratta di un livello di analisi da “progetto”, assai frequentato nell’economia applicata e declinato con il
termine “project appraisal” derivante dall’esperienza delle organizzazioni internazionali (Banca
Mondiale, UNIDO, BERS, ecc.) della fine degli anni trenta (da cui l’Italia ha tratto spunto per
formulare una propria metodologia collegabile al filone dell’analisi costi benefici);
prevede uno sviluppo diviso in varie fasi, a delineare un “ciclo” caratterizzato da una complessa
iterazione, ritmata in base ai risultati che via via si determinano, in coerenza o in violazione delle
condizioni di sostenibilità tecnico-scientifica, finanziaria o economica;
può proporre soluzioni gestionali diverse per analoghe tipologie di beni (musei, aree archeologiche, aree
espositive temporanee, biblioteche, archivi, mediateche, ecc.), potendo variare con i contesti sociali,
economici e istituzionali; non esistono soluzioni gerarchicamente migliori e non è possibile affermare
che certe soluzioni siano valide sempre, in tutti i contesti e in tutti i momenti storici;
può produrre soluzioni multiple, radicalmente diverse l’una dall’altra ed è possibile avere anche il caso
(estremo) di “nessuna soluzione”;
propone soluzioni non sono definibili come ottimali, ma più propriamente sostenibili o soddisfacenti.
8.6. IDENTIFICAZIONE DEL MODELLO GESTIONALE SOTTO Il PROFILO GIURIDICO: Il CICLO
PROGETTUALE
Gli elementi che influenzano la scelta della dimensione giuridica derivano dunque da una combinazione
complessa di aspetti culturali, economici, finanziari e giuridici. La fig. 8.1 riporta, in forma molto
semplificata, il processo di identificazione della forma gestionale di un’istituzione culturale – nelle fasi
precedenti alla verifica sotto il profilo giuridico - rispondendo a tre diverse attività di progettazione, collegate
fra loro (Hinna e Minuti, 2010, op.cit.):
1. un’ipotesi dell’ente gestore sotto i profili tecnico-scientifico e istituzionale;
2. un’ipotesi organizzativa dell’ente gestore e delle relazioni di costo e di ricavo misurate in termini
finanziari;
3. un’ipotesi economica dell’ente gestore capace di misurare gli effetti più vasti (di territorio) prodotti
dalla gestione dei beni culturali allo scopo di evidenziare anche quelli indiretti e indotti.
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Queste tre aree di approfondimento produrranno
alle scelte giuridiche su due aspetti fondamentali:
l’insieme di elementi, indirizzi e temi che porteranno
1. la forma gestionale;
2. le forme di collaborazione interistituzionale (accordi di programma, intese di programma, ecc.);
L’analisi tecnico-scientifica si preoccupa di dare una forma all’identità (gestionale) del bene culturale,
mettendo in evidenza la missione, la dichiarazione del sistema valoriale, l’enucleazione degli obiettivi generali
in grado di orientare la strategia e l’azione dell’ente gestore.
La missione dipende strettamente da come si impostano la tutela e la valorizzazione del bene culturale rispetto
a:
-
-
obiettivi sociali, come la conservazione dei beni, la ricerca, lo stimolo culturale dei cittadini, la
formazione, l’istruzione, la qualità dell’intrattenimento, l’ampliamento della domanda culturale presso
il pubblico più distante, ecc;
obiettivi finanziari, vale a dire il dimensionamento dell’ente in ragione degli obiettivi sociali, tenendo
conto delle risorse disponibili e del vincolo di bilancio;
obiettivi economici, che si concretizzano nel network che è possibile instaurare all’interno di un
territorio, sia relativo alle filiere produttive culturali (di mercato e non di mercato), sia alle filiere
economiche collegate in forma indiretta (turismo, commercio, restauro, costruzioni, ecc.).
Fig. 8.1
Metodologia e schema di progettazione
1. Mission
dell'impresa
Analisi tecnico-scientifica
culturale
2. Definizione della
strategia
3. Definizione della
Analisi finanziaria
govervance
4. Definizione assetto
organizzativo
5. Definizione assetto
Analisi economica
finanziario
6. Definizione assetto
economico
Fonte: rivisitazione da Hinna e Minuti (2010).
Stante il set di obiettivi, è poi necessario configurare una strategia che sia in grado di ottemperare agli
obiettivi generali. Si tratta di delineare un programma che descriva le attività (permanenti e temporanee) del
soggetto gestore, che sintetizzi le azioni da realizzare in base alle risorse disponibili, interne ed esterne, in un
dato periodo di tempo. Il programma deve possedere un’ampia flessibilità operativa, per fronteggiare i
mutamenti del contesto e delle risorse finanziarie disponibili. Le attività culturali, che si originano dagli usi
dei beni culturali, sono per loro natura numerose e diversificate. Il programma può definire le attività
culturali – in larga parte composte da “servizi” - secondo una distinzione giuridica assai utilizzata, quella che
vede il combinarsi di funzioni di tutela, conservazione e valorizzazione. Tale mix dipende dal peso che l’ente
gestore intende assegnare a ognuna delle tre componenti, che dipenderà a sua volta dalle preferenze e dalle
aspettative dei proprietari e/o dei responsabili dei beni.
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Si tenga conto che per le norme italiane la legislazione sulla tutela è di competenza statale. Tuttavia, la
tutela si può attuare anche attraverso l’azione dell’ente gestore, per mezzo, ad esempio, di azioni di
conservazione, di studio e ricerca, catalogazione. In generale, sotto il profilo economico e finanziario, le
attività di conservazione sono presidiate da funzioni gestionali e necessitano di una dotazione consistente di
risorse umane e finanziarie.
A seconda poi del numero degli attori pubblici o privati coinvolti nell’ente gestore (se più di uno), grande
importanza è data dal sistema di relazioni tra questi soggetti, vale a dire la governance. La governance è
l’insieme di regole e organi che garantiscono una modalità di coordinamento tra più soggetti responsabili del
bene culturale e si impone laddove, al posto di un governo piramidale, retto dal principio di autorità, emerga
la necessità di strutturare collaborazioni tra una molteplicità di attori. Funzione della governance è, nella
fattispecie, quella di stabilire i principi di composizione, le regole, i vincoli e le dinamiche attraverso cui
sviluppare il governo di tali relazioni, allo scopo di rendere efficace il raggiungimento degli obiettivi
interpretati dalla policy. Per quanto riguarda il tema della governance, è possibile distinguere due “ambienti”:
a. la governance interna;
b. la governance esterna.
La prima si ispira al filone di studi sulla corporate governance, e comprende l’insieme delle regole formali e
informali che presiedono le modalità di governo e di controllo delle attività dell’ente gestore. La seconda
costituisce l’insieme di regole che presiedono la modalità di coordinamento tra i responsabili del bene culturale
(l’ente gestore) e gli altri soggetti presenti sul territorio (pubblici e privati). Questo ambito di governance può
essere esteso anche agli agenti economici del sistema territoriale, quando l’ente gestore persegue attività legate
anche allo sviluppo locale.
Se la gestione riguarda sistemi complessi di gestione di beni culturali, condizione che nell’esperienza italiana
può verificarsi sia per la gestione di un bene che, per la sua importanza, richiede una compartecipazione di
soggetti pubblici e privati (ad es., un grande museo come Brera, un’area archeologica importante come quella
di Paestum, un’emergenza architettonica come il Castello e Giardini di Venaria Reale), sia per l’aggregazione
di più beni culturali su un territorio ampio (ad es., il sistema museale dell’Umbria, la carta museale della
Regione Piemonte, il sistema teatrale della Toscana, ecc.), è necessario produrre un’ipotesi di progettazione
organizzativa della governance. All’aumentare della complessità delle relazioni, naturalmente, cresce il
fabbisogno di una governance legittimata, costruita cioè sul caso specifico, in modo da essere sufficientemente
rappresentativa degli interessi in gioco e favorire i processi decisionali fondamentali per l’attuazione della
gestione (esempi interessanti sono gli accordi e le intese attorno alla gestione dei beni culturali iscritti nella
lista del Patrimonio UNESCO, come richiesto esplicitamente dall’organizzazione delle Nazioni Unite ai
responsabili dei beni, attraverso l’elaborazione di un “Piano di gestione” che richiede la compartecipazione di
tutti i soggetti pubblici e degli stakeholder nel territorio su cui la risorsa insiste).
Il secondo gruppo di attività riguarda l’analisi e la definizione dell’assetto finanziario dell’ente gestore. A
partire dagli anni novanta, come detto, si è data crescente attenzione alla forma gestionale degli enti gestori,
sia sotto il profilo aziendale, sia sotto quello giuridico. L’aspetto più innovativo, però, è la progressiva
affermazione di una vasta opinione comune, secondo cui l’ente gestore dovrebbe essere configurato come
un’impresa in tutti gli aspetti, ispirandosi alle esperienze anglosassoni. In Italia, sino alla metà degli anni
ottanta, i beni culturali sono stati sistematicamente gestiti - in forma diretta o indiretta - dallo Stato e dagli
enti locali, disponendo di proprie articolazioni amministrative. I soggetti privati hanno rappresentato solo
rare eccezioni (ad esempio, nel settore museale i musei privati di rilevo erano - escludendo i monumenti e i
musei diocesani, una presenza molto significativa – essenzialmente tre: il Poldi Pezzoli di Milano, il Museo
dell’automobile di Torino e il Palazzo Grassi di Venezia. L’attenzione crescente verso l’impresa da parte
dell’Accademia e da parte degli enti pubblici, come accennato in precedenza, ha avuto sostanzialmente due
ragioni:
1. la pressione esercitata dalla riduzione del ruolo dello Stato, causata a sua volta dalla stretta finanziaria
sui conti pubblici imposta dalla Trattato di Maastricht, con la conseguenza di ridurre le risorse
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finanziarie disponibili alla cultura, avrebbe
potuto essere compensata (almeno in parte) da
soggetti in grado di gestire in modo più efficiente (a costo minimo) le attività di tutela e valorizzazione;
2. una malintesa e ottimistica concezione dell’impresa che, liberatasi da “lacci e laccioli” della gestione
pubblica, avrebbe potuto trovare risorse aggiuntive sul mercato, trattando le risorse culturali come
qualsiasi altro bene, sino a raggiungere un’integrale auto-sostenibilità economica.
La seconda ragione, di matrice liberista, non ha trovato mai sostegno empirico in Italia o all’estero.
Storicamente, infatti, non esistono casi di gestioni di beni culturali che possono dirsi autosostenute. I costi
investimento e di esercizio di un bene culturale, nel lungo periodo (comprensivi dunque dei costi di restauro e
manutenzione), non possono essere ripagati tramite i ricavi di esercizio. Esistono alcune situazioni particolari
(ad esempio i Musei civici di Venezia; Migale L., 1995) in cui costi e ricavi di esercizio annuali sono in
pareggio, ma che non tengono conto degli ammortamenti e degli investimenti iniziali.
La prima ragione, quella “pragmatica”, ha ispirato diversi studi e pratiche sul campo. L’evoluzione più
interessante di questo filone di studi aziendali e giuridici è la proposta di organizzazioni d’impresa di tipo non
profit, in particolare le cosiddette fondazioni di partecipazione. Vi sono numerosi esempi in Italia di
applicazione, come le 13 fondazioni liriche, quella del Museo Egizio a Torino e quella di Aquileia. Esistono poi
molte esperienze degli enti locali (come quella della Fondazione Musica per Roma, gestore dell’Auditorium, è
forse la più nota e interessante).
Sotto il profilo tecnico, l’analisi finanziaria è composta a sua volta di una serie di componenti. In primo luogo,
richiede un attento studio della domanda attuale e potenziale dei fruitori. Storicamente, i responsabili pubblici
della gestione dei beni culturali non hanno mai dato la dovuta attenzione al fronte della domanda, alle
preferenze dei fruitori attuali e potenziali, alle loro esigenze e alla loro soddisfazione. Di fatto i fruitori
costituivano entità sconosciute, quasi astratte, di cui nel passato si misurava al massimo il numero
complessivo (spesso in modo disomogeneo e intermittente). Oggi le indagini sulle visite costituiscono uno
strumento imprescindibile, poiché consentono di comprendere le reali esigenze dei visitatori, divederli in
tipologie (target), rappresentarne i comportamenti di fruizione e di spesa, tutti elementi di fondamentale
rilievo ai fini della gestione finanziaria, della sostenibilità e dell’efficacia di un progetto. L’analisi della
domanda ha poi lo scopo di stimare il flusso dei ricavi futuri attesi delle attività culturali, tra biglietti,
abbonamenti, servizi di accoglienza, ecc. La simulazione di tali voci sotto il profilo finanziario deve essere
impostata su un piano temporale di medio e lungo termine, allo scopo di prevedere un’evoluzione compatibile
con gli obiettivi sociali individuati dai fondatori dell’ente gestore. La ricostruzione del bilancio dell’ente deve
essere svolta sulla base di una chiara ripartizione funzionale dei centri di costo e dei centri di ricavo. Non
sempre questa operazione è possibile, poiché vi sono attività che generano costi non ripartibili ad alcuna
funzione specifica (come le spese generali) e costi che per loro natura non generano alcun ricavo (ad es.,
custodia, manutenzione ordinaria, ecc.).
Il bilancio, per essere ben fondato, deve anche basarsi su una seconda componente dell’analisi finanziaria, vale
a dire la configurazione organizzativa. L’assetto organizzativo si propone di configurare il funzionamento
effettivo dell’impresa, distinguendo precisamente le funzioni (di tutela, di conservazione e di valorizzazione),
relazionandosi all’insieme di variabili ambientali, istituzionali e tecniche esistenti. In termini applicativi, si
tratta di definire un piano che individui, sulla base del programma di attività e delle risorse disponibili per
l’acquisizione dei fattori materiali e immateriali, lo schema organizzativo delle funzioni d’impresa, e
coerentemente ad esso, i ruoli e le funzioni del personale.
Nell’analisi finanziaria di un ente culturale, la questione del personale assume una grande importanza
operativa. Storicamente, le maggiori criticità delle trasformazioni istituzionali, per quanto riguarda il
personale, sono state di due tipi:
-
-
sul piano logico, in Italia le organizzazioni esistenti, specie quelle statali, sono state tutte improntate
sulla massimizzazione delle funzioni di tutela. Solo una profonda riorganizzazone del personale e delle
relative funzioni consentirebbe di promuovere attività di valorizzazione di analogo rilievo;
sul piano empirico, la costruzione di nuovi modelli gestionali per i beni culturali già aperti al pubblico
implica lo spostamento (parziale o totale) del personale impiegato nel nuovo ente gestore, con possibile
modifiche allo status, alle mansioni, al ruolo, al trattamento economico dei dipendenti.
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In molti casi, il fallimento o il rallentamento di operazioni di trasformazione istituzionale dipendono proprio
dalla possibilità di risolvere, con il consenso di tutte le parti, il “problema del personale”.
Nel quadro di un’analisi di fattibilità, le analisi finanziarie (e quelle organizzative) sono riepilogate in un
apposito documento, denominato Piano economico finanziario, che contiene generalmente:
-
-
-
la quantificazione degli investimenti da effettuare sui beni culturali, in termini immobilizzazioni e i
relativi costi di gestione, per un congruo periodo di tempo;
l’analisi e quantificazione dei ricavi per un congruo periodo di tempo;
il conto economico, comprendente il conto previsivo dei ricavi associati a ogni linea di attività
(bigliettazione, abbonamenti, canoni da servizi di merchandising, ristorazione, bookshop, servizi resi a
terzi, ecc.) sulla base di una stima della domanda effettiva e potenziale dei servizi offerti, e quello
relativo ai costi operativi, per ogni categoria significativa, comprensivi delle spese generali degli
ammortamenti, sviluppandoli secondo la logica del “centro di costo” (ovvero dell’individuazione di
aree contabili autonome della gestione cui riferire attività, costi e responsabilità);
l’analisi della copertura finanziaria con mezzi propri, comprensivi dei finanziamenti pubblici
(contributi annuali od occasionali), delle risorse proprie e delle risorse derivanti da attività di fund
raising;
analisi finanziaria “di cassa”, per far fronte alle effettive esigenze di liquidità;
lo stato patrimoniale revisionale dell’istituzione.
L’indicatore sintetico più importante dell’analisi finanziaria (e del Piano economico-finanziario) è
l’accertamento e il dimensionamento del deficit gestionale strutturale e la sua modalità di copertura. Le scelte
relative alle attività e la struttura dei costi devono essere messe in relazione alle effettive risorse disponibili da
parte dei soggetti responsabili dei beni. Può accadere frequentemente che non vi sia la disponibilità immediata
necessaria, e questo può ripercuotersi su tutte le scelte precedenti inerenti la parte tecnica e istituzionale.
Il terzo gruppo di analisi è quello relativo all’analisi economica. Senza ripetere ciò che è stato già detto
precedentemente, l’analisi economica ha lo scopo di proiettare gli effetti prodotti dalla gestione dei beni
culturali su un territorio ( e già l’ambito territoriale di incidenza degli effetti del progetto deve essere definito
in base a un ragionamento di sostenibilità). L’analisi economica nasce soprattutto per valutare la convenienza
di un investimento pubblico, indipendentemente dalla distribuzione che l’intervento produce sul territorio.
Quello del settore culturale, costituisce un classico caso di “free riding”, fenomeno per la prima volta
descritto nel 1948 da Samuelson. Nel caso dei beni culturali, i free rider sarebbero rappresentati, ad esempio,
dagli imprenditori appartenenti alla filiera turistica e commerciale (albergatori, ristoratori, commercianti,
ecc.), che si avvantaggiano dell’attrazione esercitata sul pubblico locale, nazionale e internazionale da un bene
culturale, senza per questo versare un contributo al costo di esercizio della gestione del bene. Se la gestione di
un bene culturale è sempre passiva, e se qualcuno non si incarica della sua gestione, gli stessi imprenditori non
ricevono alcun beneficio. Nonostante ciò, nessun imprenditore si accollerebbe le spese di conservazione del
bene, se non obbligato, nella convinzione che il settore pubblico, comunque, garantirà tale funzione
nell’interesse generale (in effetti, è rarissimo che gli imprenditori, anche conoscendo le caratteristiche de lla
gestione di un bene culturale, diano un contributo alla sostenibilità economica e finanziaria; il fenomeno è
tutt’oggi irrisolto, e non solo in Italia).
Solo un’analisi complessiva degli effetti economici prodotti dalla gestione è quindi in grado di calcolare effetti
che avvengono al di fuori del contenitore culturale, come fossero interni. Si tratta di “economie esterne” –
concetto già esposto - che, soprattutto qualora i flussi di fruizione fossero elevati, possono garantire un
impatto economico al territorio ben più ampio del contributo pubblico destinato alla gestione del bene
culturale.
Negli ultimi anni, si è dato poco spazio agli aspetti evidenziabili attraverso le analisi economiche, sicuramente
meno rispetto agli anni ottanta. E si è al contrario dato un peso talvolta eccessivo agli aspetti finanziari.
Eppure, i risultati di questa tipologia di analisi sono molto importanti.
18
In primo luogo, l’analisi economica fornisce una giustificazione rigorosa all’utilizzo di risorse pubbliche
centrali e locali. L’analisi quantifica infatti la componente “meritoria” dell’attività culturale e ne determina il
controvalore di riferimento per il contributo minimo pubblico annuale.
In secondo luogo, solo a livello economico è possibile ottimizzare le modalità di intervento e gli investimenti in
un contesto più ampio di quello del museo. Si pensi, ad esempio, al problema delle infrastrutture urbane, che
nel caso di beni culturali di grande attrazione, potrebbero essere sottodimensionate rispetto a una fruizione di
massa, elemento di cui la sola analisi finanziaria non tratta neanche marginalmente.
In terzo luogo, l’analisi economica fornisce elementi importanti su cui fondare un’efficace governance
interistituzionale. Solo in termini economici è possibile stabilire e quantificare le convenienze e gli interessi
prevalenti, e per via di questi disporre gli elementi chiave, sia quella interna (dell’ente gestore), sia quella
esterna (tra ente gestore ed altri soggetti pubblici e privati), sul tavolo della governance interistituzionale.
In quarto luogo, molti effetti prodotti dalle politiche culturali non hanno un ritorno economico immediato.
Gli aspetti relativi all’influenza positiva sugli individui prodotta dall’esperienza culturale, non trovano nelle
analisi d’impresa (e dunque nell’analisi finanziaria) alcuna attenzione. Eppure si tratta di effetti che nel lungo
periodo possono essere importanti per la persona e per la collettività a cui appartiene e che, come visto, sono
alla base della massiccia presenza del settore pubblico. Solo l’analisi economica, anche se non sempre in modo
pieno e soddisfacente, è in grado di misurare con appropriate tecniche di stima, gli effetti economici di lungo
periodo, indiretti ed esterni (istruzione, formazione, ecc.) afferenti a famiglie e a imprese locali, nazionali o
straniere.
8.7.
GLI ASPETTI CHE INCIDONO MAGGIORMENTE SULLA SCELTA DI UN MODELLO
GESTIONALE
Le relazioni tra le componenti tecniche, finanziarie, economiche e quelle giuridiche che incidono sulla scelta
diuna forma gestionale possono essere riferite essenzialmente a due gruppi di questioni importanti: la scelta
giuridica della forma gestionale e il tipo e le modalità di governance che legano l’ente gestore ai proprietari del
bene e ad altri soggetti eventualmente presenti sul territorio.
In particolare, per quanto riguarda la forma gestionale, la pratica operativa fa emergere alcune domande
ricorrenti, fra loro collegate:
-
l’attività gestionale è in grado di autosostenersi?
Se non è in grado di autosostenersi, il modello gestionale soddisfacente è di tipo “pubblico” o di tipo
“privato”?
Quanti sono i beni culturali oggetto della gestione e in quale territorio ricadono?
Nel caso di una gestione complessa (di sistema o di rete), chi sono i soggetti pubblici e privati interessati?
Se in una gestione complessa partecipano soggetti privati, di che natura sono?
Per quanto riguarda la governance, sia interna che esterna, aldilà del caso di un singolo soggetto responsabile
(pubblico) dei beni, i temi più rilevanti sono almeno due:
-
nel caso della governance interna, qualora si dovessero coinvolgere più soggetti pubblici o privati nella
gestione, quali sono le relative gerarchie?
nel caso della governance esterna, chi sono i soggetti da coinvolgere e quali potrebbero essere gli indirizzi e
le funzioni principali oggetto della governance?
A queste domande è possibile rispondere solo dopo avere approfondito il progetto gestionale in tutti i suoi
profili. È bene inoltre aggiungere che esistono almeno due fattori ulteriori in grado di incidere sulle scelte
giuridiche, qualsiasi sia il modello gestionale prescelto, ovvero:
19
che comporta una riduzione dell’autonomia
1. la tutela di competenza esclusiva dello Stato,
dell’ente o dell’impresa, perché le Soprintendenze (e/o la Direzione Regionale sovraordinata) possono
imporre limiti e obblighi negli usi dei beni culturali. L’ingerenza di un ente pubblico sull’impresa
culturale, sia essa pubblica o privata, può essere significativa in termini di obiettivi e attività. Ad
esempio, specificazioni in merito alle modalità di conservazione dei beni possono imporre costi elevati
di manutenzione. Possono essere posti dei limiti di tempo per l’esposizione di un bene (per ragioni di
rischio), riducendo l’appetibilità alla visita del contenitore. Gli atti di tutela da parte di un organo
competente possono dunque influenzare pesantemente l’azione d’impresa e determinarne anche la non
sostenibilità.
2. la proprietà pubblica del patrimonio culturale, da cui deriva che il bene è concesso all’ente gestore e
non conferito in proprietà (il bene rimane iscritto al demanio dello Stato o dell’Ente locale).
Su entrambi i punti non dovrebbero esistere dubbi, perché si tratta di temi largamente discussi e condivisi sia
tra i giuristi che tra gli economisti. Tuttavia, questa presa d’atto produce effetti reali e psicologici. Tra i primi,
il riflesso economico più importante è dato dal mancato trasferimento proprietario del bene culturale: non è
possibile costruire strumenti finanziari complessi in base ai valori di mercato del bene concesso. Un caso ovvio
è quello di un edificio conferito di grande dimensione, localizzato in un centro storico di città come Roma,
Firenze, Milano o Venezia. In molti casi, quando il contributo pubblico è insufficiente o ritarda, il soggetto
gestore potrebbe creare appositi strumenti finanziari per ottenere la liquidità necessaria all’operare quotidiano
o ad assicurare nuove espansioni e rinnovi del contenitore. Affinché possa essere oggetto di una garanzia reale,
però, il bene conferito dovrebbe essere alienabile, condizione che giustamente non è ammessa
dall’ordinamento.
Tra gli effetti psicologici ricordiamo l’allontanamento o la diffidenza di potenziali soci privati a partecipare
degli enti gestori, a causa di una ridotta autonomia gestionale, sia che essa dipenda dalla funzione di tutela
delle Soprintendenze, sia da eventuali altri vincoli posti sugli usi dei beni culturali, che potrebbero derivare
dal contratto di concessione da parte dell’ente pubblico.
Può accadere che la Soprintendenza non condivida gli usi “compatibili” del bene o dei beni concessi all’ente
gestore, anche se questi possono ridurre il deficit gestionale. Ad esempio, è cronaca quotidiana la scelta
conservativa di molte Soprintendenze di non concedere il prestito di opere d’arte allo scopo di organizzare
mostre nazionali e internazionali, quando vi siano seri rischi di perdita, degrado o distruzione.
Nel passato, con modalità del tutto informali, le grandi imprese hanno declinato la partecipazione diretta nei
consigli di amministrazione degli enti gestori alludendo al principio della libertà d’impresa e dell’autonomia
imprenditoriale. Attualmente, questa visione “negativa” sembra essere meno presente, anche se rimane una
certa diffidenza.
8.7.1. Gli aspetti economici e finanziari che influenzano la scelta della forma giuridica di gestione
Per la progettazione giuridica di un bene culturale è fondamentale misurare con la massima accuratezza la
presenza di un deficit di bilancio. Le determinanti del deficit sono oggetto dell’analisi finanziaria ed
economica, ma la risposta invariabilmente e banalmente costante è che il divario tra costi e ricavi è
costantemente presente.
In campo museale, un autofinanziamento da bigliettazione e abbonamenti che raggiunga un livello del 30/35%
del costo totale di esercizio è da considerarsi un ottimo risultato (Fuortes C., 1998, op. cit.).
I servizi di accoglienza (o aggiuntivi secondo quanto previsto originariamente dalla Legge Ronchey), in genere
esternalizzati, possono contribuire per un ulteriore 3/5%, a seconda anche dei servizi effettivamente attivabili
(la ristorazione, ad esempio, richiede grandi spazi e impianti a volte incompatibili in edifici storici o nelle aree
archeologiche, e un volume di utenti minimo - “massa critica” - elevato). Alcuni enti affittano poi spazi per
20
conferenze, spettacoli, eventi, che possono fornire un sostegno significativo (come l’Auditorium di Roma).
Non è raro che il parcheggio a pagamento nei pressi del bene culturale dia luogo a un introito aggiuntivo
(come al Getty Center di Los Angeles o al Parco della Sterpaia a Piombino).
Il mecenatismo è un evento prezioso ma piuttosto raro in Italia, che riguarda solo alcuni specifici beni
culturali molto noti. Assai più frequente la sponsorizzazione da parte delle imprese, ma in genere si indirizza
su un evento, un’iniziativa editoriale, o quando è possibile prevedere un forte ritorno d’immagine. Peraltro, il
mecenatismo e la sponsorizzazione presentano alcuni limiti in Italia: la struttura produttiva italiana è
frammentata da un numero elevatissimo di piccole e medie imprese, non in grado di sponsorizzare eventi così
come accade per la grande impresa; durante i periodi di crisi e di stagnazione economica la sponsorizzazione è
una delle prime voci di bilancio tagliate dalle imprese; lo stimolo fiscale legato alla donazione e al
mecenatismo, oltre che dalle dimensioni delle imprese, è poi reso poco efficace dal fenomeno dell’evasione
fiscale.
Il contributo pubblico copre il differenziale tra i ricavi rivenienti dalle fonti precedentemente elencate e i costi
totali della gestione.
Il deficit di bilancio è normalmente determinato da condizioni dell’offerta e della domanda, in particolare:
-
il numero di dipendenti e il costo del personale stabile (offerta);
la limitata capacità attrattiva e l’insufficiente disponibilità a pagare del pubblico (domanda);
il costo di restauro e di manutenzione dei luoghi elevato (offerta);
i limiti alla fruizione del bene culturale determinata da eventuali esigenze di conservazione o da problemi
di congestionamento (domanda/offerta).
Tra queste motivazioni la prima e la seconda sono le più rilevanti. Per quanto riguarda il costo del personale,
si tenga conto che l’impresa culturale si caratterizza sempre per un’alta intensità del fattore lavoro. Negli
ultimi anni le imprese museali hanno cercato di compensare il costo del lavoro riducendo il numero di persone
addette alla custodia, adottando tecnologie avanzate per il controllo delle sale (ad es. videosorveglianza) ma,
evidentemente,il morbo di Baumol può solo in parte essere eluso. Altri istituti hanno scelto di adottare la via
della flessibilità del lavoro, impiegando personale in base alle necessità del momento e riducendo gli orari di
apertura nei periodi di minore affluenza. Questi tentativi hanno portato a un miglioramento nei costi
d’impresa, ma non hanno cambiato il segno del differenziale tra costi e ricavi.
Se la risposta al tema dell’autosostenibilità dei beni culturali è dunque banale, tuttavia, le conseguenze
possono essere importanti. Allo stato attuale, dato il contesto normativo esistente, le opzioni giuridiche delle
forme gestionali a disposizione, sia pubbliche che di natura privatistica, sarebbero le seguenti:
-
-
la gestione in forma diretta (secondo quanto disposto dall’art. 115 del Codice);
la creazione di consorzi (strutture create dagli enti locali per la gestione associata di uno o più
servizi e per l’esercizio associato di funzioni, forma diretta disciplinata dall’art. 31 del TUEL);
convenzioni (strumento, al pari dei consorzi, annoverabile tra i fenomeni associativi su base
contrattuale);
la stipula di accordi organizzativi tra pubbliche amministrazioni ex art. 15 legge 241/1990
(ipotesi negoziale molto semplice che può avere contenuti differenti e differenti effetti a seconda
di come viene architettato il contenuto negoziale);
la creazione di aziende speciali e istituzioni (art. 114 TUEL);
la creazione di società miste (attraverso cui l’ente locale tende – sussumendo un obiettivo di
redditività di impresa - a ottimizzare le sinergie pubbliche e private nella gestione dei servizi
pubblici). La dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 113-bis del TUEL, ha eliminato la
possibilità del ricorso alle società miste nella gestione dei servizi privi di rilevanza economica,
ammettendo solamente le società a capitale interamente pubblico. L’articolo 116 della stessa
legge, tuttavia, continua a prevedere la possibilità di costituzione di società per azioni senza il
vincolo della proprietà pubblica maggioritaria, anche in deroga ai vincoli derivanti da
disposizioni di legge specifiche. I soci privati, in questo caso, andranno scelti mediante gara
21
-
la creazione di associazioni e fondazioni
costituite o partecipate dall’Ente locale
(tipologie di organismi disciplinate negli artt. 14 e seguenti del Codice Civile.
Già da questa elencazione emerge un altro aspetto importante, già in parte rilevato, di carattere gestionale:
nonostante tutto, sul piano empirico, non esiste una risposta univoca e certa al problema della scelta pubblica
o privata della forma gestionale. Su questo aspetto si deve affermare con forza che esistono buone ragioni per
scegliere o l’una o l’altra e che le analisi tecniche, economiche e finanziarie possono fornire utili suggerimenti a
tal fine. La difficoltà deriva dal fatto che nel settore culturale gli obiettivi sono essenzialmente pubblici e
normalmente, secondo giurisprudenza, il perseguimento di tali obiettivi dovrebbe essere assicurato da
organizzazioni di natura pubblicistica.
Sulla base di un principio di assenza di profittabilità, infatti, molti esperti escludono soluzioni giuridiche che
contemplano la ricerca di un profitto, come le società di capitali. Non si tratta di una scelta dogmatica e
assoluta, poiché i contributi pubblici e privati potrebbero essere sempre commisurati alle necessità delle
imprese profit, così come di fatto accade in altri settori dei servizi pubblici locali, come i trasporti o l’acqua.
Per diversi anni, le società commerciali hanno rappresentato un’ipotesi non solo fattibile, ma percorribile, per
i beni culturali, tanto che sono presenti vari casi, alcuni di essi anche rappresentativi anche di buone pratiche
(Parchi Val di Cornia SpA, vedi Casini A. e Zucconi M., 2003; Brescia Musei SpA, che vede la partecipazione
del Comune di Brescia e della Fondazione CAB). Rimane tuttavia il dubbio sulla natura prettamente
commerciale di una società che si occupi di obiettivi collettivi e sociali, rafforzato dalla frequente situazione di
crisi di alcune di esse, le cui soluzioni non hanno mai risolto del tutto l’emergere di un crescente passivo.
L’evoluzione recente ha visto, anche per questo, accantonare il modello delle società per azioni, e lasciare
campo libero a soluzioni alternative, tra le quali quella della “fondazione” appare oggi, a torto o a ragione, la
più frequentemente adottata. Queste organizzazioni, la cui sperimentazione è in corso, presentano
implicazioni interessanti per tre motivi:
1. sarebbero organizzazioni economiche più attente all’efficienza rispetto a un ente pubblico (non
sempre, tuttavia, questo è vero, come evidenziato dal comportamento degli enti lirici italiani, dopo la
trasformazione in fondazioni negli anni novanta, si veda Leon A.F., 2010);
2. garantirebbero una governance interna (nel CDA possono sedere soci pubblici e privati) ed esterna più
ampia ed efficace (anche questo aspetto dovrà essere validato in base a studi ex post delle fondazioni
italiane);
3. sarebbero in grado di attivarsi più efficacemente alla ricerca di risorse (fund raising) da parte di
donatori e mecenati (esiste un’ampia letteratura straniera che sostiene questa tesi, tuttavia, le
evidenze sono riferibili in particolare ai paesi anglosassoni, con un assetto di regole giuridiche,
istituzionali e fiscali diverso).
Molti economisti appartenenti al ramo aziendale mostrano una preferenza per organizzazioni di tipo privato e
una ancora maggiore predilezione per le soluzioni di tipo no profit. Gli aspetti che farebbero pendere la bilancia
a favore di organizzazioni di tipo privato e no profit, in particolare, sono diversi:
-
-
-
per ogni attività culturale intrapresa, un ente pubblico deve espletare un numero maggiore di atti – ad
esempio, per assicurare la legittimità degli atti amministrativi – rispetto a un’analoga organizzazione
privata, richiedendo per questo una maggiore specializzazione professionale, un tempo di lavoro più lungo
e un costo maggiore associato alle singole azioni;
all’aumentare della varietà dell’attività culturale, cresce la complessità organizzativa, mettendo in
difficoltà l’ente pubblico la cui azione amministrativa si incrementa e si complica più che
proporzionalmente;
la complessità organizzativa aumenta anche in relazione al numero di beni culturali gestiti (ad es., quelli
di una grande città o quelli appartenenti ad un sistema gestionale complesso), come per esempio la
gestione di un sistema culturale o di una rete destinata al servizio di più musei (carta dei musei,
abbonamenti museali, call center per le prenotazioni, ecc.);
22
-
-
le attività culturali presuppongono una vasta
autonomia culturale, artistica e scientifica. Le
attività culturali dovrebbero essere forgiate senza intrusioni di tipo sociale, politico o economico. Un ente
gestore pubblico può essere invece influenzato dall’amministrazione o dall’autorità da cui deriva, con il
rischio evidente di ridurre la qualità dell’attività culturale;
tra i soggetti disponibili a partecipare direttamente alla gestione vi potrebbero essere dei privati, come
una fondazione bancaria, un’impresa, un mecenate, disponibili a concedere finanziamenti per
l’investimento iniziale e/o contributi annuali, anche senza dirette contropartite (ad es. la partecipazione
attiva alle decisioni dell’ente, il ritorno di immagine, occasioni di lavoro). In questo caso, le soluzioni
“pubbliche” non sarebbero giuridicamente possibili.
Per arrivare a una decisione fondata sulla natura pubblica o privata d’impresa, il complesso di analisi
tecniche, finanziarie ed economiche deve essere orientato di conseguenza. In particolare, la progettazione delle
attività culturali implica un serio e circostanziato approfondimento del tipo di attività da svolgere e
l’individuazione dell’ambito territoriale di riferimento. A maggior ragione, se la gestione si riferisce ad un
insieme di beni culturali localizzati in varie zone diverse del territorio, con una varietà ed ambiti tematici
differenziati. L’analisi finanziaria e quella organizzativa dovranno misurare gli effetti prodotti dalla
programmazione delle attività culturali, allo scopo di verificarne sia il funzionamento, sia il flusso dei costi e
ricavi associati. Non vi sarebbero dubbi, invece, nel caso in cui la gestione riguardasse un singolo bene
culturale e un ambito territoriale molto limitato: il modello di gestione pubblica, in questo caso, si impone da
solo.
I casi reali sottoposti a studi di fattibilità non rientrano mai precisamente a un estremo o a un altro dello
spazio immaginario che separa le gestioni pubbliche da quelle private. Un aiuto nella scelta può venire da
un’attenta valutazione ex post della gestione (se esistente) del bene culturale (questa era all’altezza delle
esigenze della domanda? i costi erano proporzionati all’attività, alla frequenza e alla qualità dei servizi?). Un
altro aspetto cruciale è la verifica delle competenze e della qualità del personale impiegato dall’ente gestore (se
questo può essere re-impiegato in un nuovo ente - anche privato - e se esiste una disponibilità a cambiare
datore di lavoro). Anche quando si verifica la convenienza logica, tecnica ed economica a una trasformazione
istituzionale verso modelli di diritto privato, l’eventuale trasferimento del personale potrebbe creare problemi
e frizioni tali da rendere il cambiamento insostenibile, o comunque molto complicato.
Un aspetto importante attiene anche alla misura della convenienza del soggetto responsabile del bene rispetto
al cambiamento del modello gestionale, quando il soggetto è pubblico (ad esempio un Comune). Il Governo
italiano, negli ultimi anni, ha cercato di imporre a tutto il settore pubblico il principio generale che scelte
come la creazione di un nuovo ente gestore di diritto privato (come una fondazione) sono possibili se e solo
dove sia dimostrabile, oltre ogni ragionevole dubbio, che tale cambiamento può produrre un miglioramento
istantaneo (un risparmio di costi) dei conti pubblici; il che è possibile trasferendo non solo le risorse di bilancio
in forma di contributo, ma anche il personale e gli altri costi associati a quella competenza (pulizie,
manutenzioni, utenze, ecc.). Si tratta di una richiesta piuttosto estrema, che in realtà influenza, forse in modo
illegittimo, la scelta autonoma dell’ente locale in merito alla migliore allocazione delle risorse finanziarie a
propria disposizione.
L’analisi economica è una tecnica molto utile a questo proposito. L’analisi costi benefici valuta effettivamente
la convenienza della trasformazione istituzionale nel lungo periodo, dinamicamente, anche se questa può dare
luogo a un aggravamento del bilancio pubblico nel breve termine. In effetti, una pura logica “ragionieristica”,
che basi la scelta di trasformazione istituzionale solo sulla riduzione del costo attuale dell’ente pubblico,
probabilmente cancellerebbe molti progetti convenienti per il territorio. Se il progetto prevede un “cambio di
scala”, vale a dire che si propone un incremento delle attività culturali per ottenere anche un mutamento
effettivo delle condizioni di attrattività e di fruizione, con effetti territoriali in termini di sviluppo locale
(maggiore valore aggiunto e maggiore occupazione), il fatto che questo possa produrre un incremento del
contributo (e non una sua riduzione), dovrebbe essere valutato alla luce della produttività di lungo periodo.
Quest’ultima, poi, dovrebbe anche essere messa a confronto con quella (calcolabile) associata ad altri progetti
pubblici concorrenti, per poi verificarne il costo (o il guadagno) annuale futuro atteso. Ad esempio, un
miglioramento della situazione economica generale prodotta dal progetto nel lungo termine può produrre un
23
aumento della raccolta della tassazione municipale, compensando del tutto o in parte l’eventuale
contributo annuale di esercizio.
Quando il contributo annuale dell’ente gestore pubblico o privato diventa molto significativo, è utile portare
l’attenzione dei responsabili dei beni culturali verso forme gestionali più efficienti ed efficaci, quelle che si
propongono di mettere in rete beni e attività culturali su un territorio ampio. In genere questa tipologia di
gestione è denominata:
-
-
sistema culturale (museale, teatrale, musicale, bibliotecario, ecc.), che sovrintende in modo diretto la
gestione di siti culturali che hanno in comune un tema (archeologia, arte, scienza, arte contemporanea,
ecc.) e/o un territorio;
rete (o network), quando l’accordo prevede la messa in comune di alcuni servizi e non la gestione unitaria e
integrata dei siti;
distretto culturale, quando l sistema presenta un’elevata interazione con le filiere economiche e con il
tessuto sociale, venendo a configurare una struttura di tipo distrettuale (anche se in genere questa
categoria, molto generale e poco frequente, può dare luogo ad una rete, ricadendo nella categoria
precedente).
Se si aumenta la scala della gestione, è possibile incrementare le eventuali “economie di scala”.
Il termine “economie di scala” in inglese economies of scale è usato in economia per indicare la relazione
esistente tra aumento della scala di produzione e diminuzione del costo medio unitario di produzione Ad
esempio, riducendo il costo unitario di alcuni servizi di comunicazione e di promozione, applicando strumenti
di marketing più complessi, ottimizzando i servizi sui singoli contenitori ed in base alla domanda effettiva.
L’ampliamento dell’ambito territoriale significa anche estendere il pubblico potenziale. Con alle spalle
un’organizzazione culturale più grande sarebbe possibile “produrre attività ed eventi culturali” di qualità,
accreditandosi meglio a livello nazionale e forse internazionale. I cosiddetti “sistemi culturali” sono difficili da
creare, richiedono molto tempo ed attenzione da parte degli enti che possono farvi parte. Tuttavia, quando è
possibile crearli è difficile prescinderne, sono persistenti ed i risultati sul piano culturale ed economico sono
spesso positivi.
Quando i soggetti sono tanti, è difficile costruire ipotesi gestionali del tutto pubbliche, anche se esistono
apposite soluzioni (come il Consorzio). In linea di massima, le soluzioni possono essere di due tipi, entrambe
classificabili giuridicamente come “indirette”:
-
l’esternalizzazione del servizio (del tipo global service) a un soggetto privato specializzato;
la creazione di una fondazione di partecipazione o di forme assimilabili.
Senza entrare nel merito delle caratteristiche di queste forme gestionali, trattate altrove nel manuale, la
principale differenza tra queste alternative è che la seconda assicura una produzione culturale complessa, una
politica di valorizzazione a tutto campo per nome e per conto dei soggetti pubblici o privati coinvolti. La
prima, invece, costituisce una buona soluzione quando il servizio consiste nel mantenere e rendere disponibile
e stabile alla fruizione un certo numero di beni, assicurando un insieme di servizi di valorizzazione meno
complessi. Nel caso dei musei, ad esempio, l’esternalizzazione garantisce l’apertura delle sedi museali e
l’espletamento dei servizi di base (bigliettazione, pulizie, custodia, vendita di prodotti editoriali e
merchandising, ecc.). Questa scelta invece non sarebbe adatta qualora la gestione delle attività culturali
comprendesse anche azioni di valorizzazione complessa (programmare e produrre mostre, eventi, libri, ecc.).
8.7.2 Gli aspetti economici e finanziari che influenzano la scelta della governance
La governance interistituzionale è senza dubbio il “tallone d’Achille” del settore dei beni e delle attività
culturali. La gran parte dei manuali di economia aziendale e in materia giuridica si occupano della governance
24
soprattutto con riferimento alle modalità per assicurare il perseguimento efficace ed efficiente degli
obiettivi pubblici statutari e programmatici di un organismo gestionale (pubblico o privato). In questo senso,
la governance prefigura un’attività ordinaria e continuativa, ove il sistema di verifica e controllo
(accountability) è finalizzato essenzialmente a evitare disallienamenti significativi tra volontà pubbliche e
private dei “soci”, da una parte, ed esiti della gestione, dall’altra.
È però poco noto, al contrario, il momento forse più critico e cruciale nella “storia gestionale” di un bene
culturale, rappresentato dalla governance che viene prima della messa a regime di un ente gestore. E’ in questa
fase, infatti, che si determinano i termini della negoziazione che porterà all’assetto finale e i contenuti di
accordi, convenzioni e intese, comprensivi degli impegni in termini di risorse umane e finanziarie da parte di
ognuno dei soggetti coinvolti, e delle attese in forma di risultati (immagine, prestigio, risorse, conservazione
dei beni, ampliamento dei fruitori, ecc.).
In Italia, come ribadito molte volte, la grandissima parte dei beni culturali destinabili alla fruizione è di
proprietà pubblica – statale e degli enti locali - e le trasformazioni sono rese difficili da una serie di fattori tra
cui:
-
il costo economico associato al cambiamento;
la preoccupazione da parte del personale pubblico di perdere il proprio lavoro, ruolo e funzione;
la preoccupazione che scelte innovative per la gestione dei beni culturali possano creare le condizioni di
una minore tutela dei beni e un pericolo di degrado.
Accanto a tali preoccupazioni, gli enti locali mostrano una modesta capacità partenariale, in maniera
particolare per lo sviluppo di forme innovative di gestione come quelle di sistema o di rete, nelle quali da un
lato, stende a fare massa critica per raggiungere un obiettivo comune, ma dall’altro si deve accettare una
potenziale restrizione di competenze sui beni che vengono condivisi. E’ perciò difficile proporre gerarchie tra i
soggetti partecipanti, anche se vi sono elementi oggettivi in grado di fornire indirizzi utili in tal senso,ovvero
le risorse economiche messe a disposizione e l’importanza del bene culturale concesso.
Si tratta, in realtà, di stabilire regole “equitative” tali da permettere un bilanciamento degli impegni in base
al valore e alla qualità dei beni, alla dimensione degli enti, alle risorse disponibili. Non è un caso che le reti e i
sistemi nascano quando è presente un “tutore” serio e affidabile, in genere sovraordinato, rappresentato da un
funzionario o da un dirigente dell’amministrazione territoriale (spesso provinciale, più raramente regionale) o
di un responsabile della Soprintendenza. Il tutore costituisce un perno fondamentale per la governance, la sua
assenza - come è stato per numerosi studi di fattibilità elaborati alla fine degli anni novanta nell’ambito del
periodo di programmazione dei Fondi Strutturali 2000-2006 - può essere causa di gravi vincoli allo sviluppo di
un progetto.
Gli studi d fattibilità originati dal periodo di programmazione europea dei Fondi Strutturali 2000-2006 hanno
dato generato idee che successivamente avrebbero potuto trovare sbocco nella progettazione finanziata dai
programmi operativi del Fondo Europeo per lo Sviluppo Regionale (FESR), ma quasi nessun progetto è stato
successivamente realizzato, spesso nemmeno progettato (tali studi peraltro riguardavano beni di grande
rilievo come le aree archeologiche di Pompei, Paestum, Sibari, l’area di Fuenti, sulla Costiera Amalfitana,
l’area archeologica di Arpi, nella Daunia).
È importante riportare, a questo proposito, ancora un altro articolo del Codice dei Beni culturali e del
Paesaggio che su questo punto (art.112, comma 4), stabilisce che “lo Stato, la Regione egli altri Enti pubblici
stipulano accordi per strategie ed obiettivi comuni di valorizzazione, nonché per elaborare i piani strategici di
sviluppo culturale e i programmi, relativamente ai programmi di pertinenza pubblica”. Si tratta di una
previsione ancora poco attuata nel campo della gestione culturale, di cui forse non si è compreso fino in fondo
la portata effettiva. La possibile presenza di un partenariato comprensivo dello Stato (MiBAC) port a in dote
un patrimonio di elevata qualità, con l’effetto potenziale di migliorare la sostenibilità economica e finanziaria
dei progetti di valorizzazione. In Italia, la partecipazione dello Stato a processi di innovazione della gestione è
ancora occasionale, e contrassegnata da modalità del tutto “sperimentali”. La presenza dell’Amministrazione
25
statale in un processo di innovazione istituzionale porterebbe al contempo un patrimonio di conoscenza
molto significativo, ma anche di naturale e qualche volta ben fondata diffidenza, in merito a rischi di possibile
mercificazione e depauperamento dei valori storico-artistici del patrimonio culturale.
Lo sviluppo del dialogo interistituzionale e sociale, nei casi più complessi, è una pratica che richiede molto
tempo. L’esperienza mostra che, in genere, il tempo di attuazione di una nuova forma di gestione, prendendo
in considerazione sia il tempo necessario per mettere d’accordo tutti i soggetti coinvolti, sia quello per
l’eventuale recupero e la riqualificazione del patrimonio (passaggio che generalmente da avvio a una
riflessione sulle modalità di gestione e valorizzazione), sia almeno di 5 anni, in qualche caso anche 10. La
sopravvivenza del progetto costituisce perciò un obiettivo in sé, e non è infrequente che un lasso di tempo
molto lungo caratterizzi anche i progetti che soddisfano tutte le condizioni di sostenibilità e di realizzazione
tecnica (solo per fare un esempio, nella realizzazione della rete provinciale di Grosseto, nell’ambito delle reti
museali locali in Toscana, la sola firma dell’accordo di programma da parte della Provincia e di 13 Comuni
partecipanti ha richiesto più di due anni, aggiunti ai due ulteriori utilizzati per la stesura del testo degli
accordi).
Una volta “montato” l’ente gestore, la governance assume altre sembianze. Innanzitutto, le scelte gestionali
sono determinate dagli organi di governo dell’ente gestore (come il Consiglio di Amministrazione, il
Presidente, l’Amministratore delegato, Il Direttore, il Collegio dei Sindaci), a loro volta nominati dai “soci”
pubblici e privati. I soci siedono nell’Assemblea e nel Consiglio di Amministrazione (CDA). La governance delle
fondazioni liriche, ad esempio, o di quelle create attorno a un patrimonio del MiBAC (Museo Egizio di Torino,
Aquileia) è assicurata attraverso l’operare del C.d.A. e da altri organi di espressione del Ministero.
Nelle gestioni complesse - a rete o a sistema – oltre alla governance interna all’ente gestore, è possibile
affiancare altri organismi collegiali di controllo. Per esempio è possibile prevedere un’assemblea di tutti i
soggetti pubblici e privati coinvolti, che ha il compito di proporre progetti di sviluppo, di approvare i
programmi di valorizzazione, di approvare i bilanci consuntivi e previsionali. Questi organismi hanno valenza
formale, si riuniscono non più di una o due volte l’anno, raramente influenzano in modo significativo le
politiche e le scelte culturali. L’autonomia culturale che ne deriva dovrebbe essere piuttosto ampia, anche se
spesso non mancano le influenze sulle scelte da parte dei partner più forti.
Esistono poi altre forme di controllo: i beni concessi sono oggetto di specifici atti di concessione che possono
prevedere ulteriori meccanismi di verifica dell’attività dell’ente gestore. A volte la “concessione di serviz i”,
qualora l’ente gestore sia di natura privata, può prevedere l’approvazione di una “carta dei servizi” e di un
“contratto di servizio”, che potrebbero ulteriormente contenere altre tipologie di controllo. Tutti questi
elementi portano a una complessità operativa di non poco conto, che impatta sulla fattibilità dell’ente gestore
e ne ritarda l’attuazione, ma che allo stesso tempo garantiscono, se ben congegnati, una corretta ed efficace
gestione.
Negli ultimi anni è stata data grande rilevanza alla governance esterna. La governance promuove il dialogo
sociale, e dovrebbe formarsi laddove è possibile trovare consensi e risorse attorno a progetti di natura pubblica
e mista pubblica/privata. Insomma, in una situazione di crisi persistente della finanza pubblica, questi
meccanismi istituzionali dovrebbero favorire un allineamento non occasionale tra l’interesse pubblico (e tra
interessi pubblici di diverse amministrazioni) e quello privato; si consideri che normalmente il dialogo sociale
non implica strutture, costi e formalizzazioni complesse, in genere si tratta di accordi che prevedono
l’identificazione di luoghi di incontro, un’attività di coordinamento piuttosto leggero ed economico, la
fissazione di chiari obiettivi comuni, la formalizzazione del funzionamento del dialogo.
La governance è dunque di tue tipi:
-
quella diretta a far dialogare i responsabili pubblici e privati appartenenti alla filiera culturale;
quella diretta a far dialogare l’ente gestore, gli enti locali e gli agenti economici presenti sul territorio.
Per quanto riguarda la prima, anche laddove sia stata creata una gestione innovativa a sistema o a rete,
spesso emerge l’esigenza di far dialogare tutti gli enti pubblici e privati responsabili del patrimonio culturale
di uno specifico territorio (lo Stato in primis, ma anche la Diocesi, che spesso recalcitra di fronte alla possibile
26
partecipazione diretta a reti o sistemi), l’ente gestore e in genere anche i potenziali finanziatori, come le
Fondazioni bancarie. Solo in alcune grandi città è stato possibile proporre e far funzionare una governance
formale (ad es. a Torino), anche per una difficoltà oggettiva a sottoporre preventivamente e coordinare
attività potenzialmente in concorrenza fra loro. In generale, i temi di questa tipologia di governance sono:
-
evitare sovrapposizione di attività lungo il corso dell’anno;
dividere bene i confini ed il lavoro di ognuna delle organizzazioni culturali;
proporre attività in coproduzione, soprattutto per l’organizzazione di grandi eventi;
coordinare gli orari di apertura dei beni;
cooperare in ordine ad alcuni servizi per dividere e ridurre il costo (ad es., la prenotazione dei biglietti o
l’informazione tramite i call center);
attuare progetti comuni, come l’attuazione e la gestione di una “carta musei”, di un abbonamento per lo
spettacolo dal vivo, ecc..
In Toscana questa forma di governance esterna è incentivata, poiché possono ricevere contributi regionali
(alla gestione o all’investimento) se e solo se l’ente locale aderisce al Sistema museale provinciale.
Per quanto riguarda la seconda, le finalità di un dialogo sociale così ampio sono quelle connesse
all’avvicinamento del mondo della cultura a quello delle imprese. Soprattutto con riguardo al settore che più
guadagna della presenza dei servizi culturali, come quello turistico, questa tipologia di governance sembrava
utile per rendere più responsabili gli attori del territorio coinvolti indirettamente dal settore culturale.
In generale i temi di questa tipologia di governance sono:
-
coordinare le attività culturali ed economiche lungo tutto l’arco dell’anno;
coordinare alcuni servizi comuni come quello delle informazioni turistiche;
evitare problemi di congestionamento delle infrastrutture urbane, di quelle culturali e di quelle delle
imprese;
promuovere il finanziamento del settore culturale da parte delle imprese.
Queste forme di collaborazione interistituzionale così ampie e variegate sono state varate solo di recente e non
è disponibile ancora una valutazione degli esiti. In considerazione del modesto apporto di risorse private ai
beni culturali, ci vorrà tempo e disponibilità alla collaborazione per convincere gli operatori privati a dare un
contributo aggiuntivo al settore dei beni e delle attività culturali.
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