il regionalismo cooperativo

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il regionalismo cooperativo
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2. Linee generali della riforma del 2001
Sebbene questa non sia la sede per una analisi completa delle conseguenze (e
della portata) delle innovazioni sfociate da tale legge costituzionale (dato che qui si
affronta il ruolo della giurisprudenza costituzionale nel regionalismo italiano), non
posso comunque esimermi da un’analisi, almeno per grandi linee, di essa. Non si
può, infatti, comprendere il nostro sistema regionale, e la giurisprudenza
costituzionale che ne è derivata, dal 2001 in poi, senza avere una cognizione di
quale sia stato il significato della riforma e di quale sia il suo valore applicativo.
E’ bene evidenziare che, la modifica del Titolo V° della Costituzione, dopo
trent’anni dalla nascita delle Regioni a Statuto Ordinario (e più di cinquant’anni da
quelle a Statuto Speciale) ha sostanzialmente ridisegnato l’assetto delle istituzioni
della Repubblica.
Regioni, Province, Città Metropolitane e Comuni acquisiscono definitivamente
“diritto di cittadinanza” nella nuova carta costituzionale, in quanto, finalmente, non
sono più considerati come semplici articolazioni della Repubblica, divenendo,
piuttosto, elementi costitutivi della stessa (vedi il nuovo art.114 Cost.). Ma, anche, si
valorizza il sistema delle intese con il centro, si capovolge la potestà legislativa, si
prevedono nuove forme di cooperazione tra le Regioni e il Parlamento, si rivaluta
l’autonomia finanziaria sia in entrata che in uscita, si dotano le Regioni di
(potenziale) rilievo europeo, si abbattono i vecchi sistemi di ingerenza e controllo
statuale, ed altro. Ma ciò che bisogna osservare è che sebbene molte cose non siano
state fatte (ad esempio non si è costituzionalizzato il ruolo del Sistema delle
Conferenze, si sono riservate allo Stato competenze che sarebbe stato più opportuno
fossero state ulteriormente affidate alle Regioni, il ruolo delle autonomie locali è
rimasto marginale, e molto ancora, tant’è che già a distanza di appena tre anni si
pensa ad una nuova riforma costituzionale), comunque tale riforma ha avuto
conseguenze notevoli ed ha, sicuramente rappresentato, un primo importante passo
per il consolidamento di quel processo di federalizing process che negli anni
precedenti si era sviluppato a livello di legislazione ordinaria, e, cosa ancor più
importante, ha, per la prima volta nella storia dell’Italia, coinvolto Regioni, Province
e Comuni nella costruzione di un nuovo assetto delle Istituzioni della Repubblica (di
cui però ancora molto resta da fare).
Vediamo, adesso, quali sono stati i principali cambiamenti a livello
costituzionale e quali ne sono state le conseguenze.
Per far ciò, comincio dall’art.1 della legge Cost. n.3/’01, il quale sostituisce il
vecchio art.114 con il seguente nuovo testo “La Repubblica è costituita dai Comuni,
dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. I Comuni, le
Province, le Città metropolitane e le Regioni sono enti autonomi con propri statuti,
poteri e funzioni secondo i principi fissati dalla Costituzione.”271.
Nel primo comma è evidente come le intenzioni della riforma si manifestano
tramite la volontà di valorizzare la parificazione delle realtà istituzionali all’insegna
del principio di sussidiarietà, com’è, anche, evidente che si vuole, per sempre,
271
L’ultimo comma dello stesso articolo, riporta ulteriormente che “Roma è la capitale della Repubblica.
La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento”.
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cancellare quella visione verticistico-gerarchica, che aveva accompagnato il ruolo
dello Stato nella strutturazione dei vari livelli di governo territoriale della
Repubblica. Nel secondo comma, invece, si è voluta promuovere a livello
costituzionale l’autonomia statutaria di tali enti territoriali, valorizzando in tal sede
quel concetto di autonomia che trova il proprio coronamento nella capacità
d’autorganizzazione di tali enti e nella capacità di darsi un proprio indirizzo politico
ed amministrativo, alla luce di una distribuzione delle funzioni svoltasi all’insegna
dei tre principi fondamentali nel nuovo sistema istituzionale: competenza,
sussidiarietà e leale collaborazione.
E’ dunque in tale articolo che per la prima volta viene segnata una struttura
istituzionale che, secondo la lettura ascendente delle comunità territoriali che
costituiscono la Repubblica, invia il chiaro messaggio di una costruzione dal basso
del nuovo sistema istituzionale italiano.
Altro importante punto della legge in questione è l’art.2, il quale sostituisce
l’art.116 della Cost. con il seguente dettato: “Il Friuli-Venezia Giulia, la Sardegna,
la Sicilia, il Trentino Alto-Adige/Südtirol e la Valle d'Aosta/Vallee d'Aoste
dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi
statuti speciali adottati con legge costituzionale. La Regione Trentino AltoAdige/Südtirol è costituita dalle Province autonome di Trento e di Bolzano.
Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui
al terzo comma dell'articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del
medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all'organizzazione della giustizia di
pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su
iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di
cui all'articolo 119. La legge e' approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei
componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”.
Con tale articolo si è effettuata una riforma a metà. L’obiettivo iniziale era,
infatti, la soppressione della differenza tra Regioni a Statuto Ordinario e quelle a
Statuto Speciale (c.d. regionalismo duale), la cui esistenza, alla luce del nuovo
art.117 (che vedremo infra) non aveva più motivo di persistere. Si voleva, dunque,
dare vita ad un regionalismo la cui uniformità si prospettava nel senso positivo
dell’affidare tutte le competenze, non espressamente riservate allo Stato, alle
Regioni, senza, con ciò, che avesse più senso la previsione di una specialità
consistente proprio nell’affidare ad alcune Regioni maggiori competenze che ad
altre. Ma, tale riforma non riuscì a spingersi fino a tal punto. Le Regioni a Statuto
Speciale sopravvissero (ed il loro statuto continua ad essere emanato con legge
costituzionale), ed in ciò si è creato un sistema a regionalismo differenziato il cui
senso, oggi, non è facilmente ravvisabile. La riforma in analisi, ha posto tal ultime
Regioni Speciali, in una situazione di netto svantaggio (infatti, in tale nuova realtà,
ciò che prima era un privilegio, ora rappresenta un handicap, che le costringe a
battersi per rincorrere lo sviluppo di cui invece le altre hanno potuto beneficiare, e,
dunque, trasformando tale specialità da elemento di crescita a causa frenante
dell’autonomia regionale delle stesse272).
272
In tal senso vedi Pastori G. in “La nuova specialità” in Le Regioni, 2001, n.3, pagg.487 ss., in cui
parla di “innaturale rincorsa”.
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Non si può negare che tale forma di regionalismo differenziato, era nelle
intenzioni del legislatore un modo per valorizzare le potenzialità intrinseche di ogni
Regione, ma il vero errore risiede nell’aver varato tale riforma del regionalismo
italiano senza, aver contestualmente rivisto il ruolo di quelle (cinque) Regioni a
Statuto Speciale, la cui specialità, in fondo, oggi non ha più senso di esistere (si
potrebbe obiettare che Regioni come la Sicilia siano ancora in una situazione di
difficoltà tale da giustificare una forma di specialità, ma se guardiamo a cosa essa ha
rappresentato in questi cinquant’anni e a quali traguardi ha portato, forse sarebbe
stato meglio che non fosse mai esistita). Se di specialità deve continuarsi a parlare,
potremmo dire che, oggi, l’esigenza di dotarsi di una certa specialità è sentita da un
po’ tutte le Regioni273. Infatti, nella prospettiva di costruire uno Stato
tendenzialmente federale, tutte le Regioni devono essere viste come speciali, nel
senso che devono godere tutte di una “forte” autonomia.
E’, comunque da notare che, tale problema, non è per niente compensato dalla
previsione del secondo comma, il quale prevede che ulteriori forme e condizioni
particolari di autonomia possano essere attribuite ad altre Regioni274, il quale non è
altro che un ulteriore passo verso una specialità di tutte le Regioni e, quindi non fa
che confermare, ulteriormente, la tendenza alla scomparsa della stessa ragion
d’essere delle Regioni a Statuto Speciale, essendo, la stessa, in contrasto con il
nuovo assetto del rapporto centro-periferia, il quale riduce sempre più gli aspetti di
differenziazione formale per valorizzare quelli di natura sostanziale.
L’ingiusto trattamento riservato in materia statutaria (le Regioni a Statuto Ordinario
si danno un loro statuto senza passare più attraverso meccanismi statali, mentre
quelle a Statuto Speciale se voglio cambiare il loro, devono attivare, addirittura, il
procedimento aggravato ex art.138 Cost.), il fallimento della di poco precedente
legge cost. n.2/’01 (che non ha saputo gettare le basi per l’identificazione di una
forma certa di governo regionale per le stesse, limitandosi al sistema elettorale e
rinviando ad esse la determinazione della propria forma di governo senza dare
certezze in merito275), e la stessa riforma della legge cost. n.3/’01, non hanno saputo
porre rimedio alla crisi del vecchio significato di specialità nel regionalismo
italiano, gettando le basi per una spaccatura, all’interno dello stesso, che, fintantoché
non verrà risolta, rimarrà uno dei principali ostacoli al processo di sviluppo di una
nuova forma di Stato.
273
Vedi in tal senso Frosini T.E. in “La differenziazione regionale nel regionalismo differenziato”,
pubblicato sul forum Quad.Cost.
274
Per di più con un procedimento aggravato, per il quale ciò avviene con legge dello Stato approvata a
maggioranza assoluta dei membri del Parlamento e previa intesa fra lo Stato e la Regione interessata.
275
La L.Cost.n.2/01 ha stabilito che le Regioni a Statuto Speciale possono, tramite le c.d. leggi statutarie
(da adottare secondo procedimenti rafforzati ed, in alcuni casi, seguite da referendum), disciplinare la
propria forma di governo, la legge elettorale, i criteri di nomina e revoca degli Assessori, le eventuali
ineleggibilità ed incompatibilità. Vorrei ricordare che già la L.Cost.1/99 prevedeva che ciò potesse essere
fatto dalle Regioni a Statuto Ordinario, con l’aggiunta che la stessa si preoccupava di indicare la forma di
governo più idonea (ma poi lasciava le Regioni libere di auto-determinarsi come volevano; vedi artt. 2, 3
e 5). Un ulteriore precisazione meritano i limiti di tale potestà che, per le Regioni ordinarie consistevano,
esclusivamente nel doversi attenere, al limite dell’armonia con la Costituzione, mentre per le Regioni ad
autonomia speciale si estendono anche ai limiti desumibili dai principi dell’ordinamento della
Repubblica.
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Oggi, dunque, ci troviamo di fronte ad un sistema il quale, sotto il profilo
organizzativo (che riguarda le attribuzioni in materia statutaria e di forma di
governo) evidenzia una sorta di specialità negativa276, nel senso di riconoscimento
allo Stato di un ampio potere di condizionamento e controllo delle forme
organizzative delle Regioni a Statuto Speciale. Mentre, sotto il profilo funzionale
(riguardante il nuovo assetto di ripartizione delle competenze legislative e
amministrative), appare evidente che, il rovesciamento del criterio di distribuzione
delle competenze (ex. nuovo art.117 Cost., e già realizzatosi, sul piano
amministrativo, con la L.n.59/’97), rende insensato il mantenimento di tale forma di
specialità.
Ed, infine, a conferma ulteriore di quanto detto, bisogna osservare che tale
specialità trova un altro motivo di critica nella scomparsa dell’ulteriore elemento
che ne giustificava l’esistenza, e cioè la potestà (legislativa) integrativo-attuativa
(infatti le relative materie, se corrispondenti a quelle oggetto di potestà legislativa
concorrente di cui all’art.117, comma 3, verranno ricondotte a tale potestà in ragione
della clausola della condizione più favorevole, mentre se ivi non ricomprese,
verranno a ricadere nella competenza esclusiva delle Regioni).
A conclusione si può, dunque, osservare che, sebbene il processo fosse già in
corso (trovando i propri precedenti in leggi ordinarie come la n.59/’97 e in leggi
costituzionali come la n.2/’01), comunque la legge cost. n.3/’01, non ha fatto altro
che svilire, ulteriormente, il ruolo delle Regioni a Statuto Speciale (dimostrando,
purtroppo, l’incapacità di sopprimere tale distinzione), limitandosi, piuttosto, ad
iniziare un processo di riforma, il quale non potrà che sfociare in un nuovo
intervento costituzionale capace di superare le, oramai vecchie, impostazioni,
promovendo quella forma di regionalismo a “specialità diffusa”, in grado di creare
un sistema aperto e flessibile che contempli, per tutte le Regioni, l’opportunità di
accedere, nel quadro di un rapporto di cooperazione-integrazione con lo Stato, a
competenze e funzioni, in ragione delle esigenze e delle domande delle loro
comunità e dell’effettiva capacità della Regione di governarle e dare ad esse risposte
soddisfacenti.
Ma, indubbiamente, è proprio nell’art.3 della legge in analisi, che risiede la
riforma più importante compiuta dalla stessa. In esso si va a sostituire il testo
dell’art.117 Cost., nel quale s’individuano le modalità di ripartizione delle
competenze legislative tra Stato e Regioni, disegnando un diverso riparto dei poteri
legislativi, ed in cui si manifesta la volontà, della riforma, di valorizzare l’autonomia
legislativa dell’ente Regione, superando la visione meramente amministrativista
della stessa, che già da troppo tempo aveva caratterizzato l’impostazione del sistema
istituzionale italiano.
In tale nuovo testo si abbandona la vecchia enumerazione regionale delle
materie per far posto alla nuova enumerazione statale delle stesse, indicando con
essa l’insieme delle materie di competenza dello Stato (le quali sono, dunque, solo
276
Mutuo l’espressione da Moschella G. in “Regioni a Statuto Speciale e Neoregionalismo”, pubblicato
su www.federalismi.it
190
quelle elencate nello stesso articolo al comma 2277) ed introducendo la nuova regola
della competenza generale e residuale delle Regioni in tutte quelle materie non
espressamente riservate allo Stato (comma 4278), con l’eccezione (indicata al comma
3) di alcune materie (espressamente richiamate nello stesso), per cui è prevista una
potestà legislativa regionale a carattere concorrente, dove la determinazione dei
“principi fondamentali” è riservata alla legislazione dello Stato279 (si noti che, come
già sopra osservato, la vecchia potestà integrativo-attuativa delle Regioni a Statuto
Speciale, è stata espunta dal testo costituzionale).
Quanto ai limiti dettati per l’esercizio della potestà legislativa regionale, il
nuovo testo individua, al primo comma, limiti generali che valgono tanto per lo
Stato che per le Regioni (quali il rispetto della costituzione e delle leggi
costituzionali, ed i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali, assunti dallo Stato280). Mentre, come già detto, al terzo comma,
individua un limite, valido solo per alcune materie (concernenti la sola competenza
concorrente), con il quale si è ritenuto opportuno vincolare la potestà regionale al
previo intervento dello Stato nel dettare “principi fondamentali” in materia, i quali
277
Il comma 2 del nuovo art.117 della Cost., indica che le materie a competenza esclusiva dello Stato,
sono le seguenti: a) politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l'Unione
europea; diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea;
b) immigrazione; c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose; d) difesa e Forze armate;
sicurezza dello Stato; armi, munizioni ed esplosivi; e) moneta, tutela del risparmio e mercati finanziari;
tutela della concorrenza; sistema valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; perequazione delle
risorse finanziarie; f) organi dello Stato e relative leggi elettorali; referendum statali; elezione del
Parlamento europeo; g) ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici
nazionali; h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale; i)
cittadinanza, stato civile e anagrafi; l) giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale;
giustizia amministrativa; m) determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale; n) norme generali sull'istruzione;
o) previdenza sociale; p) legislazione elettorale, organi di governo e funzioni fondamentali di Comuni,
Province e Città metropolitane; q) dogane, protezione dei confini nazionali e profilassi internazionale; r)
pesi, misure e determinazione del tempo; coordinamento informativo statistico e informatico dei dati
dell'amministrazione statale, regionale e locale; opere dell'ingegno; s) tutela dell'ambiente, dell'ecosistema
e dei beni culturali.
278
Il comma 4 del suddetto articolo, sancisce che “Spetta alle Regioni la potestà legislativa in riferimento
ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”.
279
Il comma 3 di tale articolo, sancisce che: “Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a:
rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni; commercio con l'estero; tutela e sicurezza
del lavoro; istruzione, salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e
della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione
per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile;
governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento
della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia; previdenza
complementare e integrativa; armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza
pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e
organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere
regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale.
Nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la
determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”.
280
Da notare è che tali vincoli, sorgono da trattati o accordi internazionali, debitamente ratificati con
legge del Parlamento, come d’altronde è previsto anche dal secondo comma (lett.a) dello stesso art.117, il
quale riserva allo Stato competenza esclusiva in materia di politica estera e rapporti tra lo Stato e l’Unione
Europea.
191
vanno ad incanalare i successivi interventi regionali (si fa, dunque, salvo l’istituto
delle c.d. leggi cornice o leggi quadro).
Meritano, però, una particolare nota i commi 5 e 9 del testo in analisi. Il primo
prevede che “Le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, nelle
materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli
atti normativi comunitari e provvedono all'attuazione e all'esecuzione degli accordi
internazionali e degli atti dell'Unione europea, nel rispetto delle norme di
procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del
potere sostitutivo in caso di inadempienza”. In effetti, tale dettato non fu la
rivoluzione copernicana sperata, però rappresentò un importante passo verso un
riconoscimento a livello addirittura internazionale del ruolo delle Regioni. Ma
soltanto il primo passo, e niente più, tant’è vero che ad esse è stato riconosciuto un
mero potere attuativo nei limiti di quanto stabilito da legge dello Stato (il quale,
comunque si riserva il potere sostitutivo da esercitare all’uopo, nel caso di inerzia
regionale in materia). Riguardo al primo punto (la partecipazione alle decisioni alla
formazione degli atti comunitari), in effetti il testo non solo è infelice ma, quanto
meno enigmatico. Infatti, non si capisce come ciò dovrebbe avvenire se pensiamo
che, per quanto riguarda la Commissione Europea, non è possibile pensare ad una
integrazione regionale (in quanto essa è un’istituzione indipendente che non
rappresenta alcun territorio specifico), mentre per quanto riguarda il Consiglio (in
cui i Paesi sono rappresentati per delegazioni di almeno sei persone) la cosa
potrebbe essere molto più semplice (ma ciò dipende anche dalla legge statale che
disciplina la formazione di tali delegazioni e, dunque, nella quale sono riposte le
speranza regionaliste ex art.117 comma 5281).
Mentre, nel secondo si stabilisce che: “Nelle materie di sua competenza la
Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad
altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato”. Sicuramente
questo sarebbe potuto essere un importante secondo passo nella direzione
internazionalista, ma ciò è da vedere nella prospettiva interpretativa che si decide di
seguire. Infatti, questo comma fa dell’indeterminatezza del suo contenuto, un
pregio, nel senso che, evitando ogni tipizzazione degli accordi e delle intese,
consente alle Regioni una sostanziale libertà procedurale nella determinazione
dell’oggetto delle pattuizioni282. Ma, finora, sia la giurisprudenza costituzionale, che
la dottrina, hanno optato per una lettura fortemente limitatrice, secondo cui l’attività
di conclusione di tali intese e accordi internazionali non deve essere altro che
manifestazione di quella generale attività di promozione all’estero (od anche attività
di mero rilievo internazionale) alle stesse già consentito, non potendo andare oltre
ciò.
Particolare, ancora, è il disposto del comma 7, in cui si stabilisce che “Le leggi
regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e
delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di
accesso tra donne e uomini alle cariche elettive”, andando a ricalcare l’omologa
281
Speranze mal riposte se si analizza il testo della legge di attuazione della riforma del Titolo V°, cioè la
l.n.131/03 (c.d. Legge La Loggia, la quale ha dettato criteri che per nulla premiano le Regioni. Per una
critica in tal senso vedi Rossi L.S. in “Costituzione, diritto internazionale e diritto comunitario: le
precisazioni al D.D.L. La Loggia”, pubblicato su www.federalismi.it, il 4 luglio 2002.
282
In tal senso vedi Lazzaro F.M. in “La cooperazione fra Regioni comunitarie alla luce della riforma
costituzionale italiana” pubblicato su Le Ist. del Fed., 2003, fasc.3/4, pagg.321 ss.
192
disposizione già contenuta nella precedente legge Cost. n.2/’01 in materia elettorale
e individuando, a livello costituzionale, un principio spesso richiamato tanto negli
statuti quanto nella legislazione, sia statuale che regionale.
Altra nota merita il comma 8 nella parte in cui sancisce “La legge regionale
ratifica le intese della Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle
proprie funzioni, anche con individuazione di organi comuni”, introducendo a
livello regionale un procedimento tipico degli accordi internazionali (c.d. leggi di
ratifica) e individuando un ulteriore punto del principio di leale collaborazione (cosa
di certo importante in una riforma che non si è preoccupata di costituzionalizzare
strutture del regionalismo cooperativo come il Sistema delle Conferenze).
Infine, una attenta riflessione merita il comma 6 del testo, il quale dice “La
potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva
delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra
materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà
regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e dello svolgimento
delle funzioni loro attribuite”. Bisogna osservare che già l’art.121 Cost., al suo
secondo comma, attribuiva tale potestà ai Consigli regionali, mentre oggi tale
competenza spetta alle Giunte Regionali, che la esercitano in tutte quelle materie
che non siano espressamente attribuite allo Stato (nel qual caso, peraltro, lo Stato
può, ulteriormente, delegare tale potestà alle stesse Regioni). Quindi, oggi, le
Giunte, oltre ai regolamenti delegati, possono emanare regolamenti di esecuzione, di
organizzazione e di attuazione-integrazione (di leggi regionali)283.
In conclusione, e prima di passare oltre, vorrei fare un’ulteriore precisazione.
Bisogna, infatti, chiedersi quali siano state le conseguenze immediate di questa
trasformazione (specie sotto il profilo delle competenze legislative delle Regioni). A
questo quesito si può rispondere osservando che, sebbene l’inerzia regionale nelle
varie materie non prevedesse un potere sostitutivo dello Stato in merito, comunque
la riforma non si innestava in un sistema neo-nato (né tanto meno faceva tabula rasa
della disciplina previgente). Come conseguenza di ciò si deve osservare che ancor
oggi, l’inerzia delle Regioni nel disciplinare alcuni campi e materie, la cui
competenza è ad esse, ora, riservata, fa sì che in molti casi è ancora vigente la
vecchia disciplina statale (ciò è necessaria conseguenza dell’applicazione del
principio di continuità legislativa). Questo ha inevitabilmente creato grossi problemi
di stasi normativa. Infatti, si sono verificati casi in cui, a fronte di un’esigenza di
modifiche normative, le Regioni hanno manifestato un’inerzia che non poté essere
colmata dall’intervento statale (nemmeno in materia regolamentare). In questi casi,
limitato è stato il problema nelle materie a competenza concorrente (in quanto lo
Stato, almeno, si poteva attivare con leggi cornice), mentre più complessa è stata la
situazione nel campo delle competenze esclusive delle Regioni (in cui lo Stato non
può fare nulla). Ma anche nel campo concorrente, come osservarono taluni, è in
agguato il paradosso284.
283
Da notare è che i regolamenti sono promulgati dal Presidente della Regione e pubblicati sul Bollettino
Ufficiale. Importante, ancora è vedere che anche i singoli assessori hanno potestà regolamentari (anche se
molto limitate) le quali sono esercitate di volta in volta con le più diverse forme (circolari, istruzioni,
etc…).
284
L’espressione è tratta da Di Cosimo G. in “Storia di un regolamento mai nato. In margine al decreto
legge 24/2003”, pubblicato il 25 aprile 2003 su web.unife.it/progetti/forumcostituzionale.
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Infatti, bisogna osservare che il rischio risiede nel processo di rilegificazione a cui si
assisterebbe (per materie oggi disciplinate da semplici regolamenti) qual’ora lo Stato
si dovesse trovare ad utilizzate lo strumento della legge-cornice come unico rimedio
per colmare (anche se solo parzialmente) la lacuna aperta dall’inerzia regionale.
Altra questione fondamentale solleva l’art.4 della legge in analisi, il quale va a
sostituire il testo dell’art.118 Cost.285 stabilendo che “le funzioni amministrative
sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano
conferite a Province, Città Metropolitane, Regioni e Stato” sulla base dei principi di
sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione. Quindi, oggi, l’ente chiamato a
svolgere funzioni amministrative è il Comune (in quanto è l’ente più vicino agli
amministrati), salvo che per esigenze di unitarietà (ed in nome dei principi di
efficienza, efficacia, ed economicità) non sia più opportuno devolvere tali compiti
ad enti di maggiori dimensioni. E’ questa la clausola di riserva già sancita (in
favore delle Regioni) con la L.n.59/’97 e che ora viene elevata a rango di clausola
generale e costituzionale, in materia amministrativa.
Ciò che è bene osservare riguarda il fatto che tale distribuzione delle funzioni
amministrative deve, in sostanza, rispettare i principi di: a) sussidiarietà, secondo il
quale, le funzioni amministrative vanno esercitate dall’autorità più vicina ai cittadini
interessati286; b)adeguatezza, secondo cui le funzioni amministrative vanno affidate
all’ente maggiormente capace di garantirne l’esercizio; c) ed infine, di
differenziazione, secondo cui, nella distribuzione di tali funzioni, si deve tenere
conto delle caratteristiche (associative, demografiche, territoriali, etc…) dell’ente
ricevente.
La sussidiarietà di cui sopra (c.d. verticale) va distinta da quella
costituzionalizzata nell’ultimo comma dell’articolo in argomento (quella c.d.
orizzontale) per la quale, si stabilisce che, tutti gli enti territoriali (Comuni,
Province, Regioni e Stato), favoriscono “l’autonoma iniziativa dei cittadini singoli e
associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale”.
285
Il nuovo testo dell’art.118 riporta: “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che,
per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato,
sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. I Comuni, le Province e le Città
metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o
regionale, secondo le rispettive competenze. La legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato
e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell'articolo 117, e disciplina inoltre
forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali. Stato, Regioni, Città
metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per
lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
286
Per alcune riflessioni sulla costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà vedi Bin R. in “Il nuovo
titolo V°: cinque interrogativi (e cinque risposte) su sussidiarietà e funzioni amministrative”, tratto dalla
relazione dello stesso al Convegno sul “Nuovo Titolo V°” tenutasi a Bologna il 13 gennaio 2002
(importante è il primo punto in cui si svolge la corretta riflessione per cui la sussidiarietà non esclude, ma
anzi si coniuga, con il principio di parallelismo tra funzioni amministrative e potestà legislative dell’ente
Regione). Altra menzione merita l’articolo di Pizzetti F. intitolato “Il ruolo delle istituzioni nel quadro
della democrazia della cittadinanza. Il principio di sussidiarietà nel nuovo art.118”, tratto dal Convegno
“118: Cittadini attivi per una nuova amministrazione”, tenutosi a Roma il 7-8 febbraio 2003, in cui è da
notare la visione che si da di tale principio, il quale è contemplato nella sua veste di elemento unitario ma
anche suscettibile di molteplici applicazioni pratiche.
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La norma qui riportata ha avuto un ruolo cardine, in quanto ha
costituzionalizzato (e dunque stabilizzato) quel processo di riforma amministrativa
(all’insegna del regionalismo) che iniziato con la L.n.281/’70, ha proseguito il suo
percorso specialmente attraverso la legge n.59/’97 e il D.Lgs. n.112/’98, sancendo,
dunque, a livello costituzionale, quella tendenza verso un federalismo
amministrativo per il quale allo Stato vengono assegnate funzioni amministrative in
materie espressamente individuate, corrispondenti ai compiti riguardanti la
generalità dei cittadini (e quindi di interesse nazionale), mentre alle Regioni e agli
Enti Locali vengono attribuite competenze amministrative nelle residue materie.
In quest’ottica c’è anche da chiedersi che fine faccia la funzione statale di
indirizzo e coordinamento (nata con l’art.17 della L.n.281/’70 ed ulteriormente
disciplinata dalla legge n.382/’75) che fino alla l.n.59/’97 era mantenuta in vita
(sebbene piegata al tavolo di concertazione della Conferenza Stato-Regioni) ed era
stata definita dalla stessa Corte costituzionale “non già come manifestazione di un
limite ulteriore (all’attività amministrativa regionale), ma piuttosto come pura
espressione dei limiti costituzionalmente prefissati alla potestà legislativa e
amministrativa delle Regioni” (vedi la sentenza n.177 del 1988). E’ evidente che
alla luce della riforma in analisi (ed anche alla luce della scomparsa, dal testo
costituzionale, dell’interesse nazionale; vedi infra), tale funzione vada riconsiderata,
stante che gli interessi sovra-regionali, quando sono considerati dalle disposizioni
costituzionali, sono assicurati, di volta in volta, da apposite leggi statali (vedi, ad
esempio, lo stesso comma 5 dell’art.117). Ma parlare di sua eliminazione, come
vedremo, è piuttosto azzardato.
E’ pur vero che, come è stato osservato287, non c’è ordinamento (nemmeno
federale) che, per quanto ispirato al criterio di separazione delle competenze tra
centro e periferia, non preveda strumenti e istituti volti ad assicurare una
complessiva coerenza nel funzionamento del sistema, sul terreno dell’esercizio
concreto delle diverse competenze. Ovvio è, dunque, che alla luce della riforma tale
funzione vada ripensata (si è detto che si sarebbe dovuto trattare essenzialmente di
atti tipizzati, cui ricorrere in presenza di dati presupposti) ma lecito è dubitare che
tale funzione vada del tutto persa (specie se si riflette che il regionalismo di oggi è
di stampo collaborativo e mal si concilia con l’impostazione separatista che è uscita
dalla riforma). E’ bene, in ogni caso, osservare che si tratta essenzialmente di un
problema interpretativo che, almeno fino a quando non sopravverrà una nuova
riforma che sappia risolvere la questione, sarà affidato alla lettura che se ne darà
nella giurisprudenza costituzionale (la quale non potrà che confermare la tendenza
previgente, come avremo modo di vedere nel capitolo successivo).
287
Vedi Caretti P. in “Rapporti fra Stato e Regioni: funzione di indirizzo e coordinamento e potere
sostitutivo”, pubblicato su Le Regioni, 2002, fasc.6, pagg.1325 ss.
195
All’art.5, la legge di riforma, sostituendo il testo dell’art.119 Cost.288, ha sancito
un’importante svolta (teorica) in materia del c.d. federalismo fiscale. Col nuovo
testo, la Costituzione riconosce “autonomia finanziaria alle Regioni, di entrata e di
spesa”, sancendo che le stesse (e gli altri enti territoriali) godono di risorse
autonome provenienti da una “autonoma potestà tributaria” in quanto possono
stabilire, ed applicare, tributi propri (in armonia con la Costituzione e secondo i
principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario). Essi,
inoltre, dispongono di una “compartecipazione al gettito dei tributi erariali,
riferibile al territorio”. Ed, ancora, è previsto, per i territori con minore capacità
fiscale per abitante, la costituzione di un fondo perequativo (per di più senza vincoli
di destinazione). Ma, cosa più importante, oltre a essergli riconosciuta la titolarità di
un proprio patrimonio, esse possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare
spese d’investimento (e per di più si esclude una qualsiasi garanzia dello Stato su tali
prestiti). Ed, infine, è previsto che lo Stato destini risorse aggiuntive ed effettui
interventi speciali, per promuovere lo sviluppo economico, la solidarietà sociale e
rimuovere gli squilibri economico-sociali interni al Paese.
Ma bisogna anche osservare che, tale nuovo testo, limitandosi a consolidare sul
piano costituzionale, strumenti già in uso da decenni (ad es. il fondo perequativo) o
riconoscimenti di cui è dubbia la necessità (ad es. il patrimonio proprio, cosa già
prevista, pressocché, da tutti gli Statuti), non ha rappresentato la svolta sperata. In
primo luogo, perché si sono dettati dei limiti che hanno vanificato ogni speranza di
federalismo fiscale (come nel caso dei limiti all’indebitamento289), ed in secondo
luogo, perché il riconoscimento costituzionale non ha saputo spingersi oltre le
intenzioni. Tant’è vero che limiti, come “principi di coordinamento della finanza
pubblica e del sistema tributario” (dettati con legge dallo Stato), od anche
compartecipazione ai tributi erariali, oppure riconoscimento di un proprio
patrimonio “attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello
Stato”, non fanno altro che testimoniare la speranza che il legislatore ordinario
proceda ad un trasferimento di risorse maggiore rispetto a quello già effettuato, ma,
ciò che è peggio, ci si limita ad auspicare che lo Stato proceda ad un trasferimento
delle fonti di entrata (tributi, tasse e imposte), rinunciando alla propria fonte di
approvvigionamento economico e perdendo il controllo della finanza pubblica.
288
Il nuovo testo dell’art.119 Cost. riporta: “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni
hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le
Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la
Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario.
Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio. La legge dello
Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità
fiscale per abitante. Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni,
alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche
loro attribuite. Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per
rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per
provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed
effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni. I
Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo
i principi generali determinati dalla legge dello Stato. Possono ricorrere all'indebitamento solo per
finanziare spese di investimento. E' esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti”.
289
Invero non criticabili, ma in contrasto con una forma di federalismo fiscale.
196
L’esperienza, in questi anni di post-riforma, ci ha dimostrato come un intervento
così blando non poteva che cadere in un nulla di fatto, come testimoniano le leggi
applicative della riforma (principalmente la successiva legge n.131/’03) che non
hanno nemmeno preso in considerazione l’idea di trasferire le imposte statali alle
Regioni (o di sopprimerle in favore di imposte regionali). Ma, cosa più grave, ed
ulteriore testimonianza del fallimento della riforma su questo punto, è l’operato
dell’attuale Ministro dell’Economia (l’On. Giulio Tremonti), il quale ha approntato
un piano di riforma del sistema tributario nel quale si prevede la soppressione
dell’unica, vera, imposta regionale (Imposta Regionale sulle Attività Produttive)290.
Alla luce di tutto ciò si deve ricordare che, una vera riforma in senso regionalista
non si potrà mai avere fintantoché non si proceda ad una valorizzazione delle
autonomie territoriali che passi, in primo luogo, attraverso il conferimento alle
stesse di una autonomia finanziaria che non le faccia dipendere dall’autorità centrale
(ed in ciò, non le assoggetti al potere ricattatorio che ne deriva)291.
Con l’art.6, la legge in oggetto aggiunge al primo comma dell’art.120 Cost. (il
quale è rimasto invariato292) un secondo comma nel quale attribuisce
riconoscimento costituzionale al potere sostitutivo del Governo nei casi di inerzia
regionale, ponendo, al contempo, i limiti all’esercizio di tale potere. Infatti, si
stabilisce che esso possa essere attivato solo nei casi di: a)mancato rispetto di norme
e trattati internazionali o della normativa comunitaria; b) pericolo grave per
l’incolumità e la sicurezza pubblica; c) tutela dell’unità giuridica o economica della
nazione; d) tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali.
Anche qui, il disposto si limita, però, a dettare criteri generali, demandando ad
una successiva legge ordinaria la definizione delle procedure atte a garantire che tali
poteri siano esercitati nel rispetto della sussidiarietà e conformemente alla leale
collaborazione.
Bisogna notare che tale disposto ha chiaramente peccato di scarsa chiarezza.
Non si capisce, infatti, se tali poteri vadano esercitati solo in caso d’inerzia (non
essendo esercitabili quando la Regione si è attivata, anche se il suo intervento è
contrario alle effettive esigenze che è chiamata a soddisfare), oppure se ciò possa
avvenire a prescindere da un qualsiasi inadempimento regionale (o locale). E’ chiaro
che se prevalesse quest’ultima lettura si costruirebbe una specie di controllo atipico
sull’attività delle autonomie territoriali che si potrebbe tradurre in interventi, non
290
L’IRAP è, forse, la peggiore delle imposte che il nostro sistema fiscale abbia mai conosciuto, ha un
sistema di calcolo assurdo e livelli inadeguati alle differenziate realtà economiche del Paese. Ma, ad oggi,
è l’unica imposta puramente regionale. Quest’ultima affermazione merita però una precisazione. Infatti
anche l’IRAP è riscossa dallo Stato (come l’addizionale IRPEF) e poi versata alla Regione, desunti i
costi. Visto in questa prospettiva potremmo allora affermare, come fatto da alcuni, che non esistono vere
imposte regionali.
291
Vedi Stefani G. “Economia della finanza pubblica”, edizioni CEDAM, 8° ed., 1999, Padova.
292
Il primo comma dell’art.120 Cost, riporta il seguente dettato: “ La Regione non può istituire dazi di
importazione o esportazione o transito tra le Regioni, né adottare provvedimenti che ostacolino in
qualsiasi modo la libera circolazione delle persone e delle cose tra le Regioni, né limitare l'esercizio del
diritto al lavoro in qualunque parte del territorio nazionale”.
197
solo in campo amministrativo, ma anche legislativo (e quindi politico) dello Stato,
in materie in cui ha ormai perso, l’antica competenza293.
Altro spunto di riflessione scaturisce dal fatto che, ad una prima lettura il potere
sostitutivo ex art.120 Cost., sembrerebbe costruito per essere esercitato in materia
amministrativa. Se però, si legge la norma più attentamente, ci si accorge che i
presupposti che consentono il ricorso a tale potere non sono tanto amministrativi,
quanto, piuttosto, legislativi. E d’altronde, escludere a priori la possibilità di
utilizzare tale potere nei confronti dell’attività legislativa regionale, getterebbe le
basi per il protrarsi, nella prassi, della sostituzione preventiva, operata attraverso
l’adozione di una legislazione statale, di per se, autosufficiente e, solo
eventualmente e parzialmente, derogabile dal legislatore regionale (il tutto
ponendosi in forte contrasto con lo spirito della riforma, la quale vuole proprio,
valorizzare la potestà legislativa delle Regioni).
In conclusione si deve osservare che la scarsa chiarezza del nuovo testo di cui
all’art.120 Cost. farà sì che nei successivi anni un ruolo determinante sarà svolto dal
potere interpretativo della Corte costituzionale, in quanto è proprio su questo terreno
che si giocherà la battaglia applicativa di tale articolo. Ci si muoverà tra un
significato di potere sostitutivo in senso proprio (quello cioè che si attiva in caso
d’inerzia) ed un significato più ampio (e propenso ad aprire alla possibilità
d’interventi surrogatori di competenze regionali e locali), il qual ultimo, certamente,
non è compatibile con lo spirito che ha spinto alla riforma in commento.
Altra importante disposizione è contenuta nell’art.7 della legge in commento, il
quale prevede che gli Statuti delle Regioni istituiscano un nuovo organo, quale il
“Consiglio delle autonomie locali”, con funzione di consultazione fra la Regione e
gli Enti Locali. Tale previsione, in un epoca di regionalismo cooperativo e
dell’affermarsi del Sistema delle Conferenze (malgrado la mancata
costituzionalizzazione dello stesso che, in mancanza di interventi più radicali, era
quanto meno auspicabile) ha svolto un ruolo fondamentale (specie in considerazione
del fatto che questi sono anni in cui, a seguito delle leggi costituzionali n.1/’99 e
n.2/’01, le Regioni hanno attivato un processo di revisione statutaria non ancora
conclusosi, che potrebbe essere l’occasione ideale per la nascita di tale organo). La
legge non prevede quale forma esso debba avere e come debba funzionare,
rinviando per ciò ai singoli statuti294, ma si limita a sancire che lo stesso deve essere
sede di partecipazione degli Enti Locali al sistema regionale di governo ed, al
contempo, essere la sede di raccordo inter-istituzionale tra Regione e Autonomie
Locali. In altri termini la legge costituzionale ha voluto creare, direttamente,
nell’ordinamento regionale, un organo di garanzia dell’autonomia degli Enti Locali
(ed anche per questo motivo la sede opportuna della disciplina di tale organo non è
una legge regionale qualunque bensì lo statuto stesso). A tal fine si esclude che tale
293
A favore di una lettura in tal senso vedi Mainardis C. in “Il nuovo regionalismo italiano ed i poteri
sostitutivi statali: una riforma con poche luci e molte ombre” pubblicato su forum di Quad.Cost., in cui
l’autore sembra favorevole ad accettare un tipo di potere a intervento sostitutivo, a prescindere
dall’inadempimento degli enti territoriali. Egli osserva che di termini come “inadempimento” o “inerzia”
non se ne fa menzione nel disposto costituzionale ed, in più, avvalora la propria tesi rinviando alla
giurisprudenza costituzionale degli anni precedenti, la quale ha ritenuto legittimi interventi che nulla
avevano a che fare con inerzie regionali (vedi ad esempio le sentenze nn. 49, 304 e 617 del 1987).
294
Per un interessante progetto vedi la “Proposta unitaria delle Associazioni degli enti locali per la
redazione dello statuto regionale”, Bologna, 3 marzo 2003, Consultabile sul sito www.federalismi.it
198
organo possa diventare una sorta di seconda camera delle Regioni, così come si
esclude, anche, che possa avere un ruolo di organo di co-decisione tra Regione ed
Enti Locali. Piuttosto, alla luce di tale dettato, tale organo, si presenta come
potenziale sede di concertazione per affrontare temi d’interesse comune, ed in ciò
non gli si potranno negare anche poteri propositivi (specie in materia legislativa) ed
al contempo gli si dovranno riconoscere autonomia regolamentare (per evitare uno
sbilanciamento di tale tavolo di concertazione) ed un ruolo primariamente
consultivo sia in materie normative che amministrative (per il cui valore si potrebbe
richiamare il sistema adottato all’art.11 della legge in argomento, che vedremo
infra).
Ma ancora un altro problema potrebbe derivare dall’impostare le modalità
rappresentative degli Enti Locali in tale organo (per le quali si potrebbe optare per
una soluzione simile a quella adottata in tema di Conferenza Stato-Regioni o StatoCittà ed Autonomie Locali).
In conclusione si può solo osservare che in un’epoca di regionalismo
cooperativo, l’istituzione di tale organo potrebbe essere un fondamentale passo in
avanti per colmare quel divario generatosi, sin dai primi anni novanta (in specie con
la legge n.81/’93) tra tali categorie di enti (e che ha lasciato terreno fertile allo Stato
per continuare a perpetrare la propria politica accentratrice). Ma, di tutto ciò, ancor
oggi, non si vedono che blande proposte e nessun esempio applicativo.
Ancora, altro articolo di rilevanza è l’art.8 il quale procede nella sostituzione del
testo dell’art.127 della Cost. in materia di potere di impugnativa, per questione di
legittimità costituzionale, di leggi regionali, da parte del Governo (comma 1)295 e da
parte delle Regioni, contro leggi o altri atti dello Stato (comma 2)296. Tale articolo
s’innesta nella materia del controllo sugli atti delle Regioni.
Le innovazioni che si sono introdotte con tale riforma sono molteplici e possono
essere riassunte nel modo seguente:
a)
Abolizione del visto del Commissario di Governo sulla delibera
legislativa regionale ed eliminazione del conseguente controllo di merito.
Ormai se lo Stato si ritiene leso può (nella persona del Governo)
procedere direttamente all’impugnativa davanti alla Corte costituzionale.
E’ da notare che ex art.9 legge Cost.n.3/’01 si è soppresso il primo
comma dell’art.125 Cost. eliminando, così il controllo di merito sugli atti
amministrativi regionali, che si esplicava attraverso la richiesta di riesame
(come conseguenza sono stati soppressi i Co.Re.Co.);
b)
Non si fa più menzione dell’interesse nazionale, ideato originariamente
come giustificazione per impugnare (da parte del Governo) di fronte al
Parlamento, le delibere legislative regionali considerate in contrasto con
esso297.
295
Nel primo comma si legge: “Il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la
competenza della Regione, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte
costituzionale entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione”.
296
Nel secondo comma si legge: “La Regione, quando ritenga che una legge o un atto avente valore di
legge dello Stato o di un'altra Regione leda la sua sfera di competenza, può promuovere la questione di
legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione della
legge o dell'atto avente valore di legge”.
297
E’ da notare che tale concetto di interesse nazionale e stato ritenuto importante a prescindere da tale
strumento di impugnativa (che malgrado le tensioni tra Stato e Regioni, non è mai stato utilizzato) in
199
Non potendo che dare merito sul primo punto (il quale nel valorizzare il
regionalismo, ha finalmente espunto dal sistema costituzionale, improprie forme di
controllo preventivo, tanto di legittimità che di merito) è sui destini dell’interesse
nazionale che vorrei brevemente soffermarmi (in quanto è alla luce di questo
concetto che vanno lette anche altre parti essenziali del disposto costituzionale).
Ciò che bisogna chiedersi è se l’aver espunto tale nozione dalla costituzione
formale, ne faccia venir meno l’esistenza anche in quella materiale. Ma per capire
questo, non si può che partire dal concetto stesso di interesse nazionale qual’è nel
significato di espressione dell’unità stessa della Repubblica298. Alla luce di tale
natura, la dottrina e la giurisprudenza sono d’accordo nel ritenere che, tale limite
non possa dirsi travolto dalla riforma, rientrando, piuttosto, nella categoria dei c.d.
“limiti impliciti” ed, in più, trovando una sua giustificazione nell’art.5 Cost. (di cui
v’è traccia nel nuovo testo dell’art.120 laddove si parla di “unità giuridica o
dell’unità economica”). Tale lettura è la naturale conseguenza di quell’impostazione
del nostro sistema repubblicano nelle sue linee fondamentali (e non mutate dalla
riforma), che già la Costituzione del ’48 aveva dato.
Quando il costituente redasse la carta fondamentale, individuò nella Corte
costituzionale il garante della legalità costituzionale, mentre affidò al Parlamento la
custodia degli “interessi nazionali”, e, facendo ciò affidò al primo un giudizio di
legittimità ed al secondo uno di merito. Secondo l’impostazione originaria, dunque,
il Parlamento avrebbe dovuto assicurare, in forme diverse rispetto a quelle della
Corte (e più flessibili), i valori costituzionali, seguendo un riferimento diretto
all’obbiettivo di unità politica. Ma, ciò che effettivamente accadde fu che il
Parlamento preferì non esercitare tale ruolo, lasciando alla Corte costituzionale la
difesa dell’interesse nazionale (che da giudizio di merito, eventuale e successivo, fu
trasformato in presupposto di legittimità in generale).
E’ dunque chiaro che alla luce di questa lettura, l’aver cancellato tale
espressione dall’art.127 Cost. non ha alcuna rilevanza sul preservarsi di un principio
generale di legittimità che non è in tale articolo che ha trovato espressione, ma nella
più generale giurisprudenza costituzionale, in materia di legittimità costituzionale, di
questi ultimi sessant’anni. Sin dalla sentenza n.39 del 1971 si rintraccia il senso che
a tale concetto si è voluto dare (importanti sono i passi in cui si definisce la funzione
di indirizzo e coordinamento come “il risvolto positivo dell’interesse nazionale”, ed
anche la parte in cui si legittima il concetto stesso d’interesse nazionale, facendolo
espressione delle “esigenze di carattere unitario che trovano formale e solenne
riconoscimento nell’art.5 della Costituzione”).
Naturalmente tutto questo non significa che tale concetto sia rimasto
pietrificato299, ciò che, piuttosto, interessa, è vedere com’esso si è evoluto a seguito
della riforma. Infatti, bisogna osservare che, prima della riforma, un mezzo
fondamentale per soddisfare le esigenze unitarie, di cui esso si fa portatore, era la
possibilità di dettare principi fondamentali in materia legislativa. Ma ciò è, oggi,
quanto è stato ritenuto fondante di tutta la competenza legislativa nazionale ed è stato quel limite di
legittimità che la giurisprudenza costituzionale ha tanto usato per giustificare interventi statali in materie
di competenza regionale.
298
In tal senso vedi Barbera A. in “Scompare l’interesse nazionale” del 9 aprile 2001, pubblicato sul sito
www.federalismi.it
299
Vedi in tal senso Bin R. in “L’interesse nazionale dopo la riforma: continuità dei problemi,
discontinuità della giurisprudenza costituzionale”, pubblicato su Le Regioni, 2001, fasc.6, pagg.1213 ss.
200
limitato solo alle materie concorrenti (espressamente indicate dall’art.117 stesso), e
quindi non può più essere visto come un mezzo generale per assicurare tali esigenze
di unitarietà. Altro modo per assicurare tali esigenze, era stato lo strumento
dell’indirizzo e coordinamento come congegno sostitutivo della riserva preventiva e
generale allo Stato di ritagli di materia. Ma alla luce di una riforma che, non solo,
non fa menzione alcuna delle forme di coordinamento che si dovrebbero adoperare
per garantire tali esigenze unitarie, ma, anzi, detta una disciplina che vuole
fortemente ridurre i margini d’intervento statuale (e di conseguenza ridurre le varie
interferenze dello Stato in materie Regionali) si capisce come non sia più attraverso
questa via che passa la funzione dell’interesse nazionale. Infine è bene precisare che
la questione è gia stata affrontata in un’interessante pronuncia della Corte
costituzionale, quale la sentenza n.138 del 1972, nella quale si è affermato che
“Non si può affermare… che per la definizione delle materie elencate nell’art.117
Cost. sia sempre sufficiente fare ricorso a criteri puramente formali e nominalistici.
Anche se nel testo costituzionale, solo per alcune di esse viene espressamente
indicato il presupposto di un sottostante interesse di dimensione regionale, per tutte
vale la considerazione che, pur nell’ambito di una stessa espressione linguistica,
non è esclusa la possibilità di identificare materie sostanzialmente diverse secondo
la diversità degli interessi, regionali o sovra-regionali, desumibili dall’esperienza
sociale e giuridica”. Quest’espressione, malgrado la riforma in argomento, si può
fondamentalmente ritenere ancora valida. E ciò, più per necessità che per virtù.
Infatti, in epoca di regionalismo cooperativo e collaborativo, si è paradossalmente
ed anacronisticamente varata una riforma dell’art.117 che, al di là dei limitati casi di
competenza concorrente, pone una separazione delle competenze troppo netta e
rigida, la quale fa sentire la chiara esigenza di un contemperamento in senso
collaborativo che potrebbe essere rintracciato proprio nel concetto in argomento.
Infatti, al di là degli eccessi della giurisprudenza costituzionale degli anni passati
(che, in certe ipotesi, ha fatto di questo principio uno strumento giustificatorio delle
ingerenze statuali, ponendolo sotto sembianze che non gli sono proprie, e cioè
facendolo limite di legittimità), non si può affermare che ogni volta che sia stato
utilizzato dalla Corte nelle materie del vecchio art.117, esso fosse sempre
pretestuoso ed infondato. Ed alla luce di questa riflessione, se pensiamo che tali
materie sono pressoché tutte confluite, dopo la riforma, nella competenza esclusiva
delle Regioni, ce da chiedersi che fine fanno le esigenze di programmazione e
coordinamento nell’attività pubblica, o dove vadano a finire gli interessi
infrazionabili.
Alla luce di ciò si può capire che l’interesse nazionale sopravvive, dunque, alla
riforma, in quanto è lo strumento alla luce del quale oggi va gestito il sistema dei
rapporti tra i vari livelli di governo là dove la rigida separazione delle competenze
ex nuovo art.117, non essendo compensata da adeguate forme di coordinamento e di
concertazione (a livello costituzionale) rimane l’unica garanzia di gestione delle
esigenze nazionali anche, e non ultimo, conformemente ad una concreta
applicazione del tanto decantato principio di sussidiarietà (nella forma verticale).
201
Tralasciando le altre norme300, infine una breve nota merita l’art.11 della legge
in argomento, nella parte in cui prevede che sino alla revisione delle norme del
Titolo I° della Parte II° della Costituzione (cosa che testimonia come tale legge sia
stata varata nella prospettiva d’incompletezza della riforma e nella speranza di dare
vita ad un seguito che la potesse completare), i regolamenti della Camera dei
Deputati e del Senato della Repubblica possono prevedere la partecipazione di
rappresentanti delle Regioni, delle Province autonome e degli Enti Locali alla
Commissione parlamentare per le Questioni Regionali. Quando un progetto di legge
riguardante le materie di cui al nuovo terzo comma dell'articolo 117 (competenza
concorrente) e al nuovo articolo 119 (autonomia finanziaria delle Regioni e degli
Enti Locali e fondo perequativo) della Costituzione, contenga disposizioni sulle
quali la Commissione parlamentare per le Questioni Regionali, integrata nei termini
di cui sopra, abbia espresso parere contrario o parere favorevole condizionato
all'introduzione di modificazioni specificamente formulate, e la Commissione che
ha svolto l'esame in sede referente non vi si sia adeguata, sulle corrispondenti parti
del progetto di legge l'Assemblea delibera a maggioranza assoluta dei suoi
componenti. Tale previsione, di un procedimento aggravato (maggioranza assoluta
piuttosto che semplice), nelle ipotesi in cui il Parlamento decida di non conformarsi
alle prescrizioni di una Commissione per le Questioni Regionali (che solo
parzialmente è formata da rappresentanti degli enti territoriali - per di più
l’integrazione è disposta a norma dei regolamenti, unilateralmente adottati, dalle
Camere) non rappresenta, sicuramente, una grande riforma. Bisogna, però, osservare
che, sebbene tale commissione integrata non si sia ancora attivata, con tale disposto
si è in primo luogo fatto un ulteriore passo verso il regionalismo collaborativo (per
una volta a livello di assemblea legislativa, piuttosto che di esecutivo), ma si è anche
dettato un interessante modello concertativo potenzialmente valido anche in altri
casi (vedi la potestà consultiva dei Consigli delle Autonomie Locali, di cui ho
parlato sopra)301.
300
L’art. 9 riporta il seguente testo : “Al secondo comma dell'articolo 132 della Costituzione, dopo le
parole: "Si può, con" sono inserite le seguenti: "l'approvazione della maggioranza delle popolazioni
della Provincia o delle Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati espressa mediante".
2. L'articolo 115, l'articolo 124, il primo comma dell'articolo 125, l'articolo 128, l'articolo 129 e
l'articolo 130 della Costituzione sono abrogati”. Mentre all’art.10 leggiamo: “Sino all'adeguamento dei
rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alle Regioni a
statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di
autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite”.
301
Per un’interessante riflessione sulla Commissione integrata ex art.11 L.Cost.m.3/01, vedi Ruggeri A.
in “Il Titolo V della Costituzione tra attuazione e revisione” pubblicato su le Istituzioni del Federalismo ,
fasc.3/4, 2003, pagg.461 ss.
202
3. Eredità e dubbi del presente.
Compiuta quest’analisi, articolo per articolo, della riforma del Titolo V°, Parte
II°, della Costituzione, attuata con la legge costituzionale n.3 del 2001, che dà una
visione analitica degli effetti potenziali che tale legge ha (o avrebbe potuto avere)
nel nostro ordinamento, è bene adesso cercare di trarre alcune conclusioni sul
presente e per il futuro.
In primo luogo, si può osservare che, questa, è stata una riforma troppo astratta e
già vecchia (quanto ai modelli culturali di riferimento di cui il legislatore poteva
disporre in quegli anni) quando è stata varata. Il nuovo Titolo V° ha dimenticato il
problema del coordinamento e della collaborazione; del dittico supremaziacollaborazione ha preso in considerazione la prima parte, attuandone la portata, ma
ha del tutto trascurato la seconda. I problemi delle esigenze unitarie, degli interessi
infrazionabili, del coordinamento, della collaborazione, restano problemi irrisolti e
per ciò perennemente iscritti all’ordine del giorno. L’interpretazione del nuovo
testo, che muove per argomenti formali e nominalistici nell’erezione di paratie
stagne tra le attribuzioni regionali e le interferenze statali, fa finta di niente dei
problemi irrisolti, cercando di applicare tale riforma nel segno del cambiamento. Ma
ciò che ottiene è, semmai, la combinazione stessi problemi ma niente strumenti
costituzionali per risolverli, ed anche, stesse soluzioni con stessa giurisprudenza
costituzionale. Insomma, è facile concludere che tale riforma mostra pienamente i
segni del compromesso politico di cui è frutto, e non è altro se non l’ennesima
testimone di un processo di cambiamento del nostro Paese (in senso regionalista)
che è ancora in corso (e ben lungi dal dirsi prossimo al traguardo, specie se si
leggono le proposte di ulteriori riforme presentate nel corso dell’attuale XIV
Legislatura).
Quali sono, dunque, i riflessi del nuovo Titolo V° della Costituzione sugli istituti
del regionalismo, come interesse nazionale e indirizzo e coordinamento, che
abbiamo visto attraverso l’ottica del Giudice costituzionale ante 2001?
Partiamo dalla funzione di indirizzo e coordinamento. Come abbiamo visto, gli
anni che ci stanno alle spalle sono stati caratterizzati da un dibattito scientifico e da
uno sviluppo della giurisprudenza costituzionale che hanno avuto come centro la
definizione dei limiti e delle modalità di esercizio di una funzione di cui, da tempo
ormai, non si contestava più la legittimità costituzionale (ricondotta all’interesse
nazionale). La riforma in commento, invece, sembra destinata a riaprire il problema.
Il primo interrogativo che è necessario porsi è se, a seguito della riforma, tale
funzione sia da ritenersi, ancora, costituzionalmente fondata. E, molti sono stati gli
argomenti che, agli studiosi, hanno fatto rispondere negativamente, osservando che
il nuovo impianto costituzionale non consentirebbe più, oggi, di sciogliere
quell’interrogativo nel senso a suo tempo scelto dalla Corte costituzionale. Infatti, è
difficile negare che l’impostazione del nuovo Titolo V° presenti alcune
caratteristiche di fondo che portano a questa conclusione. Si pensi alla
valorizzazione molto forte del principio di separazione delle competenze; si pensi,
in secondo luogo, alla tendenziale parificazione delle competenze dello Stato, delle
Regioni e degli Enti Locali, non più ordinate secondo il principio gerarchico e tanto
meno legate ad un generale principio di supremazia di un soggetto istituzionale
rispetto agli altri; si pensi, in terzo luogo, alla apparente scomparsa dell’interesse
nazionale, proprio quel limite sulla base del quale, la Corte, aveva ricostruito il
203
fondamento costituzionale di questa funzione di indirizzo e coordinamento; si pensi,
in ultimo, alla scomparsa del principio di parallelismo delle funzioni, e cioè quello
per cui a certe competenze di regolazione debbono, automaticamente, corrispondere
i correlativi poteri amministrativi. Insomma, la nuova impostazione del Titolo V°
sembra essere ispirata dall’idea che l’indirizzo ed il coordinamento, o se si vuole la
coerenza complessiva del funzionamento del sistema, è ormai affidata
essenzialmente alla tenuta dei principi costituzionali che, ovviamente, si impongono
a tutti i soggetti istituzionali, indipendentemente dalle competenze di cui sono
titolari, nonché da un quadro normativo ancora più ampio, quello comunitario, che
anch’esso si impone a tutti i livelli di governo nazionali ed infra-nazionali. E, da
ultimo (se il funzionamento complessivo del sistema dovesse presentare delle gravi
lacune), al potere sostitutivo che, non a caso, entra per la prima volta nella
Costituzione (per l’appunto all’art.120, comma 2).
In un disegno di questo genere, nel quale, una volta rispettati i vincoli
costituzionali ed europei, l’esercizio delle varie competenze da parte dei diversi
soggetti è un esercizio sostanzialmente paritario, si può legittimamente dubitare che
abbia ancora diritto di cittadinanza una funzione come quella di indirizzo e
coordinamento, almeno per come l’abbiamo fin qui conosciuta. Al riguardo,
tuttavia, sorge comunque qualche elemento di perplessità rispetto ad una
conclusione che, pur corroborata da tanti elementi convincenti sul piano astratto,
potrebbe comportare poi, alla lunga, dei problemi sul piano concreto che è bene
ricordare. Un elemento che non si può dimenticare è che non c’è ordinamento che
per quanto ispirato alla separazione delle competenze tra centro e periferia non
preveda, comunque, strumenti che cerchino di garantire coerenza e funzionalità al
sistema complessivo, non astratta, ma costruita sul terreno del concreto esercizio
delle competenze.
Da ciò, però, ove si dicesse che potrebbe ancora riconoscersi qualche spazio alla
funzione di indirizzo e coordinamento, ne dovrebbero essere ripensate le modalità di
esercizio, infatti, come precisato da molti studiosi, si dovrebbe trattare innanzitutto
di atti tipizzati, cui ricorrere solo in presenza di determinati presupposti, ancor più
rigorosamente tenuti al rispetto delle regole che già sono state messe a punto dalla
giurisprudenza costituzionale degli anni precedenti.
Si tratta, in ogni caso, di uno dei tanti problemi interpretativi aperti, che con ogni
probabilità la Corte si troverà presto ad affrontare. Nelle sentenze che ho già
esaminato, c’è qualche elemento che potrebbe far pensare ad una soluzione positiva
circa la perdurante legittimità costituzionale della funzione di indirizzo e
coordinamento (si pensi anche alla stessa sentenza n.408 del 1998302).
Un accenno meritano i problemi attinenti il nuovo potere sostitutivo.
302
Essa contiene alcune affermazioni a mio parere importanti a questo riguardo, là dove si dice che la
competenza ad adottare atti di indirizzo e coordinamento va intesa come competenza riservata
esclusivamente al Consiglio dei Ministri in quanto funzione legata alla sua responsabilità di organo
chiamato a tracciare la politica generale del Paese e, in quest’ambito, ad indirizzare e coordinare l’attività
delle Regioni, in vista della tutela di interessi unitari. Si tratterebbe, dunque, di una funzione radicata
nelle competenze costituzionali del Governo e come tale insuscettibile di risentire, quanto meno alla
legittimità del suo esercizio, di un mutamento della disciplina del riparto di competenze tra centro e
periferia. Naturalmente sono affermazioni fatte nel contesto della sentenza stessa, ma si potrebbe ritenere
che in esse ci sia una concezione della funzione di indirizzo e coordinamento sganciata dal particolare
modo di atteggiarsi dei rapporti tra Stato e Regioni e collegata invece alla responsabilità della politica
generale che spetta appunto all’organo collegiale del Governo nazionale.
204
Infatti, se per la funzione di indirizzo e coordinamento il nuovo Titolo V°
ripropone il vecchio problema della legittimità costituzionale, per il potere
sostitutivo il problema è opposto: quella che era stata una questione molte volte
affrontata dalla Corte costituzionale, viene risolta in radice in virtù del nuovo
secondo comma dell’art.120. E, tuttavia, anche su questo versante, nuovi problemi
si aprono. Ci troviamo, infatti, di fronte ad una disposizione che, non a caso, è stata
definita come una vera e propria miniera di questioni interpretative.
Il primo quesito riguarda la possibilità che tale potere sia esercitato anche nei
confronti dell’attività legislativa regionale, oltreché per quella amministrativa. Se si
guarda alla struttura della disposizione, essa sembrerebbe chiaramente costruita con
riferimento specifico all’attività amministrativa (basti pensare che il potere in
questione è stato affidato al Governo e non al Parlamento). Se, però, la si legge un
po’ più attentamente, ci si accorge che i presupposti che possono giustificare il
ricorso a tale potere sostitutivo sono ben altri che quelli della mancata adozione di
atti obbligatori per legge. Infatti, questi sono presupposti che sembrerebbero toccare
proprio il potere legislativo: basti pensare alla tutela dell’unità giuridica ed
economica o alla tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali. A ciò si aggiunga che, nell’ipotesi in cui non si dovesse ritenere
utilizzabile il potere sostitutivo anche nei confronti dell’attività legislativa regionale
si getteranno le basi per la continuità della la prassi predente della sostituzione
preventiva operata attraverso l’adozione di una legislazione statale di per sé
autosufficiente e solo eventualmente e parzialmente derogabile dal legislatore
regionale, aprendo, in contraddizione, con uno degli elementi di principale novità il
nuovo Titolo V°, rappresentato dalla valorizzazione proprio della potestà legislativa
delle Regioni.
Altro problema, pure di difficile soluzione, riguarda la possibilità o meno di
ricorrere al potere sostitutivo non solo nei casi di inerzia o di inattività regionale, ma
anche nelle ipotesi in cui l’atto regionale ci sia, ma risulti insufficiente ad assicurare
il raggiungimento di certi obbiettivi. Si potrebbe rispondere negativamente
(ricordando gli strumenti ordinari di contrasto degli atti regionali illegittimi, come
l’impugnazione davanti alla Corte costituzionale), ma l’eventuale pronuncia della
Corte contraria alla Regione, è bene ricordare che, non sarebbe comunque in grado
di garantire il raggiungimento di quei risultati ed obbiettivi.
Infine, in merito al potere sostitutivo ex art.120, un ultimo problema
interpretativo riguarda la possibilità di introdurre meccanismi di sostituzione, nei
rapporti tra i vari livelli di governo, diversi da quello disciplinato in tale articolo. In
tal senso, si è ragionevolmente ritenuto che i soggetti titolari di competenza di
regolazione di certe materie, debbano poter anche prevedere che, se la realizzazione
di quegli obbiettivi, affidata a soggetti istituzionali diversi, è a rischio, possano
essere utilizzati dei poteri di sostituzione. In questa logica quello disciplinato
dall’art.120 non è un potere sostitutivo generale affidato al Governo ed esercitabile
in presenza di quei presupposti, ma nulla vieta che altre fonti (statali o regionali)
introducano altri poteri sostitutivi collegati ad altri presupposti303.
303
Da questo punto di vista è da segnalare la tendenza del Governo a considerare la sola legge dello Stato
come capace di disciplinare i poteri sostitutivi, in nome della necessaria unitarietà che sotto questo profilo
va mantenuta.
Per un’analisi complessiva vedi Mainardis C. in “Il nuovo regionalismo italiano ed i poteri sostitutivi
statali: una riforma con (poche) luci e (molte) ombre” pubblicato sul forum di Quad.Cost.
205
E, per concludere, è proprio alla fine del concetto di interesse nazionale che
voglio dedicare queste ultime riflessioni sulla riforma del 2001.
Dal nuovo testo del Titolo V° è stato espunto qualsiasi riferimento all’interesse
nazionale, ed il giudizio di merito di fronte alle Camere è stato cancellato: la
dottrina si sta, ormai da tempo, interrogando sul significato di queste esclusioni. Vi
è chi da subito ha assunto un posizione scettica, propensa a ritenere che il
Parlamento abbia inteso, non già liberare le Regioni dal limite degli interessi
nazionali, ma semplicemente scaricare per intero il peso della difesa di essi sulla
Corte Costituzionale304. Vi è chi, invece, rilegge la recente riforma costituzionale in
chiave di continuità, ritenendo perciò che la definizione degli interessi nazionali
resterà comunque affidata alla collaborazione tra Parlamento e Corte costituzionale,
al primo essendo demandata la concreta precisazione del riparto delle funzioni tra i
diversi livelli d’interesse, attraverso i tanti varchi lasciati aperti dagli art.117 e 118,
e alla seconda le “piccole correzioni” necessarie al mantenimento dell’equilibrio e la
verifica dei “titoli giustificativi” dell’intervento statale305.
Vi è infine chi assume la riforma come una vera svolta netta rispetto al passato e
nega che l’interesse nazionale possa più essere fatto valere come un limite generale
della legislazione regionale, poiché nel nuovo testo del Titolo V° esso sarebbe stato
riconosciuto e tradotto in specifiche riserve di competenza dello Stato (per esempio,
i livelli essenziali, le norme generali, il coordinamento informatico, di cui,
rispettivamente, alle lett. m, n, r dell’art.117 secondo comma, i principi
fondamentali di cui all’art.117, terzo comma, ed i meccanismi perequativi di cui
all’art.119), le quali andrebbero considerate, quindi, come titoli esclusivi su cui
soltanto si potrebbe basare l’intervento statale a protezione dell’interesse
nazionale306.
Sono, quindi, punti di vista molto diversi che convergono solo nella comune
notazione delle seguenti questioni: se l’interesse nazionale sia ancora un limite
generale delle attribuzioni regionali; se possa o meno legittimare interventi
trasversali dello Stato non riferibili ad uno specifico titolo scritto nei nuovi articoli
della Costituzione; se sia ancora concepibile la funzione di indirizzo e
coordinamento; si gioca buona parte del significato che assumerà nei fatti la riforma
costituzionale.
L’intenzione del legislatore costituzionale appare piuttosto chiara. L’originale
previsione dell’art.127 (che, come ben noto, non è mai stata attuata), per cui in caso
di contrasto con interessi nazionali, il Governo, poteva impugnare le leggi regionali
davanti alle Camere per questioni di merito, è stata eliminata. Anche la riserva di
legge statale a tutela di “imprescindibili interessi nazionali”, prevista nel testo
licenziato dalla Commissione Bicamerale per le riforme costituzionali, è stata,
successivamente, stralciata. La volontà del legislatore sembra pertanto chiara, ma
questo non è certo un argomento decisivo.
Infatti, come è bene ricordare, la giurisprudenza costituzionale (sin dalla
sentenza n.39 del 1971) ha fondato il limite dell’interesse nazionale non sull’art.127,
304
Vedi A. Barbera in “Chi è il custode dell’interesse nazionale?” in Quad. Cost., 2001, pagg.345 ss., e
“Scompare l’interesse nazionale?” nel forum di Quaderni Costituzionali.
305
In tale senso vedi R.Tosi in “A proposito dell’interesse nazionale” nel forum di Quad.Cost.
306
Vedi C. Pinelli in “I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con
l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento comunitario”, pubblicato su Foro It., 2001, pagg.194
ss.
206
bensì sull’art.5 Cost. o, meglio, sul principio di prevalenza delle esigenze di
carattere unitario, che trovano formale e solenne riconoscimento nell’art.5 della
Costituzione. E, come si sa, questo articolo non è stato toccato dalla riforma del
2001, e quindi i principi in esso incorporati, restano intatti.
Naturalmente ciò non significa che insieme ai principi resti intatto anche tutto il
bagaglio di strumenti con cui in passato esso è stato fatto operare. Bisogna
considerare, infatti, se e come la riforma del Titolo V° abbia strumentato quel
principio.
Ciò che è possibile evincere dalla giurisprudenza costituzionale ante 2001, è che
quello che era nato come un limite di merito si è presto tradotto, nei criteri
applicativi, in una vasta tipologia di vizi di legittimità che hanno portato alla
progressiva strutturazione dell’interesse nazionale in molteplici riserve preventive
dello Stato. Nella riscrittura del Titolo V° si potrebbe, dunque, vedere la fissazione
in disposizioni, di ciò che attraverso l’applicazione legislativa e giurisprudenziale, è
progressivamente emerso come lo strumento indispensabile attraverso cui si
esprimono le esigenze unitarie. Ma non è così facile. Infatti, la rigida separazione
tracciata dal nuovo art.117 appare un argine troppo netto e troppo elastico per poter
resistere alla spinta degli interessi unitari.
Per quanto severo possa essere il giudizio sulla passata giurisprudenza della
Corte costituzionale, in cui si sono fatti valere gli interessi nazionali sotto le
sembianze di limiti di legittimità, credo che sia difficile concludere che, nelle
materie del vecchio art.117, l’affermazione delle esigenze unitarie fosse sempre
pretestuosa e del tutto infondata. Eppure, tutte quelle materie sono oggi refluite nella
potestà residuale delle Regioni, per la quale lo Stato non può effettuare nessun
intervento né per legge, né per regolamento, né sul piano amministrativo.
A questo punto, viene da chiedersi con quali strumenti si tuteleranno e
realizzeranno, in futuro, le esigenze di coordinamento, gli interessi infrazionabili,
ma, anche, la programmazione generale. Anzi, non si capisce come, senza questo
principio, le Regioni dovranno gestire quell’enorme innovazione legislativa,
derivante dalla nuova enumerazione delle competenze legislative (che ha spostato i
limiti dalle Regioni allo Stato, lasciando alle prime un vastissima competenza
residuale) e che, in questo modo, graverà tutta sulle spalle dei legislatori regionali,
senza alcun coordinamento se non quello che le Regioni stesse volessero
spontaneamente organizzare orizzontalmente.
Non sembra, dunque, che la tecnica della netta separazione delle potestà
legislative, possa essere funzionale, se non compensata da adeguate forme di
coordinamento e da efficienti sedi di concertazione politica. Essa, infatti,
costruirebbe paratie troppo schematiche, astratte e fragili per potere contenere
l’impeto della realtà della società moderna.
Ed è proprio in queste problematiche che bisogna cercare la risposta al quesito
che si chiede che fine ha fatto l’interesse nazionale a seguito della riforma del 2001.
Infatti, in primo luogo, mi pare ovvio che il fatto che il legislatore abbia
cancellato tutti i riferimenti all’interesse nazionale contenuti nel testo originale della
Costituzione, non significa, necessariamente, che abbia ignorato il problema.
Piuttosto, ha cancellato le vecchie soluzioni che si sono rivelate insoddisfacenti ed
improntate ad un sistema gerarchico di sovra-ordinazione dello Stato (rappresentato
dal Governo) sulle Regioni, per sostituirlo con il più adeguato principio di
sussidiarietà (quale espressione del variabile livello degli interessi territoriali).
207
Sussidiarietà significa proprio questo: cioè che le funzioni non sono assegnate
una volta per tutte in base a criteri astratti, ma collocate al livello di governo più
vicino possibile agli amministrati, purché adeguato.
Le antiche distinzioni tra interessi frazionabili e interessi non frazionabili,
nonché tra interesse nazionale, regionale e esclusivamente locale, sono quindi non
superate, ma riassunte nei concetti di sussidiarietà ed adeguatezza. Dunque, non si è
fatto altro che sottrarre la ripartizione dei livelli di interesse ad una logica
gerarchica.
Oggi, specie dopo la riforma del 2001, dunque, lo Stato, partecipa in posizione
di parità alle Regioni nella Repubblica (vedi il nuovo art.114), per cui non c’è più
tra queste un rapporto di supremazia gerarchica; la tutela degli interessi nazionali e
delle esigenze unitarie della Repubblica non è parte delle caratteristiche di
supremazia dello Stato, ma deve essere frutto dell’unico modo in cui i soggetti di
pari grado possono decidere, attraverso l’accordo, la leale collaborazione.
A conclusione di questa analisi, dunque, si può dire che l’apparente disinteresse
del legislatore per le esigenze unitarie e di coordinamento (tanto criticato dalla
dottrina), non deve necessariamente portare a concludere per una costruzione
rigidamente dualista dei rapporti tra Stato e Regioni.
Anzi, tutto all’opposto si sono ridefinite le sfere d’attribuzione, si è
rivoluzionato il criterio di fondo dell’ordinamento dei rapporti tra Stato e Regioni:
non più enti disposti lungo una linea gerarchica, tale per cui all’ente generale era
riconosciuto e riservato il potere-dovere di curare interessi generali, ma enti pariordinati, tenuti a collaborare per tutto ciò che attiene agli interessi comuni, gli
interessi delle loro casa comune, la Repubblica.
In ciò, il legislatore della riforma, potrebbe essere assolto dall’accusa di non
aver risolto i veri problemi per i quali tale riforma è stata varata. Sia pure
implicitamente si può ritenere che, la riforma, ci dica dove e come le esigenze
(anche unitarie) possono trovare la loro tutela: nelle sedi e forme paritarie della leale
collaborazione, piuttosto che (come in passato) nell’intervento statalista ispirato al
criterio di supremazia gerarchica (che dunque oggi non è più tollerabile).
Un ultima nota merita il fatto che, a differenza di quanto le precedenti leggi
costituzionali (e perfino la stessa Costituzione) avevano sempre fatto, tale legge
cost. n.3/’01 ha omesso di prevedere norme transitorie che si preoccupassero di
gestirne la fase transitoria di applicazione (l’unica potrebbe essere l’art.10, il quale
si limita a prevedere che le norme della stessa si applicano anche alle Regioni a
Statuto Speciale, almeno fino a quando le stesse non vi avranno adeguato i rispettivi
statuti)307. Ciò ha rimesso l’applicazione della riforma, per intero, agli interpreti, ed
in special modo alla giurisprudenza costituzionale.
Ed è proprio il ruolo della Corte costituzionale che negli anni a venire si porrà
come determinante per decidere del successo della riforma del 2001.
307
In tal senso vedi Groppi T. in “La legge costituzionale n.3/2001 tra attuazione ed autoapplicazione”,
redatto in “La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo titolo V”, a cura di Olivetti,
Torino, 2001, pagg.227 ss.
208
Infatti, le opzioni sono due: o la Corte asseconda la trasformazione del sistema e
ne approfitta per uscire dall’infelice situazione in cui si è spinta in anni di
giurisprudenza con cui ha impostato il regionalismo in un’ottica di supremazia
gerarchica dello Stato, tornando ad essere la vera custode delle regole del gioco
(anziché essere costretta a riscriverle di continuo); o continua ad operare con una
giurisprudenza anacronistica ed inadeguata alle nuove esigenze culturali ed
istituzionali dell’Italia del XXI secolo308.
308
Vedi anche l’editoriale di Bartole S. in “Dopo il referendum di ottobre” su Le Regioni, n.5, 2001.
209
4. La legge n.131 del 2003 (c.d. Legge La Loggia) e le prospettive di
una nuova riforma.
Compiuta quest’analisi sulla riforma del 2001, si può facilmente affermare che
non pochi problemi si sono posti.
L’incremento esponenziale del contenzioso costituzionale, l’accrescersi del
ruolo di strutture concertative che la riforma non aveva nemmeno toccato309, il
fallimento dei tavoli di concertazione che all’uopo erano stati istituiti310, sono
conseguenze che esprimono in quale clima di tensione e sfiducia, tale riforma
veniva a trovare applicazione.
Ma, di tutte, la causa maggiore di tale clima è da addebitare all’avvento della
XIV Legislatura. Con la vittoria di una maggioranza antitetica rispetto a quella che
aveva fatto la riforma, tutta la prospettiva cambia (considerato che, essa era, anche,
la stessa opposizione che aveva contrastato l’avvento della riforma stessa). La nuova
maggioranza di Governo, non solo non sente propria la riforma del 2001, ma ne
evidenzia tutti i limiti e ne sottolinea l’incompletezza (e quindi l’insufficienza ad
affrontare i problemi del Paese). Quasi dimenticando di essere stata in parte
colpevole di tutto ciò (in quanto se non vi fosse stata la loro defezione alla
Commissione Bicamerale, forse, il progetto iniziale sarebbe andato in porto), la
nuova maggioranza accusa la riforma di aver modificato punti che non andavano
toccati (ad esempio, la questione sull’interesse nazionale) ed al contempo l’accusa
di aver lasciato in vita elementi che sarebbero dovuti venire meno (ad es. la
competenza concorrente ex art.117), il tutto sottolineando che, essa non ha riformato
là dove ce ne era davvero bisogno (ad esempio, la riforma del Senato in Camera
delle Regioni, o la regionalizzazione della Corte costituzionale).
Ed è su tali polemiche e accuse (essenzialmente politiche), che ci si è mossi in
due direzioni: una finalizzata ad attuare la riforma (secondo la filosofia del farle fare
il meno peggio possibile), e l’altra, volta a realizzare il progetto di una nuova
riforma, che oltreché migliorare la precedente, la completi e sostituisca.
309
Il riferimento è al Sistema delle Conferenze. Per un’interessante analisi vedi Ruggiu I. in “La
Conferenza Stato-Regioni nella XIII e XIV legislatura”, su Le Regioni, 2003, fasc.1, pagg.195 ss.
310
Da notare i destini della Cabina di Regia , istituita con accordo adottato in sede di Conferenza dei
Presidenti di Regione il 29 novembre 2001, con le finalità di discussione, verifica, proposta sui temi della
riforma costituzionale del Titolo V e con il ruolo di monitoraggio sulla legislazione vigente e su quella in
itinere di iniziativa governativa, al fine di formulare sollecitamente e congiuntamente eventuali modifiche
che consentano di superare possibili conflitti istituzionali. Tale sede non partì mai (in senso pieno), ed il
suo fallimento fu legato alla mancata istituzionalizzazione della stessa, che doveva avvenire, almeno
inizialmente, con DPCM, il quale non venne adottato dall’attuale Governo Berlusconi nel timore di acuire
lo scontro tra Stato e Regioni, e preferendo lasciare il compito di concertazione alle gia istituite
Conferenze.
210
a) La Legge La Loggia.
Riguardo al primo punto, una nota particolare è da dedicare alle leggi di
attuazione che avrebbero dovuto seguire la riforma del 2001 (Roma capitale, poteri
sostitutivi del Governo, legge di coordinamento ex art.118, etc…), delle quali, dopo
lungo travaglio, non se n’è vista che una.
La legge 5 giugno 2003 n.131311 riportante l’indicazione di “Disposizioni per
l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18
ottobre 2001 n.3” (c.d. Legge La Loggia312) nasce in un clima d’incertezze e dubbi.
L’intenzione del Governo di varare al più presto una nuova riforma
costituzionale ne fa un testo più vicino ai progetti di tale nuova riforma, che alla
legge cost. n.3/’01. Cerchiamo di analizzarne i tratti salienti.
All’art.1 ci si preoccupa dell’attuazione del nuovo art.117 (primo e terzo
comma), ed in ciò s’introducono importanti novità. Mentre il primo comma si
preoccupa di rinnovare i vincoli della potestà legislativa (sia statale che regionale)
enunciandoli in diritto internazionale, accordi di reciproca limitazione della
sovranità, ordinamento comunitario e trattati internazionali; il secondo comma
precisa che nelle varie materie ricadute nella neo-nata competenza legislativa
regionale generale e residuale, fintantoché le Regioni non si attivino a dettare una
loro disciplina, si continueranno ad applicare le vecchie norme già in vigore.
Un’importante novità è invece contenuta nel terzo comma, in cui si pongono i
limiti della potestà legislativa regionale, oltreché i limiti espressamente determinati
dallo Stato, anche quelli semplicemente desumibili dalle leggi statali vigenti (e così
facendo si cerca di colmare la deficienza di legislazione statale di principio, postriforma, nelle materie di cui all’art.117, terzo comma).
Altra interessante nota è da porre sul comma 4 (collegato all’art.2, relativamente
al secondo comma dell’art.117 Cost., ed all’art.3, in materia di disposizioni non
aventi carattere di principio fondamentale nelle materie di legislazione concorrente)
in cui si determinano le modalità procedurali per l’adozione di decreti legislativi
meramente ricognitivi dei principi fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti
(nel caso dell’art.3 per la raccolta delle disposizioni legislative residue, cioè che non
costituiscono principi fondamentali). In tale articolo ci si preoccupa di strutturare un
procedimento che rappresenta una importante occasione per desumere i suddetti
principi nel senso voluto dalla carta costituzionale. Con il doppio parere della
Conferenza Stato-Regioni e delle commissioni parlamentari (le quali devono
vigilare se vi siano state omissioni, o se ne sono stati, illegittimamente, previsti di
nuovi, od, ancora, se, sempre illegittimamente, sono stati definiti come principi
fondamentali disposizioni di dettaglio), ed il Governo, che può disattendere il parere
parlamentare solo motivando in modo specifico (in definitiva si osserva che non si è
fatto altro che ricalcare, per grandi linee, il procedimento che era stato ideato in
occasione del D.P.R. n.616/’77 in materia di trasferimento di funzioni
amministrative), si crea un sistema per il quale la definizione di tali principi (la
quale va, in realtà al di la del semplice testo scritto, in quanto sappiamo che, i
principi fondamentali, per loro natura, non si lasciano definire una volta per tutte,
311
312
Pubblicata nella Gazz. Uff. n,132 del 10 giugno 2003.
Dal ministro, del Governo Berlusconi II°, per gli affari regionali, proponente la stessa.
211
perché dipendono dal variabile atteggiarsi degli interessi in gioco) è il frutto di un
procedimento concertato, frutto della collaborazione con le Regioni e conseguenza
di un procedimento aggravato che, pur riconoscendo al Governo la possibilità di
discostarsi da quanto indicato dalla Conferenza e dalle commissioni, chiede, però,
una specifica motivazione (la quale è poi ciò su cui può essere costruito un
eventuale ricorso alla Corte costituzionale). Addirittura, dato che nell’ipotesi
dell’art.2 si coinvolgono interessi degli Enti Locali, il parere deve essere recepito da
un altro organo concertativo quale la Conferenza Unificata (composta anche dai
membri della Conferenza Stato-Città ed Autonomie Locali).
Ciò che, in definitiva caratterizza i primi tre articoli della legge è la delega al
Governo di un piano di riordino e di semplificazione (da racchiudere in Testi Unici)
di tutta la vecchia legislazione (cioè quella ante-riforma del 2001) in vista di un
riordinamento dei rapporti tra Stato, Regioni ed Autonomie Locali.
Per ciò che concerne altre precisazioni, della legge in esame, si osservino:
a) il tentativo di soppressione della funzione di indirizzo e coordinamento
(art.8, c. 6313);
b) l’accelerazione delle decisioni della Corte costituzionale, ed un meccanismo
di eliminazione degli arretrati (art.9). Particolarmente importante è la
previsione che il Governo (previa delibera in sessione collegiale) debba
sollevare questione di legittimità costituzionale, qual’ora ciò sia richiesto
(con delibera) dalla Conferenza Stato-Città ed Autonomie Locali, così come
il Presidente della Giunta regionale sia tenuto a presentare ricorso alla Corte
ove ciò sia richiesto dagli, istituendi, Consigli delle Autonomie Locali
(previa delibera degli stessi);
c) esplicita la perdurante equivalenza tra principi espressi e principi desunti
(art.1, c. 3314), accompagnata, come abbiamo visto con una delega per la
ricognizione, fino all’entrata in vigore delle nuove leggi cornice, dei principi
fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti, nelle materie di cui al terzo
comma dell’art.117 Cost. (vedi art.1, comma 4 della legge);
d) la definizione di potestà normativa agli Enti Locali, quali Comuni, Province,
ma anche Città Metropolitane e Comunità Montane ed Isolane (art.4);
e) l’identificazione del procedimento per l’esercizio del potere sostitutivo ex
art.120 Cost. (art.8), il quale prevede che, assegnato all’ente territoriale, un
termine per provvedere, il Governo, sentito l’organo interessato, si attiva, su
proposta del Ministro competente (o dello stesso Presidente del Consiglio
dei Ministri), ad adottare i provvedimenti necessari anche normativi, ovvero
313
Il cui testo è il seguente: “Il Governo può promuovere la stipula di intese in sede di Conferenza StatoRegioni o di Conferenza unificata, dirette a favorire l’armonizzazione delle rispettive legislazioni o il
raggiungimento di posizioni unitarie o il conseguimento di obiettivi comuni; in tale caso è esclusa
l’applicazione dei commi 3 e 4 dell’articolo 3 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281. Nelle
materie di cui all’articolo 117, terzo e quarto comma, della Costituzione non possono essere adottati gli
atti di indirizzo e di coordinamento di cui all’articolo 8 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e all’articolo 4
del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112”.
314
Il cui testo riporta: “Nelle materie appartenenti alla legislazione concorrente, le Regioni esercitano la
potestà legislativa nell’ambito dei principi fondamentali espressamente determinati dallo Stato o, in
difetto, quali desumibili dalle leggi statali vigenti”.
212
nomina apposito commissario315. Ma, ciò che più risalta è che, tale legge ha
voluto precisare che l’esercizio dei poteri sostitutivi ex novo art.120 Cost.
debba avvenire conformemente ai principi di sussidiarietà e leale
collaborazione, e che in attuazione di tale potere il Governo può adottare
anche atti normativi316;
f) ed, infine, la reintroduzione del Commissario di Governo (ora chiamato
Rappresentante dello Stato) nella persona del Prefetto del capoluogo di
Regione (ex art.10), per le Regioni a Statuto Ordinario, disciplinandone le
funzioni317, ed al contempo prevedendo che, per le Regioni a Statuto
Speciale, si avvii un processo di riforma finalizzato all’istituzione (con le
medesime funzioni di tale rappresentante) di appositi organi statali a
competenza regionale, tramite una revisione dei rispettivi statuti.
Compiuta, quest’elencazione, vorrei, adesso, soffermare la mia attenzione
sull’art.7 della legge in analisi. In tale articolo si prevede che Stato e Regioni
procedano ad una distribuzione delle competenze amministrative sui vari livelli
territoriali, conformemente ai principi di sussidiarietà, differenziazione e
adeguatezza, seguendo i criteri di buon andamento, efficienza ed efficacia
dell’azione nell’unitarietà dell’esercizio dell’azione amministrativa segnatamente
alle eventuali esigenze di programmazione e omogeneità territoriale e nel rispetto
dei motivi funzionali ed economici che segnano tale azione. Ciò che colpisce è
anche la procedura secondo cui si deve procedere a tale redistribuzione delle
funzioni amministrative. Il secondo comma, infatti, prevede che ciò avvenga
conformemente alle linee tracciate in apposito accordo da concludersi in sede di
Conferenza Unificata, diretto in modo particolare alla definizione dei criteri su cui
redigere apposito testo legislativo da sottoporre all’attenzione del Parlamento
(precisando che il tutto abbia luogo nel rispetto dei criteri determinati dal nuovo
art.119 Cost.). Ancora, importante è il terzo comma, il quale, addirittura, eleva a
livello legislativo l’Accordo del 20 giugno 2002 recante apposita intesa
315
Al comma 3 si precisa che la nomina del commissario deve essere conforme ai principi di sussidiarietà
e leale collaborazione, e si prevede che tale organo operi sentito il Consiglio delle Autonomie Locali (ove
istituito). Una nota particolare la merita il comma 6 nella parte in cui prevede che il Governo può
promuovere, in sede di Conferenze, la stipula di intese per armonizzare la legislazione statuale con quella
regionale, al fine di ottenere il raggiungimento di posizioni unitarie ed il conseguimento di obbiettivi
comuni.
316
Per una completa analisi dei poteri sostitutivi ex art.120 Cost. come attuati dalla legge n.131 del 2003,
vedi Giuffrè F. in “Note minime su poteri sostitutivi e unità della repubblica alla luce della recente legge
131 del 2003 (c.d. legge La Loggia)”, pubblicato il 14 luglio 2003 sul sito www.federalismi.it .
317
Le quali sono indicate nel secondo comma dell’art.10, e possono essere riassunte secondo quanto
segue: 1)assicurare il rispetto della leale collaborazione tra Stato e Regione, nonché il raccordo tra le
istituzioni dello Stato presenti sul territorio; b) la tempestiva informazione alla Presidenza del Consiglio
dei ministri; c) la promozione dell’attuazione delle intese e del coordinamento tra Stato e Regione,
nonché delle misure di coordinamento tra Stato e autonomie locali; d) l’esecuzione di provvedimenti del
Consiglio dei ministri costituenti esercizio del potere sostitutivo di cui all’articolo 120; e) l’interscambio
di dati e informazioni rilevanti sull’attività statale, regionale e degli enti locali; f) l’indizione delle
elezioni regionali e la determinazione dei seggi consiliari e l’assegnazione di essi alle singole
circoscrizioni; g) la raccolta delle notizie utili allo svolgimento delle funzioni degli organi statali,
costituendo il tramite per la reciproca informazione nei rapporti con le autorità regionali; la fornitura di
dati e di elementi per la redazione della Relazione annuale sullo stato della pubblica amministrazione; la
raccolta e lo scambio dei dati di rilevanza statistica.
213
interistituzionale per l’attuazione della riforma del Titolo V°, conclusa in sede di
Conferenza Unificata.
Da tale articolo, ciò che risalta è che, malgrado la valorizzazione della
concertazione, il legislatore statuale, nell’attuazione della riforma del Titolo V°, si è
più che altro preoccupato di riaffermare il principio di continuità con la legislazione
statale previgente, ed ha voluto ritrovare nello Stato il destinatario delle funzioni
amministrative. Infatti, sebbene la riforma ha gettato le basi affinché
all’acquisizione, alle Regioni, del nuovo potere legislativo, fosse seguita da,
un’altrettanto forte, estensione delle competenze nel campo amministrativo (in virtù
del principio del parallelismo, le leggi regionali avrebbero dovuto avere il potere di
sostituirsi alla vecchia legislazione statuale nel trasferire date funzioni
amministrative alle Regioni stesse), la legge in questione ha, invece, operato una
scelta pressoché opposta. Infatti, essa prevede che, fintantoché, non sia lo stesso
Stato a trasferire date funzioni, e le rispettive risorse, a livelli di governo territoriale
inferiori, esse rimarranno in capo ad esso.
In conclusione si può osservare che, la fine della regola del parallelismo delle
funzioni, accompagnata dalla ritenuta illegittimità di atti statali per il passaggio di
funzioni dallo Stato alle Regioni, fa sì che fino all’entrata in vigore di nuove leggi di
trasferimento nulla cambi, e le funzioni amministrative continuino ad essere
esercitate dai Ministeri. Può darsi che le Regioni non siano interessate ad avere
nuove funzioni amministrative, dovendo ancora digerire quelle ricevute con le
famose leggi Bassanini, ma fino a quando tale trasferimento non sarà realizzato, la
potestà legislativa regionale nelle materie residuali rimarrà ben poca cosa (dato che,
sottratte alla competenza legislativa regionale le discipline privatistiche e
penalistiche, il cuore della legislazione regionale, non potrà che essere l’insieme
delle funzioni amministrative)318.
Infine una nota meritano gli art.5 e 6 della legge n.131/’03, i quali si sono
preoccupati di disciplinare il ruolo delle Regioni nell’Unione Europea e nell’ambito
internazionale. Purtroppo tale legge non ha saputo superare tutti i dubbi che la
riforma ex legge cost. n.3/01 aveva già sollevato, ma con essa si è valorizzato, non
di poco, il ruolo delle Regioni anche in campo internazionale. La previsione per le
stesse di concludere intese con enti territoriali stranieri per favorire lo sviluppo
economico sociale e culturale, ma anche la possibilità di concludere accordi con
Stati stranieri, esecutivi ed applicativi di altri accordi internazionali già in vigore (o
di natura tecnico-amministrativa oppure programmatica), sono poteri non
indifferenti che tale legge attribuisce ad esse. Ma, purtroppo, per quel che concerne i
rapporti fra il nostro ordinamento e le fonti internazionali e sovranazionali, i dubbi
restano, e riguardano la qualificazione di tali fonti come limite alla potestà
normativa (statale e regionale), le modalità con cui le Regioni possono concludere
accordi internazionali, il coordinamento Stato-Regioni nel recepimento delle norme
UE e la partecipazione delle Regioni alla formazione delle norme comunitarie
stesse.
Cominciando dall’analisi degli aspetti che riguardano il diritto internazionale
bisogna osservare che la legge in argomento chiarisce che la potestà legislativa di
Stato e Regioni è limitata solo dalle norme internazionali generali, dagli accordi
318
In tal senso vedi Carli M. in “Luci e ombre nella prima attuazione della legge costituzionale n.3/2001
(c.d. legge La Loggia)”, pubblicato il 12 giugno 2003 su www.federalismi.it
214
internazionali di reciproca limitazione della sovranità (ex art. 11 Cost.),
dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea ed infine dai trattati
internazionali ratificati. In tutto ciò, bisogna notare come, di tutti questi, sia proprio
tal ultima categoria a suscitare i maggiori dubbi, infatti, non si capisce perché il
legislatore abbia voluto distinguere fra gli accordi di cui all’art. 11 della
Costituzione e tutti gli altri atti di diritto internazionale assolutamente equivalenti
(ad esempio le decisioni in sede N.A.T.O.) ma non ratificati.
Sempre su questa scia, così come la riforma, nemmeno la presente legge, riesce
a chiarire i dubbi concernenti la possibilità di concludere intese con enti territoriali
stranieri (od addirittura accordi con Stati stranieri) specie sotto il profilo della loro
validità. Ciò che, infatti, è bene precisare, riguarda il fatto che, in entrambi i casi, le
Regioni, dovranno coordinarsi con il Ministro degli Affari Esteri, che a sua volta
informerà gli altri Ministri competenti, secondo un procedimento di stretto controllo
governativo degli eventuali accordi in forma semplificata conclusi dalle Regioni o
dalle Province Autonome di Trento e di Bolzano.
Per quanto concerne gli aspetti di diritto comunitario, le perplessità sono ancora
più forti. Infatti, come si era già fatto nella riforma del 2001 si continua ad auspicare
una partecipazione delle Regioni alla Commissione Europea (cosa che, come ho già
osservato nel capitolo precedente, non è effettuabile, dato che tale organo nella sua
indipendenza non può rappresentare nessun territorio in particolare), mentre si
indica una procedura di attivazione della partecipazione al Consiglio, che sebbene
coinvolge personalmente le Regioni, non le fa uscire comunque dall’ombra del
Governo nazionale, ed in ciò ne vanifica il ruolo.
Un’ultima nota merita l’attribuzione, alle Regioni ed alle Province Autonome,
del potere di richiesta (da avanzare al Governo) per promuovere ricorso davanti alla
Corte di Giustizia delle Comunità Europee al fine di denunciare l’illegittimità di un
atto comunitario. Anche qui, purtroppo la legge non riesce ad andare al di là delle
buone intenzioni, in quanto attribuisce al Governo un amplissimo, e non
disciplinato, potere discrezionale nel decidere se promuovere ricorso o meno, cosa
che rende insignificante l’attribuzione in questione alle Regioni stesse.
In definitiva sotto il profilo comunitario ed internazionale la legge dà qualche
chiarimento, ma non risolve tutti i problemi che si sono aperti con la riforma
costituzionale del 2001. Il risultato, raggiunto dalla legge La Loggia, può essere
riassunto in tre essenziali punti: a) le accresciute competenze della legislazione
regionale trovano un limite superiore (al pari delle norme Statali) nella legislazione
internazionale e comunitaria; b) si riconoscono poteri non indifferenti
nell’attuazione delle norme sia internazionali che comunitarie; c) si plasma un
embrione di potere estero che però è ancora appena accennato319.
A conclusione di questa breve analisi posso osservare che, se la legge
costituzionale n.3 del 2001 si è presentata come parziale ed anacronistica, la legge
n.131 del 2003 (c.d. legge La Loggia), invece, è essenzialmente contraddittoria.
Infatti, da un lato essa premia il regionalismo, rivaluta le Regioni e valorizza il
cooperativismo istituzionale, dall’altro non risolve i problemi interpretativi posti
dalla riforma, e quando lo fa predilige la prospettiva accentratrice. Ed in ciò si pone
319
Per una lettura più completa vedi Rossi L. S. in “Costituzione, diritto internazionale e diritto
comunitario: le precisazioni del D.D.L. La Loggia”, pubblicato sul sito www.federalismi.it, il 4 luglio
2002.
215
come una legge che, nel tentativo di colmare le lacune ed i vuoti prodottisi con la
riforma del 2001, non ha fatto altro che riaffermare la superiorità statale ed ha
gettato le basi per una normativa che in futuro potrà porsi come utile appiglio a
giustificare varie ingerenze dello Stato nelle competenze (specie amministrative)
delle Regioni.
E’ pur vero che, forse, gran parte dei difetti della stessa sono dovuti al fatto che
è stata emanata secondo una prospettiva di temporaneità (legata alla nuova riforma
costituzionale già in cantiere), ma ciò non può esimere, il legislatore, dalle critiche
che gli si devono muovere, specie in riferimento al fatto di aver perso un’importante
occasione per dare una disciplina organica e concreta alla riforma del 2001 che, nei
limiti di quanto può fare la legislazione ordinaria a fronte di una riforma
costituzionale, potesse correggerne gli errori e colmarne le lacune. Il tutto nella
prospettiva di una nuova riforma costituzionale della quale, a metà 2004, non è
ancora chiaro nemmeno il disegno generale.
Infatti, questa, a parte il fatto che si tratta in buona parte di un’amplissima
delega (valutabile dunque solo con i decreti adottati), di certo non risolve
minimamente i problemi posti con la riforma del 2001.
Abbiamo visto che di nodi irrisolti la riforma del Titolo V° ne ha lasciati
parecchi. Essi sono ripartibili in due categorie:
a) i problemi non riconosciuti, tra i quali annoverare la questione di porre un
argine alla iper-regolamentazione cui inevitabilmente porterà la
sovrapposizione di livelli normativi e di governo senza chiare distinzioni di
ruoli; ed i problemi vecchi e non riconosciuti, a causa di difficoltà ad
affrontarli e risolverli (ad esempio il rapporto tra fonti normative e contenuti
dell’autonomia locale, od anche le autonomie funzionali, ed altro);
b) i problemi riconosciuti ed affrontati con soluzioni abbozzate ed un
consistente rinvio a leggi ordinarie successive.
Così, si può facilmente osservare come, la legge La Loggia non risolva parecchi
nodi rientranti in una di queste due categorie.
Certo qualcosa è anche immediatamente apprezzabile (come l’accenno alle
autonomie funzionali fatto all’art.2, comma 4, lett.o; oppure l’estensione anche
all’iniziativa degli Enti Locali, dell’avvio della procedura di potere sostitutivo
governativo di cui all’art.8, comma 1), ma ciò non basta a far dire che tale legge sia
stata in grado di fare tutto ciò che era in suo potere per colmare le lacune, e rendere
effettivamente esecutiva la riforma del 2001.
Tale incapacità può essere riassunta in tre ordini di ragioni.
Un primo è un problema di metodo. Infatti, viene consegnata con la delega al
Governo (e alla pressante influenza dei Ministeri, delle burocrazie e dei corpi
elettorali), la definizione in concreto della potestà legislativa non solo regionale ma
anche (e conseguentemente) centrale, da un lato, e la ridefinizione dell’intero
sistema amministrativo, che tutti concordano costituzionalmente ripensato dal basso,
dall’altro. In sostanza, la delicatissima fase di adeguamento della funzione
legislativa e del nuovo sistema amministrativo, che il Titolo V° appoggia per intero
sulle assemblee rappresentative da un lato, e movendo dagli Enti Locali dall’altro,
viene, invece, affidato proprio al soggetto che più di ogni altro dovrebbe non già
esserne l’artefice, bensì solamente adeguarvisi di conseguenza (naturalmente dopo
aver fatto pesare per intero le proprie ragioni, in sede parlamentare). Il sistema
prescelto, invece, colloca il Governo in posizione preminente e centrale in una fase
216
del processo che appartiene a pieno titolo alla materia costituzionale affidandogli, in
più, un ruolo quasi arbitrale tra le istanze, presumibilmente diverse, delle sedi
parlamentari rispetto a quelle delle Conferenze Stato/Regioni/Autonomie Locali.
Una seconda ragione d’inadeguatezza di tale legge, si rintraccia in questioni di
merito generale. Infatti, ad una prima lettura ciò che risalta è che sembra che
nessuna delle disposizioni di tale legge voglia affrontare seriamente i problemi sorti
con la riforma del 2001. Molti, infatti, hanno letto tale legge come uno strumento di
raffreddamento, nell’immediato, dei conflitti Stato, Regioni ed Enti Locali, avente
anche lo scopo di un allungamento dei tempi d’attuazione (ulteriormente rinviati con
altre proroghe), ed, infine, andando a guadagnare del tempo per poi correggere e
fermare definitivamente la portata innovatrice della riforma stessa (nell’ottica di una
nuova riforma costituzionale).
Ultima ragione si può leggere in questioni di merito specifiche. Con ciò non mi
riferisco solo ai profili più ampiamente criticati dalla dottrina (quali l’imponente uso
dello strumento dei Testi Unici, o la modifica del ruolo delle Regioni in sede
comunitaria) ma soprattutto alle norme che si sono tacitamente poste l’evidente
obbiettivo di normalizzazione delle disposizioni costituzionali (cosa che si traduce
in una moltitudine di integrazioni, apparentemente modeste, alle disposizioni
costituzionali che si traducono regolarmente nell’estensione dei limiti apposti
all’autonomia regionale o locale)320.
Per concludere, si può chiaramente affermare che, se (come alcuni pensavano)
sarebbe stato originariamente ipotizzabile che le non trascurabili imperfezioni e le
320
Per citarne alcuni mi posso riferire:
a) alla normalizzazione, cioè la trasformazione della clausola della “tutela giuridica ed economica”,
pensata per interventi sostitutivi di urgenza (di natura sostanzialmente cautelare), a criterio di
identificazione dei principi fondamentali, e dunque facendolo divenire base legittimante di una stabile
competenza statale (art.1, comma 6, lett. b);
b) la singolare formula utilizzata dall’art.2, comma 1, che si propone di individuare le funzioni
fondamentali degli Enti Locali, utilizzando anche il criterio della loro essenzialità “per il soddisfacimento
di bisogni primari della comunità di riferimento”: con il che, come è evidente, si passa da un criterio
assoluto e generale ad uno relativo e specifico, correlato alle condizioni e al contesto di ciascuna
situazione locale;
c) il perseguimento di “requisiti minimi di uniformità” nell’organizzazione, svolgimento e gestione
delle funzioni degli Enti Locali tramite apposite prescrizioni legislative statali e regionali, cosa che ribalta
il principio generale di autonomia organizzativa come affermato all’art.118, comma 6, della Costituzione.
Ciò lascia allo Stato e alle Regioni un amplissimo spazio di ingerenza sulle scelte degli enti territoriali e
che, in definitiva, risolve nel modo più insoddisfacente il delicato problema dei rapporti tra fonti superiori
ed autonomia locale;
d) l’aggiunta, agli originari criteri di allocazione al livello superiore delle funzioni amministrative
enunciato all’art.118, comma 1, di ulteriori criteri come quelli del buon andamento, efficienza ed efficacia
o di, imprecisati “motivi funzionali e economici, o esigenze di programmazione o omogeneità territoriale”
(di cui all’art.7 comma 1 della legge);
e) la conferma del ruolo della Corte dei conti, che oltre alla apprezzabile verifica dell’equilibrio di
bilancio e del funzionamento dei controlli interni, si apre alla possibilità della valutazione del
perseguimento degli obiettivi posti dalle leggi statali e regionali, a quella della gestione finanziaria, il
tutto con finalità e parametri non consoni al sistema amministrativo immaginato nuovo Titolo V°;
f) le limitate ma significative modifiche apportate al regime dell’ufficio territoriale del Governo: intanto
la titolarità di quest’ultimo, a differenza della disciplina previgente, è ora legislativamente riservata ai
Prefetti, e per altro verso s’introduce una ulteriore finalità alle funzioni di promozione collaborativa tra
Stato e Regione, quella cioè finalizzata a garantire “rispondenza dell’azione amministrativa all’interesse
generale”, e dunque un obiettivo certamente apprezzabile ma che se applicato ad enti ad autonomia
costituzionalmente garantita (come le Regioni) meriterebbe evidentemente qualche specificazione.
217
lacune del nuovo Titolo V°, fossero superabili anche solo completando celermente il
disegno istituzionale nell’unico modo possibile (e cioè integrando e applicando i
nuovi principi introdotti dalla riforma), è giocoforza concludere che se qualcosa si
intravede, questo qualcosa si muove in una direzione esattamente opposta a quella
auspicata. In tal senso non si può che auspicare un mutamento di rotta che dimostri
anche una maggiore maturità e coscienza politica ed istituzionale dei responsabili
degli indirizzi legislativi dello Stato, riponendo, intanto le speranze nell’inarrestato
lavorio delle realtà locali che negli ultimi anni si sono adoperate nell’avviare un
processo di innovazione non indifferente, sebbene puntiforme e disomogeneo,
composto da singole leggi regionali o iniziative locali.
b) Una nuova riforma (o controriforma) del Titolo V°.
Veniamo, adesso, al secondo punto della questione, cioè quello riguardante il
cammino verso una nuova riforma.
Certo, questa non è la sede per compiere un’analisi completa, sia dei dibattiti che
in questi ultimi due anni hanno animato la scena politica ed istituzionale italiana, sia
di tutti i numerosi progetti che ne sono scaturiti. Ma, qualche riflessione su qual’è il
futuro del regionalismo italiano è pur bene farla.
Nella realizzazione di un nuovo progetto si sono prese le mosse essenzialmente
da ciò che la riforma del 2001 non ha fatto, ma in ciò non si è dimenticato di dare
anche una rilettura a ciò che si è fatto, il tutto con progetti molto discutibili, tanto
nella loro opportunità, quanto nella loro coerenza ed organicità.
Ciò che più colpisce è che, sebbene l’attuale Governo Berlusconi II° sarebbe
dovuto essere, per storia ed ideologia, espressione di una maggioranza tendente al
centralismo statalista, le speranze furono, sin dall’inizio, riposte nella partecipazione
a tale maggioranza di un partito che per identità e per cultura (malgrado le
inopportune uscite che ogni tanto caratterizzano alcuni dei suoi più importanti
esponenti) ha fatto del decentramento (e dei progetti di federalismo) il proprio
programma politico e la propria peculiarità culturale ed istituzionale. Ma,
l’esperienza di questi ultimi anni ha dimostrato che malgrado tale esponenza politica
(la Lega Nord) abbia avuto un ruolo non secondario nell’attuale Legislatura, e le
siano stati affidati ministeri di non scarsa importanza (garantendogli, così, una
partecipazione attiva nella gestione della politica della maggioranza e
dell’esecutivo) ciò non è stato sufficiente a ché si mitigassero le spinte antiregionaliste che hanno caratterizzato tale esecutivo.
Tralasciando le questioni che hanno rappresentato momenti di scontro, anche
molto forte, tra il Governo e i rappresentanti degli enti territoriali (spesso anche
dello stesso colore politico), voglio soffermare, qui, la mia attenzione, solo su quello
che è stato il proposto progetto di neo-riforma del Titolo V° della Costituzione.
In questi anni a più riprese il Ministro per la Devoluzione (l’On. Umberto Bossi)
ha dichiarato di avere pronti svariati progetti di riforma. Ma, di tutti, quello che ha
interessato maggiormente la cronaca politica di questi tempi è il progetto uscito dai
lavori estivi della maggioranza, conclusisi con la c.d. Bozza di Lorenzago, e sfociato
nel disegno di legge costituzionale licenziato dal Consiglio dei Ministri il 16
settembre 2003.
218
Alla luce di quanto ho detto sopra, non stupisce che ad appena due anni di
distanza si sia avviato un processo di riforma della riforma costituzionale (le cui
intenzioni, invero, erano state manifestate da subito, dall’attuale maggioranza, già
all’indomani delle elezioni e quindi ancor prima dell’effettiva entrata in vigore della
stessa riforma). Ciò che effettivamente è da molti temuto, però, riguarda il fatto che,
tale progetto, piuttosto che porsi in senso effettivamente migliorativo della riforma
uscita dal 2001, si presti, invece, ad un uso congiunturale, e dunque politico della
Costituzione stessa321.
Malgrado ciò, di tutti i progetti proposti fin’ora questo è il primo approdato
effettivamente in Parlamento, il quale, dunque, per la prima volta, si è trovato a
votare il primo passaggio di quello che, come si sa, è un iter di riforma
costituzionale lungo e complesso.
E’ così, però, che il Senato della Repubblica, il 25 marzo del 2004, si è trovato a
votare ed approvare il disegno di legge costituzionale n.2544 (il quale presenta non
indifferenti differenze rispetto al disegno del settembre 2003322).
321
In tal senso vedi Ruggeri A. in “Devolution, controriforma del titolo V e uso congiunturale della
Costituzione, ovverosia quando le ragioni della politica offuscano la ragione costituzionale”, pubblicato
il 24 aprile 2003 sul sito www.federalismi.it .
322
Di seguito individuo le differenze che intercorrono tra il nuovo testo della neo riforma del titolo V
Cost. approvata in prima delibera n.2544 il 25/03/04, ed il precedente disegno approvato in C.d.M. il
16/09/03.
S indicano, di seguito, tute le cose eliminate o aggiunte nel d.d.l. 2544:
1) Art.2: al comma 2 dell’art.56 è stato eliminato il riferimento a n.12 deputati nella circoscrizione estero
(il nuovo testo riporta soltanto “e dai deputati assegnati alla circoscrizione estero”);
2) Art.3: il primo comma resta. Nel secondo comma compare la dicitura “senatori eletti in ciascuna
Regione contestualmente all'elezione dei rispettivi Consigli regionali, dai sei senatori elettivi assegnati
alla circoscrizione Estero”. Nasce un terzo comma “L'elezione del Senato federale della Repubblica è
disciplinata con legge dello Stato, che garantisce la rappresentanza territoriale da parte dei senatori”. Il
quarto comma resta identico, e vengono aggiunti un quinto, sesto e settimo comma: “La ripartizione dei
seggi tra le Regioni, fatto salvo il numero dei seggi assegnati alla circoscrizione Estero, previa
applicazione delle disposizioni del quarto comma, si effettua in proporzione alla popolazione delle
Regioni, quale risulta dall'ultimo censimento generale, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti.
I senatori e gli organi della corrispondente Regione mantengono rapporti di reciproca informazione e
collaborazione.
I Presidenti delle Giunte regionali ed i Presidenti dei Consigli regionali devono essere sentiti, ogni volta
che lo richiedono, dal Senato federale della Repubblica secondo le norme del suo regolamento. I
Senatori devono essere sentiti, ogni volta che lo richiedono, dai Consigli regionali della Regione in cui
sono stati eletti secondo le norme dei rispettivi regolamenti”;
3) Art.4: la soglia d’età per diventare senatori viene riportata a 40 anni; e si aggiunge un’ultima parte “o
risiedono nella Regione alla data di indizione delle elezioni”;
4) Art.5: il numero di senatori a vita scende a tre;
5) Art.6: aggiunge un secondo comma in cui si consente, in caso di guerra, la proroga in carica della
Camera dei Deputati; aggiunge un quarto comma in cui si introduce, con rinvio a legge ordinaria, il dover
garantire la contestualità tra elezioni del Senato e consigli regionali, nell’ipotesi in cui questi ultimi
scioltisi prima del tempo debbano essere riformati ma per una durata che garantisca nuove elezioni
contestuali a quelle del Senato (che rimane intatto malgrado le vicende delle singole Regioni);
6) Si aggiunge un nuovo art.7 per la nomina dei presidenti delle Camere;
7) Art.8: si introducono le figure del Capo dell’Opposizione e le Riserve all’opposizione della presidenza
di organi di garanzia; si rafforza il ruolo parlamentare del Governo;
8) L’art.9 è sostituito con un rinvio alla legge ordinaria per la determinazione delle cause di ineleggibilità
o incompatibilità (il divieto di mandato imperativo passa all’art.11);
9) L’art.10 è tutto nuovo indicando introducendo delle modifiche ai criteri da valutazione dei titoli di
ammissibilità al Parlamento;
10) L’art.11 sul divieto di mandato imperativo;
219
Cerchiamo, per grandi linee, di capirne le caratteristiche:
-
istituzione del cd. premierato forte (con poteri che né Bush né Blair
possiedono, e senza i limiti che i sistemi costituzionali americano e
britannico prevedono);
-
trasformazione del ruolo del Presidente della Repubblica (che perde molte
delle sue funzioni di garanzia)323;
-
modifica, e regionalizzazione, delle modalità di nomina dei giudici
costituzionali (per di più con la precisazione che quelli di scelta politica sono
aumentati da cinque a sette e che la loro elezione è stata attribuita in
esclusiva al Senato Federale integrato dai Presidenti delle Giunte
regionali)324;
11) L’art.12 riprende l’indennità parlamentare;
12) Art.13: per le richieste di esame dei d.d.l. non ci vuole più una richiesta della maggioranza dei
componenti di una camera ma solo dei 2/5; il Parlamento viene piegato al programma del Governo ex
art.94; nasce il comitato paritetico per i problemi inconciliabili tra le due camere;
13) Si aggiunge ex novo l’art.8 sulle Commissioni Parlamentari d’Inchiesta, alle quali si riconosce il
potere di procedere alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e gli stessi limiti dell’autorità
giudiziaria;
14) Art.19: sull’elezione del Presidente della Repubblica sono state fatte delle variazioni sulla
composizione dell’Assemblea ( oltre i delegati regionali – che per la metà vanno scelti tra i sindaci e i
presidenti di Provincia o Città metropolitana - anche i Presidenti di Regione e Province Autonome);
15) Art.22: si specifica che il Presidente della Repubblica è capo dello Stato;
16) Art.23: scompare definitivamente ogni competenza del Presidente della Repubblica a decidere lo
scioglimento delle Camere. La decisione la prende il Primo ministro e diventa un atto dovuto;
17) Art.32: si integra all’art.114, ritornando alla dicitura che l’ordinamento della capitale è stabilito con
legge dello Stato (sebbene rimanga la previsione per cui la particolare autonomia di Roma è stabilita dallo
Statuto Regionale);
18) Art.33 in cui si prevede che la legge costituzionale che riforma gli Statuti delle Regioni Speciali
dovrà essere emanata previa intesa con la Regione interessata;
19) All’art.34 si ritocca l’art.117 al primo comma ed all’ottavo;
20) All’art.40: i giudici della Corte costituzionale tornano ad essere 15 (4 nominati dal presidente della
Repubblica, 4 nominati dalle supreme magistrature, 7 – e quindi la minoranza complessiva – dal Senato
federale, integrato); scompare il precedente limite, alla nomina dei giudici, di cui “Non possono essere
nominati giudici della Corte costituzionale coloro che siano membri di una delle Camere o di un
Consiglio regionale ovvero lo siano stati nei cinque anni antecedenti alla data di cessazione dalla carica
dei giudici costituzionali in scadenza”; la Camera dei deputati non è più competente a nominare giudici
costituzionali.
Vi sono altre differenze di minore rilievo che non prendo qui in considerazione.
323
Le novità, riguarderebbero essenzialmente l’aumento, proporzionale, dei delegati per Regione alla sua
elezione, la competenza a nominare i Presidenti delle autorità amministrative indipendenti, le modalità di
esercizio del potere di scioglimento delle Camere (che verrebbe subordinato alla richiesta del Primo
Ministro), e l’affiancarsi, alla sua, di una controfirma del primo ministro sugli atti legislativi (salvo alcuni
atti che sarebbero indicati espressamente dalla Costituzione stessa).
324
Sarebbero ripartiti nel seguente modo: 4 di nomina del Presidente della Repubblica, 4 di nomina delle
supreme magistrature e 7 di nomina del Senato federale.
220
-
-
costituzione di un Senato Federale della Repubblica, col nodo
dell’approvazione di varie tipologie di leggi325;
si adegua la composizione del CSM all’intervenuta istituzione del Senato
federale;
è stata resa possibile l’istituzione di nuove Regioni con procedure
semplificate;
vengono ampliati, a dismisura, i poteri legislativi delle Regioni attribuendo
ad esse anche la potestà esclusiva nelle materie dell’assistenza e
dell’organizzazione sanitaria, dell’organizzazione scolastica e della polizia
locale;
a tali ampi poteri, in settori così cruciali dell’ordinamento, non vengono
apposti specifici e puntuali limiti a garanzia dell’unità dell’ordinamento,
ripristinando, invece, con intento contraddittoriamente antiregionalistico, il
potenzialmente omnicomprensivo, limite dell’«interesse nazionale» ex
art.127.
In altre parole, il testo approvato, concernendo ben 40 articoli della vigente
Costituzione, si propone come la «nuova» Costituzione della Repubblica (ancorché
introdotta con modalità procedimentali contrastanti con l’art. 138, che consente solo
revisioni «puntuali» ed «omogenee»). Né, per mascherare la portata del d.d.l. 2544,
potrebbe essere opposto che esso non tocca le disposizioni della Prima Parte relative
ai diritti e ai doveri dei cittadini.
E’ infatti del tutto evidente che, in conseguenza sia del fatto che è proprio alla
Camera dei Deputati che spetta di decidere «in via definitiva» sulle leggi nelle
materie che la Costituzione attribuisce alla potestà esclusiva dello Stato (tra cui, per
l’appunto, la disciplina attuativa della gran parte dei diritti costituzionali), sia del
potere di «ricatto» attribuito al Premier sulla Camera dei Deputati (che egli può
sempre sciogliere se essa gli si opponga), il Premier potrebbe, «forzando» la Camera
e col beneplacito di una Corte costituzionale meno indipendente dell’attuale,
modificare anche la disciplina attuativa delle disposizioni della Parte Prima.
Tralasciando, però, la varie problematiche, e critiche, che un simile progetto
porrebbe, voglio concentrare la mia attenzione su due aspetti, quali l’intervento sugli
stessi articoli già riformati con la riforma del 2001, ed il dibattito sulla
regionalizzazione della Corte costituzionale.
Riguardo, al primo punto, e tralasciando l’ennesimo intervento su Roma
capitale326, ciò che colpisce è la modifica dell’art.117, quarto comma, definito come
aspetto fondante della proposta riforma, il cui intervento si limiterebbe ad una
325
Tale nuova camera si dovrebbe comporre di soli 200 rappresentanti (contro gli attuali 315, ai quali si
aggiungono i senatori a vita), di cui cambierebbero le modalità elettorali (reintroduzione del vecchio
sistema proporzionale, introduzione del requisito, per la eleggibilità, dell’aver già ricoperto nel territorio
regionale date cariche pubbliche elettive), ed in cui verrebbero previste nuove modalità di funzionamento
(le delibere non sarebbero valide se non sono presenti senatori che rappresentino almeno un terzo delle
Regioni) e nuove competenze legislative di natura regionalista (vedi art.13 che riscrive l’art.70 della
Costituzione). Altre modifiche riguarderebbero la Camera dei deputati (i cui membri verrebbero ridotti a
400), i senatori a vita (il cui numero tassativo verrebbe ridotto a tre), la nascita di uno Statuto delle
Opposizioni e di un Capo delle Opposizioni, ed altre novità minori.
326
In cui si è combinato un pasticcio incomprensibile. Infatti, mentre la sua specialità, dalla legge
ordinaria dello Stato, andrebbe a finire allo Statuto della Regione Lazio, comunque il suo ordinamento
continuerebbe ad essere disciplinato da legge dello Stato.
221
sostituzione del comma in questione il quale, non toccando la clausola generale di
residuità, andrebbe ad introdurre una competenza legislativa esclusiva, regionale, in
tre materie fondamentali (quali la sanità, l’istruzione e la polizia locale)327. Ciò che
risalta è la scomparsa di altre proposte che avevano caratterizzato i precedenti
progetti (i quali, ad esempio, prevedevano la soppressione della potestà ripartita)328,
ma anche il confermarsi di un indirizzo miope (che, in effetti, caratterizza tutto il
progetto in questione). Infatti, in epoca di regionalismo cooperativo, quando si grida
da tutte le parti che è la collaborazione a dover essere valorizzata, e le sedi
concertative a dover essere potenziate, non si capisce da dove sia saltata fuori l’idea
di una riforma che premi la separazione delle competenze, gettando le basi per
un’ulteriore compartimentalizzazione delle funzioni regionali rispetto a quelle
statali. Se, poi, si pensa che si tratta di materie particolarmente importanti, in cui le
Regioni hanno spesso dimostrato i propri limiti gestionali, come si può, ancora,
pensare che è nella separazione (e non nella collaborazione) che risiede il futuro del
regionalismo (cosa succederebbe se le Regioni non riuscissero, ad esempio, nella
materia della sanità, a garantire standards minimi su tutto il territorio nazionale? Lo
Stato starebbe a guardare o interverrebbe con interventi di sostegno eccezionali? E
questo non sarebbe neo-assistenzialismo statuale, e cioè l’esatto opposto del
regionalismo cooperativo?).
Altra nota riguarda l’aggiunta di un secondo comma all’art.127 Cost., in cui si
riesuma l’interesse nazionale in un modo, a dir poco, sconcertante. Scomparsa una
norma (per fortuna mai usata) che uccideva l’autonomia legislativa regionale e,
soppressi, con la riforma del 2001, i penetranti controlli statuali, che avevano
impedito il decollo del regionalismo in Italia, tale norma introduce un sistema di
controllo (affidato ad un eventuale Senato che non è per niente federale329) che
reintroduce il sistema dei rinvii e crea un sistema di controllo governativo secondo
cui se il Governo ritiene leso l’interesse nazionale, entro trenta giorni dalla
pubblicazione, può sottoporre la legge regionale al Senato, il quale, entro altri trenta
giorni, decide a maggioranza assoluta se rinviare la legge alla Regione affinché
adotti le opportune modifiche (e la concertazione che fine fa ?), le quali, se non
apportate, scomodano addirittura il Presidente della Repubblica (e cioè la figura più
penalizzata dal progetto), per ottenere un decreto di annullamento della legge
regionale (questo più che regionalismo, sembra una struttura gerarchico centralista
peggiore, se è possibile, dell’Italia pre-repubblicana). Il tutto strutturato su un
concetto d’interesse nazionale forgiato quale limite “esterno” alle singole discipline
327
E’ bene precisare che verrebbero modificati anche il primo comma “La potestà legislativa è esercitata
dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento
comunitario” e l’ottavo “La Regione interessata ratifica con legge le intese della Regione medesima con
altre Regioni per il miglior esercizio delle proprie funzioni amministrative, prevedendo anche l'istituzione
di organi amministrativi comuni”.
328
E’, comunque, bene notare che, in poco più di due anni, il Governo Berlusconi ha presentato ben
quattro progetti di riforma costituzionale che, paradossalmente, in comune non hanno praticamente
niente.
329
In tal senso vedi Bin R. in “Lorenzago: scoutismo o furbismo”, pubblicato il 10 settembre 2003 sul
forum di Quad.Cost., in cui afferma che “Il centralismo non è una patologia, è la sua fisiologica
inclinazione. Per questo serve un procedimento in cui entrino i rappresentanti dei territori, e non serve
affatto invece un Senato come quello delineato nella bozza, che ai territori non offre alcuna
rappresentanza che non sia mediata dagli schieramenti politici”. In tal senso vedi anche Ruggeri A. in “Il
Titolo V della Costituzione tra attuazione e revisione” pubblicato su le Istituzioni del Federalismo ,
fasc.3/4, 2003, pagg.461 ss.
222
statali idonee a circoscrivere l’autonomia regionale, che si aggiunge agli interessi
nazionali “interni”, alle “norme generali” ed alle altre norme “trasversali” adottate
dallo Stato ed idonee ad esprimere vincoli di varia intensità a carico dell’autonomia.
Potranno, così, aversi forme (o livelli) diversi di presentazione degli interessi
nazionali (appunto, interni ed esterni, alle norme statuali) pur sempre idonei ad
essere fatti valere in sede di giudizio costituzionale (il tutto, confidando nella stessa
giurisprudenza costituzionale, che dovrebbe essere capace di trovare il modo per
fare del limite in parola un uso non diverso da quello fatto fin’ora, cosa tutt’altro che
facile).
Ancora, si prevede la soppressione del terzo comma dell’art.116 (segnando la
morte del tanto decantato, regionalismo differenziato o asimmetrico330) e del primo
comma, ultimo periodo, dell’art.126 (perché la competenza passerebbe dalla,
sopprimenda, Commissione per le Questioni Regionali, al Senato, nella sua
interezza).
Non da ultimo sono da notare la proposta di riforma del terzo comma
dell’art.118 nel quale il potere di determinare le modalità di intesa e coordinamento,
attribuite alla legge statale, per la “tutela dei beni culturali” verrebbe esteso alla
“tutela dei beni culturali, alle grandi reti di trasporto e navigazione, alla
produzione, trasporto, distribuzione nazionale dell'energia ed all'ordinamento delle
professioni, sulla base dei principi di leale collaborazione e di sussidiarietà”, ed,
infine, l’intervento sull’art.126 che riesuma limiti alla forma di governo regionale
che la riforma del 1999 aveva voluto eliminare.
In definitiva, non stupisce che con la nuova legislatura si sia avviata una
“riforma della riforma”331, è evidente che il timore di un uso congiunturale della
costituzione per fini politici è ormai consolidato. Il problema è che, nessuno si
aspettava che, dopo la scadente riforma del 2001, ne seguissero progetti addirittura
peggiori. Le ragioni della politica hanno alla loro base esigenze peculiari, non di
rado anche apprezzabili, ma in questo caso (forse, anche, complici l’eccessiva
eterogeneità e la scarsa coerenza ideologica dell’attuale maggioranza) si è davvero
toccato il massimo dell’incompetenza e della ipocrisia (infatti un Governo che si
proclama regionalista, ma fa progetti di riforma statalisti, non può essere definito
altrimenti!), il tutto arricchito dall’ironico destino dei rappresentanti politici (di
centro-destra) degli enti territoriali, che non sanno se schierarsi con la propria
identità istituzionale o se, piuttosto, tenersi buoni i colleghi di partito332.
Infine, nel voler capire qual è il destino del regionalismo in Italia, non si può
dire altro, dopo più di due anni, che, con il progetto qui analizzato, a parte gli aspetti
ulteriormente negativi (solo in parte, ora evidenziati) non si è fatto altro che tornare
330
Una nota merita l’articolo di Ruggeri ult. op. cit., nella parte in cui dice che : “a stare alla innovazione
prevista dal disegno di controriforma, si fa luogo ad un irragionevole irrigidimento del modello che
possa obbiettivamente alimentare le mai sopite spinte centraliste che hanno segnato l’intero arco della
vicenda regionale del nostro Paese”. Sottolineando, ancora, che se la scelta del legislatore del 2001 non
era delle migliori, comunque un ritorno indietro sarebbe solo controproducente per una riforma che voglia
definirsi regionalista (o federalista).
331
Espressione tratta da Ruggeri A. in “Devolution, controriforma del titolo V e uso congiunturale della
Costituzione, ovverosia quando le ragioni della politica offuscano la ragione costituzionale “, pubblicata
il 24 aprile 2003 sul forum di Quad. Cost.
332
Per una analisi in tal senso, vedi Ruggiu I. in ““La Conferenza Stato-Regioni nella XIII e XIV
Legislatura” , pubblicata su Le Regioni, 2003.
223
al punto di partenza (cioè alla riforma del 2001). Rimane invariato il sistema della
legislazione concorrente, continua a non essere nemmeno preso in considerazione il
Sistema delle Conferenze (malgrado abbia sempre più, in questi anni, accresciuto il
suo ruolo istituzionale), addirittura, in certi casi, scompaiono quei pochi riferimenti
al collaborazionismo istituzionale. Ed in tali tristi prospettive, nell’attesa di un
futuro politico più maturo per la creazione di una Repubblica regionalista (e cioè di
una politica che sappia andare al di la degli slogan elettorali, poco belli e tanto
inutili), non si possono che incoraggiare le Regioni a continuare la loro lotta per la
sopravvivenza (almeno il progetto qui analizzato è, per fortuna, ben lontano da una
approvazione definitiva), e riporre tutte le speranze nella Corte costituzionale,
l’unica che può farsi portatrice delle istanze regionaliste, e che, usufruendo dei
poteri interpretativi di cui dispone (come ho accennato all’inizio di questa analisi),
possa attuare un vero regionalismo, colmando le lacune e correggendo gli errori
della riforma del 2001.
Ed è proprio su quest’ultima che voglio condurre il secondo approfondimento al
progetto in questione. Sin dalla Commissione Bicamerale della XIII Legislatura, il
dibattito su una sua integrazione con membri che rappresentino le Regioni è stato
aspro e animato. Da una parte v’è chi ha sostenuto tale idea favorevolmente333,
dall’altra chi la ha avversata334. Ciò che bisogna osservare è che tale idea, non
confluì nella riforma del 2001 a causa della sua parziarietà e dei dubbi che sulla
stessa serpeggiavano, nella maggioranza di allora.
Il progetto in analisi non ha fatto altro, inizialmente, che riprendere tale idea nel
tentativo di renderla applicativa, ma con ciò, aveva realizzato un modello che venne
avversato persino da chi si era sempre schierato favorevolmente a tale
trasformazione. Infatti, si osservò che il risultato a cui si mirava non era tanto quello
di dare sfogo alle richieste delle Regioni, quanto, piuttosto, quello d’allargare la
componente politica della Corte (si era proposto l’aumento dei giudici costituzionali
a 19).
Ora, non nascondo il mio sfavore ad una regionalizzazione della Corte, il cui
effetto, secondo me, sarebbe stato quello di travolgerne la natura e la connotazione,
cancellando in un istante sessant’anni di terzierietà ed imparzialità, che hanno
rappresentato e costituito un equilibrio, quasi pari a quello che il costituente le volle
attribuire con il dettato costituzionale del ’48. E’ indubbio che la regionalizzazione
della Repubblica passa attraverso corposi interventi (come la nascita di una vera
Camera delle Regioni), accompagnata da misure di ordine sia strutturale che
procedimentale, ma regionalizzare la Corte, significherebbe eleggere a loro sede
istituzionale, un organo che dovrebbe rappresentare, non qualcuno, ma qualcosa:
l’insieme dei valori unificanti, che danno e, dinamicamente fanno, la nostra identità
costituzionale, trasmettendola nel tempo, rigenerandola ed alimentandola senza
sosta. E’ vero, come ho già osservato in precedenza, che la Consulta non è stata
tenera, in questi cinquant’anni, con le Regioni, ma questo non è tanto dipeso dal
modo con cui quell’equilibrio si è in concreto atteggiato, ma da altri fattori che
333
Vedi Bin R., ult. op. cit., in cui afferma: “Che le Regioni possano o debbano partecipare alla
formazione della Corte Costituzionale è cosa più che accettabile e per niente scandalosa”.
334
Vedi Ruggeri A. in “Regionalizzazione apparente e politicizzazione evidente della Corte
Costituzionale attraverso la modifica della sua composizione” pubblicato il 19 settembre 2003 sul forum
di Quad. Cost.
224
hanno portato all’impianto che ha rappresentato la premessa del fallimento
regionalista italiano. Comunque, certo è che la Corte, pur con tutti i suoi limiti ha
fin’ora lavorato egregiamente e, specie negli ultimi anni, ha fatto più lei (con la sua
giurisprudenza costituzionale) di quanto abbiano fatto legislatore ed esecutivo messi
insieme, a favore della promozione di un vero regionalismo nel nostro Paese.
Ma, come dicevo, a prescindere da tali dibattiti, ciò che colpisce è che tale
riforma è stata avversata anche da coloro che ad una regionalizzazione della Corte
sarebbero stati anche favorevoli. Infatti, si è evidenziato che il progetto in questione,
rivelava una grossa lacuna, nella sua impostazione generale, in quanto rimettendo la
nomina di sei membri (su diciannove, e quindi con l’aumento di quattro rispetto alla
composizione tradizionale) ad un organo federale, non individuava un vero organo
federale, ed in ciò avrebbe creato un unico effetto (che con le Regioni non centra
niente) cioè l’aumento della componente politica della Corte stessa. A tali problemi,
la maggioranza volle rispondere con un passo indietro, qual’è stata la successiva
riduzione, all’originario numero, di 15 giudici della Corte, accolto, infine, nel
disegno approvato nel marzo di quest’anno (con la contestuale limitazione al Senato
Federale della nomina di sette giudici, senza alcun ulteriore coinvolgimento della
Camera dei Deputati che ne rimarrebbe del tutto esclusa). Ma ciò ha rappresentato
una manovra politica che non ha minimamente affrontato i problemi di fondo della
questione, quale la nascita di un Senato che di federale ha solo il nome.
Infatti, il difetto maggiore di tale progetto, pur se lo si volesse accogliere, non
stava nel numero dei giudici (l’aumento, anzi, avrebbe potuto facilitare la vita a
quelli già presenti e sicuramente troppo pochi per affrontare l’enorme mole di
lavoro che annualmente si trovano davanti) ma nel rapporto che si verrebbe a creare
all’interno della Consulta, con elementi che manifestatamene rappresentano gli
interessi di una parte (per di più politica e non territoriale).
In conclusione, sperando che in futuro possano esservi interventi in grado di
correggere gli indirizzi dell’odierno progetto di riforma, è evidente che in questo
contesto ci si dovrebbe augurare una forte capacità di operare secondo linee
sostanzialmente condivise fra i diversi livelli di Governo, ed anche fra le diverse
classi politiche nazionali, regionali e locali. Così come ci si dovrebbe augurare che
pur nel pieno rispetto delle diverse opinioni e ruoli di maggioranza ed opposizione,
potesse prevalere uno spirito bipartisan capace di assicurare una sostanziale
continuità ad un processo che per le sue stesse dimensioni ha dimostrato forte
intollerabilità allo stop and go, legato ai vari cambi di maggioranza (essi stessi, in
fondo, naturali per ogni democrazia).
Da ultimo, ma certamente non ultimo per importanza, è da ricordare che nel
nostro sistema costituzionale la Corte non è soltanto, né principalmente, l’arbitro fra
Stato e Regioni ma piuttosto, ed in primo luogo, il difensore della legalità e della
legittimità costituzionale dell’ordinamento, sotto ogni profilo e sotto ogni aspetto.
In ogni caso, proprio perché la Corte Costituzionale è innanzitutto il custode
della Costituzione e della legittimità costituzionale come garanzia di tutti e per tutti,
ogni intervento, in astratto certamente possibile, che tocchi quest’organo, la sua
composizione e la sua durata in carica, dovrebbe evitare con la massima cura di
inserire inutili ed indebiti segni di contraddizione e cause di tensione nel quadro
istituzionale del Paese.
225
La speranza è che sia possibile negli anni che ci stanno di fronte trovare
finalmente quella via a una riforma costituzionale ed ordinamentale complessiva,
piena e rispettosa fino in fondo dei principi fondamentali della Costituzione, ma
anche capace di una forte innovazione, che finora si è cercato, invano, di creare.
In ultimo ci sarebbe da chiedersi di chi la responsabilità di tutto questo.
Non mi sento, sinceramente, di affermare che essa spetti in esclusiva a
Berlusconi, a Bossi, ai cd. saggi di Lorenzago e alla composita maggioranza di
centro-destra.
Essa spetta, ancor prima, a quanti, a partire dalla Commissione Bozzi del 1985,
per continuare con le Commissioni De Mita-Jotti del 1992 e D’Alema del 1997,
hanno accreditato, nell’opinione pubblica, la falsa idea che la Costituzione sarebbe,
in sostanza, una legge come le altre, soltanto un po’ diversa perché modificabile con
un procedimento speciale. Come tale, essa sarebbe sottoponibile, contestualmente, a
tutte le modifiche che il Parlamento ritenga opportune, ancorché con taluni limiti
(ma dalla discussa consistenza) in tema di diritti inviolabili.
Così facendo, non si è, però, riflettuto che la Costituzione non è soltanto una
legge formalmente diversa dalle altre, ma è una legge tutt’affatto «speciale» dal
punto di vista sia giuridico che politico: è la «Legge fondamentale» consistente
bensì in un documento, che però vive, come un «tutto», nel significato ad esso dato
dalle convenzioni costituzionali, dalla prassi parlamentare, dalla giurisprudenza
(non solo costituzionale), dalle manifestazioni popolari e dalle battaglie giudiziarie
condotte per la difesa dei suoi principi. Il che significa che anche profondi
cambiamenti di essa sono ben possibili (purché non incidano sulla «forma
repubblicana» sostanzialmente intesa), ma devono essere necessariamente graduali.
L’aver confidato nel solo limite materiale dei diritti inviolabili, senza però la
chiara consapevolezza dell’estensione degli stessi (la vicenda del cd. lodo Schifani è
esemplare circa l’insensibilità delle forze politiche per il valore della stessa
eguaglianza formale di fronte alla legge), ha portato a dimenticare che la
Costituzione si basa sulle disposizioni organizzative non meno che sulle
disposizioni che proclamano i diritti fondamentali, e che anche la Prima Parte crolla
se si incide, d’un colpo solo, sulle strutture organizzative previste nella Seconda,
con rischi, dunque, che chi voglia mettere mano alla carta costituzionale, non può
non conoscere o far finta di ignorare.
226
III) Come cambia la giurisprudenza costituzionale alla luce
del nuovo Titolo V°
1. Premessa: Il Principio di Continuità.
Com’è noto, all’indomani dell’entrata in vigore della legge costituzionale n.3 del
2001, la Corte Costituzionale ha collocato fuori dal ruolo delle udienze tutte le
controversie pendenti, riguardanti in un modo o nell’altro, le Regioni. Un
atteggiamento prudenziale, questo, che ben si giustifica con la consistenza del
cambiamento introdotto soprattutto in ordine al riparto delle competenze, con il
rovesciamento del principio di enumerazione ed il cambiamento degli ambiti
materiali della Costituzione al Titolo V°.
La portata della riforma (e di ciò che ne è venuto successivamente) ha
trasformato profondamente il sistema regionale italiano, ed in ciò, un ruolo
fondamentale, è stato svolto, sotto il profilo interpretativo, dalla giurisprudenza
costituzionale, alla quale è stato affidato quel greve compito di dare alle norme
uscite dalla riforma un significato conforme al processo di cambiamento (in
direzione del regionalismo cooperativo) colmandone lacune e riparandone difetti.
Quando con numerose pronunce335, la Corte ordinò la restituzione degli atti al
giudice a quo e dichiarò l’improcedibilità dei ricorsi governativi presentati nel
vigore delle vecchie regole costituzionali, ciò non fece al fine di danneggiare le
ricorrenti, ma più semplicemente perché alla luce del profondo cambiamento che era
sopravvenuto, tali ricorsi andavano riformulati e rivisti anche nella loro possibile
perduranza336. Ciò segnò una svolta anche nella giurisprudenza costituzionale.
Quello che in passato era stato oggetto di contestazioni e ricorsi, adesso sarebbe
potuto venire meno grazie alle soluzioni ed ai cambiamenti che la riforma aveva
apportato, ed, al contempo, la riforma stessa, poneva nuovi problemi, lasciava
questioni irrisolte, e apriva dubbi interpretativi, che da allora in poi (in attesa di una
possibile, nuova riforma) avrebbero segnato tali ricorsi e la giurisprudenza
costituzionale degli anni a venire.
Ciò che è bene osservare è che la riforma non aveva cambiato solo il sistema
regionalista, ma aveva rivisto anche il sistema dei ricorsi diretti alla Corte
costituzionale. Scomparsa l’impugnazione preventiva (cioè, quella fatta su delibere
legislative, prima della promulgazione), l’unica forma di ricorso proponibile
rimaneva (e rimane) quella successiva alla promulgazione della legge regionale (ex
nuovo art.127 Cost., l’impugnativa è promossa dal Governo entro sessanta giorni
dalla pubblicazione della legge regionale, se lo stesso rileva che vi sia un’eccedenza
di competenza regionale, ed al fine di promuovere questione di legittimità
costituzionale), non essendo, dunque, più previsto che la Corte eserciti il proprio
335
In tal senso vedi le ordinanze nn.382, 397 e 416 del 2001; e le ordinanze nn.9, 26, 72, 73, 76, 96, 382,
397 del 2002.
336
Di diverso avviso Mangiameli Stelio in “Corte Costituzionale e Titolo V: l’impatto della riforma”
pubblicato su Giur. Cost., 2002, fasc.1, pagg.457 ss., in cui osserva che, piuttosto che rigettare o rinviare
al giudice a quo, i ricorsi, li avrebbe potuti analizzare direttamente alla luce del (cito testualmente) “jus
superveniens”.
227
potere di giudizio su semplici delibere legislative delle Regioni (ciò ebbe modo di
precisare la stessa Corte nella sentenza n.17 del 2002, e nell’ordinanza n.65 del
2002337, con le quali dichiarò l’improcedibilità dei ricorsi previamente presentati, a
causa dello jus superveniens, della riforma).
Al fine di gestire questo nuovo sistema, la legge n.131/’03 ha introdotto,
all’art.9, una disciplina molto interessante. In tale disposizione (al primo comma338)
si prevede la sostituzione dell’art.31 della legge n.87/’53 con il disposto, secondo
cui la questione di legittimità costituzionale su uno statuto regionale è sollevabile
entro 30 giorni dalla sua pubblicazione (sessanta giorni per la Sicilia), anche su
istanza della Conferenza Stato-Città ed Autonomie Locali. Mentre al secondo
comma339 si sostituisce l’art.32 della legge n.87/’53, prevedendo che la Regione
presenti ricorso per questione di legittimità costituzionale, previa delibera della
Giunta, e anche su proposta dell’istituendo Consiglio delle Autonomie Locali,
tramite il Presidente Regionale, contro le leggi statuali od atto omologo, entro
sessanta giorni dalla sua pubblicazione.
Ma particolare importanza, al fine di gestire la fase di transizione dal vecchio al
nuovo Titolo V° della Cost., ha avuto il comma 6, il quale ha previsto che: “Nei
ricorsi per conflitto di attribuzione tra Stato e Regione e tra Regione e Regione, di
cui agli articoli da 39 a 42 della legge 11 marzo 1953, n. 87, proposti
anteriormente alla data dell’8 novembre 2001, il ricorrente deve chiedere la
trattazione del ricorso, con istanza diretta alla Corte costituzionale e notificata alle
altre parti costituite, entro quattro mesi dal ricevimento della comunicazione di
pendenza del procedimento effettuata a cura della cancelleria della Corte
costituzionale; in difetto di tale istanza, il ricorso si considera abbandonato ed è
dichiarato estinto con decreto del Presidente”.
337
Vedi anche la successiva Ordinanza 6-10 maggio 2002 n.182 in cui si precisa che a seguito
dell’integrale sostituzione dell’art.127 Cost (avvenuta ad opera dell’art. 8 legge costituzionale n.3 del
2001), e della conseguente soppressione della fase di controllo preventivo sulle leggi regionali deliberate,
ma non ancora promulgate, è improcedibile il ricorso eventualmente già proposto (anche se nel caso in
analisi lo stesso era stato depositato presso la cancelleria della Corte il 24 agosto 2001).
338
L’articolo 31 della legge 11 marzo 1953, n. 87, è sostituito dal seguente:
«Art. 31. – 1. La questione di legittimità costituzionale di uno statuto regionale può, a norma del
secondo comma dell’articolo 123 della Costituzione, essere promossa entro il termine di trenta giorni
dalla pubblicazione.
2. Ferma restando la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto speciale della
Regione siciliana, il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della
Regione, può promuovere, ai sensi dell’articolo 127, primo comma, della Costituzione, la questione di
legittimità costituzionale della legge regionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla
pubblicazione.
3. La questione di legittimità costituzionale è sollevata, previa deliberazione del Consiglio dei ministri,
anche su proposta della Conferenza Stato-Città e autonomie locali, dal Presidente del Consiglio dei
ministri mediante ricorso diretto alla Corte costituzionale e notificato, entro i termini previsti dal presente
articolo, al Presidente della Giunta regionale.
4. Il ricorso deve essere depositato nella cancelleria della Corte costituzionale entro il termine di dieci
giorni dalla notificazione».
339
Il secondo comma dell’articolo 32 della legge 11 marzo 1953, n. 87, è sostituito dal seguente:
«La questione di legittimità costituzionale, previa deliberazione della Giunta regionale, anche su
proposta del Consiglio delle autonomie locali, è promossa dal Presidente della Giunta mediante ricorso
diretto alla Corte costituzionale e notificato al Presidente del Consiglio dei ministri entro il termine di
sessanta giorni dalla pubblicazione della legge o dell’atto impugnati».
228
Ciò che, dunque, risalta è l’improbabile sforzo del legislatore ordinario a
sopperire, nella gestione della transizione in oggetto, alle lacune in merito lasciate
dal legislatore della riforma cercando di gestire tale fase sotto il profilo della
giurisprudenza costituzionale340.
Ed è da questo profilo che va visto il risvolto della riforma nel nostro
ordinamento. Com’è bene ricordare questo studio si pone l’obbiettivo di evidenziare
il ruolo che la giurisprudenza costituzionale ha avuto, nella costruzione del sistema
regionale italiano, in questi sessant’anni di Repubblica.
Ciò che è bene analizzare adesso, tramite una lettura delle pronunce degli anni
successivi alla riforma, è come la riforma si è riflessa sulla giurisprudenza
costituzionale (o meglio, come quest’ultima ha inteso ed applicato la riforma)341.
A questo punto vorrei, però, aprire una parentesi per ricordare che, come ho
fugacemente osservato in precedenza, in occasione della proposta di riforma del
2001, vi furono alcune Regioni che promossero referendum consultivi di sostegno
ad iniziative regionali di modifica ed integrazione della riforma stessa, il cui valore
fu più quello di protesta che di effettiva partecipazione ad un procedimento in cui,
essenzialmente, e nei limiti di quanto consentito dal nostro sistema costituzionale, le
Regioni vennero coinvolte.
Tali referendum rappresentarono, anche, un’interessante occasione, per la Corte,
per intervenire su una materia tanto delicata quanto controversa. In effetti, la
questione ha continuato a trascinarsi anche dopo l’avvenuta riforma e, sebbene la
Corte aveva posto un chiaro limite all’analisi della stessa già con la sentenza 14
novembre 2000 n.496, che richiamava la precedente sentenza n.470 del 1992,
attraverso argomentazioni incentrate sulla esclusività della rappresentazione delle
Camere e sulla tipicità del procedimento di revisione ex art.138 Cost. (all’interno
del quale, si affermò, “il popolo potrebbe intervenire solo come istanza di freno, di
conservazione e di garanzia, ovvero di conferma successiva, rispetto ad una volontà
parlamentare di revisione già perfetta”), la stessa questione ha continuato a
caratterizzare la giurisprudenza costituzionale sino al 2002, essenzialmente, a causa
del fatto che, malgrado la sopra citata sentenza, le Regioni, per tutto il 2001,
continuarono ad indire referendum in materia. Si ricorda, ad esempio, la sentenza
n.106 del 2002 in cui si confermò l’indirizzo precedente giustificandolo come unico
argine, al contenere “un rischio di dissoluzione plebiscitaria del procedimento di
revisione costituzionale, paventato dalla Corte, al fine di difendere un principio di
unità politica dello Stato attraverso l’esaltazione del ruolo dei processi
rappresentativi”, cosa fatta, nell’analisi della precedente pronuncia, del ruolo di
rappresentatività dei Consigli regionali.
340
Per un’analisi dei problemi della transizione della riforma nella giurisprudenza costituzionale, rinvio a
Mangiameli Stelio in “Corte Costituzionale e Titolo V: l’impatto della riforma” pubblicato su Giur. Cost.,
2002, fasc.1, pagg.457 ss.,
341
Per un’analisi del potenziale spostamento del contenzioso dal livello statale al livello regionale,
scaturente dalla riforma, vedi Ruggeri A. in “Riforma del Titolo V e vizi delle leggi regionali: verso la
conferma della vecchia giurisprudenza”, pubblicato sul forum di Quad.Cost., nel quale osserva che una
contrazione delle questioni di costituzionalità potrebbe derivare sia dalla promossa produzione
regolamentare (utilizzata specie sotto il profilo della delegificazione), sia da una valorizzazione delle fonti
comunitarie (specie quelle a cui è riconosciuta capacità d’immediata applicazione e per il cui ricorso ci si
rivolge alla C.G.C.E.).
229
Che la soluzione in argomento poco si confacesse alla natura (e all’entità) delle
questioni in gioco è già stato rilevato a più riprese da molta parte della dottrina342, la
quale non ha esitato ad analizzare tutte le insidie che queste soluzioni (direttamente
influenzanti il ruolo delle Regioni nel processo di riforma costituzionale) portassero
in seno.
L’occasione di fare chiarezza sulla questione era già intervenuta con
l’ordinanza 102 del 2001 con cui la Corte aveva mostrato più di una perplessità,
circa la propria intenzione di confermare, nei fatti, gli argomenti opposti dalla
Regione Veneto (solo pochi mesi prima) già nella sent. n.496/2000. Ciò che la Corte
affermava era che, solo delibere che coinvolgessero “scelte fondamentali di livello
costituzionale” avrebbero dovuto ritenersi in contrasto con l’esigenza di evitare
quella “separata consultazione di frazioni del corpo elettorale” che aveva
giustificato la scelta della precedente sent.n.496 (e la dichiarazione di
incostituzionalità della prima delibera della Regione Veneto). Il che, in altre parole,
significava che eventuali referendum che mirassero a realizzare un trasferimento di
funzioni attraverso gli strumenti della legislazione ordinaria, non avrebbero dovuto
ritenersi a priori contrari alla Costituzione ma, piuttosto, si sarebbero dovuti
analizzare di volta in volta, relativamente ai singoli quesiti referendari, per saggiarne
la costituzionalità effettiva.
Ciò che si manifestava era la volontà, della Corte, di spostare la propria
attenzione dalla natura dei referendum nel loro complesso, all’analisi, effettuata
volta per volta, sui singoli quesiti referendari (e delle scelte che questi prefigurano
all’elettore). Tutto ciò getta, inevitabilmente, le basi per nuovi sviluppi dello
strumento referendario a livello regionale, sviluppi che, invero, appaiono tanto più
necessari quanto più si è consapevoli delle novità introdotte con la riforma del 2001
(pensiamo ad esempio a tutte quelle materie che, ex nuovo art.117, si sono spostate
dal campo statuale a quello regionale, divenendo bersagli sensibili di referendum
regionali abrogativi pienamente legittimi).
Tutto questo ha spinto lo stesso Governo a presentare (tra il 2001 e il 2002) una
serie di atti di rinuncia, ai ricorsi già depositati (in merito vedi le ordinanze n.403
del 2001, n.444 del 2001, n.189 del 2002, ed altri), che trovano, anche, una
spiegazione in ordine all’atteggiamento che la Corte ha tenuto nel merito della già
citata ord.n.102/01, ma che si spiega principalmente in ordine all’entrata in vigore
della legge di riforma (legge cost. n.3/’01), ed al nuovo corso (anche politico) che la
ha accompagnata e seguita. La Corte non ha fatto altro che prendere atto di un
mutamento dei rapporti tra Stato e Regioni, che ravvisasse anche nei referendum
regionali un (atipico) strumento di collaborazione, vedendo cadere uno dopo l’altro
tutti i ricorsi e le questioni che dinnanzi a sé erano state sollevate.
In effetti, tali rinunce hanno ulteriormente affermato la convinzione di una
natura in gran parte politica degli stessi ricorsi governativi, che presentati per
determinati motivi sono sempre e discrezionalmente rinunciabili (i ricorsi in
questione furono presentati dal Governo Amato II, e sono stati rinunciati dal
successivo Governo Berlusconi II).
Per concludere, si può dunque dire che l’incapacità della riforma
nell’individuare sedi e strumenti concertativi nei rapporti tra Stato e Regioni, ha
spinto gli stessi all’elaborazione di una serie di strumenti che, non trovando,
342
Uno per tutti, vedi Mangia A. in “Referendum e collaborazione nei rapporti tra Stato e Regioni”,
pubblicato su Giur. Cost., 2002, fasc.3, pagg.1491 ss.
230
comunque, riscontro costituzionale, hanno creato non pochi problemi interpretativi,
specie alla Corte costituzionale, che, quale interprete per eccellenza, si è trovata a
dover conciliare l’incompiutezza della riforma con le nuove ed accresciute esigenze
di collaborazione tra i diversi livelli istituzionali della Repubblica nella gestione
delle competenze come ridisegnate dalla riforma stessa343.
Chiusa questa parentesi vorrei tornare al discorso originario.
Come ho già accennato in occasione dell’analisi della riforma del 2001, uno dei
punti più dibattuti e criticati è stata l’assenza di disposizioni transitorie che
disciplinassero la transizione dal vecchio al nuovo sistema costituzionale (da notare,
invece che nelle riforme precedenti, ad esempio, quella del 1999, tali disposizioni
erano presenti ed hanno svolto un ruolo primario nell’attuazione delle novità che tali
leggi hanno introdotto).
In effetti, parte della dottrina ha dubitato della loro necessarietà, ma a ciò si deve
rispondere che, la presenza di disposizioni transitorie che consentano la gestione
graduale ed organica della transizione di una riforma d’ampio respiro, non è un
problema di necessarietà o meno, quanto di opportunità.
Ed è proprio su quest’ultima riflessione che la giurisprudenza costituzionale
pose il proprio sviluppo per gli anni successivi. Non potendo affermare
l’indispensabilità di tale disciplina transitoria, la Corte prese atto della sua assenza e
cercò, al meglio, di colmarne la mancanza (vorrei precisare che tale esperienza è
servita da insegnamento per i posteri, tant’è che se leggiamo il nuovo progetto di
riforma costituzionale, uno dei tratti salienti è proprio la ricca ed approfondita
disciplina transitoria).
In tal direzione è bene osservare che il problema si era già, parzialmente, posto
in occasione della nascita delle Regioni c.d. Ordinarie, le cui disposizioni transitorie
costituzionali, sebbene non del tutto assenti, comunque erano ben scarne. Ciò, già
negli anni settanta, provocò diversi interventi della Consulta, in cui si osservò che le
disposizioni transitorie sono, in un certo senso, implicite od interne ad ogni sistema
ordinamentale e che “per rimuovere, dalle materie attribuite alla loro potestà
legislativa… le preesistenti norme statali che eccedono dai limiti imposti dalla
Costituzione… alla competenza del legislatore nazionale, Regioni e Province
Autonome non hanno altro che da legiferare esse stesse, sostituendo gradatamente
le proprie leggi a quelle statali, sino a quel momento vigenti nel rispettivo ambito
territoriale”. Nell’escludere poi che ad ogni mutamento di norme costituzionali di
competenza, potesse conseguire il superamento, per le Regioni, delle preclusioni
temporali, e dunque una sostanziale rimessione nei termini, onde impugnare la
normativa statale previgente non più conforme alle nuove disposizioni
costituzionali, la Corte precisava che, il sopravvenire di norme costituzionali del
genere, può determinare, a seconda dei casi, “l’invalidazione delle norme anteriori
che divengano con esse incompatibili”, può altresì “provocarne l’abrogazione”, ma
sottolineava poi che “è pur vero che con riferimento a determinati settori od a
materie particolari, in cui sono preminenti gli aspetti organizzativi, il rigore degli
anzidetti principi risulta temperato, in virtù di espresse disposizioni costituzionali,
343
Per una nota sugli aspetti più squisitamente processualistici che sono discesi da questa giurisprudenza,
vedi Gianfrancesco E. in “La rinuncia al ricorso nel giudizio in via principale all’indomani della riforma
del titolo V. Alcune brevi considerazioni”, pubblicato su Giur. Cost., fasc.3, anno 2002, pagg.1495 ss.
231
dal principio di continuità”344, che fece dunque la sua prima comparsa nella
giurisprudenza costituzionale.
Con riguardo alla situazione di oggi (ed operando le dovute distinzioni con il
periodo sopra citato), v’è da rilevare che, come si può desumere da autorevoli
interpretazioni345, la mancata previsione di norme transitorie sarebbe giustificata
“dall’evidente volontà, del legislatore costituzionale, di riconoscere immediata
operatività al nuovo assetto”346, il che, va posto in correlazione con un principio che
emerge dalla più recente giurisprudenza costituzionale, vale a dire quello della
necessaria continuità dell’ordinamento giuridico347, tale per cui, l’immediata
operatività del nuovo regime delle competenze, nella necessaria continuità
ordinamentale, non solo va considerata un’endiadi indissolubile, ma soprattutto la
chiave di lettura della complessiva sistematica data dall’incidenza del riformato
Titolo V° della Costituzione, su quel complesso di disposizioni normative ad esso
previgenti, e dunque, come criterio alla luce del quale risolvere tutte le questioni che
dovessero sorgere, sia sul versante del diritto intertemporale che su quello del diritto
sostanziale348.
Alla luce di ciò l’esperienza degli anni successivi ha dimostrato come tale
principio è divenuto strumento necessario ed indispensabile, alla Corte, per riuscire
a gestire sotto il profilo del contenzioso costituzionale il periodo di transizione postriforma.
In tal senso si può ricordare, ad esempio, la sentenza 19-26 giugno 2002 n.282
nella quale, la Corte ha affrontato il ricorso, presentato dalla Presidenza del
Consiglio dei Ministri (e sollevato, ai sensi dell'art.127, primo comma, della
Costituzione, entro il termine ivi stabilito), riportante questione di legittimità
costituzionale, in riferimento agli articoli 2, 32, 33, primo comma, 117, secondo
comma, lett.l e m, e terzo comma, della Costituzione (nonché ai principi ricavati da
norme contenute in leggi statali), contro la legge Regione Marche 13 novembre
2001, n.26, recante “Sospensione della terapia elettroconvulsivante, della lobotomia
prefrontale e transorbitale ed altri simili interventi di psicochirurgia”349.
344
Questi passaggi sono tratti dalla sentenza n.13 del 1974, punti nn. 2 e 3 del C.i.D., da Giur. Cost.,
1974, n.4, pagg.47 ss.; e da Le Regioni, 1974 pagg.373 e ss., con commento di Paladin L.
345
Per una interpretazione istituzionale, vedi il parere, reso in adunanza generale, dal Consiglio di Stato,
n.5 del 17 ottobre 2002.
346
E’ da notare che, altra causa furono le pressioni fatte dai governi territoriali, che temevano, da tali
disposizioni transitorie, eccessive dilazioni nell’applicazione della riforma.
347
In tal senso vedi la sentenza n.376 del 2002, ma anche l’ordinanza n.383 del 2002 o la sentenza n.422
del 2002.
348
Per una lettura in tal senso, vedi Belletti M. in “Il contributo giurisprudenziale alla concreta
delineazione dei contorni del Titolo V. Connessione tra problematiche di diritto intertemporale e
questioni di natura sostanziale”, pubblicato su Le Ist. del Fed. del 2002, fasc.6, pagg.1113 ss.
349
Il ricorrente contestava che, la legge impugnata, dopo avere, all'art.1, enunciato generiche
finalità di tutela della salute e di garanzia della integrità psicofisica delle persone (finalità che lo stesso
riconosceva come condivisibili, pur sostenendo che il loro perseguimento non è riservato alla Regione),
all'art.2 disponeva che "è sospesa, su tutto il territorio della Regione", da un lato "l'applicazione della
terapia elettroconvulsivante (TEC)" (comma 1), dall'altro lato "la pratica della lobotomia prefrontale e
transorbitale ed altri simili interventi di psicochirurgia" (comma 2): in entrambi i casi "fino a che il
Ministero della salute non definisca in modo certo e circostanziato le situazioni cliniche per
le quali tale terapia (rispettivamente la TEC, o c.d.elettroshock, e la pratica degli accennati interventi di
psicochirurgia), applicata secondo protocolli specifici,
è
sperimentalmente dimostrata efficace
e
risolutiva e non è causa di danni temporanei o permanenti alla salute del paziente".
232
Per il ricorrente tale disciplina, attinente alla qualità e “appropriatezza” delle
cure, e non all'organizzazione e gestione del servizio sanitario, avrebbe
invaso l'area legislativa statale esclusiva definita dall'art.117, secondo comma, lett.l
(ordinamento civile e penale) e lett. m (determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il
territorio nazionale), incidendo sui diritti fondamentali della persona “paziente”
(artt.2 e 32 Cost.) e sulle responsabilità, anche civilistiche, degli esercenti le
professioni sanitarie (oltre che, in qualche misura, sulla ricerca medica). Inoltre, il
ricorrente contestava che la legge impugnata, ove ritenuta afferente a materia di
competenza concorrente della Regione, sarebbe stata ugualmente illegittima in
quanto contrastante con i principi fondamentali che si desumerebbero dalle leggi
statali vigenti (ed in particolare dalla legge n.180/’78, n.833/’78 e dai D.Lgs.
n.502/’92 e n.112/’98).
A tali rilievi la Corte rispose dichiarando l’illegittimità costituzionale della legge
in questione (di tutta la legge, sebbene fossero stati impugnati solo alcuni articoli, in
quanto si affermava che l’art.1 contenesse una generica enunciazione di finalità,
priva d’autonoma portata normativa, costituendo solo la premessa per l’adozione
della misura sancita dall’art.2), in quanto si osservò che essa, eccedendo le
competenze in materia di sanità di cui la Regione è titolare (dato che essa imponeva
la sospensione sul suo territorio dei trattamenti sanitari, introducendo un divieto che
niente aveva a che fare con l’organizzazione della sanità pubblica), ed entrando in
contrasto con la (alquanto scarna, ma pur sempre esistente) disciplina legislativa
statuale di principio, è consistita nell’adottare un provvedimento (divieto) a titolo
precauzionale di cui la Regione non ha il potere emanante. Infatti, si osservava che
“La nuova formulazione dell’art.117, terzo comma, rispetto a quella previgente
dell’art.117, primo comma, esprime l’intento di una più netta distinzione fra la
competenza statale, limitata alla determinazione dei principi fondamentali della
disciplina. Ciò non significa però che i principi possono trarsi solo da leggi statali
nuove, espressamente rivolte a tale scopo”. E continuava osservando che “Specie
nella fase della transizione dal vecchio al nuovo sistema di riparto delle
competenze, la legislazione regionale concorrente dovrà svolgersi nel rispetto dei
principi fondamentali comunque risultanti dalla legislazione statale già in vigore”.
Alla luce di questo assunto, dunque, la Corte affermava l’importanza del
principio di continuità del diritto pre-riforma, il quale andava a svolgere un ruolo
portante e di stimolo sia per l’attività normativa statuale che per quella regionale (il
ché andrebbe, anche, ad aprire un nuovo ed importante corso di rinnovamento del
diritto italiano).
Appare, dunque, evidente che la presente pronuncia ha rappresentato un
importante passo avanti nel cammino d’attuazione della riforma del Titolo V° della
Costituzione.
Infatti, con essa, la Corte ha applicato la nuova disciplina dimostrando che c’è e
che, all’occasione, può determinare la cancellazione dall’ordinamento degli atti
legislativi con essa contrastanti (nel caso di specie: una legge della Regione
Marche).
Ciò che è bene osservare è che con tale pronuncia, la Corte, ha toccato svariati
aspetti e novità addotte dalla riforma.
Per cominciare, si può osservare come la stessa conclude la pronuncia,
affermando che “restano assorbiti gli altri profili di incostituzionalità denunciati,
233
senza che questa Corte debba porsi il problema della loro ammissibilità in base al
nuovo art.127, primo comma della Costituzione”. Pur nella sua estrema sobrietà,
questo passaggio lascia trasparire che il giudice della costituzionalità è
perfettamente consapevole dell’enorme novità impressa ai rapporti tra Stato e
Regioni dalla nuova disciplina del giudizio in via principale. Vero è che tale novità
trova espressione in un’innovazione, che, a prima vista, potrebbe apparire di ordine
meramente processuale: nella previsione che il Governo possa impugnare le leggi
regionali in via, non già preventiva, ma successiva. Ma essa dimostra, anche, di
ritenere che l’innovazione abbia una valenza ulteriore, e cioè che per suo effetto, lo
Stato, non possa più far valere l’intero spettro dei possibili vizi di legittimità
costituzionale (come precedentemente accadeva) dovendosi limitare ad enunciare il
vizio d’incompetenza strettamente inteso. Solo così, infatti, si spiega l’allusione
all’incidenza che il nuovo art.127 può esplicare sull’ammissibilità dei profili di
legittimità costituzionale sottoponibili alla Corte. Da ciò, dunque, si evince il
proposito della Corte di abbandonare la propria precedente giurisprudenza sul punto,
superando la lettura totalizzante dell’incompetenza denunciabile in via di azione
dallo Stato.
In merito, interessanti si sono dimostrate, anche la sentenza n.376 del 2002350 e
l’ordinanza n.383 del 2002. Su quest’ultima pronuncia, bisogna fare qualche
riflessione. In quest’occasione veniva denunciata l’incostituzionalità dell’art.65 del
D.Lgs. n.267 del 2000 e dell’art.4 della legge n.154 del 1981, nella parte in cui,
prevedendo nel dettaglio le cause d’ineleggibilità ed incompatibilità alla carica di
consigliere regionale, si ponevano in contrasto (ad avviso del Tribunale di Roma,
remittente), tra gli altri, con l’art.122 Cost. (nel testo come modificato dalla legge
cost. n.1/’99), che attribuisce, invece, alla legge regionale, nei limiti dei principi
350
In tal caso, risolvendo un giudizio di legittimità costituzionale promosso dalla Regione Liguria e dalla
Regione Emilia–Romagna, contro una legge statale, la Corte ha affermato che la questione deve essere
decisa avendo riguardo esclusivamente alle disposizioni costituzionali del testo anteriore alla riforma
costituzionale, non essendo rilevante, "in assenza di nuove impugnazioni, il diverso problema della
compatibilità della legge impugnata con il sistema cui ha dato vita il nuovo Titolo V, Parte II, della
Costituzione", ed ha sottolineato, poi, che "l'eventuale incidenza delle nuove norme costituzionali, in
termini di modifiche delle competenze rispettive di Stato e Regione, sarebbe […] suscettibile di tradursi
solo in nuove e diverse possibilità di intervento legislativo della Regione o dello Stato, senza che però
venga meno, in forza del principio di continuità, l'efficacia della normativa preesistente conforme al
quadro costituzionale in vigore all'epoca della sua emanazione".
E’ bene notare che in tale pronuncia la Corte si preoccupa pure di un altro problema aperto, con la
riforma, dall’assenza di norme transitorie: qual è quello dell’esercizio della potestà regolamentare. In
merito, non sono mancati seri dubbi interpretativi di ordine generale in relazione alla nuova delimitazione
della potestà regolamentare dello Stato (ex art.117, comma 6). Lo stesso Consiglio di Stato (con parere,
da adunanza generale, n.228/01 del 10 gennaio 2002), osservava che: “per quanto concerne la disciplina
del regime transitorio in relazione alla potestà regolamentare già esercitata dallo Stato in materia di
legislazione non esclusiva, avuto riguardo alle eventuali modifiche da apportare alle disposizioni
regolamentari già emanate… la nuova formulazione della disposizione costituzionale pone alcuni
problemi interpretativi”. Alla luce di ciò la Corte affermò che: “dal giorno successivo all’entrata in
vigore della riforma, le precedenti leggi statali attributive di potestà regolamentare, allo Stato, in materie
di competenza non esclusiva, non potranno più legittimare alcuna ipotesi di manifestazione
regolamentare statale, che, qualora dovesse invece intervenire, sarebbe certamente priva di base
giuridica e come tale invalida; dal canto loro, le Regioni, potranno, invece, in quei medesimi ambiti,
prevedere ipotesi regolamentari e porle in essere”. E quindi le ipotesi di manifestazioni regolamentari
statali, pre-riforma, anche in ambiti non esclusivi, restano invece ferme, salva la naturale cedevolezza a
fronte di intervento regionale.
234
fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, la disciplina delle cause di
ineleggibilità ed incompatibilità. La Corte dichiarava infondata la questione
rilevando che “il nuovo testo dell’art.122 della Costituzione… da luogo solo a
nuove e diverse possibilità d’intervento legislativo della Regione, senza che però
venga meno, nel frattempo, in forza del principio di continuità…, l’efficacia della
normativa statale preesistente conforme al quadro costituzionale in vigore all’epoca
della sua emanazione”. Fino a quando la Regione non intende avvalersi delle citate
nuove possibilità di intervento, resta dunque in vigore la legislazione statale in
materia, non soltanto di principio, ma anche di dettaglio.
In questa direzione si è posta anche la sentenza 7-18 ottobre 2002 n.422, nella
quale si è affrontato il ricorso presentato dalla Regione Abruzzo, contro le
disposizioni della legge n.93 del 2001 (Disposizioni in campo ambientale), le quali
prevedevano l’istituzione del Parco nazionale “Costa Teatina”. Dichiarando, la
questione di legittimità costituzionale, infondata, la Corte, riaffermò il criterio sopra
richiamato (tempus regit actum) con riguardo, questa volta, al nuovo riparto di
competenze uscito dalla legge costituzionale n.3 del 2001. Si legge, infatti, che “le
norme che definiscono le competenze legislative statali e regionali contenute nel
nuovo titolo V della parte II della Costituzione, potranno, trovare applicazione nel
giudizio di costituzionalità, promosso dallo Stato contro leggi regionali e dalle
Regioni contro leggi statali, soltanto in riferimento ad atti di esercizio delle
rispettive potestà legislative, successivi alla loro nuova definizione costituzionale”,
la qual cosa comporta che i giudizi nel contempo resi in applicazione del precedente
riparto, non pregiudicano l’ambito di competenze statali e regionali, determinate
dalla riforma costituzionale, soprattutto con riferimento ad ipotesi, come quella
all’esame della Corte, nelle quali la permanenza in vigore della normativa statale
contestata, trova giustificazione nella “necessaria continuità dell’ordinamento
giuridico”. La Corte, infatti, precisa che “il rinnovato assetto delle competenze
legislative potrà essere fatto valere dallo Stato e dalle Regioni, tramite nuovi atti di
esercizio delle medesime, attraverso i quali essi possono prendere ciò che la
Costituzione dà loro, senza necessità di rimuovere previamente alcun impedimento
normativo”351.
Volendo dare un’ulteriore nota sull’impostazione continuista che ha
caratterizzato la giurisprudenza costituzionale di questo periodo, merita di essere
ricordata la sentenza 20 novembre – 4 dicembre 2002 n.510352.
351
Per una analisi completa della sentenza in commento vedi Grasso G. in “La Corte salva la continuità
dell’ordinamento giuridico (di fonti di grado legislativo), ma indebolisce la forza delle nuove norme
costituzionali di modifica del titolo V”, pubblicato sul forum di Quad. Cost.
352
In cui, la Corte, affronta le questioni di legittimità costituzionale, promosse dal ricorso della Regione
Lombardia relativamente agli artt. 1, 2, comma 1, lettere b), c), l), u), aa), bb), hh) ,ii), ll), mm), oo), 3,
comma 2, e 6, della legge 30 novembre 1998, n. 419 (Delega al Governo per la razionalizzazione del
Servizio sanitario nazionale e per l'adozione di un testo unico in materia di organizzazione e
funzionamento del Servizio sanitario nazionale. Modifiche al D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 502), in
riferimento agli artt. 3, 41, 76, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione, nonché dai ricorsi delle Regioni
Lombardia, Puglia e Veneto e delle Province autonome di Trento e di Bolzano relativamente all'intero
testo del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario
nazionale, a norma dell'art. 1 della L. 30 novembre 1998, n. 419), ed anche a numerose norme del
medesimo decreto legislativo puntualmente indicate nella narrativa in fatto.
235
In essa, le ricorrenti denunciarono, in riferimento a vari parametri
costituzionali, molteplici vizi delle norme prese in esame, censurate soprattutto sotto
i profili dell'eccesso di delega e del carattere lesivo di previsioni legislative statali
asseritamente di estremo dettaglio. Le Province autonome di Trento e di Bolzano,
da parte loro, si dolevano delle disposizioni recanti la disciplina della "formazione
manageriale", in quanto avrebbero leso le loro attribuzioni statutarie in materia.
La Corte, decidendo su tali obiezioni, ritenne inammissibili le questioni di
legittimità costituzionale sostenendo che “risulta(va) evidente la sopravvenuta
carenza di interesse delle ricorrenti a seguito della riforma del Titolo V° della
Costituzione… in un quadro, quindi, profondamente rinnovato nella ripartizione
delle competenze tra Stato, Regioni e Province autonome”. Infatti, da un lato, fino
alla data d’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001 le norme statali
impugnate non avevano prodotto alcun effetto invasivo della sfera di attribuzioni
regionali, mentre, dall'altro lato, proprio a partire da tale data le medesime norme
possono essere sostituite, nei limiti delle rispettive competenze, da un'apposita
legislazione regionale. Dunque, anche con questa pronuncia, si continuò sulla linea
giurisprudenziale precedente, sostenendo che le Regioni hanno il potere di sostituirsi
con propri atti alla normativa statuale previgente, ma fintanto che ciò non avvenga
continuerà a valere tale normativa ante-riforma, senza che alcun giudizio di
costituzionalità possa, contro le stesse, essere mosso (ovviamente, solo
limitatamente alle innovazioni introdotte con la riforma stessa).
Questa impostazione, per quanto criticata, è l’unica soluzione (per l’appunto,
in assenza di alternative, date da norme transitorie che non ci sono) per realizzare un
passaggio graduale dal vecchio al nuovo sistema senza scossoni o vuoti legislativi,
ed anche evitando, per quanto possibile, momenti di rottura col sistema previgente.
Questo non è, forse, il miglior sistema possibile, ma è l’unico che il legislatore
del 2001 ci ha lasciato.
A dispetto di quanto si può pensare, non furono sufficienti le pronunce del 2002
per risolvere le problematiche che spinsero all’utilizzo del principio di continuità,
tant’è che di riferimenti decisivi se ne trovano anche nella giurisprudenza dell’anno
successivo (e probabilmente avremo modo di vederne oltre ancora).
Si può osservare che, con tale giurisprudenza, la Corte, ha voluto escludere (di
norma) l’ipotesi d’incostituzionalità sopravvenuta, della legislazione adottata in
forza dei precedenti parametri. Ma, nonostante la citata professione di “metodo”
della Corte, rimangono taluni margini d’incertezza nelle modalità concrete di
definizione del riparto di competenze tra Stato e Regioni. In primo luogo, sembra
che la Corte abbia voluto escludere l’ipotesi d’incostituzionalità unicamente per
l’evenienza in cui la questione di legittimità costituzionale sia stata sollevata in via
diretta (vedi la, sopra citata, sentenza n.376 del 2002, ma anche il punto 2 delle
considerazioni in diritto della sentenza n.422 del 2002), mentre, in secondo luogo,
il riferimento al principio di necessaria continuità dell’ordinamento giuridico,
preceduto dall’affermazione secondo cui il giudizio reso in applicazione del
parametro costituzionale, che non pregiudica il nuovo riparto di competenze StatoRegioni, è tale da far legittimamente temere la riproposizione di vecchi equilibri tra
legge statale di cornice e legge regionale, ora forse non più proponibili. Addirittura,
si può dire che, nella sentenza n.422/’02, il riferimento al principio in analisi, pare,
essenzialmente, forzato. Infatti, si parla di permanente vigenza che è da ricondursi,
236
non già al citato principio di continuità, ma all’utilizzo del parametro costituzionale
(vecchio Titolo V°) vigente al momento dell’impugnazione della legge contestata353.
Alla luce di ciò, proprio una delle prime sentenze del 2003 è tornata
sull’argomento. Facendo ciò, nello specifico si è occupata d’analizzare la rinnovata
veste del principio di leale collaborazione, come visto a seguito della riforma.
Come sappiamo, l’indeterminatezza ed i contorni sfumati di tale principio, in
passato, hanno consentito, anche troppe volte, che lo Stato lo potesse sfruttare al
fine di giustificare i propri abusi di potere nei confronti delle Regioni. Questa
situazione avrebbe dovuto trovare, se non una soluzione netta, comunque un argine,
nella riforma del 2001. Ma, la sentenza 16 gennaio – 5 febbraio 2003 n.39,
dovendo applicare il principio (ormai consolidato dalla giurisprudenza
costituzionale) “tempus regit actum”, ha consentito che per l’ennesima volta, il
vecchio disposto costituzionale sia servito a questo scopo354. Con tale pronuncia, la
Corte affronta il ricorso, per conflitto di attribuzione, promosso dalla Regione Sicilia
nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri contro l'ordinanza del
Dipartimento della Protezione Civile della Presidenza del Consiglio dei Ministri del
24 febbraio 2001, n. 3108, recante “Disposizioni urgenti per fronteggiare
l'emergenza idrica nelle Province di Agrigento, Caltanisetta, Enna, Palermo e
Trapani”, emanata dal Ministro degli Interni delegato per il coordinamento della
protezione civile355.
Secondo la Regione ricorrente, l'ordinanza in oggetto, che riguardava la nomina
di un commissario delegato per la realizzazione delle azioni e degli interventi
necessari per fronteggiare l'emergenza idrica in Sicilia, avrebbe violato, sotto diversi
profili, le predette norme essenzialmente perché non sarebbero affatto previsti
“meccanismi di raccordo operativo” tra l'attività del commissario e l'attività della
Regione in materie di competenza di quest'ultima, quali "acque pubbliche", "lavori
pubblici", "agricoltura e foreste". Una carenza di forme di leale collaborazione
sarebbe stata rilevabile, secondo la ricorrente, specialmente in ordine
all’identificazione della persona del commissario, alla facoltà del commissario
stesso di avvalersi dell'amministrazione regionale nonché di personale di
provenienza regionale, e infine in ordine all'utilizzo, come copertura finanziaria
degli interventi previsti, dei fondi comunitari 2000-2006, la cui disponibilità
spetterebbe invece "senza ombra di dubbio alla Regione"356.
353
Sulla stessa via vedi anche la successiva sentenza n.524 del 2002, in cui si afferma che “trattandosi di
ricorsi proposti anteriormente all’entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001 n.3… il
giudizio va compiuto alla stregua dei relativi parametri costituzionali vigenti alla data di approvazione
degli stessi atti legislativi, e quindi nella formulazione anteriore alla riforma di cui alla citata legge
costituzionale”.
354
Tale sentenza si regge sul punto 3 delle considerazioni in diritto, nella parte in cui si legge:
“L’ordinanza in esame (è) da scrutinare secondo la giurisprudenza di questa Corte alla luce del
previgente titolo V della Costituzione (vedi sentt. nn.422 e 376 del 2000)”.
355
L'ordinanza in questione è stata impugnata in riferimento agli artt. 14, lettere a), g) ed i), 32, 33, 34 e
36 dello statuto della Regione Siciliana, all'art. 3 del D.P.R. 1° dicembre 1961, n. 1825 e all'art. 2 del
D.P.R. 26 luglio 1965, n. 1074, recanti norme di attuazione dello statuto della Regione Siciliana, nonché
all'art. 5 della Costituzione ed ai principi di leale collaborazione e di sussidiarietà.
356
La Corte dichiarò il ricorso infondato, osservando che: “situazioni di emergenza, specialmente
connesse a calamità naturali, che reclamano la massima concentrazione di energie umane e di mezzi
materiali, possono anche giustificare, secondo la costante giurisprudenza costituzionale, interventi statali
straordinari suscettibili anche di arrecare compressioni della sfera di autonomia regionale (vedi le
sentenze n. 520 e n. 127 del 1995)” e che “Sotto il profilo degli obiettivi non appare illegittimo il
237
Dunque, si può osservare che tale pronuncia (con la quale la Corte respinge il
ricorso proposto), ricca di citazioni della precedente giurisprudenza, è
probabilmente una delle ultime ad applicare quel principio (non scritto) di leale
collaborazione tra Stato e Regioni (ante-riforma), che, in passato, è stato interpretato
con molta larghezza e la cui indeterminatezza si è spesso tradotta in un pericoloso
fattore di incertezza. La Corte, negli anni trascorsi ha sovente finito per giustificare
incisioni statali, anche profonde, delle attribuzioni regionali purché accompagnate
da meccanismi di cooperazione diversamente conformati, ma spesso
insoddisfacenti, per garantire l’autonomia delle Regioni. D’altronde, mancando una
regolamentazione delle forme collaborative, non vi era alcun parametro di
valutazione dell’opportunità e dell’estensione dei singoli modelli, risultando, alla
fine, tutti giustificati o giustificabili.
Ciò che si evidenzia con tale pronuncia è che, la Corte, prima nega il valore del
principio di sussidiarietà (portato, dalla ricorrente, come fattore leso da un sistema
incapace di valorizzare le proprie forme concertative), poi (per compensare una
decisione particolarmente squilibrata a favore dello Stato) introduce indicazioni atte
ad integrare il criterio collaborativo che si vuole debba presiedere all’interpretazione
dell’atto impugnato357.
Ciò che, anzi, si evince da questa pronuncia è che, in tal senso, il criterio della
sussidiarietà è come se avesse lasciato il passo al criterio della proporzionalità, cosa
che, in effetti fa capire come i tempi siano mutati. Infatti, se in passato
l’eccezionalità della crisi che lo Stato era chiamato a fronteggiare, avrebbe
consentito un atteggiamento della Corte, disposto anche ad accettare una radicale
compressione dei poteri regionali, oggi, il mutato clima costituzionale (non da
ultima la giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni, nettamente favorevole alle
denunciato intervento statale, pur se attinente a materie di competenza regionale, in quanto il concorso
dello Stato, anche sotto l'aspetto finanziario, non è, di per sé, lesivo delle attribuzioni della ricorrente,
dal momento che ha carattere di straordinarietà e risponde anche ad interessi della comunità nazionale,
essendo finalizzato, attraverso una sollecita iniziativa di carattere unitario, al superamento in tempi
ristretti della situazione di emergenza ed al contenimento dei rischi esistenti in una porzione del
territorio nazionale (sentenza n. 157 del 1995)”. Alla luce di ciò si affermava che “Il prospettato quadro
legislativo, per l'esistenza di competenze inestricabilmente connesse, postula dunque forme di
concertazione e di leale collaborazione tra Stato ed autonomie territoriali (sentenza n. 422 del 2002) ed è
alla sua luce che deve essere interpretata l'ordinanza in oggetto, in modo tale che, nei casi di dubbi
applicativi, le funzioni conferite al commissario delegato risultino «proporzionate alla concreta
situazione da fronteggiare», senza così vulnerare il nucleo essenziale delle attribuzioni regionali
(sentenza n. 127 del 1995). A questo fine va, innanzi tutto, rilevato che dal preambolo dell'ordinanza si
ricava che l'atto è stato emanato dal Ministro dell'interno dopo avere sentito, tra gli altri, anche la
Regione Siciliana, cosicché -contrariamente a quanto ritiene la difesa regionale- si deve considerare
formalmente acquisita la preventiva Consultazione della Regione Sicilia in ordine ai diversi aspetti
dell'ordinanza medesima, tra cui anche quello relativo alla sostituzione del precedente commissario
delegato, nella persona del presidente della Regione, con il generale Iucci”. Concludendo che “Le citate
disposizioni e la stessa struttura logica e lessicale dell'ordinanza, appaiono dunque tutte ispirate ad un
rigoroso criterio di concertazione tra Stato e Regione. L'atto in questione va quindi complessivamente
interpretato alla luce di questo criterio collaborativo, anche là dove non è testualmente enunciato,… in
modo che risulti congruo e proporzionato un intervento statale che, ancorché per fronteggiare una
situazione di emergenza, interferisce pur sempre con competenze regionali, per di più di carattere
primario”.
357
In tal senso vedi Bartole S. in “Principio di collaborazione e proporzionalità degli interventi statali in
ambiti regionali”, pubblicato su Giur. Cost. il 2003, fasc.1, pagg.259 ss.
238
Regioni), ha fatto sì che la Corte non sia più disposta ad avvallare qualunque
ingerenza dello Stato, ed anzi, chiedono a questo di far in modo che interferenze ed
intrusioni siano congrue e proporzionate alle effettive esigenze da cui sono scaturite,
senza mai andare a causare un totale annullamento delle autonomie locali. E’
evidente la novità introdotta.
Con il principio di sussidiarietà si sarebbero dovute far salve le competenze
regionali più immediatamente vicine agli interessi delle comunità colpite. Invece, la
Corte introduce un criterio di proporzionalità, con il quale sposta l’ottica del
giudizio dalle comunità interessate al potere regionale, richiedendo agli interventi
dello Stato di accettare e valorizzare la loro presenza senza ledere le autonomie in
gioco più di quanto non richiedano gli interessi nazionali in pericolo.
Sembra, dunque, quasi che, sebbene seguendo la scia del principio di continuità
e del tempus regit actum, la Corte voglia anticipare la vigenza della riforma del
Titolo V° (nel caso di specie ex art.118 Cost.), ed al contempo introdurre variazioni
allo stesso, superando il principio di sussidiarietà e rifacendosi ad un concetto di
proporzionalità, in cui possono essere ricompresi anche i principi come
l’adeguatezza e la differenziazione che alla sussidiarietà si accompagnano, nella
riforma (vedi nuovo art.118 Cost.). Ma come qui articolato, il ragionamento della
Corte sembra esaurirsi all’interno della stessa pronuncia, riproponendo i difetti della
precedente giurisprudenza costituzionale e rinviando ad un momento successivo la
valorizzazione di quello schema qui elaborato, ma rimasto nel limbo della chiarezza
costituzionale.
In definitiva, il rischio di questo tipo di pronunce è che esse esprimano contenuti
potenziali dei precetti costituzionali che poi, attraverso il sistema dei richiami ai
precedenti (così frequenti nella giurisprudenza costituzionale), finiscono per
acquisire rilevanza generale oltre il caso di specie, ed è questo il rischio che un
simile criterio (quale quello della proporzionalità) rischia di assurgere a valore
costituzionale (senza averlo effettivamente) sostituendosi ad un principio che invece
costituzionale lo è davvero (quale la sussidiarietà).
Altra interessante pronuncia è la sentenza 23 maggio – 5 giugno 2003 n.196,
nella quale si torna ad affrontare un tema trattato anche con la sentenza n.304 del
2002 (e cioè la questione della forma di governo ed il sistema elettorale regionale
dopo la riforma della legge costituzionale n.1 del 1999).
239
In tale pronuncia, la Corte affronta ben due ricorsi presentati dal Governo contro
due leggi regionali, rispettivamente della Regione Calabria e della Regione
Abruzzo358.
Riguardo alla prima, il ricorrente eccepiva che, innanzi tutto, spetti al legislatore
regionale integrare l’art.126 della Costituzione, in tema di scioglimento del
Consiglio regionale, sostenendo però, in via subordinata, che “la legge regionale,
contrasterebbe con la riserva di legge statutaria di cui all’art.123, primo comma,
358
Le quali sono:
a) la legge Regione Calabria 15 marzo 2002, n. 14, che reca "Disposizioni sulla prorogatio degli organi
regionali", in cui, all’art. 1 della legge (l’unico a contenuto normativo: l’art. 2 prevede l’anticipata entrata
in vigore della stessa legge) si stabilisce che "Nel caso di scioglimento del Consiglio regionale, il
Presidente della Regione, la Giunta regionale e il Consiglio continuano ad esercitare le loro funzioni fino
all’insediamento rispettivamente del nuovo Presidente della Regione e del nuovo Consiglio regionale";
b) la Legge Regione Abruzzo 19 marzo 2002, n. 1, recante "Disposizioni sulla durata degli Organi e
sull’indizione delle elezioni regionali", che ha una struttura più complessa, la quale, esordisce, all’art. 1,
stabilendo che "E’ recepita la legge dello Stato 17 febbraio 1968, n. 108, con le successive modificazioni
e integrazioni" (si tratta della legge statale che disciplina l’elezione dei Consigli delle Regioni ordinarie)
ed in cui i successivi artt. 2, 3 e 4 sostituiscono alcune disposizioni della legge statale n.108 del 1968, in
parte confermandone il contenuto, in parte modificandolo e integrandolo. In particolare, un primo gruppo
di disposizioni attribuisce al Presidente della Giunta regionale la competenza ad emanare atti del
procedimento elettorale, che la legge statale collocava in capo al Commissario del Governo: così per il
decreto che determina il numero di seggi del Consiglio e l’assegnazione di essi alle singole circoscrizioni
(art. 2 della legge regionale, che sostituisce il comma 3 dell’art. 2 della legge statale); per il decreto che
indice le elezioni (art. 3, comma 6, del testo legislativo recepito, come sostituito dall’art. 3 della legge
regionale); per l’atto che rende esecutivo il riparto delle spese derivanti da adempimenti comuni alle
elezioni nel caso di contemporaneità della elezione del Consiglio regionale con le elezioni dei consigli
provinciali e comunali (art. 4 della legge regionale, che modifica il comma 2 dell’art. 21 della legge
statale).
Un secondo gruppo di disposizioni regola la durata in carica del Consiglio e i termini per la nuova
elezione e per gli adempimenti successivi: si prevede che "La durata del Consiglio regionale è stabilita
dalla legge dello Stato in cinque anni", decorrenti dalla data dell’elezione (art. 3, comma 1, del testo
recepito e sostituito); che le elezioni possono essere effettuate a decorrere dalla quarta domenica
precedente il compimento del quinquennio (art. 3, comma 2, primo periodo, del testo recepito e sostituito,
che riprende su questo punto l’art. 3, secondo comma, della legge statale); che la prima riunione del
nuovo Consiglio ha luogo non oltre il ventesimo giorno dalle elezioni (art. 3, comma 2, secondo periodo);
che le elezioni sono indette "entro tre mesi", non è chiaro se decorrenti dalla scadenza o dallo
scioglimento, ovvero dal termine iniziale a partire dal quale possono aver luogo le elezioni medesime (art.
3, comma 6); che il termine, nel caso di annullamento giurisdizionale delle elezioni, decorre "dallo
spirare del termine per l’azione revocatoria" (art. 3, comma 7).
Un terzo, articolato gruppo di disposizioni regola l’esercizio delle funzioni degli organi regionali dopo la
scadenza o lo scioglimento, stabilendo, ma non in ogni caso, il principio della prorogatio: "finché non è
riunito il nuovo Consiglio sono prorogati i poteri del precedente" (art. 3, comma 2, terzo periodo); nel
caso di scioglimento del Consiglio o di rimozione del Presidente della Giunta per atti contrari alla
Costituzione, per gravi violazioni di legge o per ragioni di sicurezza nazionale, "con il decreto di
scioglimento è nominata una Commissione di tre cittadini eleggibili al Consiglio regionale, che indice le
elezioni entro tre mesi e provvede all’ordinaria amministrazione di competenza della Giunta e agli atti
improrogabili, da sottoporre alla ratifica del nuovo Consiglio" (art. 3, comma 3, sulla falsariga del
vecchio art. 126, quinto comma, della Costituzione, nel testo anteriore alla legge costituzionale 22
novembre 1999, n. 1); al di fuori di tale ipotesi, "in caso di scioglimento anticipato, il Presidente della
Giunta, la Giunta e il Consiglio regionale sono prorogati sino all’insediamento del nuovo Consiglio"
(art. 3, comma 4); in caso di annullamento giurisdizionale delle elezioni, "il Presidente della Giunta, la
Giunta e il Consiglio regionale restano in carica sino all’insediamento del nuovo Consiglio, per
l’espletamento dell’ordinaria amministrazione e per la trattazione degli affari indifferibili ed urgenti"
(art. 3, comma 5).
240
della Costituzione, concorrendo essa a disciplinare la forma di governo della
Regione e i principi fondamentali di organizzazione e di funzionamento della
stessa”. In via ulteriormente subordinata, il Governo lamentava che la legge
regionale non distingueva tra i differenti casi di scioglimento del Consiglio (cioè:
quello disposto con Decreto del Presidente della Repubblica ai sensi dell’art. 126,
primo comma, della Costituzione, per atti contrari alla Costituzione o per gravi
violazioni di legge o per ragioni di sicurezza nazionale; quello conseguente alla
morte, all’impedimento permanente o alle dimissioni del Presidente della Regione o
a voto di sfiducia nei suoi confronti; quello conseguente alle dimissioni contestuali
della maggioranza dei componenti del Consiglio; nonché il caso, assimilabile per
gli effetti, di pronuncia giurisdizionale che annulli gli atti del procedimento
elettorale). Inoltre la legge impugnata, si sosteneva, sarebbe stata illegittima anche
perché non circoscriveva l’esercizio delle funzioni del Consiglio prorogato ai soli
atti urgenti, ed in quanto estendeva al Consiglio regionale una misura temporanea
che sarebbe stata, a tutto concedere, applicabile soltanto alla Giunta.
Riguardo, invece alla seconda legge, il ricorrente, eccepì che una prima ragione
di illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt.117, secondo e quarto
comma, della Costituzione, avrebbe coinvolto quasi tutto il testo legislativo, e si
sarebbe dovuta ravvisare nella formulazione degli artt.2, 3 e 4 della legge regionale,
in quanto il legislatore regionale avrebbe sostituito disposizioni della legge statale
n.108 del 1968 senza aver cura di stabilire il limite territoriale di efficacia delle
nuove disposizioni, così che, a rigore, esso avrebbe inciso sull’efficacia di
quest’ultima legge in tutto il territorio nazionale.
Quanto alle disposizioni in tema di esercizio delle funzioni degli organi regionali
dopo lo scioglimento del Consiglio o l’annullamento delle elezioni, il ricorrente
muoveva censure analoghe a quelle prospettate relativamente alla legge della
Regione Calabria precisando, ulteriormente, che sarebbero state in contrasto con gli
artt.126 e 117 secondo e quarto comma, della Costituzione: a) la norma della legge
regionale che "ripristina" la previsione del vecchio art. 126, quinto comma, della
Costituzione senza tener conto della avvenuta soppressione di esso nel nuovo testo
della Costituzione; b) la previsione della permanenza in carica del Consiglio sciolto
o colpito da annullamento giurisdizionale, misura che, a tutto concedere, sarebbe
applicabile solo alla Giunta; c) la mancata previsione del limite degli "affari
indifferibili ed urgenti" nel caso di scioglimento del Consiglio diverso da quello
disposto ai sensi dell’art. 126, primo comma, della Costituzione; d) la statuizione
del termine (ritenuto eccessivamente lungo) di tre mesi per l’indizione delle
elezioni, termine ulteriormente prolungato, nel caso di annullamento delle elezioni,
facendolo decorrere dallo spirare del termine per l’azione revocatoria.
Ancora, sarebbe stata illegittima la previsione della prorogatio dei poteri del
Consiglio fino alla riunione del nuovo organo consiliare (come uscito dalle
elezioni), in quanto spetterebbe allo Stato, competente a stabilire la durata degli
organi elettivi delle Regioni, ai sensi dell’art.122 Cost., anche prevederne la
prorogatio (in subordine, si sarebbe trattato di materia riservata allo statuto).
Sarebbe stata altresì illegittima la previsione della durata quinquennale del
Consiglio, spettando alla legge statale stabilire la durata dei Consigli regionali.
Infine, le disposizioni residue della legge regionale, che attenevano alla materia
elettorale, sarebbero state contrastanti con l’art. 122, primo, secondo e quinto
comma, della Costituzione, in quanto la legge regionale che disciplina l’elezione
241
del Consiglio potrebbe essere emanata solo dopo che la legge dello Stato abbia
fissato principi e limiti, ai sensi del medesimo art. 122, primo comma: a tale legge
statale spetterebbe anche il compito di modificare le disposizioni della legge n.108
del 1968 che attribuiscono al Commissario del Governo l’emanazione di atti del
procedimento elettorale.
A tali censure, la Corte (unificando i ricorsi) rispose affermando che con la
riforma recata dalla legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, si è disposto che
spetta alla legge della Regione disciplinare il sistema di elezione del Consiglio,
della Giunta e del Presidente regionale (per la Giunta solo se lo statuto accoglie un
sistema diverso da quello dell’elezione del Presidente a suffragio universale e
diretto, il quale nomina e revoca i componenti della Giunta), nei limiti dei principi
fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce anche la durata
degli organi elettivi (nuovo art. 122, primo e quinto comma, Cost.).
A seguito di tale riforma, le leggi statali in materia conservano la loro efficacia,
in forza del principio di continuità (vedi le sentenze n. 14 del 1973 e n. 376 del
2002, e le ordinanze n.269 del 1974 e n. 383 del 2002), fino a quando non
vengono sostituite dalle leggi regionali: ma la potestà legislativa in tema di
elezione dei Consigli regionali spetta ormai alle Regioni.
Alla luce di ciò, e riaffermando il principio, ex sentenza n.282 del 2002, per cui
“Né è a dirsi che tale potestà regionale possa essere esercitata solo dopo che lo
Stato abbia dettato i principi fondamentali cui i legislatori regionali dovranno
attenersi, ai sensi dell’art. 122, primo comma, della Costituzione”, essa ricordò che
ex art. 5 legge cost. n.1/’99, fino all’entrata in vigore dei nuovi statuti regionali, tale
legge detta direttamente la disciplina dell’elezione del Presidente Regionale,
stabilendo che essa sia contestuale al rinnovo del Consiglio e che si effettui “con le
modalità previste dalle disposizioni di legge ordinaria vigenti in materia di
elezione dei Consigli regionali”.
In base a tale legge, dunque, gli spazi entro cui può intervenire il legislatore
regionale in tema di elezione del Consiglio, prima dell’approvazione del nuovo
statuto, sono notevolmente ristretti. Tuttavia questo non significa che la legge
regionale non possa nemmeno, fin d’ora, modificare, in aspetti di dettaglio, la
disciplina delle leggi statali vigenti, per tutto quanto non è direttamente o
indirettamente implicato dal citato art. 5 della legge costituzionale n. 1 del 1999, in
attesa del nuovo statuto, e così per quanto riguarda competenze e modalità
procedurali (ma non abbandonando il terreno della riserva statutaria; vedi sentenza
n.304 del 2002).
Ancor meno significa che alla legge regionale sia precluso dettare, nell’esercizio
di una competenza che ormai le è propria, una disciplina riproduttiva di quella delle
leggi statali previgenti. Ma, in conseguenza di tali affermazioni, la Corte
riconoscendo che “Non era dunque di per sé precluso al legislatore regionale
disporre, come fa l’art. 1 della legge abruzzese (peraltro non specificamente
censurato dal ricorrente), il recepimento della legge statale n.108 del 1968 con le
successive modificazioni e integrazioni”, affermò che limitatamente a quelle
disposizioni, che ricalcavano la precedente legislazione statale, ciò non fosse
contrario alla nuova potestà regionale ex art.117, quarto comma, della Costituzione.
Il problema si poneva, invece, per le disposizioni che modificavano o
sostituivano tale precedente legislazione. Infatti, la Corte affermò che (in merito al
problema della prorogatio dopo la scadenza, lo scioglimento o la rimozione, degli
242
organi regionali)359, già l’art. 3 della legge n. 108 del 1968 stabiliva, fra l’altro, che
i Consigli regionali si rinnovano ogni cinque anni (primo comma), decorrenti dalla
data della elezione (terzo comma), ma che essi "esercitano le loro funzioni fino al
46° giorno antecedente alla data delle elezioni per la loro rinnovazione, che
potranno aver luogo a decorrere dalla quarta domenica precedente il compimento
del periodo" della loro durata in carica (secondo comma). Tale disposizione,
dunque, dimostrava che, già il legislatore statale non aveva accolto il principio della
prorogatio del Consiglio dopo la sua scadenza e fino alla riunione del nuovo
Consiglio eletto, e, dunque, ciò non poteva avvenire per richiamo a tale disciplina.
Dopo la riforma della legge cost. n.1 del 1999, la disciplina dell’eventuale
prorogatio degli organi elettivi regionali dopo la loro scadenza o scioglimento o
dimissioni, e degli eventuali limiti dell’attività degli organi prorogati, è di
competenza dello statuto della Regione, ai sensi del nuovo articolo 123, come parte
della disciplina della forma di governo regionale, ed in base a ciò, la Corte
riconobbe che “non può condividersi la tesi secondo cui tale competenza sarebbe
attribuita alla legge statale, cui spetta, ai sensi dell’art. 122, primo comma, Cost.
stabilire la durata degli organi elettivi regionali. L’istituto della prorogatio, a
differenza della vera e propria proroga non incide infatti sulla durata del mandato
elettivo, ma riguarda solo l’esercizio dei poteri nell’intervallo fra la scadenza,
naturale o anticipata, di tale mandato, e l’entrata in carica del nuovo organo
eletto”.
Alla luce di ciò, la Corte, riconobbe come costituzionalmente illegittime, tutte le
disposizioni delle leggi regionali impugnate che disciplinano la prorogatio degli
organi elettivi regionali360: vuoi per violazione della "riserva di statuto" di cui
all’art. 123 della Costituzione, vuoi, per quelle di esse che disciplinano l’ipotesi
dello scioglimento o della rimozione "sanzionatori"361, per violazione della
competenza statale a disciplinare la materia.
Quanto a queste ultime disposizioni della legge della Regione Abruzzo, si
affermò, che non potesse valere in contrario il fatto che essa riprende testualmente
la previsione del vecchio art.126, quinto comma, della Costituzione, abrogato dalla
legge costituzionale n. 3 del 2001: in ogni caso, la Regione non può reintrodurre
una norma costituzionale ormai scomparsa.
In conclusione, mentre la legge regionale della Calabria è stata dichiarata in toto
costituzionalmente illegittima, della legge regionale dell’Abruzzo restarono indenni
l’art. 1362, l’art. 2, nonché, dell’art. 3, solo le parti che, "sostituendo" l’art.3 della
legge statale, dettano le disposizioni dei commi 2 (limitatamente al primo periodo),
6, 8 e 9. Tutte le altre disposizioni, della stessa legge, sono state, con la presente
pronuncia, dichiarate costituzionalmente illegittime.
In definitiva, si può affermare che tale pronuncia contribuisce a chiarire due
questioni sorte con le recenti riforme costituzionali.
La prima, di carattere generale, riguarda l’interpretazione della norma che affida
359
Per le altre questioni vedi i punti 6, 7, 8, 9, 10, 11 delle considerazioni in diritto.
Art. 1 della legge regionale della Calabria; art. 3 della legge regionale dell’Abruzzo, nella parte in cui
sostituisce l’art. 3, secondo comma, prima parte, della legge statale n. 108 del 1968 con le disposizioni
dell’art. 3, comma 2, terzo periodo, e commi 3, 4 e 5, del nuovo testo legislativo.
361
Art. 1 della legge della Regione Calabria nella parte in cui, non distinguendo, si riferisce anche a
questa ipotesi; art. 3, comma 3, del testo sostituito della legge della Regione Abruzzo.
362
Non specificamente censurato dal Governo, e comunque da intendersi nel senso di cui al punto 5 delle
considerazioni in diritto
360
243
alla competenza concorrente della Regione la disciplina del sistema elettorale
regionale (art. 122, comma1 Cost.). L’altra, strettamente connessa alla precedente
ma di portata particolare, relativa all’annosa questione della prorogatio degli organi
di governo regionale.
Partendo dal presupposto (qui già abbondantemente trattato) del principio di
continuità, si riconosce che la legge cost. n.1/99 non ha efficacia caducatoria della
normativa precedente in materia di forma di governo e di sistema elettorale,
rinnovando, perciò la regola per cui, fintantoché le Regioni non si doteranno di un
nuovo statuto, in tali materie, la disciplina dovrà essere rinvenuta nelle apposite
norme di tale legge costituzionale, mentre le Regioni si dovranno limitare a darvi
piccole modifiche. La soluzione a tutto questo risiede nella promulgazione di nuovi
statuti (che, specie per le Regioni c.d. Ordinarie, non dovrebbe essere
particolarmente difficile), possibilità che a seguito di tali riforme rappresenterebbe
l’esercizio di una piena ed ormai riconosciuta autonomia regionale. Ma ad oggi il
massimo che il sistema regionale ci offre, sono alcuni progetti in discussione
(spesso nemmeno elaborati dalle Regioni stesse)363.
A conclusione di queste premesse sul principio di continuità vorrei notare la
recente sentenza 13 gennaio 2004 n.13 in cui, la Corte costituzionale, ha affrontato
la questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli atrt.117 e 118, primo
comma, della Costituzione, dei commi 3 e 4 dell’art.22 della legge 28 dicembre
2001 n.448 (legge finanziaria 2002), i quali dettano disposizioni in materia di
organizzazione scolastica concernenti la definizione delle dotazioni organiche del
personale docente e del loro orario di lavoro.
Ai fini che interessano, rileva in particolare la censura riferita all’art.22, comma
3 (punti 3 e 4 delle C.i.D.), nella parte in cui affida ad un organo statale il compito di
distribuire, nell’ambito della Regione, il personale docente fra le varie istituzioni
scolastiche. Tale disposizione, in quanto recante non già principi organizzativi in
materia di istruzione ma norme di dettaglio, è stata assunta come lesiva delle
competenze legislative regionali in materia di istruzione, oggetto di potestà
concorrente ai sensi dell’articolo 117, terzo comma, ed in violazione dei principi di
sussidiarietà ed adeguatezza di cui all’articolo 118, primo comma, della
Costituzione.
Nel considerare la questione fondata, la Corte ha osservato che, secondo il
riparto concepito sotto il vigore del precedente articolo 117 “le competenze
regionali proprie non oltrepassavano l’istruzione artigiana e professionale e
l’assistenza scolastica, ogni altra competenza essendo esercitata dalla Regione su
delega statale. Lo Stato, conformemente ai caratteri propri di tale strumento
organizzativo, poteva dunque trattenere per sé qualsiasi profilo di disciplina della
materia, con l’effetto che le funzioni delegate alle Regioni potevano risultare
frammentarie e disorganiche” mentre ora la materia dell’istruzione è oggetto di
potestà concorrente, ed allo Stato è riservata soltanto la potestà legislativa esclusiva
in materia di “norme generali sull’istruzione” (articolo 117, secondo comma, lett. n).
Dopo aver chiarito la differenza tra le “norme generali sull’istruzione” ed i
“principi fondamentali”, nel senso che le prime sono di competenza esclusiva dello
Stato ed i secondi sono destinati a orientare le Regioni chiamate a svolgerli, la Corte
363
In tal senso vedi Morrone Andrea in “Sistema elettorale e prorogatio degli organi regionali”, su Le
Regioni, 2003, fasc.3 (ancora in stampa quando questo testo è stato redatto).
244
ha rilevato che l’articolo 138 del D.Lgs. n.112 del 1998 aveva conferito alle
Regioni, nell’ambito della programmazione e della gestione del servizio scolastico,
tutto quanto non coinvolgesse gli aspetti finanziari e la distribuzione del personale
tra le istituzioni scolastiche. Una volta attribuita l’istruzione alla competenza
concorrente, il riparto imposto dall’articolo 117 postula che, in tema di
programmazione scolastica e di gestione amministrativa del relativo servizio,
compito dello Stato sia solo quello di fissare principi. Pertanto anche la
distribuzione del personale tra le istituzioni scolastiche, che certamente non è
materia di norme generali sulla istruzione, di competenza esclusiva dello Stato, ma è
strettamente connessa alla programmazione della rete scolastica, tuttora di
competenza regionale, è compito spettante esclusivamente alle Regioni.
La Corte ha tuttavia ritenuto inopportuna la caducazione immediata del
censurato comma 3 art.22, in quanto “ne deriverebbero effetti ancor più
incompatibili con la Costituzione”, poiché “alla erogazione del servizio scolastico
sono collegati diritti fondamentali della persona, che fanno capo in primo luogo
agli studenti ed alle loro famiglie, ma che riguardano anche il personale docente e
le aspettative di questo circa la propria posizione lavorativa”. La Corte ha quindi
rilevato una “evidente esigenza di continuità di funzionamento” del servizio di
istruzione (che non a caso la legge n.146 del 1990 qualifica “servizio pubblico
essenziale”).
Quel principio di continuità che, la Corte, ha già riconosciuto operare sul piano
normativo, nell’avvicendamento delle competenze costituzionali dello Stato e delle
Regioni ed in virtù del quale le preesistenti norme statali continuano a vigere
nonostante il mutato assetto delle attribuzioni fino all’adozione di leggi regionali
conformi alla nuova competenza, deve essere ora ampliato per soddisfare l’esigenza
di continuità non più normativa ma istituzionale, giacché soprattutto nello Stato
costituzionale l’ordinamento vive non solo di norme, ma anche di apparati
finalizzati alla garanzia dei diritti fondamentali, ed in tema di istruzione, la
salvaguardia di tale dimensione è imposta da valori costituzionali incomprimibili.
Dunque, la Corte, allo scopo di assicurare la continuità del servizio scolastico,
non ritenne di pronunciare l’incostituzionalità delle norme impugnate, che vigeranno
fintantoché le singole Regioni non si dotino di una disciplina e di un apparato
istituzionale idoneo a svolgere la funzione di distribuire gli insegnanti tra le
istituzioni scolastiche nel proprio ambito territoriale secondo i tempi e i modi
necessari ad evitare soluzioni di continuità del servizio.
La Corte, quindi, ha evocato, per l’ennesima volta, il principio di continuità, ma
con interessanti novità rispetto al passato. Infatti, sulla base di questa pronuncia tale
principio ha subito un’evoluzione in senso ampio divenendo principio di
continuità istituzionale, a garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali. Quanto
premesso finora, però, non è sufficiente a definirne la dimensione ampliata che la
Corte a voluto dargli nella pronuncia in esame.
E’ bene osservare che, il principio di continuità in senso stretto, dopo la riforma
del 2001, ha trovato una particolare definizione nell’art.1, comma 2, della legge
n.131/’03, dove, non a caso, è stato evocato espressamente il ruolo della Corte
costituzionale nella soluzione delle questioni di diritto intertemporale. In quanto
correlato all’attuazione della legge costituzionale n.1 del 2001, occorre leggere tale
comma anche in riferimento alla clausola di cui all’art.10 di tale legge
245
costituzionale, che prevede l’applicazione alle Regioni a Statuto Speciale delle
proprie previsioni più favorevoli.
In tal senso pare possibile ritenere che il principio in esame, presupponendo la
continuità giuridica nella transizione tra due diversi ordinamenti costituzionali,
valga a garantire la certezza del diritto vigente nei singoli ordinamenti regionali, in
attesa che si compia il processo politico-legislativo di attuazione della riforma
costituzionale nelle parti in cui è incrementata l’autonomia regionale e degli altri
Enti Locali.
Il principio di continuità in senso stretto può, dunque, ritenersi funzionale al fine
di permettere nella fase transitoria che non risultino vuoti di disciplina nelle materie
in cui la competenza sia mutata da statale a regionale per effetto della riforma del
2001 (tale almeno sembra lo scopo datone nelle legge La Loggia).
La Corte, poi, si è avvalsa di tale principio per individuare la norma
costituzionale sulla quale basare il proprio giudizio, nel rispetto della regola per la
quale una novella costituzionale, in virtù della sua forza formale, non comporta
automaticamente la perdita di efficacia della normativa ordinaria preesistente nei
consueti termini propri dell’abrogazione. Tale normativa, infatti (se non è dichiarata
incostituzionale o espressamente abrogata), permane nell’ordinamento finché non
sia sostituita o modificata da una successiva normativa applicativa o attuativa della
nuova base costituzionale.
Dunque, il principio di continuità in senso stretto vale per il giudice
costituzionale come criterio di individuazione del parametro di costituzionalità, esso
presenta natura essenzialmente procedurale: la Corte, per individuare il parametro
applicabile, declina il principio di continuità in stretta relazione al principio tempus
regit actum (e cioè la data di presentazione del ricorso stesso).
Pertanto la normativa in vigore se impugnata prima dell’entrata in vigore della
novella costituzionale, è sindacabile solo in rapporto al previgente parametro
costituzionale. Ove impugnata successivamente, può essere sindacata alla luce del
nuovo parametro, per accertarne l’eventuale sopravvenuta condizione di
incostituzionalità o di conflitto.
Tuttavia per ragioni di tutela dell’ordine costituzionale, la Corte, può agire come
potere della Repubblica a garanzia dell’effettiva stabilità dell’intero ordinamento
giuridico364. Si tratta di un intervento di tipo eccezionale, non emulabile dagli altri
poteri statali.
Questi poteri, ed in particolare le amministrazioni pubbliche statali e locali e le
giurisdizioni, sono tenuti a garantire la certezza della base giuridica delle proprie
decisioni e possono applicare il principio di continuità al solo fine di avere certezza
del diritto vigente, nella più generale dimensione del principio di legalità dell’azione
dei pubblici poteri.
Il principio di continuità in senso stretto non consente pertanto soluzioni
interpretative non legislative che mirino a rendere la disciplina legislativa conforme
a tali valori ovvero che permettano di disapplicarla ove non conforme. Il principio di
continuità in senso stretto consente dunque di accertare se in un determinato ambito
territoriale esistano successive discipline regionali della medesima materia e,
riferendo le norme di queste ultime alle norme desumibili dall’atto normativo
statale, consente di risolvere le eventuali antinomie determinando
364
In tal senso vedi R. Dickmann in www.federalismi.it n.9 del 2003.
246
contemporaneamente le norme in concreto applicabili e quelle (implicitamente)
abrogate sulla base degli ordinari canoni ermeneutici, in modo da scongiurare vuoti
di disciplina.
Tuttavia il potere legislativo può non intervenire tempestivamente, al fine di
preservare la stabilità politico-istituzionale nella fase di transizione. Ed è proprio a
causa di questo ritardo che la Corte può intervenire in casi concreti per preservare il
vigore di una disposizione di legge della quale l’applicazione del principio di
continuità in senso stretto avrebbe portato a determinarne la cessazione di efficacia.
La Corte, in tal modo, non si sostituisce al legislatore nel ruolo che gli è proprio,
piuttosto rileva nel sistema costituzionale un principio superiore, il principio di
stabilità, al quale appellarsi per garantire “valori costituzionali incomprimibili”.
Il principio di continuità in senso stretto, dunque, pare solo una formula sintetica
attraverso la quale si individua una particolare declinazione dei canoni interpretativi.
Tale principio si applica solo al fine di garantire la certezza del diritto, obiettivo,
questo, che, secondo la Corte, non è riconducibile tra i valori fondamentali
dell’ordinamento e che farà di tale principio un elemento di rilievo solo
transitoriamente, non potendo legittimare interpretazioni volte a perpetuare la
prevalenza del diritto statale rispetto ai noti criteri di interpretazione del diritto. In
tal senso, tale principio è legittimamente applicato ove permetta la soddisfazione di
esigenze occasionali di diritto inter-temporale, non già la preservazione di un
ordinamento giuridico oramai contrario alla Costituzione.
Infine, per quanto attiene ad una questione più generale di metodologia
processuale post-riforma 2001, è bene fare un passo indietro e dedicare una nota alla
sentenza 3-11 giugno 2003 n.201, nella quale la Corte ha affrontato il ricorso, per
questione di legittimità costituzionale, presentato dal Presidente del Consiglio dei
Ministri contro l’art. 1, comma 3, lett.b), e comma 4, e dell’art. 3, comma 12, della
legge della Regione Lombardia 6 marzo 2002, n. 4 (Norme per l’attuazione della
programmazione regionale e per la modifica e l’integrazione di disposizioni
legislative). Le norme così sottoposte al giudizio di legittimità costituzionale
riguardarono materie completamente diverse e senza alcun collegamento tra loro
(precisamente: a. la disciplina del Corpo forestale regionale; b. l’incompatibilità dei
consiglieri regionali; c. la protezione dall’esposizione ambientale a campi
elettromagnetici indotti da impianti fissi per le telecomunicazioni e per la
radiotelevisione), tant’è che la stessa osservando che, “Il ricorso, uno nella forma, è
plurimo nel contenuto”, poneva, per esigenze di omogeneità e univocità della
decisione, l’esigenza di distinguere le materie e di procedere alla decisione separata
di ciascuna questione o gruppo di questioni. Nella presente pronuncia, venne decisa
la questione di legittimità costituzionale concernente la disciplina dettata dalla legge
regionale lombarda in tema di incompatibilità dei consiglieri regionali.
Il ricorrente, contestava che l’art.1, comma 4, della legge della Regione
Lombardia n. 4 del 2002365, è contrario all’art. 122 della Costituzione, là dove esso
attribuisce alla legge regionale la disciplina dei casi di incompatibilità dei consiglieri
regionali nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, in
365
Il quale stabiliva che “in fase di prima attuazione dell’articolo 122 della Costituzione e in attesa di
una disciplina organica della materia, la carica di consigliere regionale è incompatibile con quella di
presidente e assessore Provinciale, di sindaco e assessore di comuni capoluogo di Provincia, nonché con
quella di sindaco e assessore di comuni con popolazione superiore a 100.000 abitanti”.
247
quanto contrastante con il principio della «incompatibilità assoluta della carica di
consigliere regionale con qualsiasi altra carica negli enti locali», che deriverebbe
dal decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali), il cui art. 65, comma 1, stabilisce (recependo la
corrispondente disposizione dell’art. 4 della legge 23 aprile 1981, n. 154, riportante
“Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere
regionale, Provinciale, comunale e circoscrizionale e in materia di incompatibilità
degli addetti al Servizio sanitario nazionale”), che «... il sindaco e gli assessori dei
Comuni compresi nel territorio della Regione... sono incompatibili con la carica di
consigliere regionale».
A ciò, la Corte, valutando la fondatezza della questione, rispose che,
modificando la distribuzione delle competenze normative in tema d’ineleggibilità e
incompatibilità alla carica di consigliere regionale, vigente prima dell’entrata in
vigore della legge costituzionale 22 novembre 1999 n. 1, l’attuale art. 122, primo
comma, della Costituzione ha sottratto la materia alla legislazione dello Stato
attribuendola alle Regioni. Conseguentemente, per ragioni di congruenza
sistematica, la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di legislazione
elettorale dei Comuni (oltre che delle Province e delle Città Metropolitane) prevista
dall’art. 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, ha da essere intesa con
esclusione della disciplina delle cause d’incompatibilità (oltre che d’ineleggibilità) a
cariche elettive regionali derivanti da cariche elettive comunali (oltre che Provinciali
e delle Città Metropolitane).
La competenza legislativa regionale in questione vale «nei limiti dei principi
fondamentali stabiliti con legge della Repubblica», e poiché manca a tutt’oggi una
legge determinativa di tali principi, per l’ennesima volta, la Corte affermò la
necessità di rivolgersi alle norme dell’ordinamento giuridico statale vigente anteriforma, per individuare quelle che esprimono scelte fondamentali e operano da
limiti all’esercizio della competenza legislativa regionale (in tal senso, e con
riferimento alla legislazione di cui all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, ma
con affermazione di portata più generale, vedi la già citata sentenza n. 282 del
2002). Infatti, il ricorrente ritenne che la regola contenuta nella richiamata
disposizione dell’art. 65 del D.Lgs. n. 267 del 2000, che prevede l’incompatibilità
alla carica di consigliere regionale di tutti coloro che ricoprono la carica di sindaco e
assessore comunale nei comuni compresi nel territorio della Regione, valga, in
quanto tale, come «principio fondamentale».
Ma, se così si dovesse ritenere, tuttavia, la legge regionale in tema
d’individuazione delle cause d’incompatibilità dovrebbe limitarsi a ripetere nel caso
di specie le determinazioni contenute nella legge statale, cosa che porterebbe ad un
risultato incompatibile con la natura concorrente della potestà legislativa regionale
in questione.
Dunque, la Corte osservava che: “Non la regola dell’art. 65 del decreto
legislativo n. 267 del 2000, deve assumersi come limite alla potestà legislativa
regionale, ma il principio ispiratore di cui essa è espressione”. La stessa rilevava
che: “Il principio in questione consiste nell’esistenza di ragioni che ostano
all’unione nella stessa persona delle cariche di sindaco o assessore comunale e di
consigliere regionale e nella necessità conseguente che la legge predisponga cause
di incompatibilità idonee a evitare le ripercussioni che da tale unione possano
derivare sulla distinzione degli ambiti politico-amministrativi delle istituzioni locali
248
e, in ultima istanza, sull’efficienza e sull’imparzialità delle funzioni, secondo quella
che è la ratio delle incompatibilità, riconducibile ai principi indicati in generale
nell’art. 97, primo comma, della Costituzione”. In sintesi, la stessa affermava che
“il co-esercizio delle cariche in questione è, a quei fini, in linea di massima, da
escludere. Il legislatore statale, con il citato art.65, ha messo in opera il principio
anzidetto, tramite la predisposizione di una regola generale di divieto radicale”. Ma
la stessa, continuava, riconoscendo che ciò non esclude scelte diverse nello
svolgimento del medesimo principio, con riferimento specifico all’articolazione
degli Enti Locali nella Regione, naturalmente entro il limite della discrezionalità,
oltrepassato il quale, il rispetto del principio, pur apparentemente assicurato,
risulterebbe sostanzialmente compromesso.
La stessa, dunque, dichiarando che l’impugnato art.1, comma 4, della legge della
Regione Lombardia n.4 del 2002 superava questo limite, traducendosi non in
un’attuazione ma in un’elusione del principio (in quanto, prevedeva
l’incompatibilità della carica di consigliere regionale esclusivamente con riguardo
alle cariche di sindaco e assessore di Comuni capoluogo di Provincia e di Comuni
con popolazione superiore a 100.000 abitanti), rilevava che l’effetto della legge
impugnata, risultava tradursi nell’incompatibilità per sole quattro ipotesi (i tre
Comuni capoluogo di Provincia e uno non capoluogo), comportando che,
indipendentemente da ogni considerazione circa i criteri qualitativi che possono
avere mosso il legislatore ad una scelta così determinata, la conseguenza di
quest’ultima norma, sarebbe stata il ribaltamento, non l’attuazione, della scelta di
principio contenuta nella norma statale di riferimento, tant’è che la stessa osservò:
“L’incompatibilità, da regola qual è nella legislazione statale, si è trasformata,
nella legislazione regionale, in eccezione”.
Ben particolare è infine il modo di decisione adottato in tale pronuncia. Al
termine delle considerazioni in diritto, la Corte, dichiarando l’illegittimità
costituzionale della norma in questione (art.1, comma 4, della legge reg. Lombardia
n.4/’02), premetteva che nella pronuncia era “riservata ogni decisione sulle
questioni relative agli artt. 1, comma 3, lettera b), e 3, comma 12, della legge della
Regione Lombardia 6 marzo 2002, n. 4, sollevate, in riferimento agli artt. 114,
primo e secondo comma, 117, secondo comma, lettere q) e s), 118 e 120, secondo
comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei Ministri con il ricorso
indicato in epigrafe”.
Conclusa questa veloce analisi della sentenza è bene soffermarsi su alcuni
aspetti salienti proprio di quest’ultima parte. In modo particolare voglio soffermarmi
sulla premessa, alla pronuncia, in cui si precisa che con unico ricorso sono state
prospettate questioni così diverse da porre l’esigenza di essere decise separatamente
(cosa che, come abbiamo visto, sfocia in una decisione con “riserva”). In realtà, tale
pronuncia, sotto quest’aspetto, non rappresenta un caso isolato, ma, anzi, abbastanza
frequente (vedi, ad esempio, i ricorsi presentati contro le leggi finanziarie, con cui si
adducono decine di censure inerenti ad oggetti tra i più disparati), ed è stato definito
da molti come una delle maggiori manifestazioni, sul versante della giurisprudenza
costituzionale, della riforma del 2001 (e, come già precisato sopra, dell’inversione
effettuata sull’art.117 Cost.). Come la stessa Consulta ha osservato, nella pronuncia
in analisi, a causa della natura omnibus della legge regionale impugnata, il Governo
è stato costretto a produrre censure plurime che testimoniano quel processo
249
d’inflazionamento del ricorso costituzionale che ha contribuito, non poco, ad
intasare, i già appesantiti, strumenti del giudizio in via principale.
Ciò di cui tale pronuncia è testimone, rappresenta, dunque, una reazione della
Corte a tale processo. Infatti, in tale contesto (in cui, per di più, la conflittualità tra
Stato e Regioni, non sembra affatto allentarsi in nome della leale collaborazione, che
è anzi sempre più motivo di scontro giurisdizionale), la stessa ha reagito ponendosi
alla ricerca di soluzioni processuali atte a garantire una razionalizzazione del lavoro,
sia sul piano dell’efficienza che su quello dell’analisi delle singole questioni poste.
Ciò che però gran parte della dottrina ha già rilevato è che tali accorgimenti, non
solo non riescono a porre una soluzione definitiva alle difficoltà che tale fenomeno
ha posto alla Corte costituzionale, ma, spesso, si sono rivelate inadatte (od
addirittura propense a produrre effetti opposti rispetto a quelli desiderati)366. Infatti,
il nuovo testo costituzionale crea non poche difficoltà, sia per la presenza di clausole
decisamente oscure che per la sua perdurante inapplicazione (oggi solo parzialmente
rimediata con la l.n.131/’03), ogni intervento si colora, inevitabilmente, di
opinabilità. A ciò aggiungasi le prospettive, di recente aperte, di una riforma della
riforma, che contribuisce a rendere fluido il parametro e che politicizza,
ulteriormente, il Titolo V°, costringendo, la Corte, a confrontarsi con problematiche
che non dovrebbero, invece, uscire dallo scontro puramente politico. Una cosa è
tuttavia certa e cioè, che la Corte ritiene pianamente fattibile la separazione dei
contenuti dall’atto che li possiede ed esprime: di necessità, così facendo, separando
o, meglio, facendosi moltiplicare anche gli effetti in rapporto all’atto stesso. La
Corte ci dice che il ricorso è “uno nella forma, è plurimo nel contenuto”, e che,
perciò, nulla osta alla divisione interna dei contenuti stessi, ovverosia dei ricorsi,
nelle abili mani del giudice costituzionale divenuti più d’uno e pronunziandosi oggi
su una delle questioni incorporate nello stesso atto di ricorso e rimandando a domani
(si spera, entro un tempo ragionevole) per le rimanenti.
Si può concludere dicendo che, sotto il profilo giuridico-formale, forse
l’operazione è fattibile (magari con la previsione di una motivazione ogni qual volta
ciò venga fatto), e che fuor di dubbio è che tale operazione non possa aversi nei
giudizi in via incidentale (in quanto ucciderebbe il sistema dell’incidentalità stessa),
ma gli effetti sul piano sostanziale e politico potrebbero essere notevolmente pesanti
(si pensi solo al fatto che, fino a quando la partita non si chiude definitivamente,
l’autore dell’atto, solo in parte giudicato, non può dar luogo alle ulteriori, e
conseguenti, determinazioni, tanto sul piano normativo, ad esempio dando il via
all’adozione di regolamenti, quanto sul piano dell’amministrazione), ciò
comportando pesanti conseguenze che, però, non si possono valutare come
sufficienti ad evitare che la Corte utilizzi tale strumento (ad esempio, il Governo
attaccherà la legge regionale, c.d. omnibus, con tanti atti di ricorso quante sono le
disposizioni sospette d’incostituzionalità, e lo stesso, naturalmente, potrà fare la
Regione nei riguardi delle leggi statali, cosa da cui appare evidente che l’economia
giurisprudenziale, certo, non ci guadagna). Ciò che dunque si deve osservare è che,
la Corte, partita per trovare soluzioni processuali all’aumento dei ricorsi per via
diretta, si è trovata a sperimentare un sistema che potrebbe, invece, avere l’effetto
366
Uno per tutti vedi Passaglia P. in “Il funzionamento (e la funzionalità) del giudizio in via principale
dopo la riforma del titolo V: osservazioni a margine della prima sentenza parziale con riserva”,
pubblicato su Foro It., 2003, n.9, pagg.2227 e ss.
250
esattamente opposto367. D’altronde è bene comunque osservare che, essa, non dice
di sentirsi vincolata a tale sistema, ed, al contempo, bisogna riconoscere che non può
nemmeno evitare che ricorsi omnibus vengano presentati. Ciò che si può, al più,
rilevare è che, tale tecnica di drafting, più che processuale, potrebbe convertirsi in
normativa (e cioè, la Corte lascia intendere al legislatore, sia statale che regionale,
che l’unico modo per liberarsi dal laccio dell’incertezza, obbligando la Corte stessa
a chiudere la partita uno actu, è quello di dar finalmente luogo a leggi omogenee per
la materia trattata e per il modo della sua regolazione) ed in ciò ponendosi un fine
certamente encomiabile, ma che potrebbe portare ad un’incontenibile moltiplicarsi
di leggi (cosa che andrebbe ad acuire un’altra piaga delle esperienze della
normazione del tempo presente).
In definitiva, non v’è dubbio che, in astratto, riunire assieme ricorsi considerati
(fino a ieri) inscindibili, può rivelarsi maggiormente forzato di quanto invece non sia
riunire parti oggettivamente omogenee dei ricorsi stessi. In astratto, si diceva,
perché in concreto, poi, la scomposizione e ricomposizione dei ricorsi, naturalmente,
si accompagna a selezioni marcatamente espressive di manipolazioni difficilmente
controllabili e quindi pericolose da attuare. Il compito che la Corte ha assegnato a se
stessa (e cioè di far luogo ad accurate selezioni interne agli atti) si fa non poco
impegnativo e, potenzialmente, espressivo di un grado d’accresciuta creatività della
giurisprudenza costituzionale.
Fatte queste premesse che mi hanno permesso di presentare il principio di
continuità come lo strumento usato dalla Corte per gestire il contenzioso
costituzionale sorto dopo la riforma del 2001, passo, adesso, a riannodare le fila del
discorso iniziato nelle pagine che precedono ed interrotto proprio per analizzare la
sopravenuta riforma (analisi dalla quale non si poteva prescindere se si volevano
dare le basi per una piena e completa comprensione della giurisprudenza
costituzionale di oggi nel suo rapporto col regionalismo italiano).
La seguente trattazione seguirà tre fili conduttori che giungeranno fino ad oggi,
non avendo comunque la presunzione di voler trarre delle conclusioni definitive
(non essendo ciò possibile dato che la materia è ancora in evoluzione) ma
consentendo di acquisire una visione complessiva e finale dell’oggetto di questo
lavoro. Tali fili conduttori si muoveranno sulle già viste esigenze unitarie (interesse
nazionale e indirizzo e coordinamento) vedendo se queste esistono ancor oggi e
quali mutati aspetti essi acquisiscono (mi permetto di anticipare che, sempre più,
essi tendono a convergere verso la leale collaborazione) e cercando di capire che
fine fanno, il tutto innestato con un analisi del valore e significato del nuovo potere
sostitutivo del Governo, come oggi espresso dall’art.120 Cost. ed, infine,
riservandomi di dare una scorsa ad altre problematiche generali come premessa per
trarre delle conclusioni al presente scritto.
367
In tal senso vedi Ruggeri A. in “La Corte e il drafting processuale”, pubblicato sul forum di Quad.
Cost.
251
2. Risvolti di un nuovo art.117 (Scompare l’interessa nazionale?).
Com’è intuibile da quanto detto nelle pagine precedenti, il ruolo della
giurisprudenza costituzionale in merito alle esigenze unitarie è stato di certo molto
forte. Tanto, al punto di spingersi a trasformare quello che era nato come un limite
di merito il cui controllo era affidato al Parlamento (quale rappresentante della
Nazione ex art.67 Cost.), in un limite di legittimità affidato alla Corte ed usato da
questa come parametro per la definizione delle controversie attinenti l’esercizio del
potere legislativo statale e regionale. L’interesse nazionale, quindi, sebbene
originariamente nato nelle parole dell’art.127 Cost., è nel rapporto con l’art.117 ed il
suo contenuto che ha svolto il suo ruolo nel nostro ordinamento costituzionale.
Come sappiamo la riforma del 2001, da un lato ha radicalmente trasformato
l’art.117, capovolgendo, l’enumerazione delle materie riservate, da regionale a
statale, attribuendo alle Regioni l’amplissima potestà residuale e prevedendo
un’accorta potestà concorrente in materie puntualmente individuate ed in cui si è
riservato allo Stato il potere di dettare solo ed esclusivamente i principi
fondamentali; dall’altro lato ha espunto qualsiasi riferimento all’interesse nazionale
e cancellato il giudizio di merito davanti alle Camere come originariamente previsto
dall’art.127.
A questo punto, la dottrina si è interrogata nel tentativo di capire quali
conseguenze tali cambiamenti hanno apportato al nostro ordinamento e, cosa anche
importante, se l’interesse nazionale sopravvive oppure è stato cancellato anche di
fatto. Chiaramente l’individuare date risposte a tali quesiti non può che passare
attraverso la giurisprudenza della Corte, la quale, in un moto altalenante ha cercato
di districarsi tra le problematiche interpretative trasmettendoci, come vedremo, un
messaggio per cui l’interesse nazionale non è scomparso in quanto, nella sua
applicazione effettuale, esso, già da anni, si affermava non avere niente a che fare
con il controllo di cui all’art.127 (la cui modifica risulta, quindi irrilevante), essendo
piuttosto parametro di costituzionalità delle leggi, implicito al nostro ordinamento
costituzionale, e la cui cancellazione, anzi può aver reso ulteriormente flessibile ed
utile allo scopo di gestire il rapporto tra l’esercizio delle potestà legislative statali e
regionali, nell’espressione di una legislazione che proprio nella potestà concorrente
trova il proprio primario punto di incontro. Infatti, per le materie a potestà esclusiva
il problema non si pone, mentre per la potestà concorrente si crea nei termini di un
possibile abuso di questa. Ciò aveva portato parte delle istituzioni a proporre una
possibile cancellazione della stessa, al fine di evitare questi scontri tra centro e
periferia. Ma a ciò la dottrina ha obbiettivamente risposto che il problema dell’abuso
di tale potestà, non dipende dalla sua esistenza (che anzi è perfettamente consona al
modo di pensare i rapporti tra gli enti territoriali, in un’epoca di concertazione ove
l’esercizio di tale potestà dovrebbe essere immediata consecuzione della
concertazione tra centro e periferia), ma di una mancanza di coscienza e
consapevolezza istituzionale che ancora oggi porta lo Stato ad abusare dei suoi
poteri in danno delle Regioni costrette a rivolgersi alla sede del contenzioso
costituzionale per vedersi riconosciute le proprie prerogative.
Come si è già potuto osservare, la giurisprudenza costituzionale ha sin
dall’inizio fondato il limite degli interessi nazionali e la funzione di indirizzo e
coordinamento sul principio di prevalenza delle “esigenze di carattere unitario”, che
252
“trovano formale e solenne riconoscimento nell’art.5 della Costituzione” (in tal
senso vedi la sentenza n.39 del 1971). E, dato che questo articolo non è stato
toccato dalla riforma, allora i principi che esso incorpora restano accreditati.
Naturalmente non significa che insieme alle parole debba restare necessariamente
uguale anche il significato, ma è proprio questo lo scopo della giurisprudenza
costituzionale. Cioè quello di leggere i principi del nostro ordinamento per applicarli
ed attuarli in esso, conformemente al momento storico ed alla realtà istituzionale e
culturale propria di tale momento. E’ questo il senso pratico del diritto vivente che
la giurisprudenza crea, interpretando le, altrimenti fredde, norme del diritto (dunque,
anche di rango costituzionale), senza mai perdere di vista il possibile divario tra
Costituzione formale e sostanziale, scritta e vivente.
Volendo iniziare un’analisi in tal senso si deve ricordare la già citata sentenza
n.282 del 2002. A sottolineare la sua importanza si può ricordare come gran parte
degli studiosi la hanno definita come la pronuncia grazie alla quale la novella
costituzionale è entrata finalmente in vigore, emancipandosi, finalmente, dalla
virtualità cui molti comportamenti degli attori chiamati ad attuarla sembravano
averla condannata. In modo particolare i comportamenti dello Stato che hanno
dimostrato una sua tendenza ad operare come se la Costituzione non fosse cambiata,
e cioè intervenendo legislativamente in ambiti ad esso oramai sottratti, adottando
regolamenti in violazione dell’art.117 6° comma, contravvenendo, con proprie
scelte normative, ad alcuni, non secondari, imperativi espressi dal nuovo sistema.
La Corte, invece, con tale pronuncia ha applicato la nuova disciplina,
dimostrando che essa c’è e che, essendoci, può determinare la cancellazione
dall’ordinamento di atti legislativi con la stessa contrastanti. Tre sono le note
importanti che la stessa merita.
Una prima riguarda un obiter dicta relativo all’affermazione che la soluzione
accolta esonera la Corte dall’esaminare gli altri profili d’incostituzionalità
denunciati, dispensandola dal proporsi “il problema della loro ammissibilità in base
al nuovo art.127, primo comma, della Costituzione”. Ed, infatti, questo passaggio,
senza dirlo, lascia trasparire che il giudice della costituzionalità è perfettamente
consapevole dell’enorme novità impressa ai rapporti tra Stato e Regioni dalla nuova
disciplina del giudizio in via principale. La quale concorre a privare lo Stato del
ruolo tutorio che precedentemente rivestiva. Tale novità trova espressione
nell’innovazione per cui il Governo può impugnare le leggi regionali in via non già
preventiva ma successiva. Ma anche nel fatto che, per suo effetto, lo Stato non può
più far valere l’intero spettro dei possibili vizi di legittimità costituzionale,
dovendosi limitare al singolo vizio strettamente inteso. Solo così si spiega, infatti,
l’allusione all’incidenza che il nuovo art.127 può esplicare sull’ammissibilità dei
profili di legittimità sottoponibili alla Corte.
Una seconda nota merita il passo in cui la pronuncia si riferisce alla nuova
formulazione dell’art.117, terzo comma, introducendo una prospettiva capace di
superare vecchie convenzioni interpretative, ed in special modo in riferimento alle
materie del vecchio art.117, comma 2, oggi cadute nella potestà concorrente delle
Regioni, ed in cui, la Corte, esprime il proprio pieno sfavore, ad un sistema in
passato oramai consolidatosi: quello della normativa statuale di dettaglio nella
253
forma delle norme cedevoli o cogenti368. Infatti, una volta accolto il duplice
presupposto che: a) in tali materie il potere di legiferare spetta alle Regioni; b) che la
competenza dello Stato è limitata alla determinazione dei principi fondamentali
della disciplina; fatto ciò, dicevo, si capisce come non sarebbe più tollerabile, e
d’altronde non potrebbe nemmeno giustificarsi, un qualunque intervento dello Stato
con norme che non siano di principio.
Infine, altro punto interessante è quello che affronta la questione, sollevata dal
ricorrente, dell’art.117, comma 1, lett.m, là dove si parla di livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti da garantire unitariamente sull’intero territorio
nazionale. La sentenza, infatti, chiarisce che l’ambito così individuato “non
identifica una materia in senso stretto”, ma “una competenza del legislatore statale
idonea ad investire tutte le materie”, e da ciò fa discendere l’esistenza di un tipo di
competenza che mette in grado, il legislatore centrale, di graduare variamente il
proprio rapporto con i legislatori locali, consentendogli sia di indirizzarne la
competenza, sia di limitarla (scorporandone oggetti, ad essa non attinenti, ma
altrimenti, in essa, inclusi)369.
Passiamo, adesso, al corpo centrale della pronuncia, nella parte in cui affronta il
tema, particolarmente controverso, del rapporto tra leggi cornice e l’esercizio della
competenza concorrente da parte delle Regioni. La Corte affronta la questione
rispondendovi in duplice senso. In primo luogo osserva che i principi che
s’impongono al rispetto del legislatore regionale non debbono necessariamente trarsi
da leggi statali nuove, ma possono risultare dalla legislazione nazionale già in
vigore370. Ed, in secondo luogo, che se lo Stato si astiene dall’adottare la legge
cornice, le Regioni possono comunque legiferare, ma a condizione che rispettino i
principi (anche non scritti) ricavabili dalla legislazione pregressa ed ancora in
vigore371. Tale soluzione è particolarmente importante, se solo si pensa che si viene
ad innestare nella delicata fase di transizione per l’attuazione del nuovo Titolo V°
della Costituzione. D’altronde, non sembra contestabile che il potere di mantenere in
vita i principi impliciti già esistenti, non sia, in fondo, che un modo d’espressione
del potere di determinare i principi fondamentali delle materie ex art.117, terzo
comma, della Costituzione.
Ed è da quest’ultima lettura che si è fatto discendere il progetto d’attuazione
della riforma poi tradottosi nella legge n.131/’03, nella parte in cui prevede la delega
al Governo per l’emanazione di decreti legislativi (nella forma di Testi Unici) di
ricognizione dei principi fondamentali della legislazione pregressa (ed ancora in
vigore). Tralasciando, ora, i rilievi circa la discutibile tecnica scelta di tale atto, un
368
Si tratta di un indirizzo che si era ormai consolidato nella giurisprudenza costituzionale e che, partito
dal tollerare solo le norme statali di dettaglio cedevoli, è finita per accettare anche quelle cogenti (cioè
norme non ulteriormente derogabili dalle Regioni). In tema vedi Paletti in “Leggi cornice e Regioni. Crisi
di un modello”, Milano 2001, pagg.95 ss.
369
In tal senso vedi anche la sentenza n.407 del 2002 e la relativa nota di Marini F.S in “La Corte
Costituzionale nel labirinto delle materie trasversali: dalla sent.282 alla 407 del 2002”in Giur. Cost.,
2002, pagg.2851 ss., od anche Calzolaio S. in “L’ambiente e la riforma del Titolo V”, pubblicato il 11
giugno 2003 sul forum di Quad.Cost.
370
D’opposta opinione Baldassarre A. in Senato della Repubblica, Costituzione, Regioni e autonomie
locali. Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento della revisione del Titolo V seconda parte della
Costituzione”, I, Roma, 2002 pagg.14 ss.
371
Per una tesi opposta vedi Elia, Introduzione, in “La Repubblica delle autonomie”, a cura di Groppi e
Olivetti, pagg.14 ss.
254
punto merita di essere sottolineato, e cioè che, se l’obbligo del rispetto dei principi
impliciti preesistenti va ricondotto alla Costituzione (come sostiene la Corte), esso
opera anche indipendentemente dall’adozione dei decreti legislativi di codificazione.
Il che rafforza l’opinione secondo cui l’adozione di tali decreti sarebbe inutile
(perché l’obbligo di osservare i principi legislativi preesistenti non richiede la
codificazione in oggetto) e dannosa (perché la ricognizione, come prevista dal testo
della legge, sarebbe esposta al giudizio della Corte ed al conseguente annullamento
che ne potrebbe derivare, con la conseguenza di introdurre un sistema di pericolose
incertezze)372.
Ma in tutto ciò importante è proprio quella parte in cui la Corte prende una
posizione netta su un tema particolarmente controverso quale quello del rapporto tra
legge cornice e l’esercizio della competenza concorrente da parte delle Regioni.
In proposito le questioni affrontate sono state due: una prima quella in cui si
chiede se in assenza di legge-cornice, la Regione possa legiferare comunque; una
seconda quella che cerca di comprendere se, in tal caso, essa sia tenuta al rispetto
dei principi non scritti, ricavabili dall’insieme della legislazione nazionale.
In tale pronuncia la Corte rispose affermativamente ad entrambe le domande:
alla prima implicitamente, ed alla seconda esplicitamente. A suo giudizio, i principi
che si impongono al rispetto del legislatore regionale non debbono essere tratti
necessariamente da leggi statali nuove, dettate appositamente per tale scopo, ma
possono risultare dalla legislazione nazionale già in vigore. Il che significa che se lo
Stato si astiene dal dettare leggi cornice, le Regioni possono sì legiferare, ma a
condizione che rispettino i principi (anche non scritti) ricavabili dall’ordinamento
giuridico nel suo complesso (e quindi anche dalla legislazione pregressa).
Su tale argomento di poco successiva si è posta la sentenza n.507 del 2002
anch’essa già analizzata nella prima parte di questo lavoro, ed in cui si è affrontato
un conflitto d’attribuzioni proposto dalla Regione Veneto ed avente ad oggetto un
decreto sui programmi di riqualificazione urbana del 1998. In tale pronuncia, la
Corte, rinnovando il principio di continuità (tale per cui osservava che “è alla
disciplina previgente che la Regione Veneto ha affidato il suo ricorso”) si è trovata
a valutare un ricorso con cui, tra le altre, si contestava che gli atti impugnati, nel loro
complesso e nelle singole previsioni, avrebbero invaso la sfera di attribuzioni, sia
legislative che amministrative, delle Regioni nella materia della urbanistica, loro
riservata dall’art. 117 della Costituzione, e in quella della difesa del suolo e
dell’assetto del territorio, già trasferita alle Regioni dagli artt.79, 80 e ss. del D.P.R.
24 luglio 1977, n. 616 e successive modificazioni, in quanto farebbero rientrare
nella materia, mantenuta allo Stato, dei programmi innovativi funzioni ed attività
che in realtà non potrebbero essere ricomprese tra i compiti di rilievo nazionale
definiti dall’art. 1, comma 4, lett. c), della legge n. 59 del 1997 e dallo stesso art.52
del decreto legislativo n.112 del 1998, ma si sostanzierebbero in "normalissimi
interventi sul territorio", come tali riconducibili, sulla base della citata normativa,
alla competenza regionale.
372
Per una analisi più completa vedi D’Atena A. in “La Consulta parla… e la riforma del titolo V entra in
vigore”, pubblicato su Giur. Cost., fasc.3, 2002, pagg.2027 ss. Per una visione più prettamente dedicata al
diritto alla salute, vedi Morana D. in “La tutela della salute, fra libertà e prestazioni, popola riforma del
Titolo V. A proposito della sentenza 282/2002 della Corte Costituzionale”, pubblicato nello stesso
fascicolo.
255
L’Avvocatura dello Stato aveva eccepito l’inammissibilità del ricorso poiché
obiettava che in merito era stata raggiunta, in sede di Conferenza Unificata,
un’intesa con le Regioni e gli Enti Locali. A tale eccezione replicò la Regione
Veneto asserendo, da un lato, che aveva espresso voto contrario in sede di
Conferenza Unificata (cosa che renderebbe comunque proponibile il ricorso per
conflitto innanzi alla Corte), e dall’altro che l’intesa raggiunta era condizionata al
recepimento di alcune modifiche, richieste dalle Regioni e dagli Enti Locali, che
non sarebbero state trasfuse nell’impugnato decreto del Ministro.
Ma sulla base di ciò, ed in applicazione del principio tempus regit actum (per cui
richiamando il vecchio art.117 Cost.), la Corte affermò che, l’impugnato decreto,
era privo di qualsiasi attitudine lesiva delle competenze della Regione in materia
urbanistica.
Ad avviso della ricorrente, gli artt.52 e 54 del decreto legislativo n.112 del 1998,
che individuano, nell’ambito della materia urbanistica, i compiti di rilievo nazionale
e, rispettivamente, le funzioni mantenute allo Stato, tra le quali espressamente, alla
lett. e), quelle relative alla promozione di programmi innovativi in ambito urbano
che implichino un intervento coordinato di diverse amministrazioni, non sarebbero
stati rispettati dal decreto impugnato, in quanto, i programmi in esso individuati non
riguarderebbero compiti di rilievo nazionale e non avrebbero alcunché di
innovativo, ma si risolverebbero in normali interventi sul territorio rientranti nelle
competenze regionali in materia urbanistica.
Così argomentando, però, la Regione Veneto trascurava, a parere della Corte, il
fatto che, a mente dell’art. 4, comma 1, del decreto impugnato, i programmi che i
Comuni hanno la facoltà di promuovere devono essere conformi agli strumenti
urbanistici di pianificazione e programmazione territoriale e che, se difformi,
devono essere promossi d’intesa con l’amministrazione provinciale o regionale,
titolare di tali strumenti. Se dunque il programma è conforme, la sua realizzazione
ricade nella competenza dei Comuni promotori e le competenze urbanistiche della
Regione non ricevono alcun pregiudizio dall’apporto finanziario dello Stato. Se
invece è difforme, tali competenze non subiscono menomazione, poiché esso non
può essere realizzato in assenza di un’intesa: tanto basta per affermare che le
attribuzioni regionali in materia urbanistica sono salvaguardate.
Quindi, poiché il conflitto di attribuzione proposto era preordinato alla tutela di
competenze costituzionali, una volta accertato che l’atto impugnato, per il suo
contenuto, non era idoneo a incidere sulle rivendicate competenze della Regione
Veneto in materia urbanistica, ne risultava dimostrata, per la Corte, l’inammissibilità
del ricorso.
Ciò dunque che si nota è che, malgrado tutti i cambiamenti intervenuti, la Corte,
rigettava il ricorso ritenendo, ancora, che il rientrare, l’esercizio di un competenza in
una materia come l’urbanistica (ma questa come un’altra), nell’ambito di interessi di
rilievo nazionale, era sufficiente a legittimare tale intervento ed a comprimere le
competenze regionali.
Ma, questo, si potrebbe pensare, perché la Corte si appoggiava ancora, in tale
pronuncia, al vecchio art.117 (cosa che potrebbe anche non fare). Sarà la
giurisprudenza successiva a fugare ogni ulteriore dubbio in merito.
Infatti è proprio una, di poco, successiva sentenza n.88 del 2003 che,
nell’affrontare due ricorsi proposti dalla Provincia Autonoma di Trento e dalla
256
Regione Emilia-Romagna373, torna a trattare di problemi legati al concetto di "livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali" (figlio del concetto
di interesse nazionale e riconosciuto nel nuovo art.117, comma secondo, lett.m, della
Costituzione), ed in cui, la censura di fondo attiene alla compressione della sfera di
autonomia degli enti ricorrenti ad opera di un decreto ministeriale fondato su una
previsione regolamentare contenuta in una disposizione legislativa da considerare
inutilizzabile dopo la riforma del Titolo V° della seconda parte della Costituzione,
mentre questo testo non appare riconducibile alla competenza statale relativa alla
determinazione di tali livelli essenziali.
In tal senso la Corte riconobbe che il contenuto del decreto ministeriale adottato
comprimeva indubbiamente la sfera di autonoma organizzazione delle Regioni e
delle Province Autonome in relazione ai servizi preposti alle tossicodipendenze e
poneva l’obbligo di erogare livelli assistenziali diversi ed ulteriori rispetto a quanto
determinato in materia dal D.P.C.M. 29 novembre 2001 (Definizione dei livelli
essenziali di assistenza374).
Ed, in tal senso però, la Corte, invece di riconoscere l’incostituzionalità della
norma, affermava che l’evidente rilevanza generale degli interessi sanitari e sociali
connessi con il fenomeno della tossicodipendenza “hanno legittimato in questo testo
unico una parziale ed eccezionale compressione dell’autonomia organizzativa e
funzionale delle Regioni e Province autonome”375, con la particolarità che sul
progetto di regolamento ministeriale in materia debba essere "sentita la Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento
e di Bolzano".
Dunque, anche qui la salvaguardia di un interesse nazionale (qual è quello di
garantire un trattamento sanitario entro livelli minimi su tutto il territorio nazionale)
consentiva e giustificava la compressione dell’autonomia regionale dimostrando
quanto sostenuto in questo scritto, e cioè che l’interesse nazionale, con la riforma
del 2001, non solo non è scomparso ma anzi si è definitivamente assestato, nel
nostro ordinamento, come parametro di costituzionalità.
Ma, esso, si è anche evoluto, nel senso che particolare è il modo con cui, in tale
pronuncia (e nelle successive), la Corte, giustificherà il suo rispetto, sostenendo
ch’esso si concilia con le istanze autonomistiche nel momento in cui rispetta il
criterio di leale collaborazione (il quale è rispettato nel momento in cui le parti –
Stato, Regioni, ed Enti Locali – esercitano i loro poteri normativi nelle materie
concorrenti, previo raggiungimento di un accordo o di un intesa che dimostri la
volontà, delle stesse, di superare la conflittualità del passato per avviarsi verso una
co-gestione concertata e pacifica della cosa pubblica). Ed è su ciò che la Corte nella
stessa pronuncia si richiama ad atti come l’accordo Stato-Regioni per la
"riorganizzazione del sistema di assistenza ai tossicodipendenti", sancito con
provvedimento 21 gennaio 1999 in sede di Conferenza Stato-Regioni e, nella parte
373
Che hanno sollevato due distinti conflitti di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei
Ministri in relazione agli artt. 1 e 2 del Decreto del Ministro della Salute, di concerto con il Ministro del
Lavoro e delle Politiche Sociali, del 14 giugno 2002 (Disposizioni di principio sull’organizzazione e sul
funzionamento dei servizi per le tossicodipendenze delle aziende sanitarie locali – Ser.T, di cui al Decreto
Ministeriale 30 novembre 1990, n. 444)
374
Adottato sulla base dell’art. 6 del decreto-legge 18 settembre 2001, n. 347 (Interventi urgenti in
materia di spesa sanitaria), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 16 novembre 2001, n. 405.
375
Si vedano, in tal senso, anche le sentenze di questa Corte n. 1044 del 1988, n. 243 del 1987, n. 31 del
1983
257
finale della sentenza, afferma che “Al di là di ogni valutazione di merito sul
procedimento configurato e sulla stessa adeguatezza dei livelli essenziali in tal
modo individuati, resta indubbio che in tutto il settore sanitario esiste attualmente
una precisa procedura, individuata con fonte legislativa, per la determinazione di
quanto previsto nell’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione e che
questa determinazione è intervenuta appunto con il D.P.C.M. 29 novembre 2001”.
Alla luce di ciò, sebbene l’inserimento nel secondo comma dell’art. 117 del
nuovo Titolo V° della Costituzione, fra le materie di legislazione esclusiva dello
Stato, abbia comportato che la "determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il
territorio nazionale" sia attribuita al legislatore statale come fondamentale
strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformità di trattamento
sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di
autonomia regionale e locale decisamente accresciuto, comunque tale potere può, in
uno Stato regionale, essere giustificato se, la conseguente forte incidenza
sull’esercizio delle funzioni nelle materie assegnate alle competenze legislative ed
amministrative della Regione e delle Province Autonome, sia preceduta da forme di
concertazione, ed, al contempo, siano scelte operate dallo Stato con legge, che dovrà
inoltre determinare adeguate procedure e precisi atti formali per procedere alle
specificazioni ed articolazioni ulteriori che si rendano necessarie nei vari settori.
In conclusione, dunque, l’interesse nazionale sopravvive, ma è arricchito dal
fattore della leale collaborazione come criterio generale che deve conformare la
gestione della Repubblica a tutti i livelli.
Tra tutte le pronunce dei primi del 2003, un valore particolare ha la sentenza 2628 marzo 2003 n.94, nella quale la Corte, torna per l’ennesima volta a riflettere sul
proprio ruolo nella gestione dell’entrata a regime della riforma del 2001.
Di tale pronuncia non è tanto importante la questione di specie affrontata (cioè
l’impugnata Legge Regione Lazio 6 dicembre 2001 n.31, in materia di locali storici,
risolta con dichiarazione d’inammissibilità e, per alcuni articoli, d’infondatezza
della questione di costituzionalità sollevata dal Governo376), ma la premessa che
risiede a tale decisione. Infatti, al secondo punto delle considerazioni in diritto, la
Corte afferma che: “In linea preliminare va respinta l’eccezione di parziale
inammissibilità del ricorso sollevata dalla difesa della Regione Lazio sulla base
dell’assunto che l’attuale art.127 Cost. limiterebbe l’impugnabilità delle leggi
regionali alla sola violazione delle regole relative alla loro competenza, e non
consentirebbe di dedurre la violazione di altre disposizioni costituzionali o dei
parametri legislativi interposti”, continuando ad osservare che “anche
prescindendosi dal fatto che il primo comma del nuovo art.127 della Costituzione
ammette il ricorso del Governo in termini identici a quelli utilizzati nel terzo comma
del previgente art.127 Cost., deve notarsi che i rilievi di costituzionalità sollevati
sono tutti relativi o riconducibili all’art.117 della Costituzione”.
Alla luce di ciò, la Corte, rilevava che tra le molteplici ripercussioni che la
riforma del Titolo V° ha avuto sull’intero ordinamento giuridico, ve ne sono state
alcune che si sono riverberate direttamente sulla Corte costituzionale. Il riferimento
e, ovviamente, all’art.127 Cost., a seguito della quale il giudizio in via principale ha
376
In riferimento vedi le motivazioni di cui ai punti n.3 e 4 delle Considerazioni in diritto di tale
pronuncia.
258
subito una ristrutturazione volta a parificare la posizione di Regioni e Stato, fatta
eccezione delle cause d’invalidità denunciabili dalle une o dall’altro.
Sul nuovo giudizio in via principale, la dottrina ha già avuto modo di
soffermarsi, accogliendo favorevolmente una riforma che ha, almeno in parte,
ammodernato le vie d’accesso alla giurisdizione costituzionale377, ed osservando che
le conseguenze di sistema sul funzionamento della Corte costituzionale non si
arrestano, però, alla modifica del procedimento d’instaurazione, essendo stata, la
riforma, foriera di conseguenze di ampio respiro che, movendo dal giudizio in via
principale, si sono irradiate sull’organo di giustizia costituzionale nel suo complesso
(vedi, ad esempio, la crescita esponenziale del numero dei ricorsi, gli aggiustamenti
procedurali volti a fronteggiarla, fino alla progressiva collocazione della Corte al
centro della dialettica politica).
Con tale pronuncia, la Corte è stata chiamata a riflettere a lungo prima di
prendere partito in ordine ai vizi rilevabili in via principale, da ciò dipendendo la
conformazione complessiva degli assetti istituzionali, in via di ridefinizione lungo
direttrici e verso esiti ad oggi largamente imprevedibili.
Con la decisione, qui annotata, la Corte, parrebbe voler preferire una linea di
fedele continuità rispetto al passato378, mostrandosi però, in tal modo, insensibile a
quella opzione di fondo a favore della piena “parità delle armi” che è una delle cifre
maggiormente identificanti ed espressive del nuovo modello (quanto meno, con
specifico riguardo al piano delle esperienze processuali). Non è detto, per la verità,
che imbocchi con decisione siffatto percorso, (e mi auguro che possa esservi presto
l’occasione per un ripensamento o, quanto meno, per una, almeno parziale,
correzione di rotta), di sicuro, tuttavia, v’è il dato per cui la Corte non ha colto
l’occasione, offertale dal ricorso governativo e dalle ragioni opposte dalla Regione
resistente, per far luogo a quell’ampia ed argomentata riflessione sull’eccezione di
(parziale) inammissibilità sollevata, dalla Regione stessa, sul ricorso suddetto, a
motivo del suo carattere “debordante” dal vizio di incompetenza. Anzi, la partita è
stata, sul punto, sbrigativamente chiusa, col solo riferimento alla dizione letterale del
nuovo art.127 ed alla sua esteriore coincidenza con l’originario dettato
costituzionale. Dopo di che, la Corte, fa notare che i rilievi di costituzionalità sono,
ad ogni buon conto, “relativi o riconducibili all’art. 117 della Costituzione”, così da
legittimare il passaggio al merito. Sennonché proprio il punto toccato dalla resistente
(una questione, ancora aperta, scaturita dal nuovo corpo costituzionale) avrebbe di
sicuro meritato una più adeguata considerazione di quella data con tale pronunzia.
La Corte fa dunque leva sul solo aspetto apparentemente rimasto immutato degli
enunciati, con ciò però trascurando la sostanza profondamente diversa, negli stessi
racchiusa. Nulla, infatti, dice a riguardo del fatto, che la tecnica di riparto delle
materie è stata ribaltata rispetto al passato, di modo che di “eccedenza” dalla
competenza, a rigore, si dovrebbe propriamente discorrere con riguardo alle leggi
dello Stato, e non a quelle delle Regioni: le une, a differenza delle altre, disponendo
di ambiti materiali (se non ristretti, comunque) tassativamente enumerati, entro i
377
In tal senso, vedi (una per tutti), Groppi T. in “La l. cost. 3/01 tra attuazione e auto-applicazione” in
Groppi-Olivetti, “La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo V°”, Torino,
2001, pagg.219 ss.
378
Vedi anche il riferimento, nel punto 4.1 delle C.i.D., alla sentenza n.282 del 2002, per la quale le
Regioni, per poter esercitare le proprie potestà legislative di tipo concorrente, non devono attendere
l’eventuale determinazione dei principi fondamentali dello Stato.
259
quali svolgersi, peraltro entro i limiti segnati dal valore di autonomia e dagli altri
valori coi quali quest’ultimo fa “sistema”.
In definitiva si deve osservare che, la Consulta, ha ritenuto di aver pienamente
assolto il compito al quale era chiamata, arrestandosi alla piatta constatazione
dell’assonanza linguistica di formule atomisticamente (e cioè asistematicamente)
considerate, cosa, di certo, non incoraggiante per gli sviluppi futuri della
giurisprudenza sul punto, specie considerando che, qui come altrove, potrebbe
ripetersi ciò che è tante volte accaduto, e cioè che “sulla punta di spillo di
un’affermazione fatta al volo o, addirittura, sfuggita all’estensore per un mero
lapsus calami, possa essere man mano eretto un edificio giurisprudenziale
evidentemente incapace di reggersi su quelle sole, fragili o, diciamo pure,
inconsistenti basi”379. La speranza è, allora, che si tratti di una paura eccessiva, alla
quale si potrebbe opporre che ormai non v’è più ragione di alimentare ulteriormente
siffatti timori, spazzati via, risolutamente e definitivamente, dalla riforma del 2001.
Ma, se ricordiamo che, al pari d’ogni enunciato positivo, gli esiti di tale riforma
dipendono da operatori (e, tra questi, particolarmente della Corte, che riprende tale
impostazione, ad esempio, anche nella sentenza n.201 del 2003), non è forse
inopportuno chiedersi, oggi, se il nuovo diritto costituzionale vivente si orienti verso
quell’equilibrio tra unità ed autonomia con fermezza descritto nell’art. 5 della
Costituzione ovvero se non si manifestino, ad oggi timidamente e domani invece in
modi assai più decisi, i germi di un ritorno all’antico.
In una particolare veste (nella specie la veste dei limiti territoriali) l’interesse
nazionale si è posto anche nella sentenza n.196 del 2003, laddove il Governo ha
impugnato con due distinti ricorsi due leggi regionali, rispettivamente della Regione
Calabria (reg. ric. n. 36 del 2002) e della Regione Abruzzo (reg. ric. n. 38 del
2002)380, contestando anzitutto il dubbio che spetti al legislatore regionale integrare
l’art. 126 della Costituzione, in tema di scioglimento del Consiglio regionale e, in
via subordinata, sostenendo che: la legge regionale contrasterebbe con la riserva di
legge statutaria di cui all’art. 123, primo comma, della Costituzione, concorrendo
essa a disciplinare la forma di governo della Regione e i principi fondamentali di
organizzazione e di funzionamento della stessa; che la legge regionale non distingue
tra i differenti casi di scioglimento del Consiglio, cioè quello disposto con Decreto
del Presidente della Repubblica ai sensi dell’art.126, primo comma, della
Costituzione, per atti contrari alla Costituzione o per gravi violazioni di legge o per
ragioni di sicurezza nazionale, quello conseguente alla morte, all’impedimento
permanente o alle dimissioni del Presidente della Regione o a voto di sfiducia nei
suoi confronti, quello conseguente alle dimissioni contestuali della maggioranza dei
componenti del Consiglio, nonché il caso, assimilabile per gli effetti, di pronuncia
giurisdizionale che annulli gli atti del procedimento elettorale; che la legge
impugnata sarebbe illegittima anche perché non circoscrive l’esercizio delle
funzioni del Consiglio prorogato ai soli atti urgenti, ed in quanto estende al
379
L’affermazione è tratta da Ruggeri A. in “Riforma del titolo V delle leggi regionali: verso la conferma
della vecchia giurisprudenza?” sul forum di Quad. Cost.
380
La legge regionale della Calabria 15 marzo 2002, n. 14, reca "Disposizioni sulla prorogatio degli
organi regionali". L’art. 1 della legge (l’unico a contenuto normativo: l’art. 2 prevede l’anticipata entrata
in vigore della stessa legge) stabilisce che "Nel caso di scioglimento del Consiglio regionale, il Presidente
della Regione, la Giunta regionale e il Consiglio continuano ad esercitare le loro funzioni fino
all’insediamento rispettivamente del nuovo Presidente della Regione e del nuovo Consiglio regionale".
260
Consiglio regionale una misura temporanea che sarebbe, a tutto concedere,
applicabile soltanto alla Giunta.
Ma tra tutte, la parte che qui mi interessa è quella in cui contestava che, una
prima ragione di illegittimità costituzionale, sarebbe stata riscontrabile nel contrasto
con l’art.117, secondo e quarto comma, della Costituzione, il quale coinvolgerebbe
quasi tutto il testo legislativo, e dovrebbe ravvisarsi nella formulazione degli artt.2,
3 e 4 della legge regionale, in quanto il legislatore regionale avrebbe sostituito
disposizioni della legge statale n.108 del 1968 senza curarsi di stabilire il limite
territoriale di efficacia delle nuove disposizioni, così che, a rigore, esso avrebbe
inciso sull’efficacia di quest’ultima legge in tutto il territorio nazionale. A tale
obiezione la Corte rispose che non è però condivisibile la censura di carattere
generale mossa dal ricorrente agli artt.2, 3 e 4 della legge della Regione Abruzzo,
che sarebbero in contrasto con il limite territoriale della legge regionale e con l’art.
117, secondo e quarto comma, della Costituzione, in quanto, si osservava che, la
legge regionale, non potrebbe sostituire disposizioni di una legge statale, facendo
venir meno l’applicabilità delle disposizioni sostituite in tutto il territorio nazionale.
In realtà la legge statale continua a spiegare l’efficacia che le è propria; la legge
regionale non fa che introdurre una disciplina materialmente identica, in cui le
disposizioni che vengono dettate in "sostituzione" di quelle corrispondenti della
legge dello Stato esplicano tale effetto sostitutivo solo con riguardo alla sfera di
efficacia della legge regionale di "recepimento", senza intaccare la diversa sfera di
efficacia della legge statale. E quindi dimostrando come tale obiezione fosse tanto
insensata quanto possibile grazie alla sopravvivenza di un concetto non solo non
scomparso ma, anzi, rafforzatosi a seguito della riforma del 2001.
Su tale scia si è posta la successiva sentenza n.228 del 2003, in cui la Regione
Toscana impugnava, in via principale, l’intero decreto-legge 7 settembre 2001, n.
343 (Disposizioni urgenti per assicurare il coordinamento operativo delle strutture
preposte alle attività di protezione civile), con cui il Governo sopprimeva l’Agenzia
di protezione civile, già istituita e disciplinata dal capo IV del Titolo V° del decreto
legislativo 30 luglio 1999, n. 300 (Riforma dell’organizzazione del Governo, a
norma dell’art. 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59).
Secondo la ricorrente, il decreto-legge impugnato avrebbe violato gli artt.5, 117
e 118 della Costituzione, sotto il profilo della lesione del principio della leale
collaborazione fra Stato e Regioni: a) in quanto la soppressione dell’Agenzia aveva
fatto venir meno una sede istituzionale di raccordo e concertazione in materia di
protezione civile; b) in quanto tale soppressione era disposta dal Governo senza la
preventiva sottoposizione del testo del decreto-legge al parere della Conferenza
Stato-Regioni pur non ricorrendo una situazione d’urgenza (che comunque avrebbe
dovuto essere dichiarata dal Presidente del Consiglio, e avrebbe imposto una
consultazione successiva).
La normativa impugnata contrasterebbe inoltre con l’art.76 della Costituzione,
per la lesione delle attribuzioni regionali causata dal contenuto di un decreto-legge
emanato in difetto dei presupposti di necessità e urgenza.
Secondo le ricorrenti, le norme censurate avrebbero violato gli artt.5, 95, 117 e
118 della Costituzione, sotto il profilo della lesione del principio di leale
collaborazione fra Stato e Regioni, nonché l’art.2, commi 4 e 5, del decreto
legislativo n. 281 del 1997 e l’art.77 della Costituzione, in quanto il decreto-legge,
261
concernente una materia di competenza anche regionale, era emanato senza la previa
necessaria consultazione della Conferenza Stato-Regioni (e senza indicazione di
specifiche ragioni di urgenza giustificatrici della mancata consultazione preventiva).
Gli stessi parametri costituzionali e il principio di leale collaborazione sarebbero
inoltre violati sotto l’ulteriore profilo che gli strumenti di collaborazione previsti
dalla precedente normativa non sono stati sostituiti da altri equivalenti
Detto ciò, è bene osservare che, la Corte, nel dichiarare inammissibili i ricorsi
osservava che la vicenda normativa presentava la peculiarità di un decreto legge
emesso (ed impugnato) nel contesto del previgente sistema costituzionale di
ripartizione delle attribuzioni tra Stato e Regioni, cui si è sostituita una legge di
conversione promulgata sotto il vigore del sistema riformato.
Inoltre, la legge di conversione aveva apportato al testo originario rilevanti
modificazioni determinate, tra l’altro, dall’accoglimento di specifiche proposte
emendative avanzate dai rappresentanti di Enti Locali, Regioni e Province
Autonome in sede di Conferenza Unificata, la quale ha conseguentemente espresso
parere favorevole sul disegno di conversione (seduta dell’11 ottobre 2001). In
particolare, era stato completamente riscritto proprio l’art.5 del decreto-legge,
oggetto di gran parte delle censure concernenti l’attribuzione al Presidente del
Consiglio dei poteri di coordinamento prima svolti dalla soppressa Agenzia, che
avrebbe determinato, secondo le ricorrenti, l’eliminazione degli strumenti di
collaborazione previsti dalla normativa previgente e la conseguente sottrazione alle
Regioni della funzione di indirizzo (anche) ad esse spettante. Tra le altre, infatti,
all’originario testo del comma 1 dell’art. 5 è stata infatti aggiunta l’istituzione presso
la Presidenza del Consiglio dei Ministri di un Comitato paritetico Stato-RegioniEnti Locali, nel quale la Conferenza Unificata di cui al decreto legislativo n. 281 del
1997 avrebbe dovuto designare i propri rappresentanti. Quindi, il nuovo contesto
normativo era evidentemente diverso da quello che aveva dato origine alle
impugnazioni, e adesso teneva ampiamente conto delle critiche mosse dalle Regioni
ricorrenti alla mancanza di strumenti collaborativi (tanto che la Regione Toscana ha
concluso chiedendo a questa Corte di prendere atto del suo sopravvenuto difetto di
interesse al ricorso).
Ma, a prescindere da quali furono le conclusioni a cui si giunse, ciò che qui mi
interessa osservare è che i motivi dell’impugnazione non riguardarono tanto la
concentrazione in capo alla Presidenza del Consiglio di poteri di coordinamento
della protezione civile (il cui coordinamento nazionale rappresentava di certo un
interesse da tutelare), quanto piuttosto la mancanza di forme di concertazione con le
altre realtà territoriali (cosa a cui la successiva legge di conversione aveva posto
rimedio) rinnovando quanto detto sopra, e cioè che il limite degli interessi nazionali
tutelati dallo Stato è perfettamente adeguato al nostro sistema costituzionale postriforma solo se contemperato da forme di leale collaborazione.
Sulla scia della giurisprudenza precedente viene emanata la sentenza 8-24 luglio
2003 n.274 in cui si affronta il ricorso presentato dal Presidente del Consiglio dei
Ministri contro gli artt.3 e 4 della legge Regione Sardegna 8 luglio 2002 n.11
(riportante “Norme varie in materia di personale regionale e modifiche alla legge
regionale 13 novembre 1998, n. 31”), per contrasto con gli artt.3, primo comma, 97,
primo e terzo comma, 51, primo comma, e 81 della Costituzione, nonché con le
“relative norme interposte e per inosservanza dei limiti posti dall’art. 3 della legge
262
costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna) alle
competenze legislative della Regione”.
Le censure addotte dal ricorrente furono diverse381 e diverse furono le soluzioni
accolte dalla Corte382 , ma sebbene sia indubbio l’interesse anche gius-lavoristico
che in essa risedette383, in questa sede, sorvolando, dunque, sulle conclusioni cui la
Corte è giunta, sono altri gli aspetti che suscitano interesse.
Un primo, riguarda il punto 2.1 delle considerazioni in diritto, nella parte in cui,
la Corte, ritenendo infondata un’eccezione d’inammissibilità del ricorso, sollevata
dalla resistente, affronta il tema del riformato equilibrio istituzionale nei rapporti tra
Stato e Regioni.
381
Le censure furono:
a) per l’art.3 di data legge381 (il quale prevedeva l’immissione diretta di personale nei ruoli organici della
Regione), si contestava che, la stessa, avrebbe rappresentato una deroga ingiustificata alla regola del
concorso pubblico per l’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni, posta dall’art. 97 della
Costituzione, violando, altresì, la legislazione statale in tema di addetti a lavori socialmente utili, per i
quali la riserva è limitata al solo 30 per cento dei posti381, e contestando, al comma 5 dell’art. 3, che tali
disposizioni contrasterebbero con “l’art. 81 della Costituzione” e con il “patto di stabilità interna”, in
quanto “la previsione di spesa a regime merita una verifica” non prevista;
b) per l’art.4 di essa381, invece, si eccepiva che le modifiche apportate a disposizioni di leggi precedenti in
materia (anche non impugnate dallo Stato), dalle lettere b, d ed e di tale norma (riguardanti: 1.
l’introduzione nell’art. 77 del comma 2-bis, secondo cui “hanno comunque titolo alla qualifica di
dirigente” i dipendenti con determinati requisiti, fra i quali non ricorre la laurea; 2. l’aumento dal 75% al
90% della quota dei posti dirigenziali, rimasti vacanti dopo gli inquadramenti, riservata al concorso
interno; 3. l’abrogazione del comma 10 dell’art. 77, che prevedeva concorsi pubblici per l'accesso alla
dirigenza), contrastassero con gli artt. 3, primo comma, 97, primo e terzo comma, e 51 della Costituzione,
integrati da norme interposte, quali l’art. 1, comma 3, e l’art. 28, comma 1, del decreto legislativo 3
febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione
della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n.421) e
l’art. 51 della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali): questi parametri infatti,
esigendo che, l’accesso alla qualifica di dirigente di ruolo avvenisse mediante concorso o procedura
selettiva di pari serietà (aperti soltanto a soggetti muniti di laurea), non consentono il ricorso a concorsi
interni per coprire la quasi totalità delle vacanze, e, non permettono, che la dirigenza divenga, per il
cumulo di attribuzioni ope legis e di concorsi interni, un’ulteriore prosecuzione della “progressione
verticale” della carriera.
382
In merito alle censure mosse contro l’art.3, la Corte rispose che: la censura di violazione dell’art. 81
della Costituzione (prospettata in relazione al comma 5 della norma impugnata) è inammissibile per
assoluta genericità (osservava che : “La motivazione sulla non manifesta infondatezza si riduce infatti
all’apodittico richiamo all’opportunità di verificare la previsione di spesa, in riferimento al patto di
stabilità interna”); mentre, le altre questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 3 della legge
regionale, vengono dichiarate non fondate (accogliendo, piuttosto, la tesi della resistente, per cui si
sosteneva che la recente riforma costituzionale, abbia fatto venir meno il limite costituito dall’obbligo di
rispettare le norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica); ed osservando,
infine, che tale articolo non lede nemmeno gli art.3 e 97 Cost., in quanto la giurisprudenza della Corte, ha
già sostenuto in passato (vedi sentenza n.517 del 2002) che, alla regola del concorso pubblico, possa
derogarsi qualora ricorrano particolari situazioni che lo rendano ragionevole.
Per le censure mosse contro l’art.4, invece, essa si pronunciò favorevolmente al ricorso (e dichiarò
l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, lettere b, d ed e, della legge della Regione Sardegna 8 luglio 2002,
n. 11) poiché in tale norma, per l’accesso alla qualifica dirigenziale dell’amministrazione regionale (e
degli enti regionali), ravvisò l’introduzione di una disciplina che (per l’effetto congiunto dell’attribuzione
di tale qualifica senza concorso, dei concorsi riservati, e dell’abrogazione della previsione legislativa dei
concorsi pubblici per i posti dirigenziali residui) comporterebbe una deroga ingiustificata all’art. 97 della
Costituzione.
383
In tal senso vedi Salomone R. in “Nessun dubbio sulla collocazione del lavoro pubblico rispetto al
riparto delle competenze delineato dal nuovo art.117Cost.?”, pubblicato il 6 ottobre 2003 sul forum di
Quad. Cost.
263
Essa, infatti, pone il problema se nell’assetto derivato dalla riforma del Titolo V°
della Parte II della Costituzione, introdotta dalla legge costituzionale 18 ottobre
2001 n. 3, lo Stato, impugnando in via principale una legge regionale, possa dedurre
come parametro violato qualsiasi norma costituzionale, oppure solo quelle
concernenti il riparto delle competenze legislative.
Il problema è prospettato in quanto, il ricorso dello Stato, denuncia la violazione,
non solo dell’art. 3 dello Statuto Regione Sardegna, relativo ai limiti della potestà
legislativa regionale, ma anche degli artt.3, 51, 81 e 97 della Costituzione, che non
riguardano direttamente tali limiti.
Prima della ricordata riforma, la giurisprudenza costituzionale (dalla sentenza n.
30 del 1959), aveva ritenuto che lo Stato, a differenza delle Regioni, fosse
legittimato ad evocare qualsiasi parametro costituzionale, pur se non direttamente
relativo a delimitazioni di competenze.
Questo orientamento si riconduceva alla differenza tra il testo (originario)
dell’art.127 della Costituzione e quello dell’art.2, comma 1, della legge
costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e
sulle garanzie di indipendenza della Corte costituzionale). Infatti, il primo
(prevedendo il ricorso dello Stato contro la legge della Regione che “ecceda la
competenza” regionale) consentiva di ravvisare tale “eccesso” nel contrasto della
legge impugnata con qualsiasi principio costituzionale. Invece il secondo (relativo al
ricorso della Regione contro la legge dello Stato o d’altra Regione che “invada la
sfera di competenza” della ricorrente) induceva a ritenere che potesse essere dedotta
solo la violazione di parametri (costituzionali e interposti) incidenti, direttamente o
indirettamente, sul riparto delle competenze. Era evidente l’asimmetria fra i
parametri rispettivamente deducibili ed il risultato che da tale impostazione si
ottenne, fu l’estrema ambiguità del giudizio in via principale (il quale veniva ad
abbracciare due processi, quali quello dello Stato contro le leggi regionali e quello
delle Regioni contro leggi statali, distinti e diversi sia sul piano della collocazione
temporale che su quello dell’interesse a ricorrere).
Ma, come osserva la Corte, quantunque la riforma del 2001 avesse radicalmente
mutato il testo dell’art.127 della Costituzione, il primo comma continuava (e
continua) a prevedere l’impugnazione da parte del Governo della legge regionale
che “ecceda la competenza” della Regione. Il secondo comma invece concerne
l’impugnazione, da parte della Regione, della legge dello Stato (o d’altra Regione)
che “leda la sua (della Regione ricorrente) sfera di competenza”, così conservando
la diversità rispetto alla disciplina del ricorso dello Stato, con una formulazione
sostanzialmente simile a quella dell’art.2 della legge costituzionale n.1 del 1948.
Come osservò, dunque, parte della dottrina, il legislatore avrebbe perso così
l’occasione, riformando il Titolo V°, di risolvere quest’equivoca diversità di
posizioni tra Stato e Regioni.
Come la Corte affermò, certamente il mero dato testuale (già richiamato dalla
Corte nella sentenza n. 94 del 2003) non era decisivo ai fini della soluzione del
problema, ben potendo una norma conservare nel tempo la formulazione originaria e
tuttavia consentire una diversa interpretazione in ragione del successivo mutamento
del contesto nel quale essa è inserita.
264
E proprio sul piano sistematico si è talora rilevato come l’insieme delle
modifiche apportate dalla riforma costituzionale del 2001 al quadro complessivo dei
rapporti fra Stato e Regioni porti ad escludere la persistenza della ricordata
asimmetria. In questa prospettiva sono apparsi particolarmente rilevanti l’art.114,
che pone sullo stesso piano lo Stato e le Regioni, come entità costitutive della
Repubblica, accanto ai Comuni, alle Città Metropolitane e alle Province; l’art.117,
che ribalta il criterio prima accolto, elencando specificamente le competenze
legislative dello Stato e fissando una clausola residuale e generale in favore delle
Regioni; e infine l’art.127, che configura il ricorso del Governo contro le leggi
regionali come successivo, e non più preventivo.
Ma (ai fini di individuare il contenuto di tale ricorso governativo), la Corte,
osservò che fosse decisivo rilevare come, nel nuovo assetto costituzionale, scaturito
dalla riforma, allo Stato sia pur sempre riservata, nell’ordinamento generale della
Repubblica, una posizione peculiare desumibile non solo dalla proclamazione di
principio di cui all’art.5 della Costituzione, ma anche dalla ripetuta evocazione di
un’istanza unitaria, manifestata dal richiamo al rispetto della Costituzione, nonché
dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali,
come limiti di tutte le potestà legislative (art.117, comma 1) e dal riconoscimento
dell’esigenza di tutelare l’unità giuridica ed economica dell’ordinamento stesso
(art.120, comma 2). E tale istanza postula necessariamente che nel sistema esista un
soggetto (lo Stato, appunto) avente il compito di assicurarne il pieno
soddisfacimento.
Lo stesso art.114 Cost. non comporta affatto (osservò la Corte) una totale
equiparazione fra gli enti in questo indicati, che dispongono di poteri profondamente
diversi tra loro, basti considerare che: “solo allo Stato spetta il potere di revisione
costituzionale e che i Comuni, le Città metropolitane e le Province (diverse da
quelle autonome) non hanno potestà legislativa”.
In conclusione, pur dopo la riforma, continua a valere quel sistema secondo cui
lo Stato può impugnare in via principale una legge regionale deducendo la
violazione di qualsiasi parametro costituzionale.
Alla luce di tale lettura della Corte, si evidenzia come il problema qui posto
sorge da scarsa chiarezza ed incompletezza della riforma del 2001 (di cui ho già
parlato) che richiama l’attuazione di una vera svolta regionalista agli interpreti del
diritto, nella speranza che siano loro (ed in specie la Corte Costituzionale) a colmare
le lacune, e completare gli sforzi di cambiamento, da tale riforma solo iniziati. Ma,
la sentenza in analisi non fa che alimentare quei sospetti per i quali, tali speranze,
sono state, in gran parte, mal riposte384 e che, sicuramente, meglio sarebbe stato se il
legislatore avesse svolto i propri compiti fino in fondo, invece di lasciare, una
riforma così importante, a metà (e per di più per motivazioni prettamente politiche).
Una cosa però è da notare. La Corte nell’affrontare il problema in questione non
interviene (nemmeno con la precedente sentenza n.94/’03) sull’altro ramo del
giudizio costituzionale per via principale (vale a dire, quello concernente
l’impugnazione di leggi statali, da parte delle Regioni, per “lesione di competenza”).
Tale silenzio, potrebbe intendersi come consapevole e voluto al fine di lasciare
384
In merito è bene osservare che la Corte ha evidenziato come con la riforma del 2001 nulla sia cambiato
sul piano “dell’interesse a ricorrere”. Ciò ha fatto con la sentenza n.94/03. Lo stesso sta facendo con la
pronuncia in analisi, in cui, anzi, ha ampliato la portata di tale lettura ponendola, questa volta, anche, in
maniera più chiara ed esplicita.
265
aperta la questione del significato d’interesse a ricorrere e mantenendosi all’interno
del campo interpretativo del vizio aggredito con il ricorso, senza andare oltre385.
Altro aspetto, molto interessante, è la lettura che al punto 3.2 delle
Considerazioni in Diritto, la Corte fa delle questioni di legittimità costituzionale
mosse contro l’art.3 della legge regionale in questione, in cui si affronta il problema
del limite delle riforme economiche e sociali. In tale punto la Corte afferma che se
(in riferimento alle citate aree) il vincolo di quel limite permanesse pur nel nuovo
assetto costituzionale, “la potestà legislativa esclusiva delle Regioni (e Province)
autonome sarebbe irragionevolmente ristretta entro confini più angusti di quelli che
oggi incontra la potestà legislativa residuale delle Regioni ordinarie”.
Per esse, infatti, (nelle materie di cui al quarto comma del nuovo art.117 della
Costituzione) valgono soltanto i limiti di cui al primo comma dello stesso articolo
(e, se del caso, quelli indirettamente derivanti dall’esercizio da parte dello Stato
della potestà legislativa esclusiva in materie suscettibili, per la loro configurazione,
di interferire su quelle in esame), onde devono escludersi ulteriori limiti derivanti da
leggi statali già qualificabili come norme fondamentali di riforma economicosociale.
Pertanto (ai sensi dell’art.10 della legge costituzionale n.3 del 2001) la
particolare forma di autonomia, così emergente dal nuovo art.117 della
Costituzione, in favore delle Regioni ordinarie, si applica anche alle Regioni a
Statuto Speciale, come la Sardegna, ed alle Province Autonome, in quanto più
ampia rispetto a quelle previste dai rispettivi statuti.
Da questa ricostruzione (pienamente conforme al criterio interpretativo
enunciato dalla precedente sentenza n.103 del 2003) discese la decisione della
Corte, la quale, rilevando che, essendo la materia dello stato giuridico ed economico
del personale della Regione Sardegna, e degli enti regionali, riservata dall’art. 3, lett.
a), dello statuto, alla legislazione esclusiva della Regione, ed essendo l’analoga
materia, per le Regioni a statuto ordinario, riconducibile al quarto comma dell’art.
117, la tesi sostenuta nel ricorso, secondo cui la legge regionale avrebbe dovuto
rispettare le disposizioni statali recanti norme fondamentali di riforme economicosociali, non può essere accolta.
Nonostante quest’ultima concessione, però, l’indicazione della Corte in ordine
alla posizione dello Stato nel sistema definito con la riforma del 2001, presenta una
valenza interpretativa del testo costituzionale che comporta rilevanti implicazioni,
che peraltro non sono sufficientemente esplicitate nelle motivazioni della stessa
sentenza in analisi. In particolare l’individuazione di una posizione peculiare dello
Stato appare significativa, soprattutto se rivista alla luce della limitata attenzione
prestata alla nozione di Repubblica che, invece, proprio a seguito dell’introduzione
del nuovo art.114 Cost. appare assumere il valore d’istituto complesso e autonomo
rispetto agli enti che lo costituiscono386. Come giustamente osserva la Corte, la
385
In tal senso vedi l’analisi fatta da Bessi D. in “L’interesse a ricorrere nel giudizio in via principale nel
titolo V novellato: verso una conferma della giurisprudenza antiregionalistica della Corte
costituzionale?” pubblicato sia sul forum di Quad. Cost. che è in corso di pubblicazione su Le Regioni,
2003, fascicolo n.6.
Vedi anche Drago F. in “Il soddisfacimento delle istanze unitarie giustifica la vecchia giurisprudenza in
merito ai vizi delle leggi regionali” pubblicato l’11 settembre 2003 sul sito www.federalismi.it .
386
In tal senso vedi Dickmann R. in “Spetta allo Stato la responsabilità di garantire il pieno
soddisfacimento delle istanze unitarie previste dalla Costituzione”, pubblicato il 25 settembre 2003 sul
sito www.federalismi.it .
266
differenziazione degli enti indicati nell’articolo (Comuni, Province, Regioni e
Stato), sembra discendere non solo implicitamente dal sistema delle competenze, ma
anche dal tenore dello stesso articolo. Tuttavia lo Stato sembra rilevare come «ente
nella Repubblica», non diversamente dagli altri enti autonomi che la compongono.
Pertanto, dopo la riforma del 2001, la Repubblica sembra rilevare in termini
oggettivi originali come risultante unitaria di un sistema di enti, e di funzioni,
autonomi statali e locali tra loro differenziati. Ciò che risalta in questa visione è
dunque che, la differenziazione delle autonomie locali non è un valore indipendente
dall’unità finale della Repubblica. In tale senso, nel momento in cui la Corte
sostiene che la “ripetuta evocazione di un’istanza unitaria” non si risolve a livello di
principi ma postula che nel sistema esista un soggetto avente il compito di
assicurarne il pieno soddisfacimento, allora la Repubblica si potrebbe dire
pienamente realizzata solo se esiste un sistema di garanzie che consenta l’azione
delle autonomie riconosciute dalla Costituzione, il quale operi, senza contraddire la
sua forma unitaria ed i valori ad essa riconducibili, in una dimensione finale di
ordine costituzionale. In tal modo di deve intendere che tali compiti di
soddisfacimento delle istanze unitarie sono intesi come affidati allo Stato, essendo
ad esso riconosciuti, in via esclusiva, i concreti poteri per far ciò.
Ma, ciò che bisogna, adesso, chiedersi è se tale lettura sia conforme ad un
regionalismo collaborativo come quello di cui da tanto si discute.
E’ evidente che, la Corte, si mostra consapevole del fatto che, dopo la riforma
del 2001, l’antica asimmetria sul piano dei vizi non avrebbe potuto essere, a cuor
leggero, riproposta poiché non sarebbe stata accolta. Il cambiamento, dunque, c’è.
Dice, però, la Corte che se, da un canto, va ormai esclusa “la persistenza della
ricordata asimmetria”, neppure tuttavia si ha “una totale equiparazione fra gli enti”
menzionati nell’art.114, adducendo a sostegno di quest’ultima affermazione alcuni
elementi incontrovertibili.
La Corte trascura di soffermarsi sul fatto che tutti gli enti nominati nell’art.114
sono chiamati a farsi portatori, sia pure in forme e con ruoli complessivamente
peculiari di ciascuno, di unità, così come, di rovescio, lo stesso Stato è chiamato a
promuovere ed a preservare l’autonomia. L’unica unità che lo Stato è chiamato a
tutelare e, ancora prima, a ricostruire e rigenerare sin dalle sue fondamenta giorno
dopo giorno coi suoi atti e, in genere, la sua attività, è l’unità che dinamicamente si
persegue e realizza attraverso la valorizzazione dell’autonomia, non già a discapito
o con l’insensato sacrificio di questa. È vero, ovviamente, anche l’inverso: che
l’autonomia si concreta ed appaga per intero unicamente nella cornice di un’unità
effettiva e non meramente nominale o di facciata, vale a dire di un’unità poggiante
su una base di valori fondamentali generalmente accolti e condivisi. Non v’è,
dunque, alcun rapporto di proporzionalità inversa tra i valori suddetti ma semmai
(volendo continuare a ragionare nella prospettiva usuale della loro artificiale
distinzione) di proporzionalità tout court: l’uno potendo crescere e svilupparsi
unicamente grazie all’altro e nell’identica misura di questo. Certo, ha ragione la
Corte nel dire che, allo Stato è riservata una “posizione peculiare” in seno
all’ordinamento, e che pertanto le prestazioni di unità dallo stesso offerte sono
qualitativamente e quantitativamente diverse da quelle provenienti da altri. Anzi, a
dirla tutta, l’affermazione della Corte è di una tale, disarmante, ovvietà da non
richiedere altra notazione a suo commento. Ma, non bisogna dimenticare che, anche
la Regione ha una posizione altrettanto “peculiare” ed è in grado di offrire a modo
267
suo, vale a dire col fatto stesso dell’esercizio costituzionalmente rispettoso delle
competenze ad essa assegnate, il suo indefettibile apporto alla costruzione ed al
mantenimento dell’unità. D’altronde, per chiudere sul punto, lo stesso dettato
costituzionale, così come rifatto dalla riforma, rende un’espressiva testimonianza del
fatto che l’unità si costruisce “dal basso”, e non discende o s’impone dall’alto (ex
art.114).
Ciò che dunque avviene è che, con misurata ambiguità, la Corte, si tiene
oscillante tra vecchio e nuovo, dove il vecchio è il sistema dei ricorsi statuali
(secondo cui non cambia nulla) e il nuovo è il sistema dei ricorsi regionali (su cui,
ho già notato, la Corte non dice nulla). Inquieta non poco la circostanza per cui,
anziché far opera di chiarezza all’interno di un quadro costituzionale che ne avrebbe
un disperato bisogno, esibendo non poche timidezze espressive ed anche qualche
problematica di concordanza interna, la giurisprudenza, a volte, abbia la
propensione ad accrescere, ad arte, la confusione esistente, a mezzo di sibilline ed
ondivaghe affermazioni, promettenti per le Regioni ma prive di immediate e
tangibili concessioni, ma, malgrado ciò, tale sentenza si pone come una delle più
importanti per l’argomento trattato in quanto si gettano, ufficialmente, le basi
ideologiche per giustificare la sopravvivenza (anzi il rafforzamento) del parametro
di interesse nazionale a seguito della riforma del 2001.
Di questi ultimi anni, però, la pronuncia più importante in materia di
regionalismo è stata la sentenza 25 settembre – 1 ottobre 2003 n.303. Con essa si
sono toccati tantissimi punti della materia regionalistica lasciati aperti ed irrisolti
dalla riforma del 2001 e che ancora aspettano una soluzione.
Volendo dare una visione del contenuto di tale pronuncia, comincio dal
precisare che in essa vennero riuniti e risolti, numerosi ricorsi presentati dalle
Regioni Marche, Toscana, Umbria, Emilia Romagna, Campania, Basilicata,
Lombardia, e dalle Province Autonome di Trento e di Bolzano, contro la legge 21
dicembre 2001 n.443 (riportante “Delega al Governo in materia di infrastrutture ed
insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività
produttive”, c.d. legge obiettivo), nei commi dal primo al dodicesimo ed il
quattordicesimo dell’articolo unico della legge; contro la successiva legge di
modifica 1° agosto 2002 n.166 (riportante “Disposizioni in materie di infrastrutture
e trasporti”, ai commi 1, 3, 4, 5, 6, 11 dell’art.13); e contro i successivi decreti di
attuazione D.Lgs. nn. 190 e 198 del 2002. Tutti impugnati per questione di
legittimità costituzionale in merito agli artt.3, 9, 32, 41, 42, 44, 70, 76, 77, 97, 114,
117, 118, 119, 120 della Costituzione, nonché con l’art.174 del Trattato istitutivo
della Comunità Europea e con lo statuto speciale del Trentino Alto-Adige (nel testo
approvato con D.P.R. n.670 del 1972).
La Corte, prima di analizzare i ricorsi presentati, si preoccupò di operare una
veloce analisi della normativa impugnata.
Al punto 2 delle considerazioni in diritto, essa, si soffermò sul contenuto della
legge n.443 del 2001, osservando che si trattava di una disciplina il cui scopo era di
“definire il procedimento da seguire per l’individuazione, la localizzazione e la
realizzazione delle infrastrutture pubbliche e private e degli insediamenti produttivi
strategici di preminente interesse nazionale da realizzare per la modernizzazione e
lo sviluppo del Paese”.
268
Il procedimento in esso disciplinato, affidava il compito di individuare le
suddette opere, da assolversi “nel rispetto delle attribuzioni costituzionali delle
Regioni”, al Governo (comma 1). Nella sua originaria versione la disposizione
stabiliva che l’individuazione avvenisse, sentita la Conferenza Unificata (D.Lgs. 28
agosto 1997, n. 281), a mezzo di un programma “formulato su proposta dei Ministri
competenti, sentite le Regioni interessate, ovvero su proposta delle Regioni, sentiti i
Ministri competenti”. Il programma doveva tener conto del piano generale dei
trasporti e doveva essere inserito nel Documento di programmazione economicofinanziaria (D.P.E.F.), con l’indicazione degli stanziamenti necessari per la
realizzazione delle opere. Nell’individuare le infrastrutture e gli insediamenti
strategici, il Governo era tenuto a procedere “secondo finalità di riequilibrio socioeconomico fra le aree del territorio nazionale” e ad indicare nel disegno di legge
finanziaria “le risorse necessarie, che integrano i finanziamenti pubblici, comunitari
e privati allo scopo disponibili”. L’originario comma 1 prevedeva, infine, che “in
sede di prima applicazione della presente legge il programma è approvato dal
Comitato interministeriale per la programmazione economica (C.I.P.E.)”.
Il comma 1, dell’art. 1 legge n. 443 del 2001, venne poi modificato dall’art.13,
comma 3, della legge 1° agosto 2002 n. 166, che mantenne in capo al Governo
l’individuazione delle infrastrutture e degli insediamenti strategici e di preminente
interesse nazionale, al contempo elevando il livello di coinvolgimento delle Regioni
e delle Province Autonome, introducendo espressamente un’intesa: in base a tal
nuovo art. 1, comma 1, di tale legge, l’individuazione delle opere si definiva a
mezzo di un programma predisposto dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti
“d’intesa con i Ministri competenti e le Regioni o Province Autonome
interessate”. Tale programma andava inserito sempre nel D.P.E.F. ma previo parere
del C.I.P.E. e “previa intesa della Conferenza unificata”, e gli interventi in questo
preveduti, andavano “automaticamente inseriti nelle intese istituzionali di
programma e negli accordi di programma quadro nei comparti idrici ed
ambientali… e sono compresi in un’intesa generale quadro avente validità
pluriennale tra il Governo e ogni singola Regione o Provincia Autonoma, al fine del
congiunto coordinamento e realizzazione delle opere”. Tale normativa, ad oggi
ancora in vigore, anche nella sua attuale versione, ribadisce tuttavia che “in sede di
prima applicazione della presente legge il programma è approvato dal CIPE”.
Regolata la fase d’individuazione delle infrastrutture e degli insediamenti
produttivi strategici (e di preminente interesse nazionale), la legge n.443 del 2001, al
comma 2, conferiva, al Governo, la delega ad emanare, entro 12 mesi dall’entrata in
vigore della legge, uno o più decreti legislativi “volti a definire un quadro
normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli
insediamenti individuati ai sensi del comma 1”, dettando, alle lettere da a) ad o) del
medesimo comma 2, i principi e i criteri direttivi per l’esercizio del potere
legislativo delegato. Questi ultimi investono molteplici aspetti di carattere
procedimentale: sono fissati i moduli procedurali per addivenire all’approvazione
dei progetti, preliminari e definitivi, delle opere [lettere b) e c)], dovendo risultare,
quelli preliminari, “comprensivi di quanto necessario per la localizzazione
dell’opera d’intesa con la Regione o la Provincia Autonoma competente, che a tal
fine provvede a sentire preventivamente i Comuni interessati” (lett. b); sono
269
individuati i modelli di finanziamento (tecnica di finanza di progetto: lett. a), di
affidamento (contraente generale o concessionario: in particolare lett. e ed f) e di
aggiudicazione (lett. g e h), ed è predisposta la relativa disciplina, anche in deroga
alla legge 11 febbraio 1994, n.109, ma nella prescritta osservanza della normativa
comunitaria.
L’assetto procedimentale così sinteticamente descritto (che trova ulteriore
svolgimento in numerose altre disposizioni della legge n.443 del 2001, tra le quali
quelle sulla disciplina edilizia, nei commi da 6 a 12 e comma 14, anch’esse
impugnate) si completava con il comma 3-bis (introdotto dal comma 6 dell’art.13
della legge n.166 del 2002), il quale prevedeva una procedura di approvazione dei
progetti definitivi, alternativa a quella stabilita dal precedente comma 2, e
demandata ad un Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri previa
deliberazione del CIPE integrato dai Presidenti delle Regioni e Province Autonome
interessate, sentita la Conferenza Unificata e previo parere delle competenti
commissioni parlamentari.
Fatta quest’analisi, la Corte, procedette a risolvere i ricorsi seguendo tre
direttive.
Una prima, riguarda le dichiarazioni d’inammissibilità che furono fatte per le
seguenti cause, contemplate nelle considerazioni in diritto:
a) punto 3.1, per il ricorso presentato dalla Provincia Autonoma di Trento, la
causa fu il rigetto della censura mossa, che si limitava a denunciare la violazione di
competenze più ampie (rispetto a quelle date dalla statuto della Provincia stessa)
derivanti dall’art.117 Cost., in base all’art.10 della legge cost. n.3/’01, in quanto si
eccepiva che “Ai fini di una corretta instaurazione del giudizio di legittimità
costituzionale la ricorrente non poteva limitarsi al mero richiamo all’art.117 Cost.”
avendo l’onere, quanto meno, di individuare, tali maggiori competenze, nel
raffronto con le competenze statutarie;
b) punto 3.2, si ribadiva che, nei giudizi di legittimità costituzionale in via
principale, non è ammessa la presenza di soggetti diversi dalla parte ricorrente e
dal titolare della potestà legislativa il cui esercizio è oggetto di contestazione (vedi,
da ultimo, le sentenze n.49 del 2003, n.533 e n.510 del 2002, n.382 del 1999), per
cui erano inammissibili i ricorsi presentati con l’intervento aggiunto di Lega
Ambiente, Ass. Italia Nostra e W.W.F. (per le stesse ragioni vedi anche
l’inammissibilità dichiarata al punto 34, in merito a ricorso presentato contro il
D.Lgs. n.198/02387);
c) punto 5, in cui si rigetta l’insieme dei ricorsi presentati contro il comma 2
dell’art.1 della legge n.443 del 2001, in quanto la Corte precisa che si è in presenza
di una disciplina particolarmente complessa che insiste su una pluralità di materie,
tra loro intrecciate, ascrivibili non solo alla potestà legislativa concorrente ma anche
a quella esclusiva dello Stato (ad esempio la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema),
osservando che “le censure mosse dalle ricorrenti non raggiungono il livello di
specificità che si richiede ai fini di uno scrutinio di merito” (in tal senso vedi la
sentenza n.384 del 1999), poiché “nei motivi di ricorso non vi è neppure una
387
La Corte osservava che “Gli interventi spiegati dalle società H3G s.p.a., T.I.M. s.p.a. – Telecom Italia
Mobile, Vodafone Omnitel N.V. (già Vodafone Omnitel s.p.a.), Wind Telecomunicazioni s.p.a. e quelli
proposti, peraltro tardivamente, dai Comuni di Pontecurone, Monte Porzio Catone, Roma, Polignano a
Mare, Mantova e del Coordinamento delle associazioni consumatori (CODACONS), devono essere
dichiarati inammissibili, per le stesse ragioni esposte nel paragrafo 3.2 della presente sentenza”.
270
sintetica esposizione delle ragioni per cui le disposizioni contenute nel comma 2
denunciato, singolarmente considerate, determinino una lesione delle attribuzioni
regionali”. Quindi il rigetto è conseguenza dell’eccessiva genericità, causa, questa,
che ha portato alle dichiarazioni d’inammissibilità anche ai punti: 9, contemplante il
ricorso presentato contro il comma 4 dell’art.1, l.n.443/’01; 22, relativamente
all’art.3 del D.Lgs. n.190/’02; 25, per i ricorsi mossi contro gli artt.4, 5, 6, 7, 8, 9,
10, 11 del D.Lgs. n.190/’02; 29, relativamente all’impugnativa dell’art.16 stesso
decreto n.190;
d) punto 14, in cui la Provincia di Trento si vede respinto il ricorso contro il
D.Lgs.n.190/’02, per ritardo nella presentazione dello stesso (ex art.32, terzo
comma, della legge n.87/’53);
e) punto 33, inerente il ricorso presentato contro il D.Lgs. n.198/’02 perché
presentato da un ente pubblico territoriale non legittimato (nella specie il Comune di
Vercelli).
Una seconda riguardò le dichiarazioni di non fondatezza dei ricorsi dichiarati
ammissibili. Essi furono (sempre guardando alle considerazioni in diritto della
pronuncia stessa):
a)
al punto 4, riguardo ai ricorsi presentati dalle Regioni Marche, Toscana,
Umbria ed Emilia Romagna, in cui si censurava l’art.1 della legge n.443/’01,
contestandone la violazione dell’art.117 Cost., in quanto si sarebbe trattato di
materia devoluta allo Stato senza che ciò fosse contemplato nello stesso articolo
costituzionale, né come competenza legislativa esclusiva, né come concorrente (cosa
che, anche se fosse, si osservava, non avrebbe fatto venire meno le censure, dato che
si trattava di disposizioni di dettaglio e non di principio). Si aggiungeva che si
ritenevano, per gli stessi motivi, lesi anche gli art.118 e 119 negl’ivi sanciti principi
d’adeguatezza, differenziazione e sussidiarietà. E, si concludeva osservando che, la
procedura di co-decisione prevista e disciplinata nella normativa impugnata, non era
per niente sufficiente a garantire “una reale forma di coordinamento paritario, in
assenza di meccanismi atti ad impedire che essa sia recessiva dinanzi al preminente
potere dello Stato, che potrebbe procedere anche a fronte del motivato dissenso
Regionale”. A ciò la Corte rispose dichiarando la non fondatezza della questione
perché “nel caso presente, l’assenza di un richiamo espresso all’art. 118, primo
comma, non fa sorgere alcun dubbio circa l’oggettivo significato costituzionale
dell’operazione compiuta dal legislatore: non di lesione di competenza delle
Regioni si tratta, ma di applicazione dei principi di sussidiarietà e adeguatezza”,
che, la Corte afferma, da soli possono consentire quell’attrazione, allo Stato, di
funzioni amministrative in sussidiarietà, ponendosi in deroga al normale riparto
delle competenze stabilito nell’art.117 Cost. La stessa, osserva che “Predisporre un
programma di infrastrutture pubbliche e private e di insediamenti produttivi è
attività che non mette capo ad attribuzioni legislative esclusive dello Stato, ma che
può coinvolgere anche potestà legislative concorrenti. Per giudicare se una legge
statale che occupi questo spazio sia invasiva delle attribuzioni regionali o non
costituisca invece applicazione dei principi di sussidiarietà e adeguatezza diviene
elemento valutativo essenziale la previsione di un’intesa fra lo Stato e le Regioni
interessate, alla quale sia subordinata l’operatività della disciplina”.
271
Nella specie, la Corte riconosce che l’intesa è prevista e ad essa è da ritenersi
che il legislatore abbia voluto subordinare l’efficacia stessa della regolamentazione
delle infrastrutture e degli insediamenti contenuta nel programma di cui
all’impugnato comma 1, dell’art. 1.
La stessa continuava osservando che: “Nel congegno sottostante all’art. 118,
l’attrazione allo Stato di funzioni amministrative da regolare con legge non è
giustificabile solo invocando l’interesse a un esercizio centralizzato di esse, ma è
necessario un procedimento attraverso il quale l’istanza unitaria venga saggiata
nella sua reale consistenza e quindi commisurata all’esigenza di coinvolgere i
soggetti titolari delle attribuzioni attratte, salvaguardandone la posizione
costituzionale”. Infatti, riconosce che nell’articolarsi del procedimento, ben può
darsi che, al riscontro concreto delle caratteristiche oggettive dell’opera e
dell’organizzazione di persone e mezzi che essa richiede per essere realizzata, la
pretesa statale di attrarre in sussidiarietà le funzioni amministrative, ad essa relative,
risulti vanificata, perché l’interesse sottostante, quale che ne sia la dimensione,
possa essere interamente soddisfatto dalla Regione, la quale, nel contraddittorio,
ispirato al canone di leale collaborazione, che deve instaurarsi con lo Stato, non solo
alleghi, ma argomenti e dimostri la propria adeguatezza e la propria capacità di
svolgere in tutto o in parte la funzione.
L’esigenza costituzionale che la sussidiarietà non operi come aprioristica
modifica delle competenze regionali in astratto, ma come metodo per l’allocazione
di funzioni a livello più adeguato, secondo la Corte, risulta, dunque, appagata dalla
disposizione impugnata nella sua attuale formulazione.
b)
Al punto 6, in riferimento ai ricorsi presentati da Umbria, Toscana ed
Emilia-Romagna (contro le lett.c, g, e n del comma 2 della legge n.443/’01) per un
presunto contrasto con la normativa europea (nella specie la direttiva 93/37/CEE e
la direttiva 89/665/CEE), la Corte dichiarò la questione non fondata in quanto,
osservava che alla lett.g, tale norma “non autorizza il Governo a violare il diritto
comunitario: al contrario si prevede che la deroga non debba riguardare gli aspetti
aventi necessaria rilevanza comunitaria”, mentre per la lett.n respinse il ricorso per
difetto di interesse e, per la lett.c dichiarò la infondatezza perché “Contrariamente a
quanto dedotto dalla ricorrente, la disposizione impugnata, nell’attribuire al CIPE,
integrato dai Presidenti delle Regioni e delle Province autonome interessate, il
compito di approvare i progetti preliminari e definitivi delle opere individuate nel
programma di cui al comma 1, non circoscrive affatto il ruolo delle Regioni (o delle
Province Autonome) a quello meramente consultivo, giacché queste, attraverso i
propri rappresentanti, sono a pieno titolo componenti dell’organo e partecipano
direttamente alla formazione della sua volontà deliberativa, potendo quindi far
valere efficacemente il proprio punto di vista”.
272
c) Al punto 11, in cui si affrontano i ricorsi presentati dalle Regioni Umbria,
Toscana ed Emilia-Romagna, contro i commi dal 6 al 12 e il 14 dell’art.1 legge
n.443/’01388, nei quali si assume che lo Stato avrebbe violato la competenza
residuale delle Regioni in materia edilizia e, subordinatamente, avrebbe leso, con
una disciplina di dettaglio, la competenza regionale concorrente in materia di
388
Di cui: il comma 6 prevede che, per determinati interventi, in alternativa a concessioni ed
autorizzazioni edilizie, l’interessato possa avvalersi della denuncia di inizio attività (D.I.A.). L’alternativa
riguarda in particolare: a) gli interventi edilizi minori, di cui all’art. 4, comma 7, del decreto-legge n. 398
del 1993 (convertito nella legge n. 493 del 1993); b) le ristrutturazioni edilizie, comprensive della
demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma; c) gli interventi ora sottoposti a
concessione, se sono specificamente disciplinati da piani attuativi che contengono precise disposizioni
plano-volumetriche, tipologiche, formali e costruttive, la cui sussistenza sia stata esplicitamente dichiarata
dal consiglio comunale in sede di approvazione degli stessi piani o di ricognizione di quelli vigenti; d) i
sopralzi, le addizioni, gli ampliamenti e le nuove edificazioni in diretta esecuzione di idonei strumenti
urbanistici diversi da quelli indicati alla lett.c, ma recanti analoghe previsioni di dettaglio. Rimane ferma
la disciplina previgente quanto all’obbligo di versare il contributo commisurato agli oneri di
urbanizzazione ed al costo di costruzione (comma 7).
Il comma 8 stabilisce che la tutela storico-artistica o paesaggistico-ambientale per la realizzazione
degli interventi di cui al comma 6 sia subordinata al preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione
richiesti dalle disposizioni di legge vigenti e in particolare dal testo unico delle disposizioni legislative in
materia di beni culturali e ambientali, di cui al decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490.
Il comma 9 e il comma 10 contengono la disciplina relativa al caso in cui le opere da realizzare
riguardino immobili soggetti a un vincolo la cui tutela competa, anche in via di delega,
all’amministrazione comunale (comma 9) ovvero soggetti a un vincolo la cui tutela spetti ad
amministrazioni diverse da quella comunale (comma 10). Nel primo caso è previsto che il termine per la
presentazione della denuncia di inizio attività, di cui all’art. 4, comma 11, del decreto-legge 5 ottobre
1993, n. 398, decorre dal rilascio del relativo atto di assenso. Nel secondo caso si prevede che, ove il
parere favorevole del soggetto preposto alla tutela non sia allegato alla denuncia, il competente ufficio
comunale convoca una conferenza di servizi ai sensi degli artt. 14, 14-bis, 14-ter e 14-quater della legge 7
agosto 1990, n.241, e il termine di venti giorni per la presentazione della denuncia di inizio dell’attività
decorre dall’esito della conferenza. Tanto nel caso in cui l’atto dell’autorità comunale preposta alla tutela
del vincolo non sia favorevole, quanto nel caso di esito non favorevole della conferenza, la denuncia di
inizio attività è priva di effetti.
Il comma 11, a sua volta, abroga il comma 8 dell’art. 4 del decreto-legge n. 398 del 1993, il quale
prevedeva la possibilità di procedere ad attività edilizie minori sulla base di denuncia inizio attività a
condizione che gli immobili non fossero assoggettati alle disposizioni di cui alla legge n. 1089 del 1939,
alla legge n. 1497 del 1939, alla legge n. 394 del 1991, ovvero a disposizioni immediatamente operative
dei piani aventi la valenza di cui all’art. 1-bis del decreto-legge n. 312 del 1985, convertito nella legge n.
431 del 1985, o dalla legge n. 183 del 1989, o che non fossero comunque assoggettati dagli strumenti
urbanistici a discipline espressamente volte alla tutela delle loro caratteristiche paesaggistiche, ambientali,
storico-archeologiche, storico artistiche, storico architettoniche e storico testimoniali.
In base al comma 12 le disposizioni di cui al comma 6 “si applicano nelle Regioni a Statuto
Ordinario a decorrere dal novantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge” e “le
Regioni a Statuto Ordinario, con legge, possono individuare quali degli interventi indicati al comma 6
sono assoggettati a concessione edilizia o ad autorizzazione edilizia”. Con il comma 14 viene delegato il
Governo ad emanare, entro il 30 giugno 2003, un decreto legislativo volto a introdurre nel testo unico
delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui all’art. 7 della legge n. 50 del
1999, e successive modificazioni, le modifiche strettamente necessarie per adeguarlo alle disposizioni di
cui ai commi da 6 a 13 (quest’ultima disposizione, non denunciata, fa salva la potestà legislativa esclusiva
delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e di Bolzano).
E’ importante rilevare che il comma 12 è stato modificato dall’art. 13, comma 7, della legge n. 166 del
2002, il quale ha aggiunto alla versione originaria le seguenti disposizioni: “salvo che le leggi regionali
pubblicate prima della data di entrata in vigore della presente legge siano già conformi a quanto previsto
dalle lettere a), b), c) e d) del medesimo comma 6, anche disponendo eventuali categorie aggiuntive e
differenti presupposti urbanistici. Le Regioni a statuto ordinario possono ampliare o ridurre l’ambito
applicativo delle disposizioni di cui al periodo precedente”.
273
governo del territorio. A tali censure la Corte rispose per l’infondatezza delle
questioni chiarendo che “le norme impugnate perseguono il fine, che costituisce un
principio dell’urbanistica, che la legislazione regionale e le funzioni amministrative
in materia non risultino inutilmente gravose per gli amministrati e siano dirette a
semplificare le procedure e ad evitare la duplicazione di valutazioni
sostanzialmente già effettuate dalla pubblica amministrazione” e, in quanto tali, non
presentano alcun profilo d’incostituzionalità389.
d) Al punto 12, in cui si respingono i ricorsi contro la legge n.166/’02 per gli
stessi motivi sui quali si sono respinte le censure contro l’art.1 della legge n.443/’01.
e) Al punto 15, per il ricorso presentato dalla Provincia di Bolzano contro il
D.Lgs. n.190/’02, in cui si afferma l’infondatezza perché “La pretesa avanzata dalla
Provincia di Bolzano è quella di rimanere indenne dall’obbligo di applicazione
immediata nel proprio territorio della disciplina contenuta nella disposizione
impugnata. Un’applicazione immediata, tuttavia, è esclusa dallo stesso art.1, il
quale fa salve le competenze delle Province Autonome e delle Regioni a Statuto
Speciale”.
f) Al punto 16, in cui le Regioni Marche e Toscana censuravano l’art.1, comma
5, del D.Lgs. n.190/’02, per lesione dell’art.117 Cost. (poiché, si denunciava, che si
sarebbe trattato di norme di dettaglio e quindi andate al di la di quanto consentito
dalla potestà concorrente di cui all’art.117, comma 3, Cost.). A tali censure la Corte,
affermandone l’infondatezza, osservò che “Non può negarsi che l’inversione della
tecnica di riparto delle potestà legislative e l’enumerazione tassativa delle
competenze dello Stato dovrebbe portare ad escludere la possibilità di dettare
norme suppletive statali in materie di legislazione concorrente”, tuttavia,
riconosceva che una simile lettura dell’art.117 avrebbe svalutato la portata
precettiva dell’art.118, primo comma, che consente l’attrazione allo Stato, per
sussidiarietà e adeguatezza, delle funzioni amministrative e delle correlative
funzioni legislative. Secondo la Corte “La disciplina statale di dettaglio a carattere
suppletivo determina una temporanea compressione della competenza legislativa
regionale che deve ritenersi non irragionevole, finalizzata com’è ad assicurare
l’immediato svolgersi di funzioni amministrative che lo Stato ha attratto per
soddisfare esigenze unitarie e che non possono essere esposte al rischio della
ineffettività”. La stessa affermava che, del resto, il principio di cedevolezza
affermato dall’impugnato art.1, comma 5, operasse a condizione che tra lo Stato, le
Regioni e le Province Autonome interessate fosse raggiunta l’intesa di cui al comma
1, nella quale si fossero concordemente qualificate le opere in cui l’interesse
regionale concorre con il preminente interesse nazionale e si sia stabilito in che
termini e secondo quali modalità le Regioni e le Province Autonome avrebbero
partecipato alle attività di progettazione, affidamento dei lavori e monitoraggio.
g) Al punto 17, in cui si rigetta la censura all’art.1, comma 7, lett.e, del D.Lgs.
n.190/’02 in quanto si osserva che nel definire opere per le quali l’interesse
regionale concorre con il preminente interesse nazionale “le infrastrutture… non
aventi carattere interregionale o internazionale per le quali sia prevista, nelle intese
389
Precisando, ulteriormente che “La materia del contendere in relazione ai commi 6 e 12 non è dunque
cessata, come invece vorrebbe l’Avvocatura generale dello Stato, ma le censure che le Regioni Umbria
ed Emilia-Romagna hanno tenute ferme nei confronti di queste disposizioni non possono essere accolte,
giacché, anche dopo le sopravvenute modificazioni del comma 12, le disposizioni impugnate si limitano a
porre principi e non costituiscono norme di dettaglio”.
274
generali quadro, di cui al comma 1, una particolare partecipazione delle Regioni o
Province autonome alle procedure attuative” e opere di carattere interregionale o
internazionale “le opere da realizzare sul territorio di più Regioni o Stati, ovvero
collegate funzionalmente ad una rete interregionale o internazionale” non vi era
alcun eccesso di delega dato che “l’art. 1 del decreto legislativo n. 190 fa
riferimento a infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi strategici e
di preminente interesse nazionale, e non parla mai di opere di interesse regionale”.
h) Al punto 18, in cui la Provincia di Bolzano denuncia l’art.2, comma 1,
D.Lgs. n.190/’02 per la violazione dell’art.16 dello statuto Trentino Alto-Adige e
l’art.4, comma 1, del D.Lgs. n.266/’92, ed alla quale censura, la Corte,
respingendola, risponde osservando che, la ricorrente, “omette di considerare che
tra gli oggetti riconducibili alla propria competenza rientrano solo opere o lavori
pubblici di interesse provinciale, ai quali il decreto legislativo n.190 non è
applicabile” (per lo stesso motivo vedi anche al punto 19, dove si rigetta il ricorso
proposto dalla Provincia di Bolzano contro l’art.2, commi 2, 3, 4 e 5 dello stesso
decreto).
i) Al punto 20, in cui le Regioni Toscana e Marche censuravano l’art.2, comma
5, del D.Lgs. n.190/’02, il quale prevedeva che per la nomina di commissari
straordinari (incaricati di seguire l’andamento delle opere aventi carattere
interregionale o internazionale), dovevano essere sentiti i Presidenti delle Regioni
interessate. Le ricorrenti lamentavano la violazione degli artt.117 e 118 Cost., e del
principio di leale collaborazione, che, a loro giudizio, avrebbe imposto il
coinvolgimento della Regione nella forma dell’intesa. La questione, venne ritenuta
non fondata, in quanto si osservò che, la disposizione impugnata prevedeva una
forma di vigilanza sull’esercizio di funzioni che, in quanto assunte per sussidiarietà,
erano qualificabili come statali, e non vi era alcuna prescrizione costituzionale dalla
quale potesse desumersi che il livello di collaborazione regionale dovesse consistere
in una vera e propria intesa, “anziché, come è previsto per le opere interregionali e
internazionali, nella audizione dei Presidenti delle Regioni e delle Province
Autonome in sede di nomina del commissario straordinario”.
l) Al punto 21, in cui si affrontano i ricorsi presentati dalle Regioni Toscana e
Marche contro l’art.2, comma 7, del D.Lgs. n.190/’02, nella parte in cui tale norma
consente al Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro delle
Infrastrutture e Trasporti, sentiti, per le infrastrutture di competenza dei soggetti
aggiudicatori regionali, i Presidenti delle Regioni e delle Province Autonome, di
abilitare i commissari straordinari ad adottare, con poteri derogatori della normativa
vigente i provvedimenti e gli atti di qualsiasi natura necessari alla sollecita
progettazione, istruttoria, affidamento e realizzazione delle infrastrutture e degli
insediamenti produttivi, in sostituzione dei soggetti competenti. Se ne denunciava,
infine, il contrasto con gli artt.117, 118 e 120 della Costituzione. Ma, anche qui,
constatando l’infondatezza delle questioni, si osservava che “le infrastrutture di
competenza dei soggetti aggiudicatori regionali sono quelle in relazione alle quali,
nelle intese previste dal comma 1 dell’art.1 del decreto legislativo n. 190, si è
riconosciuto che l’interesse regionale concorre con un interesse statale preminente”
e dunque, la Corte riconosceva opportuno che “Ad evitare che le esigenze unitarie,
sottostanti alla realizzazione di tali opere, possano restare insoddisfatte a causa
dell’inerzia del soggetto aggiudicatore regionale, allo Stato, sono conferiti poteri
sollecitatori”.
275
m) Al punto 24, in cui le Regioni ricorrenti denunciavano i commi 6 e 9
dell’art.3 del D.Lgs. n.190/’02, i quali, nel prevedere che lo Stato potesse procedere
comunque all’approvazione del progetto preliminare relativo alle infrastrutture di
carattere interregionale e internazionale superando il motivato dissenso delle
Regioni, violerebbero gli artt.114, commi primo e secondo, 117, commi terzo,
quarto e sesto, e 118, commi primo e secondo, della Costituzione. Le Regioni, si
osserva nei ricorsi, sarebbero state relegate in posizione di destinatarie passive di
provvedimenti assunti a livello statale in materie che sono riconducibili alla potestà
legislativa concorrente. Anche qui, però, la Corte, si pronunciò per l’infondatezza
della questione sostenendo che le procedure di superamento del dissenso regionale
fossero diversificate (ed analizzandole nel dettaglio)390. Per le stesse motivazioni si
respinsero anche i ricorsi proposti contro l’art.4, comma 5, e art.13, comma 5, dello
stesso decreto.
390
In una prima ipotesi [art. 3, comma 6, lett. a] il dissenso può essere manifestato sul progetto
preliminare di un’opera che, in virtù di un’intesa fra lo Stato e la Regione o Provincia Autonoma, è stata
qualificata di carattere interregionale o internazionale. In questo caso il progetto preliminare è sottoposto
al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, alla cui attività istruttoria partecipano i rappresentanti delle
Regioni. A tale fine il Consiglio valuta i motivi del dissenso e l’eventuale proposta alternativa che, nel
rispetto della funzionalità dell’opera, la Regione o Provincia Autonoma dissenziente avessero formulato
all’atto del dissenso. Il parere del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici è rimesso al C.I.P.E. che, in
forza dell’art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 190, applicabile nella specie, è integrato dai
Presidenti delle Regioni e Province Autonome interessate. Se il dissenso regionale perdura anche in sede
C.I.P.E., il progetto è approvato con Decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del
Consiglio dei Ministri, sentita la Commissione Parlamentare per le Questioni Regionali. Va in primo
luogo rilevato che non si tratta qui di approvazione del progetto definitivo, ma solo di quello preliminare,
e che le opere coinvolte non sono qualificate di carattere regionale. Risponde quindi al principio di
sussidiarietà e all’istanza unitaria che lo sorregge, che possano essere definite procedure di superamento
del dissenso regionale, le quali dovranno comunque (come avviene nella specie) informarsi al principio di
leale collaborazione, onde offrire alle Regioni la possibilità di rappresentare il loro punto di vista e di
motivare la loro valutazione negativa sul progetto. Nessuna censura, in definitiva, può essere rivolta alla
disciplina legislativa, salva la possibilità per la Regione dissenziente di impugnare la determinazione
finale resa con Decreto del Presidente della Repubblica ove essa leda il principio di leale collaborazione,
sul quale deve essere modellato l’intero procedimento.
Nella seconda ipotesi (art. 3, comma 6, lett. b) il dissenso si manifesta sul progetto preliminare relativo a
infrastrutture strategiche classificate nell’intesa fra Stato e Regione come di preminente interesse
nazionale o ad opere nelle quali il preminente interesse statale concorre con quello regionale. Il
procedimento per superare il dissenso delle Regioni è diversamente articolato: si provvede in questi casi a
mezzo di un collegio tecnico costituito d’intesa fra il Ministero e la Regione interessata a una nuova
valutazione del progetto preliminare. Ove permanga il dissenso, il Ministro delle Infrastrutture e Trasporti
propone al C.I.P.E., sempre d’intesa con la Regione, la sospensione dell’infrastruttura, in attesa di una
nuova valutazione in sede di aggiornamento del programma oppure «l’avvio della procedura prevista in
caso di dissenso sulle infrastrutture o insediamenti produttivi di carattere interregionale o
internazionale». Il tenore letterale della disposizione porta a concludere che la necessità dell’intesa con la
Regione si riferisca non solo alla proposta di sospensione del procedimento, ma anche alla proposta di
avvio della procedura di cui alla lett.a dell’articolo in esame. Si consentirebbe insomma alla Regione, nel
caso di opere di interesse regionale concorrente con quello statale, di “bloccare” l’approvazione del
progetto ad esse relativo, in attesa di una nuova valutazione in sede di aggiornamento del programma.
276
n) Al punto 26, in cui si affronta il ricorso contro l’art.4, comma 5, del D.Lgs.
n.190/02, per violazione della delega in forza della quale è stato emanato (ex art.1,
comma 3-bis, legge n.443/01, come modificata dalla legge 166/02), la Corte
respinge il rilievo negando l’esistenza di questa violazione391 (sempre per eccesso di
delega si censura anche l’art.8 di tale decreto, ma anche in questo caso la Corte
rigetta la censura392).
o) Al punto 30, si affrontano i ricorsi con cui le Regioni Marche e Toscana
denunciano, in riferimento all’art.117 Cost., gli artt.17, 18, 19 e 20 del D.Lgs.
n.190/’02, nella parte in cui dettano una disciplina della procedura di valutazione di
impatto ambientale di opere e infrastrutture che derogherebbe a quella regionale, cui
dovrebbe riconoscersi la competenza a regolare gli strumenti attuativi della tutela
dell’ambiente. Per l’ennesima volta la Corte dichiarò le censure infondate
sostenendo anzi che, per le infrastrutture ed insediamenti produttivi di preminente
interesse nazionale, non vi era ragione di negare allo Stato l’esercizio della sua
competenza (tanto più, si osservò, che la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema
forma oggetto di una potestà esclusiva, ai sensi del secondo comma, lett.s,
dell’art.117), che è bensì interferente con una molteplicità di attribuzioni regionali
(in tal senso vedi le sentenze n.536 e n.407 del 2002), ma che non può essere
ristretta al punto di conferire alle Regioni, anziché allo Stato, ogni determinazione al
riguardo. Quando sia riconosciuto in sede di intesa un concorrente interesse
regionale, la Corte osserva che, la Regione può esprimere il suo punto di vista e
compiere una sua previa valutazione di impatto ambientale, ai sensi dell’art.17,
comma 4, ma il provvedimento di compatibilità ambientale deve essere comunque
adottato dal C.I.P.E., integrato dai Presidenti delle Regioni e delle Province
Autonome interessate. L’insieme di queste previsioni, secondo la Corte,
appresterebbe “garanzie adeguate a tutelare le interferenti competenze regionali”.
Infine, una terza direttrice, è rappresentata dalle censure mosse a tale
legislazione ed accolte dalla Corte. Esse sono elencabili nei seguenti punti:
a) al punto 7, in cui è dichiarata fondata la questione di legittimità
costituzionale (sollevata da tutte le ricorrenti) che investe l’art. 1, comma 3, della
legge n.443, nella parte in cui autorizza il Governo a integrare e modificare il
391
Sostenne che a prescindere dal rilievo che l’art. 1, comma 3-bis, della legge n. 443 del 2001, introdotto
dalla legge n.166 del 2002, non figura espressamente tra i criteri e principi direttivi per l’esercizio della
delega, e che è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo con la presente pronuncia, deve osservarsi
che l’art. 4, comma 5, costituisce attuazione del criterio di cui all’art. 1, comma 2, lettera c), della citata
legge n. 443 del 2001, come modificato dall’art.13, comma 6, della legge n. 166 del 2002, del quale si è
in precedenza escluso il dedotto profilo di lesione delle competenze regionali (punto 6.2.). Il sopra
indicato criterio prevedeva infatti che venisse affidata al C.I.P.E., integrato dai Presidenti delle Regioni o
Province Autonome interessate, l’approvazione del progetto preliminare e di quello definitivo. E che
l’operatività della disposizione impugnata presupponga che l’approvazione del progetto definitivo sia
effettuata dal C.I.P.E. in composizione allargata si ricava dall’art. 1, comma 2, dello stesso D.Lgs. n. 190,
il quale chiarisce che «l’approvazione dei progetti delle infrastrutture (quindi del progetto preliminare
come di quello definitivo) avviene d’intesa tra lo Stato e le Regioni nell’ambito del C.I.P.E. allargato ai
Presidenti delle Regioni e delle Province Autonome interessate».
392
La Corte afferma che l’interpretazione più piana e lineare della disposizione censurata è che debba
trattarsi delle opere inserite nel programma di cui al comma 1, e sulle quali si sia raggiunta l’intesa. Non è
quindi fondata la censura di violazione dell’art. 76 Cost. e neppure sussiste la violazione dell’art.117,
poiché il principio di sussidiarietà, come si è visto nel paragrafo 2.1, postula che allo Stato, una volta
assunta la funzione amministrativa, competa anche di regolarla onde renderne l’esercizio raffrontabile a
un parametro legale unitario.
277
regolamento di cui al D.P.R. n.554/’99, per renderlo conforme a quest’ultima legge
e ai decreti legislativi di cui al comma 2. In ciò, la Corte osserva “che ai
regolamenti governativi adottati in delegificazione fosse inibito disciplinare materie
di competenza regionale era già stato affermato da questa Corte avendo riguardo al
quadro costituzionale anteriore all’entrata in vigore della riforma del Titolo V°
della Parte II della Costituzione” (in tal senso vedi le sentenze n. 333 e n. 482 del
1995 e nella più recente sentenza n. 302 del 2003, in cui l’argomento, su cui è
incentrata la ratio decidendi, è che lo strumento della delegificazione non può
operare alla presenza di fonti tra le quali non vi siano rapporti di gerarchia ma di
separazione di competenze). Essa continuava osservando che, “solo la diretta
incompatibilità delle norme regionali con sopravvenuti principi o norme
fondamentali della legge statale può determinare l’abrogazione delle prime”. E, si
precisava che, la ragione giustificativa di tale orientamento si è rafforzata con la
nuova formulazione dell’art.117, sesto comma, Cost. (secondo il quale la potestà
regolamentare è dello Stato, salva delega alle Regioni, nelle materie di legislazione
esclusiva, mentre in ogni altra materia è delle Regioni). In un riparto così
rigidamente strutturato, si osservava, alla fonte secondaria statale è inibita in radice
la possibilità di vincolare l’esercizio della potestà legislativa regionale o di incidere
su disposizioni regionali preesistenti (vedi anche l’ordinanza n. 22 del 2003), e
neppure i principi di sussidiarietà e adeguatezza possono conferire ai regolamenti
statali una capacità che è estranea al loro valore, quella cioè di modificare gli
ordinamenti regionali a livello primario (si affermava che quei principi non privano
di contenuto precettivo l’art.117 Cost., pur se, alle condizioni e nei casi sopra
evidenziati, introducono in questo elementi di dinamicità intesi ad attenuare la
rigidità nel riparto di funzioni legislative ivi delineato). Concludendo che “Non può
quindi essere loro riconosciuta l’attitudine a vanificare la collocazione sistematica
delle fonti conferendo primarietà ad atti che possiedono lo statuto giuridico di fonti
secondarie e a degradare le fonti regionali a fonti subordinate ai regolamenti
statali o comunque a questi condizionate”, e quindi, se come già chiarito, alla legge
statale è consentita l’organizzazione e la disciplina delle funzioni amministrative
assunte in sussidiarietà, si decideva precisando che “la legge stessa non può
spogliarsi della funzione regolativa affidandola a fonti subordinate, neppure
predeterminando i principi che orientino l’esercizio della potestà regolamentare,
circoscrivendone la discrezionalità” (vedi anche il punto 28, in cui, per gli stesi
motivi, si rigetta, per infondatezza, il ricorso proposto contro l’art.15 del D.Lgs.
n.190/’02).
b) al punto 8, in cui si riconosce come fondata la questione di legittimità
costituzionale promossa contro l’art. 1, comma 3-bis, della legge n. 443 del 2001,
introdotto dall’art. 13, comma 6, della legge n.166 del 2002, proposta dalla Regione
Toscana lamentando la violazione degli artt.117 e 118 Cost., per il fatto che “alle
Regioni sarebbe stato riservato un ruolo meramente consultivo nella fase di
approvazione dei progetti definitivi delle opere individuate nel programma
governativo”. La disposizione denunciata consentiva che tale approvazione, in
alternativa alle procedure di cui al comma 2, avvenisse con Decreto del Presidente
del Consiglio dei Ministri, prevedendo, per questa procedura alternativa che, il
Decreto del Presidente del Consiglio fosse adottato previa deliberazione del C.I.P.E.
integrato dai Presidenti delle Regioni o delle Province Autonome interessate, sentita
la Conferenza Unificata e previo parere delle competenti commissioni
278
parlamentari. In ciò, la Corte osservava essersi realizzato un processo di
degradazione, della posizione del C.I.P.E., da organo di amministrazione attiva (nel
procedimento ordinario) ad organo che svolge funzioni preparatorie (nel
procedimento “alternativo”), portando alla conseguenza inevitabile secondo cui “la
partecipazione in esso delle Regioni interessate non costituisce più una garanzia
sufficiente, tanto più se si considera che non è previsto, nel procedimento
alternativo, alcun ruolo delle Regioni interessate nella fase preordinata al
superamento del loro eventuale dissenso”.
c) al punto 31, in cui si accoglie la censura mossa contro l’art.19, comma 2, del
D.Lgs. n.190/’02, il quale demandava la Valutazione di Impatto Ambientale (V.I.A.)
a una Commissione speciale istituita con Decreto del Presidente del Consiglio dei
Ministri, su proposta del Ministro dell’Ambiente. Le Regioni Toscana e Marche
lamentavano una lesione degli artt.9, 32, 117 e 118 Cost., per la mancata previsione
di una partecipazione regionale in tale commissione. La Corte, accolta tale censura
si premurava di specificare che anch’essa la riconosceva illegittima nella parte in
cui, per le infrastrutture e gli insediamenti produttivi strategici, per i quali sia stato
riconosciuto, in sede d’intesa, un concorrente interesse regionale, non prevedendo
che tale Commissione speciale VIA fosse integrata da componenti designati dalle
Regioni o Province autonome interessate, si poneva nell’ambito
dell’incostituzionalità.
d) al punto 35, in cui si accoglie l’impugnativa, per eccesso di delega (ex art.1,
comma 1, della legge n.443/’01), del D.Lgs. n.198/’02, nella parte in cui la
violazione denunciata risultava potenzialmente idonea a determinare una lesione
delle attribuzioni costituzionali delle Regioni (e Province Autonome) ricorrenti. Si
osservava che “nella specie non può negarsi che la disciplina delle infrastrutture di
telecomunicazioni strategiche, che si assume in contrasto con la legge di delega
n.443 del 2001, comprima le attribuzioni regionali sotto più profili”. Il più evidente
tra essi, secondo la Corte, risultava dalla lettura dell’art. 3, comma 2, del decreto,
secondo cui tali infrastrutture dovevano risultare compatibili con qualsiasi
destinazione urbanistica e, quindi, dovevano essere realizzabili “in ogni parte del
territorio comunale anche in deroga agli strumenti urbanistici e ad ogni altra
disposizione di legge o di regolamento”. Infatti, si concludeva riconoscendo che “In
questi casi la Regione è legittimata a far valere le proprie attribuzioni anche
allegando il vizio formale di eccesso di delega del decreto legislativo nel quale tale
disciplina è contenuta” e che, nella specie, l’eccesso di delega era evidente393.
393
La Corte osservava che, nella specie, l’evidente eccesso di delega, si palesava, a nulla rilevando, in
questo giudizio, la sopravvenuta entrata in vigore del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, recante il
Codice delle comunicazioni elettroniche, che riguarda in parte la stessa materia.
L’art. 1, comma 2, della legge n. 443 del 2001, che figura nel titolo del decreto legislativo impugnato, ha
conferito al Governo il potere di individuare infrastrutture pubbliche e private e insediamenti produttivi
strategici di interesse nazionale a mezzo di un programma formulato su proposta dei Ministri competenti,
sentite le Regioni interessate ovvero su proposta delle Regioni sentiti i Ministri competenti. I criteri della
delega, contenuti nell’art. 2, confermavano che i decreti legislativi dovevano essere intesi a definire un
quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti individuati
a mezzo di un programma.
Di tale programma non vi era alcuna menzione nel decreto impugnato, il quale al contrario prevedeva che
i soggetti interessati alla installazione delle infrastrutture erano abilitati ad agire in assenza di un atto che
identificasse previamente, con il concorso regionale, le opere da realizzare e sulla scorta di un mero piano
di investimenti delle diverse società concessionarie.
279
Detto ciò, forse, può sembrare esagerato affermare, che la pronunzia qui
annotata abbia inteso “riscrivere” il Titolo V°, se si considera che alcuni principi
enucleati dalla Corte si trovano in realtà già in nuce racchiusi nel Titolo stesso,
ponendosi quali possibili svolgimenti e forme di espressione del nuovo modello, in
conseguenza delle strutturali aperture semantiche di cui lo stesso è dotato. Allo
stesso tempo, però, per un verso, alcune affermazioni dalla Corte ora fatte sembrano
dar vita a nuovi principi, non riportabili, pur con le migliori intenzioni, al quadro
costituzionale così come ridisegnato dalla riforma. Per un altro verso, poi, si danno
alcune indicazioni idonee a proiettarsi ben oltre il pur vasto campo coperto dalla
revisione del Titolo V°, fino ad investire questioni cruciali di ordine teorico che si
situano al cuore del sistema e ne caratterizzano la dinamica interna complessiva.
Due sono i profili, tra i molti altri coinvolti da questa corposa decisione, che mi
interessa analizzare. Essi sono attinenti: a) all’assetto ordinamentale nel suo
insieme; b) all’ordine delle fonti, avuto specifico riguardo alle relazioni tra gli atti
normativi di Stato e Regione.
Ciò che subito colpisce è la centralità di posto assegnata all’amministrazione nel
quadro dei rapporti Stato-Regioni, così come ridefiniti dalla novella del 2001. Il suo
primato culturale rispetto alla legislazione non è una novità in seno alla vicenda
regionale, rivista in alcune delle sue più salienti ed espressive manifestazioni (si
rammenti, ad esempio, quanto s’è avuto in ordine alla ridefinizione delle materie, ad
opera della normativa di trasferimento delle funzioni, ed al parallelismo rovesciato
che è venuto conseguentemente ad impiantarsi tra le funzioni). D’altro canto, come
pure è assai noto, da tempo la più consapevole dottrina ha avvertito come l’avvento
di un ordinamento autenticamente federale (o, quanto meno, “parafederale”) debba
avere proprio nell’amministrazione il perno attorno al quale ruotare. E, tuttavia,
balza subito agli occhi la differenza tra il nuovo e il vecchio dettato costituzionale,
dove il parallelismo tra le funzioni, ripudiato senza rimpianti dal primo, assurgeva
invece nel secondo al rango di principio fondante dell’organizzazione su basi
decentrate.
La Corte dà ora l’impressione di muoversi in un ordine di idee che vede il
principio in parola costituire la filiazione necessaria e diretta del valore di unità,
dinamicamente inteso, al cui servizio si pone una sussidiarietà essa pure
dinamicamente vista, in accezione procedimentale e consensuale.
Nella cornice teorica, delineata con consumata abilità dalla Corte nella
pronunzia qui annotata, si comprende l’affermazione per cui, con l’attivazione della
sussidiarietà sul piano dell’amministrazione, volta alla allocazione in capo allo Stato
di funzioni spettanti alle Regioni, parallelamente dovrebbe, nel medesimo verso,
muoversi anche la legislazione, in deroga al quadro costituzionale delle competenze.
Solo che, se le cose stanno davvero così, sembra quasi che il parallelismo
costituisca una “qualità” intrinseca della distribuzione verticale delle funzioni, un
bene inalienabile dell’ordinamento, siccome indisponibile è il valore di unità, che
per il suo tramite dinamicamente si compone e rinnova.
Delle due, insomma, l’una. O si ritiene, con la comune dottrina, che il
parallelismo sia stato spazzato via dalla riforma, che ha anzi divaricato fino in fondo
la forbice tra le funzioni (le Regioni essendo per regola dotate di competenze sul
L’illegittimità dell’intero atto, concludeva la Corte, esimeva la stessa dal soffermarsi sulle singole
disposizioni oggetto di ulteriori censure, che restavano pertanto assorbite.
280
piano della normazione, i Comuni su quello dell’amministrazione); ed allora
dovrebbe dirsi che la legge di riforma abbia, per ciò solo, inciso sul valore di unità,
predisponendo le basi per il sistematico sacrificio degli interessi nazionali e, in
genere, per l’inadeguata cura degli interessi pubblici, quale che ne sia la dimensione
territoriale o la natura, conseguente all’irrigidimento del riparto materiale sul piano
della normazione. Oppure si ritiene (come ora mostra di ritenere la Corte) che il
parallelismo, al di là delle apparenze, non sia stato in realtà travolto dalla riforma e
possa dunque, sia pure in forma moderata, tornare a giocare un ruolo centrale in
occasione dell’esercizio delle funzioni in genere; ma, in tal caso, si fatica non poco a
comprendere per quale misteriosa ragione il legislatore del 2001 avrebbe
confezionato per il riparto delle funzioni stesse una veste assai diversa rispetto a
quella datagli nel quadro originario.
Si diceva esser moderato il nuovo parallelismo. La Corte pesa una ad una le
parole con cui lo presenta quale un’eccezione alla regola della competenza
legislativa delle Regioni, conseguente alla inversione della tecnica di riparto delle
materie. Insomma, è vero che, a seguito dell’attivazione dei poteri sussidiari sul
terreno dell’amministrazione, questi ultimi portano con sé a “rimorchio” anche la
legislazione (ma non pure la normazione regolamentare). Ciò, tuttavia, si ha
unicamente in ordine all’organizzazione ed alla regolazione delle funzioni
amministrative (che, però, com’è stato da tempo e diffusamente fatto notare,
costituiscono proprio l’oggetto prevalente, ancorché non esclusivo, delle discipline
regionali) e, soprattutto, al verificarsi delle seguenti due condizioni:
a) la sussistenza di una causa sostanziale giustificativa dell’intervento volto ad
attrarre allo Stato funzioni in sé regionali (o locali), per il cui accertamento si
richiede uno scrutinio severo di costituzionalità, nondimeno effettuato a mezzo della
tecnica, dotata di estrema flessibilità operativa (e però segnata da non poca
indeterminazione concettuale ed incertezza applicativa), costituita dalla
ragionevolezza;
b) il supporto offerto da una procedimentalizzazione delle attività tale da rendere
non meramente nominale ma corposa (effettiva) la partecipazione regionale
all’adozione degli atti sussidiari (essenzialmente, attraverso l’intesa).
Checché se ne dica, con studiata insistenza, nella pronunzia qui annotata
(specificamente laddove seccamente si afferma che “l’interesse nazionale non
costituisce più un limite, né di legittimità, né di merito, alla competenza legislativa
regionale”: punto 2.2 del C.i.D.), l’una condizione si risolve interamente proprio
nell’antico canone o parametro dell’interesse nazionale, senza la cui ricorrenza
sarebbe irragionevole (e, per ciò stesso, incompetente) l’intervento dello Stato, sul
piano dell’amministrazione prima e su quello della legislazione poi.
L’altra condizione, a sua volta, è totalmente (ma opportunamente) inventata. Ed
inventato, perciò, è il nuovo “tipo” di legge, con cui appunto si attiva la
sussidiarietà, gravato dell’osservanza di meta-norme di produzione
giurisprudenziale. Quando, infatti, la Carta novellata ha voluto far riferimento
all’intesa o ad altri moduli ancora di “leale cooperazione”, non ha mancato di dirlo
espressamente. Si può dire, insomma, che la Carta costituzionale si è stranamente
fermata all’enunciazione del principio della flessibilità del riparto, specificamente
sul piano dell’amministrazione; la Corte ora porta a compimento l’opera di
normazione costituzionale imperfettamente consegnata dall’autore della riforma,
integrandola attraverso la “costituzionalizzazione” della regola, già almeno in parte
281
rispettata nell’esperienza, di una procedimentalizzazione delle attività ispirata al
principio di cooperativismo, volto a concretarsi in una produzione consensuale delle
attività stesse. È un’affermazione che dischiude prospettive che meritano,
ovviamente, di essere incoraggiate; ma, è pure un modo di svilire ulteriormente la
capacità prescrittiva della Costituzione, in un rapporto tra scrittura costituzionale ed
esperienza (anche giurisprudenziale) che vede sempre di più emarginata la prima a
beneficio della seconda, irresistibilmente portata a debordare dagli argini stretti per
essa costituzionalmente fissati.
Se, ad ogni modo, le cose stanno così come ci sono oggi rappresentate dalla
Corte, è difficile immaginare che il “traino” al quale è sottoposta la legislazione non
valga anche con riguardo alle materie di potestà residuale delle Regioni. È vero che
è “estranea alla materia del contendere la questione se i principi di sussidiarietà e
adeguatezza permettano di attrarre allo Stato anche competenze legislative
residuali delle Regioni”. Se, tuttavia, la regola che governa il nuovo assetto,
dinamicamente inteso, dei rapporti Stato-Regioni è quella che vuole assecondata la
natura degli interessi e, pertanto, ad essi conforma la relativa disciplina legislativa,
come negare l’estensione della stessa regola ad ogni campo? Anche le materie di
potestà ripartita, in fondo, rientrano nell’area di competenza (appunto, non
esclusiva) delle Regioni; eppure, ciò non chiude la via all’intervento sussidiario
dello Stato, comunque bisognoso (come ripete più volte la Corte) di poggiare sul
modulo dell’intesa. Per quest’aspetto, dunque, non sembra che il carattere “pieno”
ovvero “ripartito” della competenza legislativa regionale tolga o aggiunga alcunché
per ciò che attiene alla legittimazione dell’intervento regolativo dello Stato, sia pure
a mezzo di norme “cedevoli”.
Il vero problema, però, si pone per l’ipotesi inversa a quella ragionata dalla
Corte, per il caso cioè che la molla della sussidiarietà spinga verso il basso la risistemazione delle funzioni: in quanto veicolo “bi-direzionale”, la sussidiarietà,
infatti, potrebbe astrattamente imboccare il verso opposto a quello seguito nel corso
della vicenda che ha dato origine alla pronunzia qui annotata. Ma, naturalmente, è
facile previsione quella per cui, in una siffatta congiuntura, la Corte spezzerebbe
subito, con un taglio netto, il filo del parallelismo, non consentendo alle Regioni di
intervenire (anche in forma legislativa, appunto) nelle materie trattenute in via
esclusiva allo Stato, così come agli enti minori di normare al posto delle Regioni.
Infine, apprezzabile è l’affermazione secondo cui l’attrazione allo Stato della
disciplina legislativa, “conseguenziale” all’attivazione della sussidiarietà
amministrativa, richiede “di regola” di esser resa “evidente in maniera esplicita”,
dal momento che la sussidiarietà si pone in deroga al riparto delle competenze
stabilito nell’art. 117.
Per ciò che poi attiene al secondo dei punti sopra indicati, specificamente
riguardante l’ordine delle fonti, mi limiterò a toccare, con la rapidità imposta da
questa sede, tre aspetti. Il primo è di particolare rilievo, ed è dato dall’affermazione
secondo cui la disciplina di dettaglio, seppur col consueto carattere della
“cedevolezza”, non dovrebbe considerarsi consentita alle leggi dello Stato nelle
materie regionali, a seguito dell’inversione della tecnica di riparto delle materie394.
394
Su ciò si è particolarmente soffermato E. d’Arpe, nella sua nota del forum Quad.Cost., dal titolo “La
Consulta censura le norme statali “cedevoli” ponendo in crisi il sistema: un nuovo aspetto della
Sentenza 303/2003”.
282
Si faccia caso all’uso della forma verbale dalla stessa Corte adoperata, che forse
cela qualche incertezza e che, nondimeno, porta subito appresso a giustificare
comunque la disciplina suddetta, siccome rispondente a ragionevolezza, al fine di
dar modo alle funzioni amministrative di transitare allo Stato, previo il consueto
utilizzo del modulo dell’intesa. Non è, dunque, esatto affermare che le norme
“cedevoli” sono, in via di principio, da considerare escluse ovvero che sono
quodammodo “tollerate”, al servizio della sussidiarietà. Diciamo meglio che
possono aversi (ed è naturale che si abbiano) se ed in quanto si abbia la sussidiarietà
stessa.
Non chiara resta, poi, la ragione per cui la supposta preclusione per le norme
statali di dettaglio discenderebbe dalla inversione della tecnica di riparto delle
materie. Se è vero (e lo è) che lo scopo dell’intervento a titolo precario dello Stato è
di porre riparo alle strutturali carenze della disciplina regionale, lo scopo stesso va di
volta in volta verificato in relazione alle singole materie, non già alla tecnica che
presiede alla loro spartizione. Da questa prospettiva, si ha piuttosto modo di
avvedersi come il ribaltamento della spartizione stessa accresca gli oneri di
normazione in capo alle Regioni e renda perciò ancora più probabile e vistosa la
eventualità del “soccorso” necessariamente prestato dallo Stato.
Piuttosto scade ulteriormente, vistosamente, nell’intero ragionamento con cura
(ma anche con una certa forzatura) svolto dalla Corte, il significato della distinzione
tra principi e regole. Nell’intento di giustificare anche l’ingiustificabile, la Corte
praticamente ci dice che una buona parte delle norme legislative attaccate dalle
Regioni sono, appunto, principi. Naturalmente, non v’è da stupirsi davanti a tale
orientamento, perfettamente in linea con la pregressa giurisprudenza. Solo che qui si
ha ancora una conferma di come ogni forma di caratterizzazione strutturale degli
enunciati sia destinata a dissolversi davanti al moto incessante degli interessi ed alla
conseguente attivazione di strumenti d’intervento ispirati a sussidiarietà e
adeguatezza. Tanto varrebbe, insomma, abbandonare del tutto l’idea di far valere
siffatta caratterizzazione sul piano delle esperienze processuali, producendo il
massimo sforzo possibile su altri fronti, quale quello della procedimentalizzazione
consensuale, al fine di un’adeguata salvaguardia dell’autonomia.
L’ultimo aspetto attiene alla dinamica delle fonti, sia all’interno di ciascun
“microsistema” (e, segnatamente, di quello statale) e sia nei rapporti tra sistemi
diversi.
La Corte ribadisce un principio che, pur con qualche oscillazione, aveva già più
volte enunciato: quello per cui nessun vincolo può aversi a carico dell’autonomia da
parte dei regolamenti statali: neppure i principi di sussidiarietà e adeguatezza, dice
la Corte, possono conferire ai regolamenti statali una capacità che è estranea al loro
valore, quella cioè di modificare gli ordinamenti regionali a livello primario.
Due precisazioni meritano di esser al riguardo fatte.
La prima è che, a stare all’inquadramento qui pure dalla Corte accolto, che vede
i rapporti tra le fonti di Stato e Regione come di separazione delle competenze, la
(supposta) inidoneità dei regolamenti ad esprimere un vincolo per le leggi dovrebbe
ridondare e quindi tradursi anche sul piano dei rapporti coi regolamenti regionali (e,
forse, pure locali), per la elementare ragione che questi ultimi appartengono appunto
al “microsistema” delle fonti regionali e che, pertanto, rivengono l’esclusivo e
diretto fondamento della loro esistenza nelle leggi della Regione stessa. La Corte
283
questo non lo dice (e, per la verità, neppure lo nega), mi parrebbe, tuttavia,
pianamente discendente dalle premesse accolte da questa pronunzia.
La seconda precisazione è che il ragionamento al riguardo fatto mi sembra
dotato di assai fragile consistenza e, anzi, diciamo pure totalmente infondato. I
regolamenti, infatti, vanno essi pure, unitamente alle leggi, a “rimorchio” degli atti
di avocazione delle funzioni, posti in esercizio della sussidiarietà verticale: nel
“convoglio” si dispongono, anzi, subito di seguito delle leggi e, al pari degli atti di
amministrazione, soggiacciono al principio di legalità. È proprio questo principio
che obbliga la legislazione ad intervenire laddove interviene l’amministrazione. Solo
che l’opera regolativa della legge rimane naturalmente imperfetta ed improduttiva
degli effetti sperati, per il caso che non possa esser adeguatamente specificata,
integrata, completata dall’opera svolta a mezzo di regolamenti. D’altro canto, non si
dimentichi che qui il parallelismo è a chiare lettere enunciato dalla stessa Carta
novellata (art. 117, sesto comma), e non si vede, dunque, come possa esser
disinvoltamente abbandonato.
Secondo parte della dottrina, e ravvisabile un vizio di origine in questo
ragionamento. Ed è dato dal riconoscimento della potestà regolamentare dello Stato
in relazione alle sole materie spettanti allo Stato stesso, mentre qui, l’intervento
statale si ha su materie regionali, seppur giustificato appunto dalla sussidiarietà. E,
tuttavia, non è ora in discussione se lo Stato possa, o no, regolare materie ad esso
astrattamente non spettanti. Una volta, infatti, che ciò gli sia concretamente dato sul
terreno della legislazione, è del tutto conseguente che gli sia dato anche per ciò che
attiene alla normazione regolamentare.
Certo, può apparire strano che una fonte secondaria s’imponga a fonti primarie.
Una volta, però, che la barriera dei campi materiali sia stata abbattuta dalla
sussidiarietà, non si vede come possa esser nuovamente, artificialmente innalzata a
metà dell’opera di normazione posta in essere al servizio della sussidiarietà
medesima (inversamente, ove si dovesse seguitare a ragionare nella logica di una
rigida ed inderogabile separazione delle competenze tra fonti sarebbe obbligata la
soluzione, da questa premessa, discendente che estende la separazione anche ai
rapporti tra fonti che astrattamente si collochino su gradi diversi della scala: ad
esempio, tra legge statale e regolamento regionale).
La verità è che una rigida e piena separazione non c’era già secondo il vecchio
quadro costituzionale, così come non c’è per il nuovo, a mia opinione anche
indipendentemente
dall’attivazione
della
sussidiarietà
sul
piano
dell’amministrazione. Farla tornare a comando (e, peraltro, solo per una parte, pure
non di marginale rilievo, con riguardo cioè alle esperienze della normazione
secondaria), in modo tuttavia tale da vanificare l’opera di ri-allocazione delle
funzioni, in ragione della natura degli interessi bisognosi di soddisfazione, sarebbe
davvero irragionevole.
Compiuta quest’analisi della sentenza in oggetto, è bene, adesso, procedere ad
alcune letture critiche.
Come giustamente alcuni hanno denunciato, in tal pronuncia è possibile
ravvisare bagliori di potere costituente395, poiché la stessa è andata ad incidere
395
Vedi l’articolo di Morrone A. in “La Corte costituzionale riscrive il titolo V?” pubblicato nel forum di
Quad. Cost.
284
pesantemente sia nel sistema delle fonti del diritto, sia nei rapporti dialettici tra i
livelli di governo statale e regionale.
Dopo che la riforma del 2001 ha rovesciato il modello di regionalismo originario
e non ha, però, chiarito il criterio per ordinare tale nuovo sistema, le problematiche
interpretative sono state molteplici e si sono mosse su due fronti diversi: uno
restrittivo e l’altro estensivo, delle competenze legislative statali e regionali. In ciò è
stato giustamente denunciato il bisogno di individuare meccanismi di flessibilità
capaci di far valere istanze unitarie non suscettibili di diversificazione territoriale
anche in deroga all’ordine delle attribuzioni predeterminato, evitando irrigidimenti,
eccessivi ed inadeguati, del sistema istituzionale (questo problema è stato comune a
tutti gli ordinamenti federalisti e regionalisti, che li hanno risolti nei modi più
diversi, pensiamo, ad esempio alla Konkurrierende Gesetzgebung tedesca o la
Supremacy Clause statunitense396).
Nonostante il silenzio della Costituzione, la Corte costituzionale ha ritenuto
esistenti, anche nel nostro ordinamento, congegni volti a rendere più flessibile un
disegno che, in ambiti nei quali coesistono, intrecciate, attribuzioni e funzioni
diverse, rischierebbe di vanificare, per l’ampia articolazione delle competenze,
istanze di unificazione presenti nei più svariati contesti di vita, le quali, sul piano dei
principi giuridici, trovano sostegno nella proclamazione di unità e indivisibilità della
Repubblica. Tal elemento di flessibilità sarebbe il principio di sussidiarietà ex
art.118 Cost., il quale è configurato come un meccanismo dinamico diretto a far sì
che le funzioni amministrative, generalmente attribuite ai Comuni, possano essere
collocate ad un diverso livello di governo per assicurane, ove necessario, un
esercizio unitario. Ciò che colpisce di tale lettura, è che secondo la Corte, attraverso
il principio di legalità, come criterio d’allocazione delle funzioni amministrative, la
sussidiarietà passa anche sul piano delle competenze legislative. Secondo la Corte,
infatti, l’attitudine ascensionale di tale principio ha come effetto che, l’assunzione
delle funzioni in sussidiarietà sia compiuta dal legislatore, traducendosi in
dinamicità di quell’assetto statico che il legislatore aveva voluto dare, con la
riforma, al Titolo V° della Cost., e permettendo di rendere più flessibile sia la
distribuzione delle funzioni amministrative che di quelle legislative. Anzi, portato
agli estremi, la Corte ammetteva che l’art.117 Cost. potesse essere interpretato
utilizzando l’art.118 (ma escludendo che possa avvenire il contrario), traducendosi
nella conseguenza per la quale le funzioni amministrative non sono distribuite dal
legislatore statale o regionale secondo le proprie competenze legislative, bensì
funzioni amministrative e competenze legislative trovano ordine di decisione in
base allo stesso principio di sussidiarietà. In definitiva si riconosce che lo Stato
potrà riscrivere l’art.117 Cost. e, quindi, disporre del criterio di chiusura del sistema
delle fonti del diritto. E’ questo un risvolto negativo della possibile rottura del
principio del parallelismo, che, ad alcuni, sembra essere stato incautamente
abbandonato dal nuovo Titolo V°, e che nel vecchio ordinamento funzionava ora a
favore delle autonomie locali, ora a favore dello Stato. Nel nuovo contesto la
posizione delle Regioni viene ulteriormente aggravata, se è vero che il modello
prefigurato dalla Corte costituzionale tende a attrarre l’autonomia legislativa
regionale (in ordine sia alla competenza residuale innominata, sia alla competenza
concorrente) nella sfera di disponibilità del legislatore statale.
396
In tal senso vedi l’interessante articolo di Moscarini A. in “Titolo V e prove di sussidiarietà: la
sentenza n.303/2003 della Corte costituzionale”, pubblicato sul sito www.federalismi.it .
285
Ma, alla luce di ciò, può davvero dirsi che il parallelismo di competenze sia
scomparso?
E’ ovvio che due sono le ipotesi: o si ritiene, con la comune dottrina, che il
parallelismo sia stato spazzato via dalla riforma, che ha anzi divaricato fino in fondo
la forbice tra le funzioni (le Regioni essendo, per regola, dotate di competenze sul
piano della normazione, i Comuni e le Province su quello dell’amministrazione); ed
allora, a stare alla logica della Corte ed, anzi, a spingerla fino alle sue ultime e
coerenti applicazioni, dovrebbe dirsi che la legge di riforma abbia, per ciò solo,
inciso sul valore di unità, predisponendo le basi per il sistematico sacrificio degli
interessi nazionali e, in genere, per l’inadeguata cura degli interessi pubblici, quale
che ne sia la dimensione territoriale o la natura, conseguente all’irrigidimento del
riparto materiale sul piano della normazione. Oppure si ritiene (come ha mostrato di
ritenere la Corte) che il parallelismo, al di là delle apparenze, in verità, non è stato
travolto dalla riforma e può dunque, sia pure in forma moderata397, tornare a giocare
un ruolo centrale in occasione dell’esercizio delle funzioni in genere (ma, in tal
caso, si fatica non poco a comprendere per quale misteriosa ragione il legislatore del
2001 avrebbe confezionato per il riparto delle funzioni stesse una veste assai diversa
rispetto a quella datagli nel quadro originario)398.
Ciò che bisogna osservare è che correttamente è stato sostenuto che la funzione
assegnata dalla Corte al principio di sussidiarietà, richiama quella che, nelle ragioni
del Costituente, era propria dell’interesse nazionale come limite di merito, affidato
alla cura del Parlamento, proprio per derogare in nome d’istanze unitarie e in via
sussidiaria al normale assetto delle attribuzioni. Una funzione che il governo e la
Corte costituzionale avevano snaturato in concreto, assumendo l’interesse nazionale
in sé come presupposto di legittimità e come causa di giustificazione dell’intervento
del legislatore statale anche in ambiti che, la Costituzione, non gli assegnava. Nel
nuovo Titolo V° quest’ultima concezione dell’interesse nazionale, precisa la Corte,
“è divenuta priva di valore deontico”, non essendo previsto l’interesse nazionale né
come limite di merito né come limite di legittimità. Ma essa (ecco l’altra faccia della
decisione), non è trasmigrata neppure nel principio di sussidiarietà. Affinché la
sussidiarietà non diventi lo strumento utile a sovvertire la rigidità della Costituzione,
essa potrà giustificare la deroga delle competenze solo a condizione che “la
397
Si diceva esser moderato il nuovo parallelismo. Infatti, la Corte pesa una ad una le parole con cui lo
presenta quale un’eccezione alla regola della competenza legislativa delle Regioni, conseguente alla
inversione della tecnica di riparto delle materie. Insomma, è vero che, a seguito dell’attivazione dei poteri
sussidiari sul terreno dell’amministrazione, questi ultimi portano con sé a “rimorchio” anche la
legislazione (ma non pure, come si vedrà, la normazione regolamentare). Ciò, tuttavia, si ha unicamente
in ordine all’organizzazione ed alla regolazione delle funzioni amministrative (che, però, com’è stato da
tempo e diffusamente fatto notare, costituiscono proprio l’oggetto prevalente, ancorché non esclusivo,
delle discipline regionali) e, soprattutto, al verificarsi delle seguenti due condizioni: a) la sussistenza di
una causa sostanziale giustificativa dell’intervento volto ad attrarre allo Stato funzioni in sé regionali (o
locali), per il cui accertamento si richiede uno scrutinio severo di costituzionalità, nondimeno effettuato a
mezzo della tecnica, dotata di estrema flessibilità operativa (e però segnata da non poca indeterminazione
concettuale ed incertezza applicativa), costituita dalla ragionevolezza; b) il supporto offerto da una
procedimentalizzazione delle attività tale da rendere non meramente nominale ma corposa, effettiva, la
partecipazione regionale all’adozione degli atti sussidiari (essenzialmente, attraverso il modulo
dell’intesa).
398
In tal senso vedi Ruggeri A. in “Il parallelismo redivivo e la sussidiarietà legislativa(ma non
regolamentare) in una storica (e però solo in parte soddisfacente) pronunzia” pubblicato sul forum di
Quad.Cost. il 29 ottobre 2003.
286
valutazione dell’interesse pubblico sottostante all’assunzione di funzioni regionali
da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da irragionevolezza alla
stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità” e, ancora, che “sia oggetto di
accordo stipulato con la Regione interessata”. Anche qui emergono le radici del
ragionamento della Corte in quella giurisprudenza costituzionale pregressa (vedi, ad
esempio, la sentenza n.177 del 1988) in cui l’uso da parte dello Stato dell’interesse
nazionale veniva subordinato al rispetto dei concorrenti principi di ragionevolezza
(sul piano della legittimazione) e di leale collaborazione (su quello procedurale).
In definitiva è possibile attribuire alla pronuncia in commento uno specifico
valore istituzionale, in quanto, se il principio dell’intesa presuppone che nel
procedimento diretto all’assunzione delle funzioni in sussidiarietà siano
direttamente coinvolti il governo statale e i governi regionali, a ricevere un nuovo
slancio, al di là di precedenti chiusure giurisprudenziali (vedi l’ordinanza n.498 del
2000 e la sentenza 437 del 2001), è proprio il sistema delle Conferenze intergovernative. Tra quelle previste, soprattutto la Conferenza dei Presidenti di Regione,
potrebbe diventare la controparte dello Stato nelle decisioni in cui far valere le
istanze unificanti sottese al principio di unità e indivisibilità della Repubblica399.
Ma, in ogni caso, è tutto il Sistema delle Conferenze ad uscirne valorizzato. Esso,
dopo l’entrata in vigore del nuovo Titolo V° Cost., si è subito attivato nella fase
d’iniziativa legislativa. Tuttavia, in mancanza di un riconoscimento costituzionale,
non ha consentito a Stato e Regioni di negoziare le competenze dell’art.117 in
maniera da impedire che si ponesse la questione di costituzionalità. Molte leggi
statali, tra cui proprio quelle sulle «grandi opere», sono state impugnate dalle
Regioni e, in ogni modo, qualsivoglia accordo non avrebbe potuto impedire che il
dubbio di legittimità costituzionale fosse posto in via incidentale dal giudice a quo.
Né gli impegni assunti nella Conferenza dal Governo statale hanno potuto assumere
un rilievo formale tale da consentire alla Corte di invalidare la legge statale che li
avesse eventualmente traditi (vedi la sentenza n.437 del 2001).
Ma ciò non ha impedito che si evidenziasse il definito assetto negoziale del
rapporto tra le istituzioni. Infatti, nel momento in cui si procede a quest’attrazione a
livello statale delle funzioni legislative ed amministrative, la si fa guidare dai
principi di sussidiarietà e adeguatezza che, dispiegandosi nella loro vocazione
dinamica, acquisiscono una valenza “procedimentale e consensuale” che,
affiancandosi ai principi della ragionevolezza e proporzionalità, richiamano tale
processo ad una valutazione dell’interesse pubblico sottostante, da parte dello Stato,
in conformità ad un’intesa conclusa con la Regione interessata. Sicché, la rinuncia
regionale all’esercizio delle funzioni amministrative e legislative è, dunque,
subordinata all’adesione consensuale all’iniziativa, concepita a livello statale e
informata al principio di leale collaborazione, nel tentativo di salvaguardare le
prerogative costituzionalmente riconosciute alle istituzioni regionali400.
399
Per una lettura di tale sentenza vedi anche Camerlengo Q. in “Dall’amministrazione alla legge,
seguendo il principio di sussidiarietà. Riflessioni in merito alla sentenza n.303 del 2003 della Corte
Costituzionale”, pubblicato nel forum di Quad. Cost.
400
In tal senso vedi Cintioli F. in “Le forme dell’intesa ed il controllo sulla leale collaborazione dopo la
sentenza 303 del 2003”, pubblicato nel forum di Quad. Cost.
287
In effetti, con tale pronuncia, la leale collaborazione (insufficiente nella fase
d’iniziativa legislativa), grazie alla connessione con la sussidiarietà diviene
principio basilare e vincolante per il contenuto della legge che voglia fondarsi
direttamente sull’art. 118 Cost.
Se la legge non rispetta il metodo dell’intesa è sicuramente illegittima e ciò
sembra addirittura semplificare il controllo della Corte sulla leale collaborazione
visto ex ante. La legge statale che in futuro pretendesse di svincolarsi dal metodo del
raccordo e dell’intesa per disciplinare una funzione amministrativa allocata per
esigenze unitarie a livello centrale sarebbe illegittima, nonostante l’effettività di tali
esigenze. Se invece la legge rispettasse siffatto metodo, si aprirebbero altri spazi di
valutazione e la Corte sarebbe chiamata a sindacarne il contenuto per verificare se,
in concreto, lo strumento di raccordo prescelto è proporzionato e ragionevole, in
altre parole se è sufficiente a salvaguardare le aspettative regionali in nome della
leale collaborazione.
Si deve, poi, spostare l’attenzione su contenuti e funzionamento della leale
collaborazione vista ex post. Cioè, ci si deve chiedere, cosa sia necessario affinché il
metodo dell’intesa possa dirsi rispettato e così possa dirsi salvaguardata la
legittimità costituzionale della legge sotto il profilo dei limiti alla competenza
statale. Nella sentenza n.303 la Corte scandisce l’intensità dei raccordi, distinguendo
quando, nel caso delle grandi opere, sia necessario un vero e proprio accordo con la
Regione interessata e quando, invece, sia sufficiente un’intesa di tipo “debole”.
Il riconoscimento delle istanze unificanti potrebbe deporre, in linea di massima,
a favore di un modello che affidi il potere di assumere la decisione finale all’autorità
centrale, pur dopo un’ampia e procedimentalizzata fase di trattative con la Regione.
Tuttavia, la sentenza sembra esigere un accordo con la Regione interessata per
l’inserimento dell’opera nel programma (vedi punto 2.2 delle C.i.D.) e per la sua
localizzazione, in quanto “l’interpretazione coerente con il sistema dei rapporti
Stato-Regioni affermato nel nuovo Titolo V° impone di negare efficacia vincolante a
quel programma su cui le Regioni interessate non abbiano raggiunto un’intesa per
la parte che le riguarda” (vedi punto 4.1 delle C.i.D.). L’intesa cui ci s’ispira
sembra qui quella di tipo “forte”. Ma ciò che è importante osservare, infine, è che,
secondo la Corte, il consenso regionale è comunque richiesto, anche se ciò
comportasse un vero e proprio potere di veto al cospetto delle rilevate esigenze
unitarie. Invece, il modello dell’intesa debole è espressamente prescelto, a proposito
dell’approvazione del progetto preliminare (punto 24 delle C.i.D.), in quanto si
ritiene costituzionalmente legittima (per le infrastrutture di carattere interregionale o
internazionale), la procedura che consente allo Stato di superare il dissenso della
Regione con D.P.R., su deliberazione del Consiglio dei Ministri e dopo ampie
garanzie procedimentali: l’iniziale dissenso regionale, infatti, provoca l’esame
specifico delle questioni sollevate e di eventuali proposte alternative da parte del
Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, il quale esprime un parere per il C.I.P.E.
che, a sua volta, assume proprie motivate determinazioni nel tentativo di superare il
dissenso. I poteri di veto regionali sono, invece, rafforzati per il caso in cui le
infrastrutture e gli insediamenti produttivi non abbiano carattere interregionale o
internazionale.
288
Alla luce di ciò, si osserva che la novità risiede nel fatto che la Conferenza non
potrà, come tale, essere il luogo nel quale, a maggioranza, sono prese le decisioni
che segnano lo sviluppo della sussidiarietà nella concezione dinamica proposta dalla
Corte. Questa possibilità sembra testualmente esclusa: occorre, infatti, l’intesa con
la singola Regione interessata. Le determinazioni, prese a maggioranza, potranno
però riguardare l'assunzione di regole generali o di linee programmatiche o di
indirizzo, destinate a valere, nei limiti consentiti, per tutte le Regioni. Dovendosi
stimolare una trattativa diretta tra lo Stato e la singola Regione, la Conferenza potrà
però risultarne valorizzata come luogo preferenziale del raccordo o, se si preferisce,
del “contatto procedimentale”. Ed anche che, qualora si ammetta che, in alcuni casi,
la leale collaborazione, si esprima nella forma dell’intesa forte e dunque si neghi
allo Stato di superare l’estremo dissenso regionale, non si pone neppure un
problema di garanzia giurisdizionale a vantaggio della Regione. Piuttosto, s’inverte
l’ordine del rapporto, e ci si deve chiedere cosa possa fare lo Stato quando ritenga
che il dissenso regionale sia privo di ragione, inattendibile e che impedisca
l’esercizio di una funzione amministrativa e il conseguimento di un risultato
rispondente a primarie ragioni d’esercizio unitario e ad istanze unificanti. Mi sembra
che non possa escludersi una possibilità di tutela contro l’inerzia. Un conto è
predicarne la cautela, nel rigoroso rispetto delle prerogative regionali, altro conto è
negarla del tutto, con buona pace delle “istanze di unificazione presenti nei più
svariati contesti di vita”. Resta da accertare se, ancora una volta, spetti alla Corte
costituzionale risolvere il conflitto di poteri, nel presupposto della possibile
invasività dell’inerzia regionale rispetto a funzioni costituzionalmente garantite allo
Stato dall’art.118 Cost. o se si tratti di valutare solo la “legittimità” dell’inerzia, ciò
che devolverebbe la questione alla giurisdizione amministrativa (vedi sentenza
n.473 del 1992). Alla luce di ciò mi sembra che il dissenso regionale, privo di
congrua motivazione, e lesivo di assunte istanze unitarie, dia luogo ad una
menomazione di prerogative costituzionali dello Stato, e che siano così integrati i
presupposti di ammissibilità del conflitto tra poteri davanti alla Corte Costituzionale.
Infine, voglio osservare che quando l’intesa è debole, il sindacato sulla leale
collaborazione gioca a vantaggio della Regione, infatti, a proposito
dell’approvazione del progetto preliminare, la sentenza fa salva “la possibilità per la
Regione dissenziente di impugnare la determinazione finale resa con Decreto del
Presidente della Repubblica ove essa leda il principio di leale collaborazione, sul
quale deve essere modellato l’intero procedimento”.
Altra questione che merita di essere analizzata riguarda il ruolo delle norme
statali cedevoli401. Infatti, in seguito alla riforma del 2001, gran parte della dottrina
aveva mosso forti perplessità a che sopravvivesse, ancora, nel nostro sistema
istituzionale la possibilità, per lo Stato, di emanare, nelle materie che oggi (ex
art.117, terzo comma) rientrano nella competenza concorrente di Stato e Regioni,
oltre che i principi generali, anche norme di dettaglio “cedevoli”, in attesa del varo
delle norme regionali, e norme “suppletive” di qualsiasi natura negli ambiti residuali
riservati alla potestà legislativa esclusiva regionale. Anzi un messaggio di
401
Per quest’aspetto vedi D’Arpe E. in “La Consulta censura le norme statali cedevoli ponendo in crisi il
sistema: un nuovo aspetto della sentenza 303/03”, pubblicato nel forum di Quad. Cost. , il 17 ottobre
2003.
289
tranquillità era arrivato con la c.d. legge La Loggia (l.n.131/’03), in cui, come
abbiamo analizzato sopra, all’art.1 si prevede una sistema morbido di transizione402.
Con tale pronuncia, le cose si assestano, sebbene solo parzialmente, secondo una
visione che escludendo in via generale la possibilità di emanare tali norme, cedevoli
o suppletive, però ne tollera la presenza in casi eccezionali. Infatti, come già
osservato, essa afferma che “la disciplina statale di dettaglio a carattere suppletivo
determina una temporanea compressione delle competenze legislative regionali”,
cosa che nel nostro sistema a costituzione rigida è consentito solo nelle eccezionali
ipotesi in cui lo Stato può attrarre le funzioni amministrative (e normative) per
soddisfare preminenti esigenze unitarie della Repubblica, di cui è ragionevole
assicurare l’immediato svolgersi e che non possono essere esposte al rischio
dell’ineffettività, ma al contempo, riconoscendo che al di fuori di tali straordinari
casi, è esclusa ogni facoltà dello Stato di dettare norme di dettaglio “cedevoli”,
anche solo se in attesa del varo delle leggi regionali, nelle materie di legislazione
concorrente e qualsiasi norma “suppletiva” negli ambiti residuali riservati alla
legislazione esclusiva delle Regioni a statuto ordinario ed a statuto speciale.
Con tale lettura, però, è bene evincere che, diviene difficilmente conciliabile, in
primo luogo, il citato art. 1, secondo comma, della Legge n.131 del 2003,
considerato, da un lato, che tale norma intende preservare in via generale, e senza
eccezioni, l’efficacia temporanea (sino all’epoca di emanazione delle norme
regionali sopravvenute) delle norme statali vigenti alla data dell’11 Giugno 2003,
anche se approvate dopo l’entrata in vigore della riforma costituzionale del 2001, in
relazione alle materie appartenenti alla legislazione regionale e considerato,
dall’altro, che la salvezza degli effetti di eventuali pronunce della Corte
Costituzionale in essa contemplata non sembra metterla automaticamente al riparo
dalle conseguenze dei suoi evidenti vizi di legittimità costituzionale. Ed in secondo
luogo con tutta la legislazione successiva al 2001 con carattere suppletivo e di
dettaglio, il cui disconoscimento, conseguenza della lettura datane dalla Corte in tale
pronuncia, farà correre il rischio di porre in crisi l’intero sistema legislativo ed
amministrativo italiano (dire che, questo sia il prezzo da pagare per un regionalismo
vero, sembra eccessivo anche a chi, come il sottoscritto, se ne fa difensore). Ma è
bene precisare che, seguita anche a rimanere misteriosa la ragione per cui la
supposta preclusione, per le norme statali di dettaglio discenderebbe dalla inversione
della tecnica di riparto delle materie, infatti, se è vero che lo scopo dell’intervento a
titolo precario dello Stato è di porre riparo alle strutturali carenze della disciplina
regionale, lo scopo stesso va di volta in volta verificato (ed apprezzato) in relazione
alle singole materie, non già alla tecnica che presiede alla loro spartizione. Da
questa prospettiva, si ha piuttosto modo di avvedersi come il ribaltamento della
402
Legge 5 Giugno 2003 n° 131 (c.d. “Legge La Loggia”), recante disposizioni per l’adeguamento
dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 Ottobre 2001 n° 3, ha testualmente
stabilito con l’art. 1 secondo comma (in dichiarata attuazione dell’art. 117 primo e terzo comma della
Costituzione, in materia di legislazione regionale): “Le disposizioni normative statali vigenti alla data di
entrata in vigore della presente legge (11 Giugno 2003) nelle materie appartenenti alla legislazione
regionale continuano ad applicarsi, in ciascuna Regione, fino alla data di entrata in vigore delle
disposizioni regionali in materia….. fatti salvi gli effetti di eventuali pronunce della Corte Costituzionale.
Le disposizioni normative regionali vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge nelle
materie appartenenti alla legislazione esclusiva statale continuano ad applicarsi fino alla data di entrata
in vigore delle disposizioni statali in materia, fatti salvi gli effetti di eventuali pronunce della Corte
Costituzionale”.
290
spartizione stessa accresca gli oneri di normazione in capo alle Regioni e renda
perciò ancora più probabile e vistosa l’eventualità del soccorso necessariamente
prestato dallo Stato
Dunque, il capovolgimento dei poteri legislativi tra Stato e Regioni, rimasto
invischiato nell’incertezza delle materie e nella mancanza di strumenti di raccordo,
si è arricchito della clausola di flessibilità, che amplia le competenze statali a tutela
di istanze di ordine unitario; la sussidiarietà è divenuta regola dinamica e collega il
principio di legalità con un riparto delle funzioni amministrative (non solo tra Stato
e Regioni, ma anche tra queste ultime e gli Enti Locali); il principio della leale
collaborazione, infine, è stato espressamente posto al centro della nuova
“Repubblica delle Autonomie”.
Il coraggio di queste novità non deve stupire. Che ciò potesse accadere era stato
previsto da quanti, denunciando le imperfezioni della riforma, indicavano nella
Corte l’unica istituzione in grado di far chiarezza, anche se al costo di un’inevitabile
(e ormai assolutamente necessaria) sovra-esposizione. Già nella sentenza n.282 del
2002 s’intravedeva la premessa per fondare una legislazione statale sulle funzioni
amministrative rispondenti ad esigenze unitarie. Ma è con la pronuncia in commento
che la sussidiarietà verticale diventa il grimaldello con cui far breccia nella rigida
contrapposizione tra materie statali e regionali e che apre l’elenco dell’art.117,
secondo comma, ad una nuova visione che, piuttosto che alla separazione, è
improntato alla leale collaborazione (di cui al principio di sussidiarietà) alla quale
conformare i rapporti tra i vari livelli istituzionali, nella gestione della Repubblica.
Di tale pronuncia si è occupata addirittura la Camera dei Deputati (nella specie
la VIII° Commissione permanente “Ambiente, territorio e lavori pubblici”) la quale
il 22 ottobre 2003, procedette all’analisi della sentenza n.303 del 2003
(congiuntamente con la successiva sentenza 307 stesso anno)403. Nel resoconto di
tale seduta si legge che secondo il relatore (On. Marone, dei D.S.), “la Suprema
Corte, con le sue pronunce, smentisce, le direttrici sulle quali la Casa delle libertà
vorrebbe improntare la nuova riforma”, in quanto “l’affermazione del concetto di
devoluzione, come inteso dal Ministro per le Riforme Istituzionali, che ipotizza una
legislazione esclusiva delle Regioni viene infatti contraddetto dalla sentenza n.303”.
Ora, tralasciando le altre problematiche affrontate in tale seduta, ciò che è
interessante osservare, risiede proprio nella lettura che di tale pronuncia ne viene
data. La sua capacità di attentare ad una riforma ancora in corso di redazione e
l’influenza che esprime sul processo di realizzazione del cambiamento istituzionale,
caratterizzano e riconducono in capo alla Corte un potere forse inappropriato. Essa
dovrebbe essere il giudice delle leggi, non farle. Dovrebbe essere il garante della
Costituzione, non interpretarla nel modo che gli pare più opportuno e avente,
addirittura, la capacità di influenzare la riscrittura della stessa. Ma, forse, tutto
questo è normale in un sistema strutturato come il nostro. Si potrebbe dire che,
dovrebbero essere le forze politiche a non farsi influenzare dalla giurisprudenza
costituzionale più di quanto non le sia dovuto, ma come e se ciò sia possibile è tutto
da vedere.
Fatto sta che la Corte, a partire dalla pronuncia n.274 di quest’anno sembra aver
intrapreso con decisione la strada dell’interpretazione ricostruttiva delle nuove
disposizioni del Titolo V°, mettendo da parte la ragionevole prudenza dimostrata nel
403
Vedi il resoconto pubblicato sul sito www.federalismi.it .
291
periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore della legge costituzionale
n.3 del 2001, ed assumendo con decisione un ruolo attivo nel completamento di
alcuni spazi vuoti ancora rilevabili tra le maglie della riforma costituzionale e della
legislazione di attuazione, ma con il chiaro consenso di quest’ultima (si veda quanto
previsto dall’art.1, comma 2, della l.n.131/’03, in cui, come già detto, si fanno
espressamente salvi “gli effetti di eventuali pronunce della Corte Costituzionale”).
Questa sentenza s’inserisce, pertanto, nel filone giurisprudenziale inaugurato con la
sentenza n.274/’03, offrendo, in più, l’occasione per collaudare alcuni principi da
essa in precedenza rilevati.
Con l’ultima sentenza analizzata (mi fermo a questa perché ad oggi non mi
risulta che sia sopravvenuta pronuncia che abbia cambiato l’indirizzo
giurisprudenziale qui espresso, e che è stato seguito ormai negli ultimi tre anni404),
dunque, ciò che si è definitivamente dimostrato, nel merito dell’argomento trattato, è
che ormai i dubbi, post-riforma 2001, sull’interesse nazionale sono stati
completamente fugati, al punto che, i ricorsi delle Regioni, non si impuntano più sui
dubbi di esistenza o natura di questo ma sulle problematiche procedurali che ne
hanno voluto fare un principio operante nel nostro ordinamento solo a condizione
che si coordini con quel fattore di leale collaborazione a cui, la giurisprudenza
prima, ed il legislatore dopo, hanno voluto conformare la natura del regionalismo
italiano sancendo, definitivamente, la scomparsa di ogni e qualunque concezione
separatistico-garantista, per far posto ad un sistema imperniato su cooperativismo e
sussidiarietà.
Sono d'accordo, dunque, con quella parte di dottrina405 che dimostra di non
credere che la revisione del Titolo V° della Parte II della Costituzione abbia portato
con sé la scomparsa degli interessi nazionali, solo perché queste parole non sono più
presenti nel testo costituzionale. Non me la sento, invece, di condividere del tutto
l'idea che il compito di determinazione di quegli interessi sia oramai scaricato
completamente sulle spalle della Corte costituzionale.
Infatti, eliminato il controllo di merito che era rimasto sulla carta, non c'è alcun
motivo che induca a pensare che la Corte vada, oggi, ad assumere un ruolo diverso
da quello che ha fin qui svolto in relazione alla identificazione degli interessi
nazionali, visto che essa è chiamata a decidere controversie; ma non è ovviamente a
questo che voglio riferirmi, quanto piuttosto al fatto che, la Corte, si è limitata, negli
anni, ad un controllo esterno delle scelte operate dal legislatore statale, ha cioè
considerato l'individuazione degli interessi nazionali un'operazione squisitamente
politica (quale, senza dubbio, è) in ordine alla quale il giudizio di costituzionalità
assume i tratti delle verifiche di ragionevolezza, talora anche evocando le tecniche
di giudizio messe a punto dal Bundesverfassungsgericht per dare applicazione al
principio di Übermassverbot. Se è stato così e se così continuerà ad essere, la
determinazione degli interessi nazionali (e, almeno in qualche misura, il grado di
penetrazione degli interventi che li riguardano) non può che configurarsi come il
frutto di una collaborazione tra organi (Parlamento e giudice costituzionale): dove al
primo spetta di scegliere la concreta collocazione del confine tra interessi, cui ogni
riparto costituzionale lascia inevitabilmente ed opportunamente margini di mobilità,
404
Questo scritto ferma la propria analisi alle pronunce fino al 31 marzo 2004.
Vedi, ad esempio Augusto Barbera in “Chi è il custode dell'interesse nazionale?”, sulla rivista
Quad.Cost. 2001, pagg. 345 e ss.
405
292
mentre al secondo compete il compito delle piccole correzioni, oltre a quello
importantissimo della messa a punto dei titoli che giustificano l'intervento statale a
tutela degli interessi nazionali.
Su questo secondo versante la legge cost. n.3 del 2001 assegna al giudice
costituzionale una serie di scelte interpretative assai rilevanti, e non soltanto per ciò
che riguarda i rapporti tra Stato e Regioni. Semplificando al massimo, le prospettive
possibili parrebbero due e si determinano in base al significato che si decide di
attribuire al secondo comma dell'art.120. Qualora (magari enfatizzando il significato
di espressioni come quella che si richiama alla "tutela dell'unità giuridica o
dell'unità economica") prevalessero letture estensive di questo disposto,
comprensive cioè della sostituzione legislativa e di surrogazioni che prescindano
dall’inerzia regionale, è evidente che la norma in questione diverrebbe una regola
capace di giustificare le più varie incursioni governative in ambito regionale.
Qualora, invece, si ritenesse di non ignorare quanto sta alle spalle dell'art.120 ed in
particolare il lavoro giurisprudenziale di tipizzazione dei poteri sostitutivi statali, la
nuova previsione costituzionale si limiterebbe ad offrire espresso fondamento a
specifiche norme legislative rivolte ad assegnare puntuali e circoscritti compiti
surrogatori al Governo nel caso di inadempimenti amministrativi da parte delle
Regioni, del tutto simili quindi a quelli finora contemplati406. Nel primo caso il
custode degli interessi nazionali diverrebbe il Governo e si manifesterebbe allora un
drastico giro di boa rispetto ad un'esperienza che, pur con tutti i limiti che la ha
contrassegnata, non ha mai abbandonato l'idea che questo compito dovesse restare
nelle mani del Parlamento.
Nel secondo caso, invece, l'individuazione dell'interesse che giustifica
l'intervento sostitutivo spetterebbe alla legge, continuando quindi ad essere compito
del Parlamento quello di precisare in concreto il riparto costituzionale e il giudizio
della Corte potrebbe rimanere ancorato agli standards già messi a punto negli anni
trascorsi in sede di valutazione degli interventi di sostituzione amministrativa. Ma, e
soprattutto se, inteso così riduttivamente, il nuovo art.120 non configura certamente
l'unica occasione di intervento consentito allo Stato ai fini di tutela degli interessi
nazionali: altre, quelle che a me sembrano più evidenti (e, aggiungerei, più normali
rispetto al caso della surrogazione che dovrebbe rimanere utilizzata per ipotesi
circoscritte e peculiari) si ricavano dagli artt.117 e 118. Se le materie demandate alla
legislazione esclusiva dello Stato si assumono come punti di vista anziché come
oggetti (e per alcune è impossibile ragionare altrimenti: si pensi alla tutela
dell'ambiente e dell'ecosistema), esse offriranno varie e numerose occasioni di
interferenza in molti dei settori affidati alle Regioni: interessi collocabili in materia
di caccia, di cave, di foreste, etc..., potranno essere attratti al centro, cioè divenire
interessi nazionali, quando siano rilevanti ai fini della tutela dell'ambiente e
dell'ecosistema. Come anni di prassi legislativa e giurisprudenziale
inequivocabilmente dimostrano, i principi fondamentali della legislazione
concorrente sono dotati da un grado di penetrazione variabile in relazione al tipo di
interessi che sono destinati a disciplinare.
Quanto poi all'art.118, si può notare come esso non disegni un riparto delle
funzioni amministrative: stabilito che la distribuzione di quelle funzioni debba
406
Ottimi argomenti a favore di questa soluzione sono illustrati nell'ampia riflessione di C. Mainardis, “I
poteri sostitutivi statali: una riforma costituzionale con (poche) luci e (molte) ombre”, in Le Regioni
2001.
293
avvenire "sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza"
(parole nuove, le quali non significano altro che le funzioni vanno collocate al
livello di governo preferibile in relazione al grado degli interessi coinvolti), è
coerente che al riparto provvedano le fonti di rango legislativo e non direttamente la
norma costituzionale, poiché la variabilità del grado degli interessi sconsiglia ogni
definitiva predeterminazione. Ma i principi indicati dal primo comma, non potranno
essere ignorati quando si interpreta il comma successivo, rivolto ad individuare la
fonte legislativa competente a distribuire le funzioni; e quei principi sarebbero
contraddetti o, almeno, non troverebbero modo di affermarsi, qualora si ritenesse
che la competenza della legge regionale a conferire le funzioni amministrative a
Comuni, Province e Città Metropolitane nei settori affidati alla sua disciplina (e
quindi nelle materie di cui al terzo comma dell'art.117 e in quelle non elencate)
precludesse interventi legislativi dello Stato rivolti a trattenere o a richiamare a sé
funzioni collocate in quegli stessi settori: non si dimentichi che "la sussidiarietà
funziona come un ascensore"407 e sarebbe davvero difficile credere che in un
vastissimo raggio di materie a quell'ascensore sia a priori inibito muoversi verso
l'alto.
La collaborazione tra Parlamento e giudice costituzionale nella determinazione
degli interessi nazionali potrà trovare un migliore punto di equilibrio, se i
presupposti che giustificano l'intervento statale a tutela di quegli interessi sono
riconducibili ad una serie di titoli abilitanti puntuali e distinti, poiché ogni diversa
norma costituzionale (espressa o implicita) che offre fondamento all'intervento dello
Stato potrà stare a premessa dell'argomentazione della Corte ed agevolare la
formazione di differenziate e stabili tecniche valutative. Quando invece l'appoggio
dell'intervento statale fosse una clausola genericissima, come "la tutela dell'unità
giuridica ed economica" di cui all'art.120 oppure il principio di unità di cui all'art.5,
il giudizio di costituzionalità più facilmente si ridurrebbe a verifiche di facciata, a
meno che non perda i tratti del controllo esterno e la Corte si trasformi in arbitro
delle controversie tra Stato e Regioni: ma si tratta di un'ipotesi né probabile né
auspicabile.
407
Così R. Bin - G. Pitruzzella, “Diritto costituzionale”, Torino, 2001, pagg.96 .
294
3. I destini dell’indirizzo e coordinamento dopo la riforma del 2001
(il nuovo art.118 Cost., tra sussidiarietà e parallelismo).
Sotto l’aspetto della funzione di indirizzo e coordinamento, abbiamo visto che la
giurisprudenza ante 2001 si era assestata su posizioni ben chiare. Volendo
brevemente riassumere, bisogna ricordare che i punti di arrivo della giurisprudenza,
in merito, erano i seguenti: necessario fondamento legislativo della funzione di
indirizzo e coordinamento; rispetto dei limiti formali e procedurali; competenza del
Consiglio dei Ministri (quindi dell’organo collegiale del Governo e non dei singoli
Ministri); rispetto del principio di leale collaborazione nei confronti delle Regioni;
rispetto del principio di legalità sostanziale; impossibilità di spingere l’indirizzo e
coordinamento al punto di determinare l’annullamento delle competenze regionali
(l’atto di indirizzo e coordinamento doveva, appunto, indirizzare e coordinare, senza
diventare un atto espropriativo). E’ bene ricordare che è anche grazie agli sviluppi
della giurisprudenza costituzionale in materia che si gettarono le basi con cui si
giunse a riforme come la stessa, ed importantissima, legge n.59 del 1997, la quale,
all’art.8, dettò una disciplina di tale funzione, in cui, proprio tali principi trovarono
applicazione.
Chiuso, dunque, il dibattito sulla costituzionalità di tale funzione è bene
osservare che, comunque, la Corte, in tal senso si mosse riconducendo tale funzione
al limite dell’interesse nazionale e, più in generale, alla tutela di interessi unitari, la
cui salvaguardia, disse la Corte, può realizzarsi attraverso varie forme, tra cui
proprio gli atti di indirizzo e coordinamento.
Oggi, cioè a seguito della riforma del 2001, è proprio tal ultimo dibattito sulla
legittimità costituzionale di questa funzione che è stato riaperto, nel tentativo di
capire se tale istituto sopravvive alla riforma (specie per il radicale cambiamento
dell’art.118) e se la risposta è affermativa, allora c’è da capire come esso sopravvive
e quale ruolo svolge nel nostro ordinamento alla luce del mutato quadro
costituzionale.
In tale direzione, e relativamente al fondamento costituzionale di tale istituto, in
realtà già gran parte della dottrina si mosse da subito in senso negativo. Si disse che
il nuovo impianto del Titolo V° non avrebbe più consentito di sciogliere
quest’interrogativo nel senso adottato a suo tempo dalla Corte costituzionale. Infatti,
era difficile negare che l’impostazione del nuovo Titolo V° presentasse
caratteristiche che non adducessero a conclusioni di questo tipo. Si pensi,
innanzitutto, alla valorizzazione molto forte del principio di separazione delle
competenze; si pensi, poi, alla tendenziale parificazione delle competenze dello
Stato, delle Regioni e degli Enti Locali, non più ordinate secondo un principio
gerarchico. Insomma, l’impostazione del nuovo Titolo V° sembrava giustificare i
dubbi che in un simile sistema costituzionale tale funzione avesse ancora
cittadinanza.
Ma a tali riflessioni presto rispose sia la dottrina stessa, che la Corte la quale
dimostrò che queste conclusioni erano necessariamente errate. Infatti, come per
l’interesse nazionale, anche per tale funzione si rispose per una sua sopravvivenza
data da esigenze di coerenza interna del sistema di cui non può fare a meno neanche
il sistema federalisticamente più spinto, tanto meno il nostro.
295
Come ho osservato nel paragrafo precedente, per quanto valorizzata,
l’autonomia non può significare scomparsa o indifferenza per le esigenze unitarie e
per quella categoria di interessi di tutta la comunità nazionale di cui solo un’entità di
così ampia portata, quale lo Stato, può farsi portatore.
Essa, dunque, sopravvive ancora ma, e questa è la seconda precisazione
necessaria per questa riflessione, di questa, nel mutato ordinamento costituzionale,
non possono non esserne ripensate le modalità di esercizio (alcuni hanno proposto
che si dovrebbe trattare essenzialmente di atti tipizzati) e i presupposti di tale
esercizio.
E’ chiaro, però che tale funzione se sopravvive, si mantiene legata a doppio
nodo, da un lato con l’interesse nazionale (come strutturato adesso, e cioè
strettamente correlato alla leale collaborazione), e dall’altro lato al principio di
sussidiarietà (verticale).
Ed in ciò è necessaria un’ulteriore precisazione. Comune è, infatti,
l’affermazione per cui il nuovo testo del Titolo V°, introducendo il principio di
sussidiarietà come criterio di allocazione delle funzioni amministrative, abbia
scalzato il principio del parallelismo delle funzioni legislative e amministrative, che
era stato in precedenza uno degli assi ordinatori della ripartizione delle attribuzioni.
Ma, come giustamente osservato da alcuni attenti studiosi, il principio del
parallelismo e il principio di sussidiarietà non sono in antitesi, perché non stanno
affatto sullo stesso piano. Si differenziano per origine, per funzione, per ambito e
per “valore” protetto.
Il principio di parallelismo è un principio giurisprudenziale, elaborato dalla
Corte costituzionale sulla base degli artt.117 e 118 Cost.
La sua funzione era di fornire alla Corte stessa un criterio per la ri-definizione
delle funzioni legislative regionali, ed estenderle anche laddove le Regioni potessero
vantare soltanto funzioni amministrative delegate dallo Stato (per questa via la Corte
è stata indotta ad accreditare la formazione, per l’evoluzione della legislazione
statale, di “nuove materie” di competenza legislativa regionale)408.
Il principio di sussidiarietà invece è un principio di politica legislativa, rivolto al
legislatore tanto statale che regionale e la sua funzione è indicare una generale e
generica preferenza per il conferimento legislativo delle funzioni amministrative al
livello più basso della piramide del sistema politico-amministrativo, quello
comunale, sempre che non vi siano ragioni valide per richiamarne l’esercizio ad un
livello più elevato. Il suo ambito, dunque, è stato esteso a tutti i livelli di governo ed
il suo “valore” è stato forgiato su un bilanciato equilibrio tra il principio di autoamministrazione delle collettività locali e il principio di efficienza (o
“adeguatezza”).
Ciò che si osserva è, dunque, che non vi sono ragioni per ritenere che i due
principi, di parallelismo e di sussidiarietà, siano necessariamente in posizione di
contrasto o di incompatibilità: tanto è vero che la stessa Corte costituzionale,
giudicando della c.d. “legge Bassanini I”, ha considerato compatibili il “vecchio”
408
Il suo “valore” è stato il principio di legalità, che impone agli organi amministrativi (regionali) di
agire, anche quando esercitino funzioni delegate, sulla base di una disciplina legislativa (un esplicito
collegamento tra principio di parallelismo e principio di legalità si trova per esempio nella sentenza n.65
del 1982: “la Corte ha più volte riaffermato (da ultimo, nella sentenza n. 70 del 1981) la regola del
parallelismo tra funzioni amministrative e legislative regionali, senza di che rimarrebbe insoddisfatta
la stessa esigenza di legalità dell'amministrazione”).
296
principio costituzionale del parallelismo con il “nuovo” principio, ora
costituzionalizzato, di sussidiarietà (vedi la sentenza n.408/’98).
La pre-esistenza di un assetto legislativo delle attribuzioni amministrative degli
Enti Locali tende a smorzare le differenze tra il principio di sussidiarietà, predicato
dall’attuale testo costituzionale, e il criterio del “variabile livello degli interessi”,
che caratterizzava il precedente assetto, almeno nell’interpretazione della Corte
costituzionale. L’unica differenza concettuale che si sottolinea tra i due criteri è che,
il principio di sussidiarietà parte dalla premessa che tutte le funzioni amministrative
siano in principio attribuite al Comune, salvo quelle che un’esplicita disposizione di
legge attribuisca ad un livello superiore per ragioni attinenti l’adeguatezza o per
l’esigenza di assicurarne l’esercizio unitario; nell’assetto precedente non valeva
questa monistica attribuzione originaria delle competenze, perché le Regioni erano
intestatarie delle funzioni amministrative “parallele” a quelle legislative, gli Enti
Locali di quelle attinenti agli “interessi esclusivamente locali”, lo Stato tanto delle
funzioni in materia regionale il cui esercizio non fosse “frazionabile”, quanto di ogni
altra funzione pubblica, non altrui intestata. Quindi, la clausola residuale che oggi
sembra operare, in nome del principio di sussidiarietà, a favore del Comune, ieri
operava, invece, a favore dello Stato, in nome del principio di sovranità. Differenza
non da poco, certo, anche perché ogni spostamento delle funzioni dal “luogo” in cui
esse sono originariamente allocate è suscettibile di un giudizio da parte della Corte
costituzionale da svolgersi in termini di ragionevolezza: mentre ieri la Corte doveva
valutare la sussistenza di valide motivazioni dell’attrazione verso il centro di
funzioni rientranti nelle materie di competenza regionale, o dell’esercizio da parte
delle Regioni di funzioni esclusivamente locali, oggi tutte le disposizioni che
spostano l’esercizio di funzioni amministrative dalla loro sede “naturale”, il
Comune, dovrebbero essere suscettibili di uno strict scrutiny che verifichi la
sussistenza di validi motivi.
Tuttavia, se è vero che partiamo da un quadro legislativo che già distribuisce
capillarmente le funzioni amministrative tra i diversi enti, è evidente che l’impatto
di una trasformazione di così enorme portata sul piano dei principi subisce una
notevolissima attenuazione nella sua operatività concreta. Infatti allo strict scrutiny
sarebbero sottoponibili solo le leggi (statali e regionali) che sottraessero ai Comuni
le funzioni di cui già oggi sono intestatari, mentre appare più ardua l’impugnazione
di leggi che perpetuassero la disciplina di funzioni che sono già in capo ad enti
diversi.
Ciò che, dunque, è bene osservare è che la possibilità di esercitare la funzione di
indirizzo e coordinamento non è scomparsa con la riforma del 2001, bensì sono
cambiate le modalità attuative ed i presupposti di tale attuazione che, malgrado
tutto, sopravvive anche nel nuovo ordinamento costituzionale.
Per iniziare un’analisi della giurisprudenza costituzionale in tal senso, si può
gettare lo sguardo sulla sentenza n.407 del 2002 in cui per la prima volta si torna ad
affrontare il problema dell’indirizzo e coordinamento alla luce della riforma del
2001 (le sentenze precedenti, essendo state promosse con ricorsi anteriori alla
riforma sono state decise sul principio tempus regit actum e quindi non mi
consentono di vedere come, secondo la Corte, la riforma del 2001 abbia inciso su
tale funzione).
297
In essa si affronta il ricorso presentato dal Presidente del Consiglio dei Ministri,
nei confronti della Regione Lombardia relativamente all’art.3, comma 1, art.4,
comma 2, art.5, commi 1 e 2, della legge regionale 23 novembre 2001, n. 19 (Norme
in materia di attività a rischio di incidenti rilevanti), in riferimento all'art.117,
secondo comma, lettere h) ed s), della Costituzione, nonché agli artt.8, 9, 15, 18, 21
e 28 del decreto legislativo n. 334 del 1999 ed all'art. 72 del decreto legislativo n.
112 del 1998.
Premesso che la disciplina delle attività a rischio di incidente rilevante è
riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, a norma dell'art. 117, secondo
comma, lettere h) ed s), della Costituzione, il ricorrente sottolineava che questo tipo
di riserva, innanzi tutto, escludeva, per definizione, che i livelli di sicurezza per
attività egualmente pericolose potessero essere diversi da Regione a Regione ed in
secondo luogo escludeva, conseguentemente, che potessero essere previsti
adempimenti diversificati per le varie imprese, con possibile alterazione anche delle
regole della concorrenza. Le disposizioni regionali impugnate sarebbero state,
pertanto, ad avviso del ricorrente, costituzionalmente illegittime, in quanto
invadevano la competenza esclusiva dello Stato in materia di "sicurezza" ed
"ambiente", avendo altresì un contenuto che, sotto vari profili, era difforme e
contrastante rispetto ad una serie di norme "fondamentali" della disciplina statale.
Dinnanzi a tali eccezioni la Corte rispose per l’infondatezza del ricorso in
quanto osservava che la disciplina specifica delle attività a rischio di incidenti
rilevanti si è sviluppata soprattutto in ambito comunitario (a decorrere dalla direttiva
82/501 C.E.E. del 24 giugno 1982, la c.d. "direttiva Seveso", la quale introdusse
prescrizioni dirette alla prevenzione dei rischi industriali, coinvolgendo
specialmente il responsabile dell'attività a rischio)409.
Il predetto atto comunitario è stato modificato dalla direttiva 96/82 C.E. del 9
dicembre 1996, che ha accentuato il profilo del controllo tecnico-ispettivo, anche
prevedendo forme di pianificazione urbanistica ed ambientale del territorio esterno
agli stabilimenti. In attesa dell'attuazione di questa direttiva, l'art. 72 del D.Lgs. 31
marzo 1998, n. 112, ha innovato il quadro organizzativo precedente, conferendo alle
Regioni, sia pure previa adozione di una specifica normativa, anche le competenze
amministrative concernenti gli impianti a maggiore pericolosità, soggetti alla c.d.
"notifica", e mantenendo allo Stato essenzialmente compiti di indirizzo e
coordinamento410.
Come la stessa Corte riconosceva, lo scrutinio di costituzionalità delle
disposizioni regionali censurate andava condotto sulla base del quadro di riparto
409
Il decreto di attuazione (il D.P.R. 17 maggio 1988, n. 175) stabilì infatti una serie di obblighi a carico
dei fabbricanti, prevedendo altresì un complesso procedimento di controllo, con l'intervento di una
pluralità di soggetti pubblici, nel cui ambito le Regioni, in particolare, furono chiamate a svolgere compiti
di vigilanza sugli impianti a minore pericolosità, soggetti alla c.d. "dichiarazione", nonché sul rispetto
delle misure di sicurezza.
410
Successivamente il decreto di recepimento (D.Lgs. 17 agosto 1999, n. 334) ha ulteriormente ampliato
le precedenti competenze delle Regioni attribuendo ad esse anche la disciplina dell'attività procedimentale
connessa all'istruttoria tecnica, nonché l'individuazione delle procedure più idonee per l'adozione degli
interventi di salvaguardia dell'ambiente e del territorio di insediamento degli stabilimenti.
298
delle competenze tra Stato e Regioni uscito dalla riforma del 2001411.
411
A questo scopo, il primo problema da risolvere, ai fini della determinazione della competenza ai sensi
dell'art. 117 della Costituzione, riguarda l'individuazione della "materia" alla quale ricondurre la legge
regionale in esame; materia che, secondo il ricorrente, è da identificare nei disposti delle lettere h) e s)
dell'art. 117, secondo comma, della Costituzione.
In proposito, appare improprio, nella fattispecie in esame, il riferimento alla materia "sicurezza", di cui
alla lettera h) del citato art. 117. Non sembra infatti necessario a questo scopo accertare, in una
prospettiva generale, se nella legislazione e nella giurisprudenza costituzionale la nozione di "sicurezza
pubblica" assuma un significato restrittivo, in quanto usata in endiadi con quella di "ordine pubblico", o
invece assuma una portata estensiva, in quanto distinta dall'ordine pubblico, o collegata con la tutela della
salute, dell'ambiente, del lavoro e così via. E' sufficiente infatti constatare che il contesto specifico della
lettera h) del secondo comma dell'art. 117 (che riproduce pressoché integralmente l'art. 1, comma 3 lettera
l), della legge n. 59 del 1997) induce, in ragione della connessione testuale con "ordine pubblico" e
dell'esclusione esplicita della "polizia amministrativa locale", nonché in base ai lavori preparatori, ad
un'interpretazione restrittiva della nozione di "sicurezza pubblica". Questa infatti, secondo un tradizionale
indirizzo di questa Corte, è da configurare, in contrapposizione ai compiti di polizia amministrativa
regionale e locale, come settore riservato allo Stato relativo alle misure inerenti alla prevenzione dei reati
o al mantenimento dell'ordine pubblico (sentenza n. 290 del 2001).
Alla luce di queste considerazioni, le disposizioni legislative in questione non rientravano nell'ambito
materiale riservato alla competenza esclusiva dello Stato dalla lettera h) dell'art. 117, secondo comma,
della Costituzione.
La disciplina in esame è invece riconducibile al disposto dell'art. 117, secondo comma, lettera s), della
Costituzione, relativo alla tutela dell'ambiente.
A questo riguardo si precisava che non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma dell'art.
117 possono, in quanto tali, configurarsi come "materie" in senso stretto, poiché, in alcuni casi, si tratta
più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie (vedi la
sentenza n. 282 del 2002). In questo senso l'evoluzione legislativa e la giurisprudenza costituzionale
portano ad escludere che possa identificarsi una "materia" in senso tecnico, qualificabile come "tutela
dell'ambiente", dal momento che non sembra configurabile come sfera di competenza statale
rigorosamente circoscritta e delimitata, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente
con altri interessi e competenze. In particolare, dalla giurisprudenza della Corte antecedente alla nuova
formulazione del Titolo V° della Costituzione è agevole ricavare una configurazione dell'ambiente come
"valore" costituzionalmente protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia "trasversale", in
ordine alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali, spettando allo
Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull'intero territorio
nazionale (in tal senso vedi le sentenze n. 507 e n. 54 del 2000, n. 382 del 1999, n. 273 del 1998).
Anche nella fattispecie in esame, del resto, emerge dalle norme comunitarie e statali, che disciplinano il
settore, una pluralità di interessi costituzionalmente rilevanti e funzionalmente collegati con quelli
inerenti in via primaria alla tutela dell'ambiente. A questo proposito occorre, innanzi tutto, ricordare che
nei "considerando" della citata direttiva 96/82/CE si afferma, tra l'altro, che la prevenzione di incidenti
rilevanti è necessaria per limitare le loro "conseguenze per l'uomo e per l'ambiente", al fine di "tutelare la
salute umana", anche attraverso l'adozione di particolari politiche in tema di destinazione e utilizzazione
dei suoli. Più specificamente, il citato decreto legislativo di recepimento n. 334 del 1999, dopo avere,
all'art. 1, premesso che il decreto stesso contiene disposizioni finalizzate a prevenire incidenti rilevanti
connessi a determinate sostanze pericolose e a "limitarne le conseguenze per l'uomo e per l'ambiente",
all'art. 3, comma 1, lettera f), definisce "incidente rilevante" l'evento che "dia luogo ad un pericolo grave,
immediato o differito, per la salute umana o per l'ambiente". E gli stessi concetti vengono sostanzialmente
ribaditi anche negli artt. 7, comma 1, e 8, commi 2 e 10, cosicché si può fondatamente ritenere, in
riferimento alle norme citate, che il decreto in esame attenga, oltre che all'ambiente, anche alla materia
"tutela della salute", la quale, ai sensi dell'art. 117 della Costituzione, rientra nella competenza
concorrente delle Regioni.
Così pure rientra nella competenza concorrente regionale la cura degli interessi relativi alla materia
"governo del territorio", cui fanno riferimento, in particolare, gli artt. 6, commi 1 e 2, 8, comma 3, 12 e 14
dello stesso decreto, i quali prescrivono i vari adempimenti connessi all'edificazione e alla localizzazione
degli stabilimenti, nonché diverse forme di "controllo sull'urbanizzazione". Anche le competenze relative
alla materia della "protezione civile" possono essere individuate in alcune norme del citato decreto, come,
ad esempio, l'art. 11, l'art.12, l'art. 13, comma 1 lettera c), comma 2 lettere c) e d), l'art. 20 e l'art. 24, le
299
Ora, prescindendo dalle conclusioni a cui la pronuncia giunse, m’interessa
soffermarmi sul metodo (cioè le motivazioni). La Corte, nel risolvere la questione si
è dovuta, prima di tutto, preoccupare di inquadrare la materia di cui si trattava
nell’ambito delle diverse tipologie di competenza legislativa.
Dopo aver individuato la materia nella “tutela dell’ambiente”, e quindi al
secondo comma art.117 (cioè la competenza concorrente), essa ha affermato che, la
legislazione regionale emanata non era incostituzionale “dal momento che non
sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e
delimitata, giacché, al contrario, essa investe e si intreccia inestricabilmente con
altri interessi e competenze. In particolare, dalla giurisprudenza della Corte
antecedente alla nuova formulazione del Titolo V° della Costituzione è agevole
ricavare una configurazione dell'ambiente come "valore" costituzionalmente
protetto, che, in quanto tale, delinea una sorta di materia "trasversale", in ordine
alla quale si manifestano competenze diverse, che ben possono essere regionali,
spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di
disciplina uniforme sull'intero territorio nazionale”.
Conclusioni, dunque, uguali a quelle del parallelo concetto di interesse
nazionale. Ove c’è competenza esclusiva il problema non si pone, ove, invece, c’è
competenza concorrente, le Regioni legiferano, ma lo Stato non ha perso i vecchi
strumenti di coordinamento delle esigenze unitarie (nel caso l’indirizzo e
coordinamento).
Altra pronuncia, decisiva per l’argomento, fu la successiva sentenza n.186 del
2003 in cui la Provincia Autonoma di Trento ha proposto questione di legittimità
costituzionale in via principale, in riferimento a numerose disposizioni dello statuto
di autonomia e delle relative norme di attuazione, nonché ai principi costituzionali
in materia di funzione di indirizzo e coordinamento, dell’articolo 2, commi 1, 4, 5,
6, 7, 9 e 10 della legge 23 dicembre 1999, n. 499 (Razionalizzazione degli interventi
nei settori agricolo, agroalimentare, agroindustriale e forestale).
La questione che qui mi interessa analizzare fu quella che concerné il comma 4
dell’art.2. La ricorrente lamentò, infatti, che il potere di indirizzo e coordinamento
attribuito dal comma 4 dell’art. 2 al Ministro delle Politiche Agricole e Forestali
mancava dei requisiti di forma e di sostanza ai quali, nella giurisprudenza
costituzionale, era stato subordinato il legittimo esercizio della relativa funzione412.
Specificamente, si ritenevano violati: il principio di legalità sostanziale, per la
mancata predeterminazione legale di un qualunque contenuto dell’atto di indirizzo;
la regola della competenza del Consiglio dei Ministri in ordine all’adozione di esso.
quali prevedono essenzialmente la disciplina dei vari piani di emergenza nei casi di pericolo "all'interno o
all'esterno dello stabilimento". Infine, alcune norme, come, in particolare, i citati artt. 5, commi 1 e 2, ed
11 dello stesso decreto, sono riconducibili anche alla materia "tutela e sicurezza del lavoro", egualmente
compresa nella legislazione concorrente. In definitiva quindi il predetto decreto n. 334 del 1999 riconosce
che le Regioni sono titolari, in questo campo disciplinare, di una serie di competenze concorrenti, che
riguardano profili indissolubilmente connessi ed intrecciati con la tutela dell'ambiente.
412
Vedi, ad esempio le sentenze n. 63 del 2000, n. 169 del 1999, n. 408 del 1998, n. 121 del 1997, n. 359
del 1991.
300
In modo particolare, è da vedere che la Corte ritenne la questione non fondata
sostenendo che, diversamente da quanto, la denominazione impiegata (linee di
indirizzo e coordinamento), potrebbe indurre prima facie a ritenere, la disposizione
in oggetto, letta insieme al successivo comma 5, mostra chiaramente come il
Ministro delle Politiche Agricole e Forestali sia chiamato a svolgere attività, le quali
sono inserite in un articolato percorso procedimentale che sfocia in un atto non
qualificabile come atto di indirizzo e coordinamento. Tale atto si pone al culmine di
una procedura concertativa alla quale partecipano soggetti diversi: l’anzidetto
comma 5 prevede il coinvolgimento di organizzazioni professionali agricole,
organizzazioni cooperative, organizzazioni sindacali degli operatori agricoli,
associazioni dei produttori e dei consumatori, organizzazioni agro-industriali di
settore e comunque impone al Ministro di sentire la Conferenza permanente per i
rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano e di
acquisire il parere delle competenti Commissioni parlamentari.
In questa cornice, che vede una pluralità di enti sociali e istituzionali cooperare
alla formazione del Documento di Programmazione Nazionale in Agricoltura, le
linee di indirizzo ministeriale, lungi dal comportare vincoli diretti nei confronti delle
amministrazioni regionali (salvo l’onere, peraltro non contestato, di uniformarsi ai
criteri dettati per l’omogenea redazione dei programmi regionali) rappresentano
soltanto una fase di un procedimento complesso, destinato a concludersi con la
delibera da parte del C.I.P.E. Né la circostanza che il legislatore abbia utilizzato una
terminologia impropria potrebbe dirsi sufficiente ad imprimere all’atto caratteri ed
effetti giuridici che oggettivamente non gli sono propri.
Dunque, la Corte non negava l’esistenza del potere di indirizzo e coordinamento,
ma piuttosto rinnovava quel principio di legalità sostanziale che è presupposto ad
esso, non facendo altro che confermare le linee giurisprudenziali ante riforma.
Altra interessante pronuncia fu la sentenza n.221 del 2003 in cui la Corte
affrontò il ricorso della Regione Valle d’Aosta per questione di legittimità
costituzionale della legge 30 marzo 2001, n. 152, recante “Nuova disciplina per gli
istituti di patronato e di assistenza sociale”.
Secondo la ricorrente la normativa impugnata sarebbe stata in contrasto con gli
artt. 3, 97 e 116 della Costituzione, nonché 3, 4 e 38 dello statuto speciale per la
Valle d’Aosta (legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4), in quanto, nel
disciplinare le attività degli istituti di patronato e di assistenza sociale, avrebbe
ignorato, del tutto, la posizione della Valle d’Aosta, privandola integralmente delle
proprie competenze e facendo venire meno, in particolare, la possibilità per le
organizzazioni maggiormente rappresentative sul piano regionale di costituire e
gestire gli istituti di patronato e di assistenza sociale, con un trattamento peraltro
discriminatorio rispetto alle province di Trento e Bolzano che finirebbe per
riflettersi in maniera negativa sullo stesso andamento della pubblica
amministrazione, con la quale gli istituti di patronato, pur soggetti di diritto privato,
sono chiamati a collaborare nello svolgimento di “un servizio di pubblica utilità”
(art. 1 della legge impugnata).
301
Ora, a prescindere dalle conclusioni cui giunse la Corte413, è su una delle
eccezioni della Regione che voglio soffermarmi, e precisamente quella con cui, in
ordine alle competenze amministrative di cui all’art. 4 dello statuto speciale, la
Regione Valle d’Aosta sosteneva che la funzione statale di indirizzo e
coordinamento, riconosciuta anche nei confronti delle Regioni a Statuto Speciale,
non poteva estendersi fino al punto da esautorare completamente la Regione
dall’esercizio del potere che le è attribuito da una norma di rango costituzionale. E,
continuava, osservando che ad ogni modo, non potrebbero essere qualificate come
di “indirizzo e coordinamento” le norme che escludono la possibilità,
precedentemente ammessa, del riconoscimento di istituti di patronato che possano
operare nell’ambito esclusivo della Regione Valle d’Aosta, tenuto conto delle
particolarità del territorio e della popolazione regionale, e che, per di più,
attribuiscono al Ministro i poteri di riconoscimento, vigilanza e di
commissariamento. Il venire meno del riconoscimento delle prerogative regionali
sul territorio della Valle d’Aosta, oltre che evidenziare una violazione del principio
di eguaglianza rispetto alle Province autonome, finiva, infatti, per riflettersi in
maniera negativa sullo stesso andamento della pubblica amministrazione, con la
quale gli istituti di patronato, pur soggetti di diritto privato, sono chiamati a
collaborare, tanto da essere chiamati dall’art. 1 della legge impugnata a svolgere “un
servizio di pubblica utilità”.
Ciò che è, dunque, bene osservare è che, la Regione stessa non metteva in
dubbio l’esistenza della funzione di indirizzo e coordinamento, ma si limitava a
contestarne la natura del caso specifico, dicendo che non può intendersi tale quella
funzione riservata dalla legge allo Stato che esautora la Regione dall’esercizio di
una competenza di suo interesse. Ciò che, implicitamente, si contestava, dunque non
era la previsione delle funzione in quanto tale, quanto piuttosto l’assenza di forme di
concertazione nell’esercizio della stessa. Si cominciano, quindi, ad intravedere
elementi di richiamo simili all’interesse nazionale. La funzione era accettata nella
sua esistenza, ma solo se contemperata da un esercizio che si colleghi al concetto di
leale collaborazione che ormai compenetra tutta la materia dei rapporti tra enti
territoriali.
Trattando di leale collaborazione vediamo la sentenza 19 giugno – 4 luglio
2003 n.228. Con tale pronuncia si affrontano svariati ricorsi che aggrediscono il
medesimo testo normativo, quale il decreto legge 7 settembre 2001 n.343 (riportante
“Disposizioni urgenti per assicurare il coordinamento operativo delle strutture
preposte alle attività di protezione civile”) e nella successiva legge, di conversione,
9 novembre 2001 n.401 (con un testo emendato in numerosi punti rispetto a quello
contenuto nell’originario decreto legge). Tali ricorsi vennero presentati in due
blocchi separati: un primo, mosso contro il decreto legge, è l’insieme delle censure
mosse dalle Regioni Toscana, Emilia-Romagna e Umbria; un secondo, mosso
413
La Corte dichiarò infondato il ricorso osservando che “In realtà, la legge n. 152 del 2001 reca, come
sottolineato dall’Avvocatura dello Stato, una nuova disciplina degli enti di patronato e di assistenza
sociale a livello nazionale senza incidere sugli analoghi istituti operanti a livello regionale, rispetto ai
quali, con particolare riferimento alla Valle d’Aosta, continuano ad applicarsi le disposizioni contenute
nel decreto attuativo dello statuto. La legge impugnata non si propone, dunque, di disciplinare
organicamente gli enti di patronato operanti a livello regionale, sicché non possono ritenersi nemmeno
implicitamente abrogate le norme di attuazione dello statuto valdostano”.
302
contro la legge di conversione, è rappresentato dalle censure proposte,
separatamente dalle Province Autonome di Trento e di Bolzano.
Alla luce di tale distinzione la Corte, ritenendo opportuno procedere in riunione
dei ricorsi414, diede vita ad una pronuncia il cui corpo decisionale è evidentemente
sdoppiato in due tronconi principali, all’interno dei quali vengono affrontate e
decise le singole censure sollevate con i due gruppi di ricorsi.
Al primo gruppo di censure è dedicato il punto 3 delle considerazioni in diritto,
al secondo gruppo il punto 4.
Riguardo al primo gruppo di censure, le suddette Regioni, aggredivano il citato
decreto legge sostenendo la violazione degli artt.5, 117 e 118 della Costituzione,
sotto il profilo della lesione del principio della leale collaborazione fra Stato e
Regioni: a) in quanto la soppressione dell’Agenzia avrebbe fatto venir meno una
sede istituzionale di raccordo e concertazione in materia di protezione civile; b) in
quanto tale soppressione era stata disposta dal Governo senza la preventiva
sottoposizione del testo del decreto-legge, al parere della Conferenza Stato-Regioni,
ai sensi dell’art. 2, terzo e quarto comma, del D.Lgs. n.281/’97, pur non ricorrendo
una situazione d’urgenza (che comunque avrebbe dovuto essere dichiarata dal
Presidente del Consiglio, e avrebbe imposto una consultazione successiva); c) in
quanto, la normativa impugnata si sarebbe posta in contrasto, con l’art. 76 Cost., per
la lesione delle attribuzioni regionali causata dal contenuto di un decreto-legge
emanato in difetto dei presupposti di necessità e urgenza.
In modo particolare venivano aggrediti i seguenti articoli del decreto legge in
commento:
1) l’art.5, impugnato per violazione degli artt.95, 117 e 118 della Costituzione,
in quanto attribuiva esclusivamente al Presidente del Consiglio dei Ministri i poteri
di coordinamento in materia di protezione civile già svolti (in base all’art.81,
comma 1, lett. a, del decreto legislativo n.300 del 1999) dall’Agenzia, con la
definizione d’indirizzi approvati dal Consiglio dei Ministri, “così sottraendo una
funzione di indirizzo (anche) delle Regioni alla sede, costituzionalmente necessaria,
del Consiglio dei Ministri, in violazione dei limiti costituzionali relativi alle funzioni
statali di indirizzo delle attività regionali”;
2) l’art.7, in base al quale “nelle materie oggetto del presente decreto restano
ferme le attribuzioni di cui al decreto legislativo 12 marzo 1948, n.804”, che
disciplina il Corpo Forestale dello Stato, a sua volta da censurare per violazione
(quanto alla sostanza) degli artt.5 e 118 della Costituzione e (quanto al modus
procedendi) del principio di leale collaborazione: poiché, le funzioni del medesimo
Corpo forestale (“salvo quelle necessarie all’esercizio delle funzioni di competenza
statale in materia di protezione dell’ambiente”) erano già state trasferite alle
Regioni da legislazione precedente, la norma avrebbe inciso negativamente sulla
ripartizione di competenze così operata, sulla base di procedure di cooperazione
svolte in sede di Conferenza Stato-Regioni, e ripristinato parzialmente le funzioni
del Corpo forestale dello Stato, per cui lo Stato si sarebbe riappropriato
unilateralmente di funzioni già trasferite alle Regioni.
414
La stessa nel punto 2 delle considerazioni in diritto, affermò che “Le questioni sollevate in via
principale dalle Regioni e Province autonome ricorrenti investono la medesima disciplina, riguardante la
soppressione dell’Agenzia di protezione civile ed il trasferimento delle relative funzioni ad apparati
governativi; pertanto i giudizi possono essere riuniti e decisi congiuntamente”.
303
Infine, le ricorrenti impugnavano l’intero decreto-legge, n.343 del 2001, per
violazione degli artt.77, 117 e 118 della Costituzione, poiché provvedimento assunto
senza i necessari presupposti giustificativi costituzionali, non essendo valide le
ragioni addotte nel preambolo dell’atto a fondamento dell’urgenza.
A tali censure, la Corte rispose dichiarando inammissibili i ricorsi a causa del
nuovo contesto normativo riconosciuto come “evidentemente diverso da quello che
ha dato origine alle impugnazioni, e (che) tiene ampiamente conto delle critiche
mosse dalle Regioni ricorrenti alla mancanza di strumenti collaborativi”, tanto che,
la stessa osservava, la Regione Toscana aveva concluso l’esposizione del ricorso,
chiedendo, alla Corte, di prendere atto del suo sopravvenuto difetto d’interesse al
ricorso.
Ciò avvenne giacché, con tale pronuncia, la Corte si trovò dinnanzi ad una
situazione ben particolare. Infatti, la stessa fu costretta a rilevare che mentre il
decreto legge era di data anteriore alla riforma, del 2001, del Titolo V° Cost. (tant’è
che le impugnazioni, anch’esse anteriori, si richiamavano ai parametri contenuti in
tale parte della Costituzione, prima della riforma stessa), la legge di conversione era,
invece, di data successiva a tale riforma. Inoltre, si osservava che, quest’ultima,
aveva portato notevoli cambiamenti al testo iniziale, determinate, tra l’altro,
dall’accoglimento di specifiche proposte emendative avanzate dai rappresentanti di
Enti Locali, Regioni e Province Autonome in sede di Conferenza Unificata, la quale
ha conseguentemente espresso parere favorevole sul disegno di conversione (seduta
dell’11 ottobre 2001)415. Infatti, in tal ultima legge, si prevedeva l’istituzione presso
la Presidenza del Consiglio dei Ministri di un Comitato paritetico Stato-RegioniEnti Locali, nel quale la Conferenza Unificata, di cui al D.Lgs. n. 281 del 1997,
avrebbe designato i propri rappresentanti. Sono stati poi introdotti i commi 3-bis, 3ter e 4-bis, che hanno disciplinato la composizione degli organi consultivi e
operativi di cui si avvale il Presidente del Consiglio (Commissione nazionale per la
previsione e la prevenzione dei grandi rischi, Comitato operativo della protezione
civile, Dipartimento della protezione civile), prevedendo espressamente la presenza
d’esperti designati dalle Regioni e le modalità di partecipazione diretta di Regioni
ed Enti Locali alla loro attività.
Alla luce di ciò, la Corte, osservando che “la sopravvenuta modifica
costituzionale preclude di per sé che la questione posta sulle norme del decretolegge, in riferimento ai parametri costituzionali allora vigenti, possa essere
trasferita alle norme della legge di conversione, in riferimento a parametri
nuovi”416, precisava che si sarebbe dovuta attenere alle sole questioni concernenti le
norme del decreto legge, in riferimento ai vecchi parametri costituzionali, cosa,
però, inutile, in quanto, la stessa rilevava che, non risultava, né era stato allegato,
che esse, prima dell’entrata in vigore della legge di conversione (che le ha
modificate), siano state applicate, e concludendo, dunque, per l’esclusione di ogni
415
In particolare, era stato completamente riscritto proprio l’art. 5 del decreto-legge, oggetto di gran parte
delle censure concernenti l’attribuzione al Presidente del Consiglio dei poteri di coordinamento prima
svolti dalla soppressa Agenzia, che avrebbe determinato, secondo le ricorrenti, l’eliminazione degli
strumenti di collaborazione previsti dalla normativa previgente e la conseguente sottrazione alle Regioni
della funzione di indirizzo (anche) ad esse spettante.
416
Sotto quest’ultimo profilo, infatti, la stessa rilevava che essa sarebbe <<questione diversa>> rispetto a
quella originariamente sollevata, e avrebbe quindi dovuto essere proposta, nei modi e nei termini di cui al
nuovo art. 127 della Costituzione, nei confronti della legge di conversione. La conclusione vale anche per
le norme che (come l’art. 7 del decreto) siano, in sede di conversione, rimaste, sostanzialmente immutate.
304
concreto effetto lesivo in danno delle Regioni ricorrenti, conseguendone la
sopravvenuta carenza di interesse delle medesime Regioni a coltivare i ricorsi, e
quindi l’inammissibilità delle questioni con essi sollevate (cosa ben particolare se
osserviamo che la Corte non affronta il problema nella sostanza, ma si limita ad
osservare il venir meno della questione a causa della cessazione in vita della
normativa impugnata). Ciò che rileva è che tale tecnica, in realtà, avrebbe voluto
muoversi a fini defatiganti (alleggerendo il contenzioso costituzionale) secondo una
metodologia anche semplice (quale quella di rilevare che il testo impugnato non è
venuto meno, ma che non ha, in ogni caso, prodotto alcuna lesione). Ma in effetti,
come abbiamo osservato, tale testo si è soltanto trasfuso nella legge di conversione,
per cui un’analisi della stessa si sarebbe potuta pure svolgere. Però, dato che
quest’ultima è stata emanata dopo l’entrata in vigore della riforma della legge
costituzionale n.3 del 2001, allora le Regioni perdevano interesse ad impugnare.
Ora, ciò che non capisco è: come si può pensare che le Regioni perdano interesse ad
impugnare un testo che ritengono lesivo della propria autonomia e della leale
collaborazione, a causa dell’entrata in vigore di un nuovo testo costituzionale che le
rafforza proprio sotto questi aspetti? E, come si può affermare che gli stessi sono
inammissibili ex nuovo art.127 Cost., se sono stati presentati prima della riforma
stessa?
In conclusione, la Corte volendo semplificare il proprio lavoro, ottiene due
effetti notevolmente negativi: a) un primo è che penalizza le Regioni (i cui tempi di
impugnativa ex nuovo art.127 Cost. sono ormai decorsi); b) e, penalizza se stessa, in
quanto racchiudendo e risolvendo con un colpo di spugna questa pluralità di ricorsi,
non fa altro che incentivare, le Regioni, a ripresentare, in futuro le stesse mozioni,
ed, al contempo, ad adottare tecniche che evitino soluzioni del genere (andando ad
intasare ulteriormente gli ingranaggi della giustizia costituzionale).
Venendo ora al secondo gruppo di censure (quelle delle Province Autonome di
Trento e di Bolzano), si deve osservare che esse, coincidendo tra loro (tant’è che la
Corte giunge ad unica soluzione per entrambe), coincidevano anche con quelle
presentate dal primo gruppo417. Ciò che invece caratterizzò tali ricorsi,
distinguendoli da quelli già analizzati, riguardò la loro natura. Infatti, in essi, tali
Province indicavano che l’impugnazione veniva proposta “in via cautelativa ed
ipotetica”, qualora si dovesse ritenere che l’espressa previsione delle funzioni di cui
ai citati commi dell’art. 5, della legge di conversione, costituisse attribuzione allo
Stato di funzioni non comprese nella formula di salvaguardia delle attribuzioni
Provinciali, di cui al comma 6 del medesimo articolo (richiamandosi, anche, alla
formula dell’art.10 della legge cost. n.3/’01); ed al riguardo deducendo la violazione
degli stessi parametri già precedentemente evocati nel ricorso (vedi il Ritenuto in
Fatto). Ciò che risultò evidente è che tali ricorsi furono presentati al dichiarato
scopo di ottenere «in via cautelativa ed ipotetica» un’interpretazione adeguatrice
delle norme impugnate, che le mantenga nel quadro delle relazioni tra lo Stato e le
Province Autonome, definite dallo statuto e dalle norme di attuazione delle Province
417
Salvo per quelle riguardanti gli aspetti dell’autonomia speciale di cui tali Province godono (vedi punto
1.3 delle Considerazioni in Fatto).
305
Autonome stesse418. A tali censure la Corte rispose dichiarandole infondate perché,
pur non potendosi escludere l’interpretazione restrittiva, della clausola di
salvaguardia ex comma 6 dell’art.5 della legge di conversione, essa osservava che:
“non esistono elementi da cui possa desumersi che la clausola non operi anche
rispetto agli altri commi del medesimo art. 5, e quindi anche ai compiti attribuiti
dalla normativa impugnata ad organi ed uffici statali diversi dal Dipartimento,
ovvero ai compiti del Dipartimento non provenienti dall’Agenzia”, concludendo che
“in difetto di indici contrari, l’esplicita affermazione della salvezza delle
competenze Provinciali si risolve - indipendentemente dalla lettera della norma e
dalla sua collocazione - nell’implicita conferma della sfera di attribuzioni delle
Province autonome, fondata sullo statuto speciale e sulle relative norme di
attuazione”.
Ciò che risalta di tal ultima parte della pronuncia, non sono tanto le conclusioni
della Corte, quanto, piuttosto, il ruolo svolto dalla Corte a fronte di tali ricorsi,
presentati in via cautelativa ed ipotetica. Infatti, alla luce di un ricorso che non
affronta lesioni concrete dell’autonomia, né, tanto meno, problematiche
d’incostituzionalità palesi, la Corte si trova a svolgere un ruolo di consulenza e di
prevenzione costituzionale. Di fronte al nuovo dettato costituzionale, tali enti si sono
mossi ancor prima del verificarsi di una concreta lesione dei loro interessi,
chiedendo alla Corte di dare quell’interpretazione della normativa emananda capace
di conciliarsi con il nuovo regionalismo italiano. Ciò, forse, non è positivo per il
problema della crescita del lavoro del giudice costituzionale (anche se, in fondo,
questa tecnica non è del tutto nuova), ma lo è, invece, per il ruolo che la Corte
riconosce a se stessa nel nostro ordinamento (vedi le motivazioni del rigetto, per
inammissibilità, della censura mossa dall’Avvocatura dello Stato contro tale tipo di
ricorsi; al punto 4.2 delle Considerazioni in Diritto) e che le Regioni riconoscono ad
essa, eleggendola a tutore della propria autonomia (in un ottica ben diversa rispetto
a qualche anno fa).
Comunque, ciò che, tornando al tema in discussione, è da sottolineare è proprio
il legame che anche in questa pronuncia si struttura tra poteri di indirizzo dello Stato
e leale collaborazione.
Un riferimento merita anche la già vista sentenza n.303 del 2003 in cui, la
Corte, prima di procedere all’analisi delle singole censure, si preoccupava di
osservare, al punto 2.1 delle C.i.D., che, a fronte di tali ricorsi, il suo ruolo non era
di giudicare se, le singole opere inserite nel programma censurato (ex legge
n.443/’01), meritassero di essere considerate strategiche, se era corretta la loro
definizione come interventi di preminente interesse nazionale o se con tali
qualificazioni erano lese competenze legislative delle Regioni. In tale sede, essa
affermava che, si trattava, solo, di accertare se il complesso iter procedimentale
prefigurato dal legislatore statale era ex se invasivo delle attribuzioni regionali (si
doveva, in altre parole, appurare se il legislatore nazionale aveva titolo per assumere
418
Secondo le ricorrenti, tale interpretazione potrebbe essere svolta in due modi: o estendendo la portata
della clausola di salvaguardia delle competenze delle Province autonome, contenuta nel comma 6 dell’art.
5, al di là dell’ambito di operatività risultante dalla sua formulazione letterale, che sembrerebbe limitato ai
soli compiti trasferiti dall’Agenzia al Dipartimento; ovvero considerando che i poteri governativi previsti
dalle norme impugnate devono essere esercitati nel rispetto delle regole relative ai rapporti StatoProvincia
306
e regolare l’esercizio di funzioni amministrative su materie in relazione alle quali
esso non vanti una potestà legislativa esclusiva, ma solo una potestà concorrente).
Infatti, la Consulta osservava che, il nuovo art.117 Cost. distribuisce le
competenze legislative in base ad uno schema imperniato sull’enumerazione delle
competenze statali, con un rovesciamento completo della previgente tecnica del
riparto che ha, ora, affidato alle Regioni, oltre alle funzioni concorrenti, le funzioni
legislative residuali.
Alla luce di ciò, dichiarava che “limitare l’attività unificante dello Stato alle sole
materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei
principi nelle materie di potestà concorrente, significherebbe bensì circondare le
competenze legislative delle Regioni di garanzie ferree, ma vorrebbe anche dire
svalutare oltremisura istanze unitarie che pure in assetti costituzionali fortemente
pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una
deroga alla normale ripartizione di competenze”. Essa, proseguiva affermando che
“nel nostro sistema costituzionale sono presenti congegni volti a rendere più
flessibile un disegno che, in ambiti nei quali coesistono, intrecciate, attribuzioni e
funzioni diverse, rischierebbe di vanificare, per l’ampia articolazione delle
competenze, istanze di unificazione presenti nei più svariati contesti di vita, le quali,
sul piano dei principi giuridici, trovano sostegno nella proclamazione di unità e
indivisibilità della Repubblica”. Si riconosceva, dunque, che un elemento di
flessibilità era (ed è) contenuto nell’art.118, primo comma, della Costituzione, il
quale si riferisce esplicitamente alle funzioni amministrative, ma introduce per
queste un meccanismo dinamico (dato dalla combinazione dei tre principi in esso
enunciati) che finisce col rendere meno rigida la stessa distribuzione delle
competenze legislative, là dove prevede che le funzioni amministrative,
generalmente attribuite ai Comuni, possano essere allocate ad un livello di governo
diverso per assicurarne l’esercizio unitario, sulla base dei principi di sussidiarietà,
differenziazione ed adeguatezza.
Una volta stabilito che, nelle materie di competenza statale esclusiva o
concorrente, in virtù dell’art.118, primo comma, la legge può attribuire allo Stato
funzioni amministrative (e riconosciuto anche che, in ossequio ai canoni fondanti
dello Stato di diritto, essa è anche abilitata a organizzarle e regolarle, al fine di
renderne l’esercizio permanentemente raffrontabile a un parametro legale), la Corte,
chiariva che “i principi di sussidiarietà e di adeguatezza convivono con il normale
riparto di competenze legislative contenuto nel Titolo V° e possono giustificarne
una deroga solo se la valutazione dell’interesse pubblico sottostante all’assunzione
di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risulti affetta da
irragionevolezza alla stregua di uno scrutinio stretto di costituzionalità, e sia
oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata”.
Si evidenziava che dal congiunto disposto degli artt.117 e 118, primo comma,
della Costituzione, è desumibile che il principio dell’intesa consegue alla peculiare
funzione attribuita alla sussidiarietà, che si discosta in parte da quella già conosciuta
nel nostro diritto di fonte legale. Enunciato nella legge 15 marzo 1997, n. 59 come
criterio ispiratore della distribuzione legale delle funzioni amministrative fra lo Stato
e gli altri enti territoriali e quindi già operante nella sua dimensione meramente
statica, come fondamento di un ordine prestabilito di competenze, quel principio,
con la sua incorporazione nel testo della Costituzione, vedeva, secondo la Corte,
mutare il proprio significato. Accanto alla primitiva dimensione statica, che si fa
307
evidente nella tendenziale attribuzione della generalità delle funzioni amministrative
ai Comuni, era resa, infatti, attiva, una vocazione dinamica della sussidiarietà, che
consentiva ad essa di operare non più come ratio ispiratrice e fondamento di un
ordine di attribuzioni stabilite e predeterminate, ma come fattore di flessibilità di
quell’ordine, in vista del soddisfacimento di esigenze unitarie.
Ecco, dunque, che la Corte procedé ad enunciare, con tale pronuncia, quella che
è stata definita una concezione procedimentale e consensuale della sussidiarietà e
dell’adeguatezza. Si comprende, infatti, come tali principi non possano operare quali
mere formule verbali capaci con la loro sola evocazione di modificare a vantaggio
della legge nazionale il riparto costituzionalmente stabilito (perché ciò equivarrebbe
a negare la stessa rigidità della Costituzione), e si comprende, anche, come essi non
possano assumere la funzione che aveva un tempo l’interesse nazionale (la cui sola
allegazione, non è ora, sufficiente a giustificare l’esercizio da parte dello Stato di
una funzione di cui non sia titolare in base all’art. 117 Cost.), in quanto in questa
sentenza, si osserva che “Nel nuovo Titolo V° l’equazione elementare interesse
nazionale uguale competenza statale, che nella prassi legislativa previgente
sorreggeva l’erosione delle funzioni amministrative e delle parallele funzioni
legislative delle Regioni, è divenuta priva di ogni valore deontico, giacché
l’interesse nazionale non costituisce più un limite, né di legittimità, né di merito,
alla competenza legislativa regionale”.
Ciò imponeva, per la Corte, l’annettere, ai principi di sussidiarietà e
adeguatezza, una valenza squisitamente procedimentale, poiché l’esigenza
d’esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla funzione amministrativa,
anche quella legislativa, può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale
solo alla presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto
risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese,
che devono essere condotte in base al principio di lealtà.
Prima, dunque, di affrontare i ricorsi nel dettaglio, essa si premurava ad
osservare che la disciplina contenuta nella legge n.443 del 2001, come quella recata
dal decreto legislativo n.190 del 2002, investono solo materie di potestà statale
esclusiva o concorrente “ed è quindi estranea alla materia del contendere la
questione se i principi di sussidiarietà e adeguatezza permettano di attrarre allo
Stato anche competenze legislative residuali delle Regioni”, chiarendo da subito,
che la mancata inclusione dei «lavori pubblici» nella elencazione dell’art.117 Cost.,
diversamente da quanto sostenuto in numerosi ricorsi, non implicava che essi
fossero oggetto di potestà legislativa residuale delle Regioni. Al contrario, si trattava
di ambiti di legislazione che non integravano una vera e propria materia, ma si
qualificavano secondo l’oggetto al quale afferiscono e pertanto possono essere
ascritti di volta in volta a potestà legislative esclusive dello Stato ovvero a potestà
legislative concorrenti. E, con ciò, rinnovavano il parallelismo tra l’at.117 e il 118
nella sua odierna veste di sussidiarietà.
Altra pronuncia meritevole di un breve commento è la sentenza n.376 del 2003.
Questa ha avuto un rilievo particolare in materia di autonomia finanziaria degli enti
territoriali419. In essa, le Regioni Marche, Toscana, Campania, Emilia-Romagna ed
Umbria, con ricorsi notificati in febbraio e depositati in cancelleria il nel marzo
419
Approfitto dell’occasione per riallacciarmi al discorso precedente sull’autonomia finanziaria degli enti
territoriali su cui non è arrivata nessuna concreta modifica. Anche il cambiamento dello stesso art.119 non
ha rappresentato una vera svolta nel settore, né tanto meno tale svolta poteva venire dalla giurisprudenza
308
costituzionale che ha al più rilevato il difetto di una vera svolta in materia. Cosa tanto auspicata ma mai
ottenuta.
E’ bene adesso soffermare l’attenzione su alcune sentenze depositate negli ultimi giorni dell’anno
appena terminato. Con esse, la Corte ha posto alcuni importanti tasselli nel mosaico di quel “federalismo
fiscale all’italiana” (per questa definizione vedi M.Barbero in “Prime indicazioni della Corte
Costituzionale in materia di Federalismo Fiscale”, pubblicato sul sito www.federalismi.it il 8 gennaio
2004), introdotto dall’articolo 5 della legge costituzionale n. 3/’01 (che, come abbiamo già visto, ha
modificato, fra gli altri, il testo originario dell’articolo 119 della Costituzione), ponendosi in una
posizione regionalista, dopo aver, invece, in merito e nell’immediato precedente, emanato pronunce
fortemente lesive del progetto di riforma del sistema istituzionale italiano come uscito dalla riforma del
2001 .
Infatti, con le sentenze n. 296/2003 e n. 297/2003, la Corte aveva posto i primi “paletti” in una materia
finora trascurata dalla legislazione ordinaria di attuazione della c.d. riforma federalista, delineando una
nozione di tributo regionale proprio probabilmente troppo restrittiva e certamente penalizzante (a fronte,
soprattutto, della evidente scarsità di basi imponibili libere) per l’autonomia tributaria delle Regioni. Il
predetto orientamento è stato successivamente ribadito dalla stessa Corte nella sentenza n. 311/2003 (in
cui si affrontava la questione relativa alla legge finanziaria regionale per l’anno 2002 della Regione
Campania, che - analogamente a quanto disposto dalle leggi regionali piemontese e veneta che avevano
originato il giudizio risolto con le due sentenze sopra citate - aveva prorogato i termini per il recupero
delle tasse automobilistiche dovute alla Regione medesima per l’anno 1999).
La prima, degna di essere annotata è la sentenza 17 dicembre 2003 n.370, pronunciata nei giudizi di
legittimità dell'articolo 70 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (recante “Disposizioni per la formazione
del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2002”), promossi con ricorsi delle
Regioni: Marche, Toscana, Emilia - Romagna e Umbria.
I rilievi sollevati dalle Regioni ricorrenti riguardavano, in particolare, le disposizioni relative alla
istituzione (nello stato di previsione del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali) ed alla
conseguente gestione (da parte dello stesso Ministero del Welfare, di concerto con quello dell’Economia e
con il parere non vincolante della Conferenza Unificata) di un fondo per gli asili nido.
Tali disposizioni, secondo le ricorrenti, si sarebbero poste in contrasto (fra l’altro) con l’articolo 119
della Costituzione, poiché quest’ultimo non avrebbe ammesso (nella sua attuale versione) fondi statali o
risorse statali aggiuntive a destinazione vincolata per le Regioni e gli Enti Locali. Secondo il nuovo
modello costituzionale, infatti, le funzioni pubbliche “normali” attribuite agli enti sub-statali e non
coperte dal gettito dei tributi propri o dalle compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al
territorio degli enti stessi dovrebbero essere finanziate esclusivamente mediante i proventi di uno o più
fondi perequativi privi di vincoli di destinazione.
La Corte, sotto questo profilo, ha accolto le censure regionali, sottolineando che “nel nuovo sistema,
per il finanziamento delle normali funzioni di Regioni ed Enti Locali, lo Stato può erogare solo fondi
senza vincoli specifici di destinazione, in particolare tramite il fondo perequativo di cui all'art. 119, terzo
comma, della Costituzione”. Poiché la gestione delle attività degli asili nido rientra nella sfera delle
funzioni proprie delle Regioni e degli Enti Locali (in quanto riconducibile, secondo la persuasiva
ricostruzione operata dalla Consulta, alle materie dell’istruzione e della tutela del lavoro, entrambe
oggetto di potestà legislativa concorrente) “è contraria alla disciplina costituzionale vigente la
configurazione di un fondo settoriale di finanziamento gestito dallo Stato, che viola in modo palese
l'autonomia finanziaria sia di entrata che di spesa delle Regioni e degli Enti Locali e mantiene allo Stato
alcuni poteri discrezionali nella materia cui si riferisce”. La Corte, inoltre, non ha mancato di lanciare un
monito circa la necessità di una rapida e puntuale attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, al
legislatore statale ordinario, la cui attuale inerzia rischia di bloccare la riforma del Titolo V° della parte
seconda della Costituzione, favorendo la permanenza o addirittura (come nel caso di specie) la istituzione
di forme di finanziamento delle Regioni e degli Enti Locali in contrasto con il nuovo quadro
costituzionale e, conseguentemente, esponendo a “rischi di cattiva funzionalità o addirittura di blocco di
interi ambiti settoriali”. Viceversa, la Corte ha disatteso i rilievi di costituzionalità sollevati dalla Regione
Marche in relazione al comma 6 del citato articolo 70 della legge 448/2001, nella parte in cui non
escluderebbe che la deducibilità delle spese di partecipazione alla gestione dei micro-asili e dei nidi nei
luoghi di lavoro dalle imposte sul reddito di genitori e datori di lavoro possa riferirsi a tributi diversi da
quelli statali. Tal censura sarebbe fondata, secondo la Consulta, su una erronea lettura della disposizione
da ultimo citata, la quale non si riferisce a imposte regionali o locali ma riguarda le sole imposte statali
309
2002, hanno impugnato, tra l'altro, l'art. 41 (la Regione Toscana limitatamente ai
commi 1 e 2 e le Regioni Emilia-Romagna ed Umbria limitatamente al comma 1)
della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2002), in riferimento: agli
artt.117, terzo, quarto e sesto comma, e 119, primo comma, della Costituzione, la
Regione Marche; agli artt.117 e 119 della Costituzione, la Regione Toscana; all'art.
119 della Costituzione ed al principio di leale collaborazione, la Regione Campania;
all'art. 117 della Costituzione, la Regione Emilia-Romagna e la Regione Umbria.
Tralasciando le altre problematiche è proprio sui motivi riguardanti l’art.117 che
mi voglio soffermare.
La Regione Marche, nel proprio ricorso, sosteneva che la norma, nella parte in
cui prevedeva un coordinamento del Ministero dell'Economia e delle Finanze nella
regolazione dell'accesso al mercato dei capitali da parte degli enti territoriali,
incideva direttamente su una materia, la finanza statale e regionale, sottratta alla
competenza legislativa dello Stato, non essendo ricompresa negli elenchi di cui al
secondo ed al terzo comma dell'art. 117 della Costituzione. Pertanto essa sarebbe
stata lesiva della sfera di competenza legislativa residuale riconosciuta e garantita
alle Regioni dal quarto comma dell'art. 117 della Costituzione. Inoltre, qualora si
ritenesse che la norma riguardi la materia "armonizzazione dei bilanci pubblici e
coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario", attribuita alla
potestà legislativa regionale concorrente dal terzo comma dell'art. 117 della
Costituzione, essa sarebbe stata, comunque, lesiva delle competenze regionali, in
quanto non stabilirebbe "principi fondamentali", ma recherebbe una disciplina dalla
stringente portata prescrittiva.
(sui redditi), rispetto alle quali Regioni ed Enti Locali possono semplicemente aggiungere aliquote
addizionali senza alcun potere ulteriore in tema di determinazione degli oneri deducibili).
Alla luce, infatti, della (restrittiva) nozione di tributo regionale proprio (rilevante ai fini di cui
all’articolo 119 della Costituzione) fatta propria dalla Consulta nelle sentenze richiamate (ovvero le
sentenze n. 296/2003, 297/2003 e 311/2003) e della correlativa (ampia) nozione di tributo statale proprio
ricavabile in negativo da tali pronunce, lo Stato ancor oggi si trova in una posizione di netto vantaggio,
potendo, attraverso la “generosa” previsione di oneri deducibili da imposte (come l’I.R.A.P. o la tassa
automobilistica regionale) formalmente (ossia dal punto di vista della fonte che le istituisce) statali, ma
sostanzialmente (ossia dal punto di vista della destinazione del relativo gettito) regionali, accentuare (in
contrasto con la ratio sottesa alla novella dell’articolo 119 Cost.) il carattere derivato della finanza
regionale (e locale). In effetti, a fronte della, restrittiva, nozione di tributo regionale proprio, accolta dalla
Corte, i poteri tributari attualmente spettanti alle Regioni, e che la stessa Consulta non esita a definire,
come, tuttora, limitati e sempre più spesso ulteriormente compressi da provvedimenti statali di varia
natura sulla cui legittimità costituzionale appare lecito dubitare, rendono inevitabile la persistente copiosa
erogazione di risorse finanziarie dal centro alla periferia, stravolgendo il senso del rinnovato disegno
costituzionale che vorrebbe i trasferimenti statali limitati ai territori con minore capacità fiscale per
abitante (sotto forma di erogazioni del fondo perequativo) ovvero finalizzati al raggiungimento, da parte
di enti territoriali determinati, delle particolari finalità (comunque eccedenti il normale esercizio delle
funzioni ad essi spettanti) di cui al quinto comma dell’articolo 119 della Costituzione (sotto forma di
risorse aggiuntive o di interventi speciali). Non a caso, infatti, la Corte, pur accogliendo i rilievi sollevati
dalle Regioni ricorrenti e ritenendo la previsione di un fondo settoriale e vincolato di finanziamento di
funzioni proprie delle Regioni e degli Enti Locali in contrasto con l’autonomia di entrata e di spesa
spettante ai medesimi livelli istituzionali, è costretta, data la “particolare rilevanza sociale del servizio
degli asili-nido, relativo a prestazioni che richiedono continuità di erogazione in relazione ai diritti
costituzionali implicati” a fare “salvi gli eventuali procedimenti di spesa in corso, anche se non esauriti”.
310
Secondo la Regione Marche, la disposizione avrebbe violato, inoltre, l'art. 117,
sesto comma, della Costituzione, perché, al di fuori di materie di competenza
legislativa esclusiva dello Stato, affidava ad un regolamento del Ministro
dell'Economia e delle Finanze la definizione del «contenuto e (del)le modalità del
coordinamento nonché dell'invio dei dati» e l'emanazione delle norme «relative
all'ammortamento del debito e all'utilizzo degli strumenti derivati».
La Regione Toscana, al contempo, deduceva che l'art. 41, commi 1 e 2, avrebbe
violato l'art.117 Cost., il quale elenca la materia del coordinamento della finanza
pubblica tra quelle oggetto della competenza concorrente delle Regioni, sicché
spetta allo Stato fissare i principi fondamentali, mentre l'art. 119 della Costituzione
in materia di autonomia finanziaria di entrata e di spesa delle Regioni fa salvi i
principi di coordinamento della finanza pubblica. Tuttavia, la norma impugnata non
si sarebbe limitata a stabilire i principi fondamentali del coordinamento della
finanza pubblica, ma avrebbe previsto un coordinamento operativo del Ministero
sugli Enti Locali e sulle Regioni ed un controllo sui dati finanziari, essendo altresì
lesiva delle attribuzioni regionali la fissazione con un decreto ministeriale del
contenuto e delle modalità del previsto coordinamento. Al riguardo la ricorrente
ricordava che già nel vigore del precedente testo costituzionale la Corte aveva più
volte affermato che non è consentito allo Stato, con decreti ministeriali, interferire
nell'esercizio di competenze regionali costituzionalmente garantite.
Con riguardo al ricorso della Regione Toscana, l'Avvocatura osservava che
l'art. 117 della Costituzione comprende la materia del coordinamento della finanza
pubblica tra quelle di competenza regionale concorrente, sicché lo Stato può fissare i
principi fondamentali, mentre l'art. 119 della Costituzione, pur con riferimento
all'autonomia finanziaria di entrata e di spesa delle Regioni, fa salvi i principi di
coordinamento della finanza pubblica.
A tali obiezioni, la Corte, rispose, affermando che la disciplina delle
condizioni e dei limiti dell'accesso degli enti territoriali al mercato dei capitali
rientra principalmente nell'ambito di quel "coordinamento della finanza pubblica"
che l'articolo 117, terzo comma, della Costituzione attribuisce alla potestà legislativa
concorrente delle Regioni, vincolata al rispetto dei principi fondamentali stabiliti
dalle leggi dello Stato420.
Tuttavia, il coordinamento finanziario può richiedere, per la sua stessa natura,
anche l'esercizio di poteri di ordine amministrativo, di regolazione tecnica, di
rilevazione di dati e di controllo: onde, attesa la specificità della materia, non può
ritenersi preclusa alla legge statale la possibilità, nella materia medesima, di
prevedere e disciplinare tali poteri, anche in forza dell'art. 118, primo comma, della
Costituzione. In ciò, la Corte, dunque, osservava che il carattere "finalistico"
dell'azione di coordinamento esige che al livello centrale si possano collocare non
solo la determinazione delle norme fondamentali che reggono la materia, ma altresì i
poteri puntuali eventualmente necessari perché la finalità di coordinamento possa
essere concretamente realizzata.
420
Vedi, ad esempio, quanto alle Regioni, l’art. 10 della legge 16 maggio 1970, n. 281; l’art. 23 del
D.Lgs. 28 marzo 2000, n. 76; quanto agli Enti Locali, gli articoli 202-205 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n.
267; nonché, in materia di emissione di titoli obbligazionari da parte di enti territoriali, l’art. 35 della
legge 23 dicembre 1994, n. 724.
311
D'altronde, in tema di accesso degli enti territoriali al mercato dei capitali, i
poteri di coordinamento che possono legittimamente essere attribuiti ad organi
centrali sono altresì connessi per l'oggetto con la competenza statale in materia di
"tutela del risparmio e mercati finanziari" di cui all'art. 117, secondo comma lett.e,
della Costituzione, che riguarda in particolare la disciplina delle forme e dei modi in
cui i soggetti (e così anche, in particolare, gli enti territoriali) possono ottenere
risorse finanziarie derivanti da emissione di titoli o contrazione di debiti.
Naturalmente i poteri in questione devono essere configurati in modo consono
all'esistenza di sfere di autonomia, costituzionalmente garantite, rispetto a cui
l'azione di coordinamento non può mai eccedere i limiti, al di là dei quali si
trasformerebbe in attività di direzione o in indebito condizionamento dell'attività
degli enti autonomi.
Il potere di coordinamento attribuito dal comma 1 dell'impugnato articolo 41 al
Ministero dell'Economia, secondo la Corte, deve essere inteso in armonia con i
criteri dalla stessa indicati: vale a dire come potere di adottare le misure tecniche
necessarie per assicurare che l'accesso al mercato da parte degli enti territoriali,
comprese le Regioni, avvenga con modalità idonee, come si esprime l'incipit della
stessa norma, a consentire di "contenere il costo dell'indebitamento e di monitorare
gli andamenti di finanza pubblica", in armonia con i vincoli e gli indirizzi
concernenti la cosiddetta finanza pubblica allargata. In questo senso circoscritto
deve intendersi anche il riferimento al "contenuto" del coordinamento, la cui
determinazione è rimessa dalla norma impugnata al decreto del Ministro.
E' dunque escluso che si attribuisca al Ministero il potere di incidere sulle scelte
autonome degli enti quanto alla provvista o all'impiego delle loro risorse, effettuate
nei limiti dei principi di armonizzazione stabiliti dalle leggi statali, o, peggio, di
adottare determinazioni discrezionali che possano concretarsi in trattamenti di
favore o di sfavore nei confronti di singoli enti.
La previsione del parere della Conferenza Unificata sullo schema di decreto
costituisce una garanzia procedimentale (in sé sufficiente, atteso l'oggetto della
disciplina) atta a contrastare l'eventuale assunzione, da parte del decreto medesimo,
di contenuti lesivi della autonomia garantita agli enti territoriali: ferma restando,
naturalmente, la possibilità per questi di esperire, nell'ipotesi di lesioni, i rimedi
consentiti dall'ordinamento, ivi compreso, se del caso, il conflitto di attribuzioni
davanti a questa Corte.
Così intesa, la norma denunciata non contrastava, per la Corte, con i parametri
costituzionali invocati.
Né contrasta con essi la previsione della comunicazione periodica al Ministero
dei dati relativi alla situazione finanziaria degli enti, poiché un siffatto obbligo,
espressione di un coordinamento meramente informativo, non sarebbe di per sé
idoneo a pregiudicare l'autonomia dell'azione degli enti medesimi.
312
Ancora, voglio fare riferimento ad un’ultima recentissima, pronuncia quale la
sentenza n.14 del 2004 in cui si affrontano ben tre, separati, ricorsi delle Regioni
Marche, Toscana e Basilicata contro la legge 28 dicembre 2001, n. 448
(Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato Legge finanziaria 2002) censurando una serie di disposizioni, tra cui l’art. 29 della
stessa legge421.
Tralasciando le varie censure mi soffermo solo su quella che la Regione
Basilicata ha presentato contro l’art. 29 di predetta legge, al comma 7, il quale
prevedrebbe che il Ministro per l’Innovazione e le Tecnologie definisca gli indirizzi
per l’impiego ottimale dell’informatizzazione nelle pubbliche amministrazioni,
malgrado l'avvenuta cancellazione, secondo la ricorrente, della funzione di
indirizzo e coordinamento operata dalla riforma del Titolo V° della Costituzione.
D’altra parte, ad avviso della Regione, la norma censurata sarebbe stata
illegittima anche alla luce del vecchio testo costituzionale, in quanto il regolamento
in essa previsto non avrebbe avuto i requisiti di sostanza e forma tipici della
funzione di indirizzo e coordinamento, non essendovi né la previsione di delibera
del Consiglio dei Ministri e né la previa determinazione legislativa dei principi ai
quali il Governo dovrebbe attenersi.
In tale contesto, non varrebbe obiettare, sempre secondo la Regione, che
l’art.117, secondo comma, lett.r, della Costituzione, affiderebbe allo Stato il
coordinamento statistico ed informatico dei dati dell’amministrazione statale,
regionale e locale, in quanto l’attività di coordinamento dovrebbe distinguersi
nettamente da quella di indirizzo relativamente alle tecniche e alle procedure di
informatizzazione. In ogni caso, resterebbe il vizio procedurale dell’affidamento di
un potere così delicato ad un singolo ministro.
Ma, a tali obiezioni, coerentemente, la Corte rispose con la infondatezza della
questione.
Essa, infatti, osservava che, l’art. 117, secondo comma, lettera r), della
Costituzione, attribuisce alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, il
coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione
statale, regionale e locale. Certamente attengono al predetto coordinamento anche i
profili della qualità dei servizi e della razionalizzazione della spesa in materia
informatica, in quanto necessari al fine di garantire la omogeneità nella elaborazione
e trasmissione dei dati.
421
Con ricorso n. 10 del 2002 la Regione Marche ha sollevato, in riferimento agli artt. 117, commi
secondo, lett. e, quarto e sesto, e 119 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art.
29, commi 1, 2, 3, 4 e 5, della legge 28 dicembre 2001, n. 448.
La Regione Toscana, con ricorso n. 12 del 2002, ha censurato l’art. 29, comma 2, della legge 28 dicembre
2001, n. 448, denunciando la violazione dell’articolo 119, comma secondo e quinto (recte: quarto), della
Costituzione.
La Regione Basilicata, con ricorso n. 20 del 2002, ha sollevato questione di legittimità costituzionale
dell’art. 29 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, nella sua interezza, in relazione agli artt. 3, 5, 114 e 117
della Costituzione in quanto sarebbe lesivo della competenza esclusiva regionale in materia di
organizzazione interna delle Regioni e di organizzazione e funzionamento degli enti locali. Inoltre
censure specifiche vengono formulate dalla predetta Regione nei confronti dei commi 5 e 7 del medesimo
art. 29.
313
La norma, contenuta nell’art. 29, comma 7, lettera a), deve, allora, essere intesa,
secondo la Corte, come attribuzione al Ministro per l’Innovazione e le Tecnologie di
un potere limitato (per quanto riguarda le Regioni) ad un coordinamento meramente
tecnico, per assicurare una comunanza di linguaggi, di procedure e di standard
omogenei, in modo da permettere la comunicabilità tra i sistemi informatici della
pubblica amministrazione. Di conseguenza il potere ministeriale rientra nell’ambito
della previsione costituzionale di coordinamento informativo statistico e informatico
dei dati delle pubbliche amministrazioni secondo la previsione dell’art. 117,
secondo comma, lett.r, della Costituzione.
Deve escludersi, infine, che la norma contenuta nell’art. 29, comma 7, lett.b, in
base alla quale tale Ministro definisce i programmi di valutazione tecnica ed
economica dei progetti, riguardi le Regioni, come può desumersi agevolmente dal
fatto che in essa si fa esclusivo riferimento alle amministrazioni statali anche ad
ordinamento autonomo e agli enti pubblici non economici nazionali. Non vi è un
qualsiasi accenno diretto o indiretto per richiamo alle Regioni, in evidente
differenza con il comma 1, che fa riferimento, invece, alle pubbliche
amministrazioni di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
165.
Per concludere, dunque, si dimostra così che, malgrado i dubbi sorti e i dibattiti
seguiti al 2001, tale funzione di indirizzo e coordinamento è sopravissuta. Anzi essa
si è pure trasformata adeguandosi al nuovo sistema regionale fondato sulla leale
collaborazione.
Il legislatore ha continuato a farsene portatore (vedi la c.d. legge La Loggia) ed
in esso si è continuato a vedere uno strumento di soddisfacimento e tutela delle
esigenze unitarie. Ed è proprio in queste ultime che si rintraccia la giustificazione
della sopravvivenza di istituti come l’interesse nazionale e l’indirizzo e
coordinamento. Infatti, per quanto un sistema costituzionale voglia valorizzare
l’autonomia territoriale, l’unità della Repubblica (ex art.5 Cost.) continua a farsi
espressione di esigenze unitarie, cioè di tutto il Paese, di tutta la comunità, di tutti
gli italiani, che solo la realtà adeguata (che per queste è lo Stato) sarà in grado di
soddisfare. Anche questo è, in fondo, sussidiarietà.
Ed è alla luce di ciò che è stato scritto anche il nuovo art.120 Cost. il quale si è
fatto portatore di un precetto essenziale, anche se molto criticato, per garantire il
soddisfacimento di tali istanze unitarie. Infatti, non si sono espropriate a priori le
competenze locali, quando queste possano convergere su istanze nazionali, ma si è
attribuito all’espressione più immediata dello Stato (cioè il suo esecutivo, il
Governo), il potere di intervenire, esercitando un potere sostitutivo laddove, essendo
in gioco interessi di tutto il Paese, le realtà locali, non siano in grado di operare e di
coordinarsi cooperativisticamente tra loro, per il soddisfacimento di tali istanze che
vanno al di là dei semplici confini territoriali della singola Regione. Ed a tali critiche
è sufficiente rispondere che: primo, se un Paese è davvero uno, nel senso che è una
nazione unica, è inevitabile che vi siano interessi od esigenze che, andando al di la
delle semplici realtà locali, si ergano ad interesse comune di tutta la nazione;
secondo, che in un sistema che valorizza davvero l’autonomia territoriale, tale
valorizzazione non può che passare attraverso la collaborazione tra tutti i diversi
livelli territoriali, finalizzata al raggiungimento efficiente, efficace ed economico,
degli interessi comuni.
314
Se tale concertazione si blocca, a nessuno è dato potere di veto. E se in contrasto
entrano interessi di una realtà locale con interessi di tutta la nazione, non possono
non prevalere questi ultimi. Ed è proprio sulla base di ciò che mi avvio a tracciare
l’ultimo percorso di questa mia analisi: quella sul potere sostitutivo del Governo ex
art.120 Cost.
315
4. Il nuovo art.120 della Costituzione ed il valore del potere
sostitutivo del Governo nazionale nella giurisprudenza
costituzionale degli ultimi anni.
Una delle novità più significative della riforma del Titolo V° del 2001 è
rappresentata dal secondo comma del nuovo art.120 Cost., laddove si introduce, al
ricorrere di determinati presupposti analiticamente elencati, un potere di intervento
sostitutivo dello Stato nei confronti di Regioni ed Enti Locali, con un rinvio alla
legge ordinaria per la definizione delle procedure surrogatorie, nel rispetto dei
principi di leale collaborazione e di sussidiarietà.
Si tratta di una disposizione destinata ad assumere una valenza cardinale nel
nuovo assetto dei rapporti fra potere centrale ed autonomie locali, vista la sua natura
di clausola generale di (potenziale) recupero di funzioni e competenze in favore
dello Stato centrale. A ciò tuttavia si accompagna la considerazione per cui la
formulazione assai generica di tale articolo fa sì che esso costituisca, come è stato
detto, “più che una soluzione, un problema interpretativo”422.
Ed in effetti, sono così numerose e rilevanti le questioni sollevate dal nuovo art.
120 Cost. da poter concludere che, proprio dalla definizione, in via interpretativa,
dei suoi contenuti, dipende lo spettro di autonomia costituzionalmente garantita a
Regioni ed Enti Locali.
Analizzando dunque il secondo comma del nuovo art.120, una prima questione
da evidenziare riguarda innanzitutto la natura del potere di intervento statale
previsto dalla disposizione: si tratta cioè di un potere sostitutivo in senso proprio,
destinato a rispondere a vere e proprie inerzie regionali o locali che integrino i
presupposti indicati (mancato rispetto di norme e trattati internazionali, e quanto
altro indicato in tale articolo), oppure, con una interpretazione più ampia, si può
ipotizzare un potere statale di intervento surrogatorio sì, ma in senso generico, a
prescindere cioè da un inadempimento delle autonomie locali inteso come mancato
esercizio, entro un termine prefissato, di una determinata competenza?
A favore di questa seconda interpretazione va il rilievo che, in effetti, nella
disposizione non si parla affatto di “inerzie” o “inadempimenti” degli enti sostituiti.
Inoltre, va qui ricordato un indirizzo della giurisprudenza costituzionale che, in
passato, ha ricondotto alla categoria degli atti sostitutivi, ritenendo, così, legittimi,
interventi statali che nulla avevano a che fare con vere e proprie inerzie regionali. Si
trattava di previsioni legislative che ritagliavano, a priori, determinate funzioni in
favore dello Stato, che dunque si surrogava alle Regioni nell’esercizio di
determinate competenze (vedi la sentenza n.49 del 1987); oppure che legittimavano
interventi sostitutivi anticipati rispetto alla scadenza fissata ex lege (vedi la sentenza
n.304 del 1987). O, ancora, che introducevano misure derogatorie rispetto al riparto
ordinario di competenze, quasi delle ordinanze extra ordinem mascherate da atti
sostitutivi (vedi la sentenza n.617 del 1987). E, fra l’altro, proprio con riferimento a
quest’ultimo esempio, e cioè alle ordinanze contingibili ed urgenti, la presenza, fra i
presupposti legittimanti l’intervento del potere centrale, del “pericolo grave per
422
Così G.Falcon, “Il nuovo Titolo V della Parte seconda della Costituzione”, in Le Regioni, 2001, n.1,
p.3 ss,
316
l’incolumità e la sicurezza pubblica”, potrebbe avvalorare ulteriormente tale
interpretazione.
E’ stato obiettato che il nuovo art.120 Cost. nasce per dare copertura
costituzionale ai poteri sostitutivi statali nei confronti di inerzie amministrative (e
forse anche legislative, per quanto riguarda le Regioni), disciplinati per la prima
volta in via generale, almeno con riferimento alle funzioni amministrative proprie
delle Regioni, dall’art.5 del D.Lgs. n.112/’98.
Presa singolarmente, però, si tratta di una obiezione piuttosto debole, che si
scontra soprattutto con la formulazione di una disposizione che, in effetti, sembra
consentire davvero allo Stato i più diversi interventi nei confronti delle autonomie
locali.
Ma, allora, è evidente che proprio su questo punto si giocherà, in sede
interpretativa, una battaglia importante, dal momento che l’ampiezza degli interventi
statali potenzialmente legittimati dalla norma è assai ampia: si potrebbe andare,
infatti, dagli interventi sostitutivi in senso proprio, a fronte di inerzie nell’adozione
di provvedimenti amministrativi vincolati nell’an, fino a possibili interventi
surrogatori di competenze regionali e locali senza la necessità di puntuali
inadempimenti, per arrivare a configurare poteri di ordinanza extra ordinem (a
prescindere dal nomen utilizzato in concreto dal legislatore).
E, imboccata questa strada, si potrebbe giungere persino a ricostruire la funzione
statale prevista dall’art.120 come una sorta di controllo atipico sull’attività della
Regioni e degli Enti Locali, con un potere di intervento statale che si concretizzi in
provvedimenti che si “sostituiscano” a quelli regionali (e locali): ma ciò non solo,
dunque, nell’ipotesi di inerzia, ma anche nell’ipotesi, ad esempio, di provvedimenti
regionali o locali che comportino una insufficiente “tutela dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” (tanto per richiamare uno dei
presupposti dell’art.120). Fino a riesumare un potere di annullamento straordinario
degli atti amministrativi di Regioni ed Enti Locali, qualora ricorrano le condizioni
previste dalla disposizione: potere in passato giudicato incostituzionale dalla Corte,
ma solo perché privo di una esplicita previsione costituzionale (in tal senso la
sentenza n.229 del 1989).
Ma anche ammessa una limitazione degli interventi statali agli atti sostitutivi in
senso stretto, rimane il dubbio se detta sostituzione possa avere ad oggetto inerzie
amministrative o, per quanto riguarda ovviamente le sole Regioni, anche legislative.
Sostituzione legislativa e sostituzione amministrativa sono in realtà istituti
profondamente diversi che, spesso, vengono, anche in dottrina, impropriamente
accomunati. Basti pensare, infatti, che laddove si parla di sostituzione
amministrativa, si intende un potere di intervento statale che si concretizza
nell’adozione di un provvedimento amministrativo omesso dalla Regione (o
dall’Ente Locale): ma l’adozione di detto provvedimento è imposto, giuridicamente,
dalla legge, tanto che un eventuale inerzia statale, che segua a quella regionale, potrà
integrare gli estremi di un silenzio (inadempimento) della P.A., contro il quale ben
potrà agire in giudizio il terzo (potenziale) destinatario dell’atto non adottato.
La sostituzione legislativa, invece, laddove anche la si volesse prevedere al di là
del caso particolare introdotto dalla legge Bassanini (e limitato al trasferimento delle
funzioni agli Enti Locali da parte delle Regioni), comporterebbe appunto un
intervento legislativo da parte dello Stato, nell’esercizio della corrispondente
funzione: ma, proprio per questo, si tratterebbe di un intervento non vincolato
317
nemmeno nell’an, essendoci ovviamente una scelta politica alla base dell’adozione
di qualsiasi atto legislativo del Parlamento.
Pertanto, mentre la sostituzione amministrativa è funzione giuridica, quella
legislativa sembra riconducibile ad una funzione politica, con tutte le conseguenze
in ordine alle diverse responsabilità che ne conseguono.
A questo proposito, peraltro, il nuovo art. 120, come un vero rebus giuridico,
offre due indizi interpretativi del tutto divergenti fra di loro: da un lato, infatti,
riconosce al Governo la titolarità dell’intervento, escludendo quindi, in apparenza, la
possibile adozione di provvedimenti legislativi statali (a meno di non voler
immaginare macchinose costruzioni di leggi delega a cui seguano decreti legislativi
delegati, adottati in via sostitutiva nei confronti delle Regioni). Al contempo, però,
si dice che il Governo può intervenire in via sostitutiva, laddove il verbo impiegato
rimanda ad una scelta discrezionale che mal si concilia con la sostituzione
amministrativa, imposta appunto ex lege, e richiama piuttosto la discrezionalità
politica di un intervento legislativo.
Anche sotto questo profilo, pertanto, i dubbi interpretativi non mancano di certo.
Venendo poi ai presupposti legittimanti l’intervento statale, il legislatore
ordinario, nel disciplinare per la prima volta la sostituzione statale nei confronti
delle funzioni amministrative proprie, li aveva individuati nell’inadempimento agli
obblighi comunitari e nel pericolo di grave pregiudizio agli interessi nazionali (così
infatti l’art.5, primo comma del D.Lgs. n.112/’98).
La scelta del neo-costituente, invece, è stata differente: da un lato, infatti, è
scomparsa del tutto dalla carta costituzionale l’espressione “interessi nazionali”;
dall’altro l’art. 120, rinunciando ad una clausola unica e generale, elenca
dettagliatamente svariate ipotesi che giustificano l’intervento sostitutivo statale.
La vicenda della trasformazione degli interessi nazionali da limite di merito a
limite di legittimità è ben nota, così come lo sono le ripercussioni che tale
trasformazione ha avuto sull’assetto complessivo dei rapporti Stato–Regioni. E’
bene chiedersi, però, almeno con riferimento all’articolo in commento, se la
scomparsa dell’interesse nazionale, così come definito nei contenuti (da parte
soprattutto della giurisprudenza costituzionale) e nel ruolo di limite all’autonomia
costituzionale delle Regioni, rappresenti una innovazione sostanziale o di mera
facciata nell’architettura complessiva dei rapporti Stato–Regioni423.
Ebbene, come abbiamo visto nelle parti precedenti di questo lavoro, sembra
proprio che l’interesse nazionale, cacciato dalla porta, finisca invece con il rientrare
dalla finestra: non è difficile infatti, leggere dietro i singoli presupposti legittimanti
l’intervento statale altrettante puntuali declinazioni dell’interesse nazionale, così
come concretizzato dal legislatore statale con l’avvallo della Corte costituzionale.
E così, il “mancato rispetto di norme e trattati internazionali o della normativa
comunitaria” altro non sembra che la specificazione dell’interesse nazionale, più
volte riconosciuto dalla Corte, ad evitare l’insorgere della responsabilità statale sul
piano internazionale o comunitario; il “pericolo grave per l’incolumità e la
sicurezza pubblica” richiama quelle situazioni in cui, di fronte all’emergenza con
cui lo Stato è chiamato ad intervenire a tutela di valori considerati come primari,
l’interesse nazionale è stato ritenuto dalla Corte sussistente in re ipsa, senza la
necessità cioè di uno scrutinio particolarmente stringente delle esigenze unitarie.
423
Vedi, sul punto, le prime riflessioni di A. Barbera in “Scompare l’interesse nazionale?”, sul forum di
Quad. Cost.
318
Più difficile è, forse, capire cosa significhi davvero “la tutela dell’unità
giuridica o dell’unità economica”: si tratta di due clausole non solo indeterminate
ed ambigue, ma del tutto sconosciute nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale, e
che pertanto promettono di innescare un ampio contenzioso giuridico: riflesso, a
valle, del dibattito politico che, a monte, ne determinerà i possibili contenuti.
In attesa di maggiore chiarezza, in prima battuta, si potrebbero citare, i principi
generali dell’ordinamento giuridico e le norme fondamentali delle riforme
economico-sociali: i primi come direttive generali capaci di imporsi nei diversi
settori dell’ordinamento giuridico, le seconde come espressione, appunto, delle
esigenze unitarie di uniforme applicazione di riforme di natura economica.
Peraltro, a specificazione dei presupposti da ultimo commentati, l’art. 120 indica
in particolare “la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali”, ovvero un altro puntuale richiamo ad una declinazione
dell’interesse nazionale assai ricorrente nella giurisprudenza costituzionale, anche
con riferimento precipuo ai poteri sostitutivi.
Un ultimo accenno, infine, ad una questione senz’altro più sottile rispetto alle
precedenti ma solo in apparenza meno importante: ed il riferimento va all’inciso
dell’art. 120, per cui è detto espressamente che il Governo si sostituisce “a organi”
delle Regioni e degli Enti Locali.
Se anche infatti dovesse prevalere la tesi per cui l’art.120 introduce un potere
sostitutivo statale in senso proprio, si riaffacciano per altra via le considerazioni
esposte in precedenza sulla natura del potere statale così esercitato.
Leggendo la disposizione dell’art.120, si può notare come la norma non faccia
alcun riferimento all’omissione di atti o di attività determinate, ma parli invece di un
potere del Governo di sostituirsi direttamente agli organi delle Autonomie Locali: il
che lascia aperta la possibilità di intendere il potere statale così introdotto come
ipotesi di esclusione della legitimatio ad officium degli organi sostituiti. Ma, se così
è allora si giunge al punto di dover ritenere, detta forma di intervento sostitutivo,
non come estrinsecazione di un potere di controllo amministrativo, bensì come un
potere di controllo politico.
Da un punto di vista teorico, la formulazione della norma (incentrata, lo si
ripete, sulla sostituzione nei confronti degli organi e non nei confronti di atti o
attività determinate) potrebbe autorizzare una interpretazione dell’art.120 che riservi
allo Stato una funzione non giuridica, bensì politica, e come tale sottratta a
qualsivoglia controllo giurisdizionale, se non altro in ordine ai contenuti dei
provvedimenti adottati (le procedure, infatti, sono demandate alla legge ordinaria
che deve disciplinarle nel rispetto dei principi di leale collaborazione e
sussidiarietà).
Fatte queste osservazioni si capisce, dunque, che se l’entrata in vigore del nuovo
art.120 ha rappresentato, da un lato, la fine dei dubbi di legittimità costituzionale del
potere sostitutivo statale, dall’altro non ha mancato di suscitare numerosi dubbi che
non potevano non dare vita ad ampio contenzioso costituzionale, chiamando, la
Corte, a dare risposte concrete ai dubbi che il legislatore aveva lasciato senza
risposta.
In tal senso una prima pronuncia che merita di essere osservata è l’ordinanza
n.15 del 2003, in cui il Presidente del Consiglio dei Ministri ha sollevato questione
di legittimità costituzionale degli artt. 3, 4 e 5, commi 1, 3, 4 e 5, della legge della
319
Regione Toscana 2 gennaio 2002, n. 2 (Soppressione del Comitato regionale di
controllo e disposizioni in materia di cessazione dei controlli preventivi di
legittimità sugli atti degli Enti Locali e di esercizio dei poteri sostitutivi del
Difensore civico regionale), per violazione degli artt. 114, primo e secondo comma,
117, secondo comma, lett.p, 119, secondo comma, e 120, secondo comma, della
Costituzione.
Tralasciando le conclusioni, in cui la Corte ha dichiarato cessata la materia del
contendere424, è interessante osservare quali furono le motivazioni fondanti il
ricorso.
In esso, infatti, il ricorrente precisava che l’art. 120, secondo comma, della
Costituzione, attribuisce (nel suo primo periodo), al Governo, il potere di sostituirsi,
nei casi ivi indicati, a organi delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni
riconoscendo, dunque, il potere di sostituzione organica dello Stato negli Enti
Locali, scavalcando le Regioni), e riserva alla legge, nel suo secondo periodo, il
compito di stabilire le procedure atte a garantire che i poteri sostitutivi siano
esercitati nel rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione (dunque,
facendo convergere, anche questo terzo fattore, dopo interesse nazionale ed
indirizzo e coordinamento verso il cooperativismo).
Continuava osservando che la «continuità testuale» tra i due periodi richiamati
[unitamente: a) alle «solenni disposizioni» contenute nel primo e nel secondo
comma dell’art. 114 della Costituzione; b) all’attribuzione allo Stato della
competenza legislativa esclusiva in materia di organi di governo e di funzioni
fondamentali di Comuni, Province e Città Metropolitane, contenuta nell’art. 117,
secondo comma, lett.p, della Costituzione; c) all’esigenza di una disciplina «unica o
quanto meno fortemente coordinata» delle modalità di esercizio dei poteri
sostitutivi], imporrebbe d’interpretare il riferimento alla legge, contenuto nel citato
art. 120, secondo comma, della Costituzione, come riserva alle disposizioni
legislative statali della disciplina di tali procedure sostitutive.
Posto tale quadro costituzionale, la legge regionale impugnata, in quanto
affidava al Difensore civico regionale «su segnalazione dei soggetti interessati» e,
nei casi previsti dall’art.4, «d’ufficio», i poteri sostitutivi previsti dalla legge statale
o regionale (con l’esclusione delle ipotesi indicate nel secondo comma), nonché in
quanto attribuiva allo stesso organo la competenza ad adottare e comunicare all’ente
inadempiente i provvedimenti di diffida ad adempiere, di nomina di un commissario
ad acta e di fissazione del termine entro il quale quest’ultimo deve provvedere,
avrebbe invaso l’ambito di competenza legislativa statale, in violazione dei
parametri costituzionali sopra indicati, con disposizioni che avrebbero costituito,
424
Essa, infatti, osservava che, in pendenza del presente giudizio, la legge regionale impugnata era stata
oggetto di modifica (quanto agli artt.4 e 5), nei termini indicati nell’esposizione in fatto, e di abrogazione
parziale (quanto all’art.4), a opera della legge della Regione Toscana 27 settembre 2002, n. 35
(Modificazioni alla legge regionale 2 gennaio 2002, n. 2 riportante: Soppressione del Comitato regionale
di controllo e disposizioni in materia di cessazione dei controlli preventivi di legittimità sugli atti degli
Enti Locali e di esercizio dei poteri sostitutivi del Difensore civico regionale); e che il sopravvenuto
mutamento del quadro normativo, relativamente alle disposizioni regionali oggetto di censura da parte del
Governo, era tale da incidere radicalmente sui termini della questione di costituzionalità proposta,
essendo venute meno (per abrogazione o per modifica) le disposizioni di legge impugnate, che non
risultano d’altra parte aver prodotto effetti di sorta; e che, pertanto, conformemente alla giurisprudenza di
questa Corte (si ricordano la sentenza n. 438 del 2002 e l’ordinanza n. 443 del 2002), deve essere
dichiarata la cessazione della materia del contendere.
320
inoltre, una «sostanziale innovazione» e una non consentita sostituzione ad opera
della legge regionale, di quanto già previsto nel decreto legislativo 18 agosto 2000,
n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti Locali), il quale, nell’art.
136, ha attribuito al Difensore civico regionale poteri sostitutivi per omissione o
ritardo di atti obbligatori.
Inoltre, in relazione all’art. 4 della legge regionale impugnata, concernente
l’esercizio dei poteri sostitutivi in materia di finanza locale, il ricorrente richiamava
gli artt.141, comma 2, e 247, comma 3, del citato decreto legislativo n. 267 del
2000, i quali «collocano l’intervento sostitutivo nell’ambito dei rispettivi
procedimenti amministrativi di scioglimento dei consigli comunali e provinciali»,
procedimenti che sarebbero rimasti «essenzialmente di competenza statale», come
dimostrerebbe la previsione che essi si concludono con Decreto del Presidente della
Repubblica, su proposta del Ministro dell’Interno.
Sotto questo profilo, pur riconoscendo l’esigenza di adeguare le richiamate
disposizioni del D.Lgs. n.267 del 2000 alla intervenuta soppressione dei comitati
regionali di controllo (i c.d. Co.Re.Co.), il ricorrente ritiene che non si possa
provvedere mediante «una molteplicità di leggi regionali», ma solo con una legge
statale, che detti «regole uniformi per l’intero territorio nazionale».
Infine, secondo il ricorrente, dovrebbe risultare persino ovvio sia che
l’elaborazione dei «principi di coordinamento della finanza pubblica» previsti
dall’art. 119, secondo comma, della Costituzione venga necessariamente affidata a
norme statali, sia che nella nozione di finanza pubblica è compresa anche la finanza
locale, cosicché anche per questo aspetto l’art. 4 impugnato avrebbe invaso l’ambito
di una competenza esclusiva statale, che «va a saldarsi con la competenza esclusiva
di cui al citato art. 117, secondo comma, lett.p», della Costituzione.
A tali eccezioni, il legislatore regionale, riconoscendo la fondatezza delle
eccezioni sollevate, e dunque, attestando la validità della lettura che il Governo
dava del nuovo art.120 Cost., rispose con l’abrogazione dell’impugnato art. 4 della
legge n. 2 del 2002425, e con la modifica degli: a) art. 3 nel senso di precisare che il
Difensore civico regionale esercita i poteri sostitutivi ad esso espressamente
attribuiti dalla legge regionale e altresì quelli previsti dalle leggi statali anteriori alla
riforma del 2001; b) art. 5 nel senso di elidere il riferimento all’ormai abrogato art.
4; e, quindi, facendo così cessare la materia del contendere. Dunque, sebbene in tale
ordinanza non sia stata la Corte a dare una sua visione del nuovo art.120 Cost., è
pur bene vedere come però dalla sua lettura possa evincersi il nuovo concetto di
esso e dell’esercizio del potere sostitutivo statale, al punto che la stessa Regione ha
preferito adeguarsi alle indicazioni date dal Governo e, costringendo così, la Corte,
a non occuparsi del ricorso per cessazione della materia del contendere.
Altra nota merita l’ordinanza n.230 del 2003 nella quale, prima di procedersi a
chiusura del processo per rinuncia del ricorrente, si affrontava una breve analisi del
ricorso presentato dalla Regione Lombardia contro il D.Lgs. 20 agosto 2002 n.190,
recante «Attuazione della legge 21 dicembre 2001, n. 443, per la realizzazione delle
425
Al fine di risolvere (come si legge nella relazione illustrativa della citata legge n. 35 del 2002) «un
potenziale conflitto tra fonte regionale e fonte statale» determinato dal decreto-legge 22 febbraio 2002, n.
13 (Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità degli Enti Locali), convertito, con modificazioni,
in legge 24 aprile 2002, n. 75, che attribuisce ai Prefetti l’esercizio del potere sostitutivo conseguente alla
mancata adozione dei bilanci di previsione da parte degli Enti Locali.
321
infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale», di
cui se ne era dedotto il contrasto con gli artt.5, 76, 114, 117, 118 e 120 della
Costituzione.
Tra le varie obiezioni sollevate dalla ricorrente, la Corte, produsse anche alcune
sue osservazioni, tra cui una in cui dichiarava che la partecipazione effettiva delle
Regioni alla fase di approvazione, come prevedeva l’art. 2, comma 1, del decreto
impugnato, avrebbe privato di fondamento la censura relativa al potere sostitutivo
conferito al Governo nell’ipotesi di dissenso della Regione interessata “tanto più che
la fattispecie sarebbe stata perfettamente conforme allo schema di esercizio del
potere sostitutivo delineato nell’art. 120, comma secondo, della Costituzione”
venendo in questione opere che, per la loro indubbia rilevanza strategica, sarebbero
in grado di incidere sull’unità economica del Paese.
Dunque, secondo la Corte, il coinvolgimento della Regione nel procedimento di
pianificazione infrastrutturale era più che sufficiente a rispettare i criteri di leale
collaborazione tra i diversi livelli territoriali di governo, dando la possibilità di
realizzare una sede concertativa di incontro tra interessi locali ed interessi
interregionali (o, meglio, nazionali). Se, però, la Regione avesse bloccato la
concertazione, l’esigenza di salvaguardare gli interessi nazionali, ben giustificava
l’esercizio del potere sostitutivo statale di cui al secondo comma dell’art.120 Cost.
L’evidenza di tale osservazione era tale che giunse fino alla rinuncia della stessa
Regione al ricorso, e dunque alla chiusura del processo con una semplice ordinanza.
Di tale argomento si occupò anche la già vista sentenza n.274 del 2003426, nella
parte in cui la Regione resistente sollevò talune eccezioni preliminari di
inammissibilità del ricorso, delle quali la prima di esse pose il problema se
(nell’assetto derivato dalla riforma del Titolo V°) lo Stato, impugnando in via
principale una legge regionale, potesse dedurre come parametro violato qualsiasi
norma costituzionale, ovvero solo quelle concernenti il riparto delle competenze
legislative427.
Tra le varie risposte che la Corte diede, interessante è leggere quella in cui si
affermò che, ai fini di individuare il contenuto del ricorso governativo “è decisivo
rilevare come, nel nuovo assetto costituzionale scaturito dalla riforma, allo Stato
sia pur sempre riservata, nell’ordinamento generale della Repubblica, una
posizione peculiare desumibile non solo dalla proclamazione di principio di cui
all’art. 5 della Costituzione, ma anche dalla ripetuta evocazione di un’istanza
unitaria, manifestata dal richiamo al rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli
derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, come limiti
di tutte le potestà legislative (art. 117, comma 1) e dal riconoscimento dell’esigenza
di tutelare l’unità giuridica ed economica dell’ordinamento stesso (art. 120, comma
2)”. E tale istanza, si osservava, postula necessariamente che nel sistema esista un
426
Si trattò del giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 3 e 4 della legge della Regione Sardegna
8 luglio 2002, n. 11 (Norme varie in materia di personale regionale e modifiche alla legge reg. 13
novembre 1998 n. 31), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei Ministri, notificato il 17
settembre 2002, depositato in cancelleria il 27 settembre 2002 ed iscritto al n. 60 del registro ricorsi 2002.
427
Il problema è prospettato in quanto il ricorso dello Stato denuncia la violazione non solo dell’art. 3
dello Statuto della Regione Sardegna, relativo ai limiti della potestà legislativa regionale, ma anche degli
artt. 3, 51, 81 e 97 della Costituzione, che non riguardano direttamente tali limiti.
322
soggetto (lo Stato, appunto) avente il compito di assicurarne il pieno
soddisfacimento.
Con ciò dunque, la Corte, definiva la natura di tale potere sostitutivo ed al
contempo ne dettava il presupposto di esercizio più importante (l’esigenza di
tutelare l’unità giuridica ed economica dell’ordinamento).
Chi conosce la giurisprudenza costituzionale di questi ultimi anni, capirà subito
il perché è inevitabile che anche in questo caso, un ruolo decisivo è svolto dalla,
ormai famosa, sentenza n.303 del 2003.
Tale pronuncia, che trattò numerose questioni inerenti i rapporti tra centro e
periferia e che oggi rappresenta una pietra miliare della giurisprudenza
costituzionale in materia di regionalismo, non poté non trattare anche alcune
questioni concernenti proprio l’argomento del potere sostitutivo.
E’ qui interessante soffermarsi su quella parte in cui, tra i vari ricorsi che in tale
pronuncia trovarono soluzione, la Regione Toscana (come si sa, una delle
ricorrenti), obiettava che le disposizioni censurate428 non potevano trovare
giustificazione, tra le altre motivazioni, neppure in base all’art. 120 Cost.
Infatti, si osservava che, mancava la legge di attuazione disciplinante le
procedure atte a garantire l’esercizio del potere sostitutivo nel rispetto del principio
di sussidiarietà e, in ogni caso, tale esercizio sarebbe stato consentito in base a
previsioni astratte di interventi a fronte di motivati dissensi espressi dalle Regioni
nelle materie di propria competenza. Giammai, la stessa obiettava, si poteva ritenere
che il dissenso di una Regione su di un progetto preliminare e definitivo di un’opera
pubblica potesse rappresentare fattispecie legittimante l’attivazione del potere
sostitutivo statale, e ciò in quanto la Regione, in tal caso, non sarebbe stata
428
Che è da ricordare furono: l’articolo 1, commi da 1 a 12 e 14, della legge 21 dicembre 2001, n. 443
(Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi
per il rilancio delle attività produttive); dell’art. 13, commi 1, 3, 4, 5, 6 e 11, della legge 1° agosto 2002,
n. 166, (Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti); degli articoli da 1 a 11, 13 e da 15 a 20 del
decreto legislativo 20 agosto 2002, n. 190 (Attuazione della legge 21 dicembre 2001, n. 443, per la
realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti produttivi strategici e di interesse nazionale); del
decreto legislativo 4 settembre 2002, n. 198 (Disposizioni volte ad accelerare la realizzazione delle
infrastrutture di telecomunicazioni strategiche per la modernizzazione e lo sviluppo del Paese, a norma
dell’articolo 1, comma 2, della legge 21 dicembre 2001, n. 443) ed allegati A, B, C e D dello stesso
decreto legislativo n. 198 del 2002; promossi con ricorsi: della Regione Marche, notificati il 22 febbraio,
il 25 ottobre e il 12 novembre 2002, depositati il 28 febbraio, il 31 ottobre e il 18 novembre 2002,
rispettivamente iscritti ai numeri 9, 81 e 86 del registro ricorsi 2002; della Regione Toscana, notificati il
22 febbraio, il 1° e il 24 ottobre, e l’11 novembre 2002, depositati il 1° marzo, il 9 e il 30 ottobre, e il 16
novembre 2002, rispettivamente iscritti ai numeri 11, 68, 79 e 85 del registro ricorsi 2002; della Regione
Umbria, notificati il 22 febbraio e l’11 novembre 2002, depositati il 4 marzo e il 19 novembre 2002,
rispettivamente iscritti ai numeri 13 e 89 del registro ricorsi 2002; della Provincia autonoma di Trento,
notificati il 22 febbraio e il 25 ottobre 2002, depositati il 4 marzo e il 5 novembre 2002, rispettivamente
iscritti ai numeri 14 e 83 del registro ricorsi 2002; della Regione Emilia-Romagna, notificati il 23
febbraio e il 12 novembre 2002, depositati il 5 marzo e il 19 novembre 2002, rispettivamente iscritti ai
numeri 15 e 88 del registro ricorsi 2002; della Provincia autonoma di Bolzano, notificato il 25 ottobre
2002, depositato il 31 successivo ed iscritto al n. 80 del registro ricorsi 2002; della Regione Campania,
notificato il 12 novembre 2002, depositato il 16 successivo ed iscritto al n. 84 del registro ricorsi 2002;
della Regione Basilicata, notificato il 12 novembre 2002, depositato il 19 successivo ed iscritto al n. 87
del registro ricorsi 2002; della Regione Lombardia, notificato il 12 novembre 2002, depositato il 21
successivo ed iscritto al n. 90 del registro ricorsi 2002; e del Comune di Vercelli, notificato il 12
novembre 2002, depositato il 21 successivo ed iscritto al n. 91 del registro ricorsi 2002.
323
considerabile inadempiente, in quanto avrebbe già espresso il proprio dissenso
motivato, offrendo soluzioni alternative, così da rendere necessaria, alla luce del
principio di leale collaborazione, una soluzione condivisa che tenga conto delle
molteplici competenze regionali incise dalla localizzazione di un’opera.
Come ben sappiamo, si è costituito in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio
dei Ministri, rappresentato dall’Avvocatura generale dello Stato, tramite la quale
chiese che la Corte procedesse a pronunciare l’infondatezza dei ricorsi presentati per
tutta una serie di motivi, dei quali qui mi interessa quello correlato all’obiezione,
presentata dalla Regione Toscana e sopra esposta.
In tal senso si può vedere che, la difesa erariale, sostenne innanzitutto che la
materia dei lavori pubblici (contestata nel ricorso in analisi avente ad oggetto la
realizzazione di infrastrutture), non richiamata nel nuovo testo dell’art. 117 Cost.,
non potrebbe essere ascritta alla potestà residuale della Regione, ma che, al
contrario, lo Stato conserverebbe la potestà legislativa di principio per la disciplina
degli appalti riferibili alle materie comprese nella potestà legislativa concorrente.
Ciò senza considerare che anche nel nuovo Titolo V° l’interesse nazionale potrebbe
legittimare il superamento della ripartizione per materie posta nel medesimo art.
117.
Inoltre, prosegue l’Avvocatura, la legge n. 166 del 2002, recependo le istanze
regionali, avrebbe previsto che l’individuazione delle opere avvenisse d’intesa fra lo
Stato e le Regioni, sicché il decreto impugnato si sarebbe dovuto considerare
rispettoso delle attribuzioni regionali. Per l’Avvocatura, dunque, la partecipazione
effettiva delle Regioni alla fase di approvazione, come previsto dal’art. 2, comma 1,
del decreto impugnato, avrebbe tolto fondamento alla censura relativa al potere
sostitutivo conferito al Governo nell’ipotesi di dissenso della Regione interessata,
tanto più che la fattispecie sarebbe stata perfettamente conforme allo schema di
esercizio del potere sostitutivo delineato nell’art. 120, secondo comma, Cost.,
venendo in questione opere che, per la loro indubitabile rilevanza strategica,
sarebbero in grado di incidere sull’unità economica del Paese.
Con riguardo, poi, alle altre censure riguardanti la previsione della nomina
governativa di un commissario straordinario che vigili sull’andamento delle opere e
l’attribuzione ad esso del potere di adottare i provvedimenti necessari alla
tempestiva esecuzione dell’opera, la difesa erariale sosteneva che la procedura
aveva luogo solo per le opere di interesse internazionale o interregionale, essendo,
comunque, previsto che siano sentiti i Presidenti delle Regioni coinvolte, e che,
infine, i poteri sostitutivi del commissario non potevano oltrepassare le competenze
dell’ente conferente, non potendo, lo Stato, conferire poteri maggiori di quelli di cui
esso stesso gode.
A tali obiezioni dell’Avvocatura, le ricorrenti replicarono con delle memorie in
cui, per l’argomento in questione, sostennero che, infondata sarebbe stata la tesi
statale secondo la quale l’interesse nazionale rappresenterebbe ancora un limite alla
potestà legislativa regionale che consentirebbe di superare la ripartizione posta
nell’art. 117 Cost., giacché in tal modo sarebbe inammissibilmente reintrodotto in
Costituzione un limite che non è più espressamente previsto (dunque, malgrado la
giurisprudenza immediatamente precedente, ci si ostinava a sostenere la scomparsa
sostanziale dell’interesse nazionale che, come già visto sopra, è invece una tesi
completamente respinta ed opposta a quella seguita dalla Corte che, anzi, dalla
cancellazione di ogni riferimento esplicito a tale parametro, dalla carta
324
fondamentale, ha tratto spunto per elaborare ulteriormente tale concetto
flessibilizzandolo ed adeguandolo alla nuova realtà regionalista italiana).
La tutela degli interessi unitari, sostenevano le ricorrenti, potrebbe ormai essere
realizzata solo attraverso poteri e istituti espressamente previsti in Costituzione
(quali?). Si aggiungeva, poi, nella memoria della Provincia Autonoma di Trento che,
se le Regioni non potessero intervenire là dove sono in gioco interessi nazionali, non
si giustificherebbero nemmeno i poteri sostitutivi disciplinati nell’art. 120, secondo
comma, Cost. (il perché di questa affermazione è rimasto ignoto). Inoltre, osservava
la stessa Provincia, già dall’art. 13 del decreto-legge n.67 del 1997, risultava che
opere “di rilevante interesse nazionale” potevano non di meno essere di competenza
regionale, mentre il Decreto Legislativo n. 112 del 1998 avrebbe attribuito allo Stato
la competenza su “grandi reti infrastrutturali dichiarate di interesse nazionale con
legge statale” sul presupposto che non fosse giustificabile una disciplina che, come
quella impugnata, rimettesse la definizione di tale interesse alla discrezionalità del
Governo.
Neppure si potrebbe affermare, soggiungeva ancora la Regione Toscana, che la
normativa impugnata sarebbe stata rispettosa dell’autonomia regionale poiché era,
in essa, previsto che l’individuazione delle opere fosse effettuata d’intesa fra Stato e
Regioni e l’approvazione dei progetti avvenisse attraverso l’intesa. Infatti, si
contestava che gli accordi e le intese non possono vincolare il legislatore statale o
regionale, visto che l’ordine costituzionale delle competenze legislative è
indisponibile.
Il richiamo che la difesa erariale faceva all’art.120 Cost., proseguiva, nella
memoria, la Toscana, non sarebbe stata pertinente, perché tale disposizione richiede
la definizione, con legge, delle procedure atte a garantire che il potere sostitutivo sia
esercitato nel rispetto del principio di sussidiarietà e di leale collaborazione, e tale
legge non era ancora stata emanata, con conseguente impossibilità di applicare il
medesimo art. 120.
Inoltre l’intervento sostitutivo in discorso sarebbe stato attivato in assenza di un
inadempimento regionale per effetto della sola manifestazione del dissenso da parte
della Regione e non sarebbe stato giustificabile con l’esigenza di garantire l’unità
economica del Paese, sicché l’avere legittimato un intervento sostitutivo in assenza
di ogni inadempimento regionale sarebbe ragione di illegittimità del decreto
legislativo per violazione del principio di leale collaborazione, richiamato dallo
stesso art. 120, secondo comma, Cost.
Da ultimo, infine, la Corte, a tali obiezioni, rispose affermando che, la possibilità
per lo Stato di legiferare anche in materie di potestà legislativa concorrente o
addirittura esclusiva, quando vi sia la necessità di garantire livelli minimi e uniformi
di tutela sull’intero territorio nazionale, era, già, stata riconosciuta dalla Corte
costituzionale con la sentenza n. 536 del 2002.
Dunque, a differenza di quanto sostenuto dalle ricorrenti, nella fattispecie in
esame, per la Corte, un limite alla legislazione regionale sarebbe stato desumibile
dall’art. 120, comma 1, Cost., il quale mira ad escludere che le Regioni possano
adottare «provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione
delle persone e delle cose tra le Regioni»: dato che l’efficacia di funzionamento
della rete potrebbe essere compromessa da normative regionali che frappongano
ostacoli alla sua configurazione funzionale e alla circolazione degli apparati di
telefonia mobile. La normativa statale impugnata, si sostenne, sarebbe stata poi
325
preordinata ad attuare il principio costituzionale della tutela della concorrenza,
riservata alla competenza esclusiva statale.
Se non fossero definite procedure certe e uniformi sull’intero territorio
nazionale, come osservato dalla difesa statale, non solo si sarebbe violata la
disciplina comunitaria, ma si sarebbe, anche, determinata un’anomala distorsione
del mercato sia a livello internazionale, sia all’interno.
Altra obiezione sollevata, poi, dalle Regioni Toscana e Marche fu quella con cui
impugnarono la parte di normativa in cui si consentiva, al Presidente del Consiglio
dei Ministri, su proposta del Ministro delle Infrastrutture e Trasporti (sentiti, per le
infrastrutture di competenza dei soggetti aggiudicatori regionali, i Presidenti delle
Regioni e delle Province Autonome), di abilitare i Commissari Straordinari ad
adottare, con poteri derogatori della normativa vigente e con le modalità e i poteri di
cui all’art. 13 del decreto-legge 25 marzo 1997, n. 67 (convertito, con modificazioni
nella legge 23 maggio 1997, n. 135), i provvedimenti e gli atti di qualsiasi natura
necessari alla sollecita progettazione, istruttoria, affidamento e realizzazione delle
infrastrutture e degli insediamenti produttivi, in sostituzione dei soggetti competenti.
A ciò, la Corte rispose affermando che, bisogna innanzitutto premettere che le
infrastrutture di competenza dei soggetti aggiudicatori regionali sono quelle in
relazione alle quali, nelle intese previste dal decreto legislativo n. 190 del 2002, si è
riconosciuto che l’interesse regionale concorre con un interesse statale preminente
ed è proprio questo riconoscimento a giustificare l’esercizio della funzione
amministrativa da parte dello Stato. La Corte riconosceva, dunque che, in primo
luogo, ad evitare che le esigenze unitarie sottostanti alla realizzazione di tali opere
possano restare insoddisfatte a causa dell’inerzia del soggetto aggiudicatore
regionale, allo Stato dovevano essere riconosciuti poteri sollecitatori che peraltro
dovevano essere esercitati seguendo un percorso procedimentale che non sottraesse
alle Regioni e Province Autonome delle garanzie connesse alla titolarità di un
interesse concorrente con quello statale. E infatti, era previsto che i commissari
straordinari agissero con le modalità e i poteri di cui all’art. 13 del decreto-legge n.
67 del 1997, e il comma 4 di tale articolo, che doveva essere ritenuto applicabile alla
fattispecie, attribuiva al Presidente della Regione (e, in questo caso, per opere
ricadenti nell’ambito della Provincia Autonoma, al Presidente della Provincia) il
potere di sospendere i provvedimenti adottati dal Commissario Straordinario e
anche di provvedere diversamente, entro 15 giorni dalla loro comunicazione.
In questi termini, la Corte respinse la censura, osservando che non poteva essere
condivisa la prospettazione della Regione Toscana, secondo la quale alle ipotesi di
inerzia regionale dovrebbe ovviarsi ai sensi dell’art. 120 Cost., per la cui
applicazione nel caso in esame, però, mancherebbero i presupposti. Infatti, si
precisava che nell’argomento trattato occorreva tenere ben distinte le funzioni
amministrative che lo Stato, per ragioni di sussidiarietà e adeguatezza, può assumere
e al tempo stesso organizzare e regolare con legge, dalle funzioni che spettano alle
Regioni e per le quali lo Stato, non ricorrendo i presupposti per la loro assunzione in
sussidiarietà, eserciti poteri in via sostitutiva. Nel primo caso, quando si applica il
principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost., quelle stesse esigenze unitarie che
giustificano l’attrazione della funzione amministrativa per sussidiarietà, consentono
di conservare in capo allo Stato poteri acceleratori da esercitare nei confronti degli
organi della Regione che restino inerti. In breve, la già avvenuta assunzione di una
funzione amministrativa in via sussidiaria, legittima l’intervento sollecitatorio
326
diretto a vincere l’inerzia regionale. Nella fattispecie di cui all’art.120 Cost., invece,
l’inerzia della Regione è il presupposto che legittima la sostituzione statale
nell’esercizio di una competenza che è e resta propria dell’ente sostituito429.
Altra pronuncia su cui voglio ancora soffermarmi è la ancor più recente
sentenza n.6 del 2003 in cui, la Regione Umbria ha impugnato il decreto legge 7
febbraio 2002, n. 7 (Misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico
nazionale), per violazione dell’art. 77, secondo comma, della Costituzione, in
quanto emanato in assenza delle condizioni di straordinaria necessità ed urgenza,
dal momento che la situazione addotta a fondamento della sussistenza di tali
requisiti non sarebbe stata basata su dati oggettivi, nonché per violazione dell’art.
120, secondo comma, della Costituzione, in quanto (ove si individuasse nel decretolegge impugnato una manifestazione del potere sostitutivo dello Stato nei confronti
delle Regioni) ne mancherebbero i presupposti e le forme da tale disposizione
previsti. La ricorrente, inoltre, ha impugnato il suddetto decreto-legge per violazione
dell’art. 117, primo comma, secondo comma (alla lett.m), e terzo comma, della
Costituzione, in quanto detterebbe una disciplina di dettaglio in una materia
assegnata alla potestà legislativa concorrente delle Regioni quale quella relativa a
“produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”; sarebbe violato,
altresì, l’art. 118, primo e secondo comma, della Costituzione, in quanto il decretolegge impugnato attribuirebbe nella suddetta materia un potere autorizzatorio allo
Stato, riconoscendo quindi “una competenza amministrativa generale e di tipo
gestionale” all’amministrazione statale in assenza di esigenze di carattere unitario.
In subordine, e più specificamente, la Regione impugnava il D.L. n.7 del 2002,
per violazione dell’art. 117, primo e terzo comma, della Costituzione, nonché
dell’art. 118, primo e secondo comma, e del principio di leale collaborazione.
Con successivo ricorso, la Regione Umbria estese tali impugnative alla legge 9
aprile 2002, n. 55 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 7
febbraio 2002, n. 7 recante misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema
elettrico nazionale), per gli stessi motivi.
La Corte, dopo aver riconosciuto l’infondatezza dell’eccezione di assenza
effettiva dei presupposti di urgenza che avevano giustificato l’emanazione di tale
legislazione, affermava che tanto meno era condivisibile l’opinione secondo cui i
possibili effetti in termini di ordine pubblico del cattivo funzionamento del settore
energetico potevano giustificare limiti preventivi ai poteri regionali, dal momento
che, semmai, il verificarsi di situazioni di fatto di questo tipo avrebbe potuto,
eventualmente, legittimare l’attivazione degli speciali poteri sostitutivi del Governo
429
Alla luce di ciò la Corte dichiarò:
- l’inammissibilità le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1, 2, 3, 4, 13 e 15 del decreto
legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevate, in riferimento agli articoli 76, 117, 118 e 120 della
Costituzione e agli articoli 8, primo comma, numeri 5, 6, 9 , 11, 14, 16, 17, 18, 19, 21, 22, e 24; 9, primo
comma, numeri 8, 9 e 10; e 16 del D.P.R. 31 agosto 1972, n. 670, agli articoli 19, 20 e 21 del D.P.R. 22
marzo 1974, n. 381 e all’articolo 4 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266, dalla Provincia
autonoma di Trento, con il ricorso indicato in epigrafe;
- la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 7, del decreto
legislativo 20 agosto 2002, n. 190, sollevate, in riferimento agli articoli 117, 118 e 120 della Costituzione,
dalla Regione Toscana, e, in riferimento agli articoli 117 e 118 della Costituzione, dalla Regione Marche,
con i ricorsi indicati in epigrafe.
327
sulla base di quel “pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica” che è
presupposto espressamente contemplato dall’art. 120, secondo comma.
Analogamente si disse, per la pretesa riconduzione della normativa impugnata
alla competenza legislativa statale di cui all’art. 117, secondo comma, lett.m, Cost.:
come questa Corte ha precedentemente affermato (vedi le sentenze n.88 del 2003 e
n.282 del 2002), tale competenza legittima un’eventuale predeterminazione
legislativa dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali”, ciò che nella specie non è intervenuto. La stessa utilizzazione di questi
livelli essenziali quale fondamento dell’esercizio dei poteri sostitutivi, ai sensi del
secondo comma dell’art. 120 Cost., di norma presuppone che lo Stato abbia
previamente esercitato la propria potestà legislativa di tipo esclusivo.
Tuttavia, né il D.L. n.7 del 2002 né la legge di conversione n.55 del 2002 hanno
un contenuto normativo di questo tipo, ma semplicemente disciplinano un nuovo
complesso procedimento amministrativo finalizzato a garantire la produzione e
l’approvvigionamento dell’energia elettrica e, per questi motivi, la Corte dichiarò
l’infondatezza della questione prospettata.
Fatta questa analisi, particolare nota merita una delle obiezioni sollevate dalla
Regione ricorrente, la quale affermò che tale D.L. n.7 del 2002 non poteva trovare il
proprio fondamento nell’art.120, secondo comma, della Costituzione, in quanto
ammettere che il Governo possa sostituirsi al legislatore regionale in via d’urgenza,
avrebbe configurato un tertium genus di potestà legislativa statale non prevista
dall’art. 117 Cost., che, come tale, sfuggirebbe al sistema dei limiti di materia
previsti da tale norma ed introdurrebbe una potestà sostitutiva generale dello Stato
nei confronti delle Regioni.
In concreto poi, si obiettava che il D.L. n.7 del 2002 avrebbe operato un
intervento sostitutivo preventivo, sganciato dalla previa messa in mora della
Regione e sottratto ad ogni disponibilità della stessa; ciò in contrasto anche con
quanto prevede l’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per
l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3), e che neppure ricorrevano i presupposti per l’esercizio del
potere sostitutivo previsto dall’art. 117, quinto comma, per il caso di inadempienza
delle Regioni in materia di attuazione ed esecuzione degli accordi internazionali e
degli atti dell’Unione europea.
In conclusione, dunque, la Corte riconosceva il valore del potere sostitutivo ex
art.120, precisando però che questo si manteneva, principalmente, in ambito
amministrativo ed, infine, che era coordinato con il principio della leale
collaborazione quale fattore cardine di tutto il sistema regionale.
Per concludere questa analisi sul potere sostitutivo statale ex art.120 Cost.
un’ultima riflessione la merita quel notevole corpo di pronunce che hanno cercato di
dare una risposta ai dubbi di legittimità costituzionale posti sull’esercizio di forme
di potere sostitutivo differenti da quelle previste in tale articolo, ed in particolare la
costituzionalità di quelle norme che prevedono la possibilità che siano le Regioni ad
esercitare un potere sostitutivo nei confronti degli Enti Locali.
328
Tale analisi va, necessariamente inaugurata, con una lettura della sentenza
n.313 del 2003 in cui il Presidente del Consiglio dei Ministri sollevò questione di
legittimità costituzionale contro varie norme contenute nella legge della Regione
Lombardia 12 gennaio 2002, n. 2, istitutiva del Corpo Forestale Regionale430, ed in
cui fu oggetto di censura l’art. 2, comma 5, che prevedeva l’intervento del Corpo
Forestale Regionale in sostituzione degli Enti Locali competenti, in caso di inerzia,
per contrasto con le garanzie riconosciute a questi ultimi dagli articoli 114 e 120
della Costituzione, ed anche l’art. 3, che prevedeva l’adesione degli Enti Locali a
convenzioni quadro predisposte unilateralmente dalla Regione, per contrasto,
ancora, con gli artt.114 e 120 Cost. e con il principio della leale cooperazione.
A tali eccezioni la Corte sostenne che ammissibile e fondata era la questione di
legittimità costituzionale contro l’anzidetta disposizione che prevedeva che il Corpo
Forestale Regionale esercitasse funzioni di vigilanza e controllo, in determinati
settori, in sostituzione degli Enti Locali competenti, qualora questi per qualsiasi
motivo omettessero d’intervenire.
Si osservava che tali funzioni riguardavano i settori forestale, territoriale e agrosilvo-pastorale, e poiché l’art. 3 della stessa legge regionale n. 2 del 2002 (anch’esso
impugnato) stabiliva che l’attività della Regione nei settori indicati dal comma 4
dell’art. 2 si sarebbe dovuta svolgere secondo convenzioni quadro stipulate tra la
Regione e le associazioni rappresentative degli Enti Locali e degli altri enti
interessati, si sarebbe potuto ritenere, in ipotesi, che la disposizione censurata fosse
posta per promuovere rapporti collaborativi di supporto e stimolo da parte della
Regione, tramite il suo Corpo forestale, nei confronti e a favore degli Enti Locali,
entro un quadro di norme concordate, e ciò per ovviare a eventuali lentezze o
omissioni, senza peraltro alterare il quadro delle rispettive competenze. Ma ciò,
secondo la Corte, non era più sostenibile là dove la disposizione impugnata
prevedeva che il Corpo Forestale Regionale operasse "in sostituzione degli Enti
Locali competenti", per di più tramite una procedura che contemplava una semplice
"previa segnalazione all’ente competente", alla quale seguiva la notizia non solo
degli accertamenti eseguiti e dei rilievi effettuati, ma anche dei "provvedimenti
adottati".
Con queste previsioni, non si tratta più della collaborazione tra i diversi enti di
governo, nel rispetto delle competenze di ciascuno, ma della sostituzione dell’uno
all’altro, con spostamento delle competenze.
430
Se ne denunciarono innanzitutto gli articoli 1, comma 1, e 2, commi 1-4, che disciplinavano
l’istituzione e le funzioni del Corpo Forestale Regionale, per violazione dell’art. 117, secondo comma,
lettere s) e q), della Costituzione, che riservavano allo Stato la competenza legislativa in materia di tutela
dell’ambiente e di profilassi internazionale, nonché dell’art. 118 della Costituzione, potendo le funzioni
amministrative in dette materie essere affidate soltanto dalla legge statale.
Poi, si sostenne la violazione dello statuto regionale della Lombardia (art. 6) da parte dell’art. 1, commi 2
e 3, che affidava alla Giunta regionale, anziché al Consiglio, l’adozione dei regolamenti per la disciplina
dell’organizzazione del Corpo Forestale Regionale e dei rapporti tra questo e le strutture amministrative
della Regione.
Da ultimo, venne sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, che regolava
l’attribuzione della qualifica di ufficiali e agenti di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza al personale
del Corpo Forestale Regionale, per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettere h) e l), della
Costituzione, che prevedono l’esclusiva competenza della legge dello Stato, l’una, in materia di ordine
pubblico e sicurezza e, l’altra, in materia di giurisdizione e norme processuali.
329
Così ricostruito il significato della disposizione censurata, la sua
incostituzionalità appariva evidente nella parte in cui la funzione collaborativa
svolta dall’apparato tecnico forestale della Regione si trasformava in funzione
sostitutiva.
Innanzitutto, in linea di massima, qualora siano in ipotesi da ammettere poteri
sostitutivi regionali, nei confronti degli Enti Locali, ulteriori rispetto a quelli facenti
capo al Governo, quali previsti dall’art. 120 della Costituzione, attuato ora dall’art. 8
della legge 5 giugno 2003, n.131, tali poteri sarebbero in ogni caso da ascrivere a
organi di governo dell’ente che, nell’ambito di responsabilità più generali
riconosciutegli, agisce in sostituzione: nel caso in questione, a organi della Regione,
non ad apparati amministrativi (ed in ciò la Corte dimostrò di voler seguire un
indirizzo giurisprudenziale precedente alla stessa riforma del 2001; in tal senso vedi
la sentenza n. 381 del 1996).
In secondo luogo, il rispetto dell’autonomia degli Enti Locali presupporrebbe
che l’omissione alla quale si intende sopperire con l’intervento sostitutivo sia
definita come fatto giuridicamente qualificato, e non sia una semplice inattività da
altri considerata inopportuna, come sembra poter essere nella specie.
In terzo luogo, occorrerebbe un procedimento definito dalla legge, adottata
secondo l’ordine delle competenze rispettivamente statali e regionali fissato dalla
Costituzione: un procedimento nel quale l’ente sostituito possa far valere le proprie
ragioni e sia messo nella condizione di ovviare all’omissione, una volta che questa
sia stata riconosciuta, non essendo sufficiente, perché si attivi il potere sostitutivo,
quella mera "previa segnalazione" di cui parla la disposizione impugnata.
D’altra parte, tale disposizione non potrebbe neppure ritenersi riconducibile alla
previsione generale contenuta nell’art. 1, comma 15, della legge regionale 5 gennaio
2000, n. 1431. Quest’ultima norma prevede che, in caso di accertata, persistente
inattività degli Enti Locali nell’esercizio di funzioni loro conferite, il Presidente
della Giunta regionale assegni all’ente inadempiente un congruo termine per
provvedere, non superiore comunque a sei mesi, e che, ove il termine sia trascorso
inutilmente, la Giunta regionale, sentito l’ente inadempiente, disponga specifici
interventi sostitutivi o la nomina di un commissario ad acta.
Proprio il confronto tra lo schema organizzativo del potere sostitutivo cui questa
norma si attiene (conformemente a numerose altre previsioni al riguardo: si veda ad
esempio l’art. 5 del decreto legislativo n. 112 del 1998, nonché il citato art. 8 della
legge n. 131 del 2003) e la disposizione denunciata mette in evidenza
l’inconciliabilità di questa seconda con i principi che presiedono, e devono
presiedere, alla disciplina del delicato rapporto che si determina quando la tutela di
interessi superiori richiede la sostituzione di un soggetto a un altro, e quindi
l’eccezionale spostamento dell’esercizio di un potere dal soggetto che
ordinariamente ne dispone a un altro che ordinariamente ne è privo.
Quanto precede, secondo la Corte, era, giustamente, sufficiente a dimostrare
l’incostituzionalità della disposizione impugnata, per violazione del principio di
autonomia degli Enti Locali, quale affermato dall’art. 114, primo e secondo comma,
della Costituzione. E quindi i ricorsi andavano accolti.
431
Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 112
(Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in
attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59).
330
Sullo stesso argomento si è mossa la successiva sentenza 20 gennaio 2004
n.43432, in cui la Corte Costituzionale ha deciso in ordine alla questione di
legittimità costituzionale posta nei confronti dell’art.91, comma 8 della legge
regionale del Veneto 4 novembre 2002 n.33 (riportante “Testo Unico delle leggi
regionali in materia di turismo”). In particolare sono rilevanti gli argomenti usati
dalla Corte in ordine alla questione riferita all’art.91 di tale legge, che, al comma 7,
dispone che entro 12 mesi dall’entrata in vigore della stessa legge “i Comuni
provvedono ad adeguare i propri strumenti urbanistici… in relazione alle
indicazioni della programmazione regionale e provinciale”, prevedendo che in sede
di formazione di tale adeguamento, se il termine indicato trascorre inutilmente,
allora “la Regione procede alla nomina di un commissario ad acta”.
Contro tale disposizione, il Governo ha presentato ricorso, contestando la
violazione del secondo comma dell’art.120 Cost., nel momento in cui si prevedeva
l’esercizio di poteri sostitutivi regionali nei confronti degli Enti Locali (questione,
peraltro, già affrontata in senso positivo per le Regioni, anche nella precedente
sentenza n.313 del 2003 al punto 9 delle C.i.D.), contestando che tale articolo della
Costituzione, interpretato sistematicamente in correlazione con gli articoli 114 e 117
al secondo comma lett.p, della stessa, consentirebbe di affermare che solo al
Governo spetta il potere di sostituirsi agli organi degli Enti Locali, e che l’esercizio
del potere sostitutivo può essere disciplinato, ai sensi del medesimo secondo comma
art.120, solo dalla legge statale.
A tali eccezioni, la Corte, rispose con la dichiarazione d’infondatezza della
stessa, osservando che “i poteri del tipo in questione, che comportano cioè la
sostituzione di organi di un ente a quelli di un altro, ordinariamente competente, nel
compimento di tali atti, ovvero la nomina da parte dei primi di organi straordinari
dell’ente sostituito per il compimento degli stessi atti, concorrono a configurare e a
limitare l’autonomia dell’ente nei cui confronti opera la sostituzione, e devono
quindi trovare fondamento nelle norme o nei principi costituzionali che tale
autonomia prevedono e disciplinano”.
In effetti, questo presupposto è stato sotteso a tutta la giurisprudenza
costituzionale formatasi prima dell’entrata in vigore della legge cost. n.3/’01 (sia
pure con riferimento ai rapporti tra Stato e Regioni), ciò che la Corte doveva
analizzare è se esso fosse sopravvissuto alla riforma del Titolo V° della
Costituzione.
Per capire ciò si è partiti da una riflessione sull’art.117, secondo comma lett.p, in
cui si è osservato ch’esso ricomprende, oggi, nella competenza legislativa esclusiva
dello Stato solo le “funzioni fondamentali” di Comuni, Province e Città
Metropolitane, mentre l’art.118, primo comma, attribuisce, in via di principio ai
Comuni, in tutte le materie, “le funzioni amministrative” ma riserva la possibilità
che esse, per assicurare l’esercizio unitario, siano conferite, sulla base dei principi di
sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, a Province, Città Metropolitane,
Regioni e Stato.
432
Per alcune note a tale pronuncia, vedi R. Dickmann in “La Corte riconosce la legittimità dei poteri
sostitutivi regionali” pubblicato sul sito www.federalismi.it il 19 febbraio 2004, e M. Belletti in “Potere
sostitutivo straordinario ed ordinario dopo la sentenza n.43 del 2004” pubblicato nel forum di Quaderni
Costituzionali il 9 marzo 2004.
331
In questo sistema, la Corte, ha riconosciuto che anche l’eventuale previsione di
eccezionali sostituzioni di un livello di governo ad un altro, per il compimento di
specifici atti o attività, considerati dalla legge necessari per il perseguimento degli
interessi unitari coinvolti, e non compiuti tempestivamente dall’ente competente,
non può che rientrare nella logica della sussidiarietà ed organizzazione orizzontale a
cui è improntato, oggi, il nostro sistema costituzionale. Infatti, il nuovo art.120
Cost., si inserisce in questo contesto, con la esplicita previsione del potere del
Governo di sostituirsi agli organi degli altri enti territoriali in determinate ipotesi,
sulla base dei presupposti definiti nella stessa norma costituzionale,
rispondentemente alle esigenze di tutela di taluni interessi essenziali che il sistema
costituzionale attribuisce alla responsabilità dello Stato.
In definitiva, si giungeva all’assunto per cui, a prescindere dal riparto delle
competenze, come attuato dalla legge statale o regionale, il Governo può, sempre,
esercitare poteri sostitutivi per garantire gli interessi essenziali costituzionalmente
salvaguardati.
Fatte queste premesse, allora, si scendeva nel merito della questione
premettendo che l’art.120 Cost., secondo comma, non può essere inteso nel senso
che esaurisca, concentrandole tutte in capo allo Stato, le possibilità di esercizio di
poteri sostitutivi. In realtà esso prevede un solo potere sostitutivo straordinario in
capo al Governo, da esercitarsi sulla base dei presupposti e per la tutela degli
interessi ivi espressamente indicati, lasciando, al contempo, impregiudicata la
possibilità di altri interventi sostitutivi, configurabili dalla legislazione di settore, sia
statale che regionale, in capo ad altri organi dello Stato o delle Regioni, o,
addirittura, di altri enti territoriali, in correlazione col riparto di funzioni dalla legge
realizzato. Con ciò è dunque da escludere che da questa norma si possa far
discendere una riserva a favore della legge statale, non precludendo, in via di
principio, la possibilità che la legge regionale, intervenendo in materie di propria
competenza, e nel disciplinare l’esercizio di funzioni amministrative di competenza
dei Comuni, preveda anche poteri sostitutivi in capo ad organi regionali, per il
compimento di atti od attività obbligatorie, nel caso d’inerzia o di inadempimento,
da parte dell’ente competente, al fine di salvaguardare gli interessi essenziali di
volta in volta coinvolti, nell’unico limite di essere disciplinati negli stessi ambiti di
quanto previsto per i poteri sostitutivi dello Stato all’art.120 Cost., e cioè:
a) che si tratti di poteri sostitutivi previsti e disciplinati dalla legge;
b) che tali poteri siano esercitabili solo per il compimento di atti privi di
discrezionalità nell’an, la cui obbligatorietà sia il riflesso di interessi unitari
alla cui salvaguardia provvede l’intervento sostitutivo;
c) il potere sostitutivo deve essere esercitato da un organo di governo con la
partecipazione “reale” dell’ente sostituito;
d) deve essere rispettato il principio di leale collaborazione.
Dunque, la Corte, rigettando il ricorso in specie presentato, si è posta in linea
con la propria precedente giurisprudenza, che in tema ha sempre salvaguardato, nei
limiti e nel rispetto del principio di leale collaborazione, la possibilità di esercitare
poteri sostitutivi da parte delle Regioni nei confronti degli Enti Locali (purché,
com’è ovvio nei limiti delle proprie competenze costituzionalmente previste e delle
esigenze, ed interessi, a tale livello previsti e salvaguardati).
332
Un ultima nota merita ricordare che in tale pronuncia, la Corte, si è preoccupata,
anche, di chiudere definitivamente la questione sulla natura dei poteri sostitutivi
previsti dall’art.120 Cost., sancendone il valore amministrativo. Infatti, tali poteri
sostitutivi se vengono inequivocabilmente riconosciuti come sottoposti alla legge,
non possono pertanto che presentare natura amministrativa.
Per concludere433, si può osservare che, se le intenzioni del legislatore erano
quelle di dare copertura costituzionale ai poteri sostitutivi in senso proprio,
soprattutto con riferimento alle funzioni esclusive delle Regioni, ebbene ciò è
avvenuto con l’introduzione di una disposizione oscura, ricca di implicazioni
interpretative che potrebbero portare, come accennato, a risultati ben diversi da
quelli voluti. E, sotto questo profilo, è davvero curioso che il neo-costituente si sia
lanciato nella formulazione di questo, decisamente inadeguato, dettato giuridico che
è appunto il nuovo art.120 Cost., avendo sotto gli occhi il disposto dell’art. 5 del
D.Lgs. n.112/’98, riferito appunto ai poteri sostitutivi, disciplinati per la prima volta
in via generale almeno con riferimento alle funzioni amministrative regionali
proprie: disposizione magari non perfetta (e quindi migliorabile - come tutte le cose
umane), ma comunque formulata in maniera sufficientemente chiara e lineare,
almeno nella sua prima parte (riferita all’intervento sostitutivo statale non sorretto
da ragioni di urgenza).
Se invece l’intenzione era quella di introdurre davvero una funzione statale dai
contenuti più ampi rispetto al potere sostitutivo in senso stretto, va rimarcata
comunque l’assoluta mancanza di chiarezza della disposizione da cui, come rilevato,
non è dato nemmeno di intuire con certezza la natura (giuridica o politica) della
funzione riconosciuta al potere centrale.
Si potrebbe obiettare che le disposizioni, anche quelle costituzionali, una volta
introdotte vivono di vita propria ed il loro contenuto, in una certa misura, non può
che essere il frutto dell’attività degli interpreti. Ciò è senz’altro vero; ma nel
momento in cui si ragiona del complessivo assetto dei rapporti fra lo Stato e le
autonomie locali, non appare granché lungimirante introdurre singole disposizioni la
cui formulazione può prestarsi ad interpretazioni così difformi fra loro da
condizionare, in definitiva, l’impronta di fondo che a quell’assetto si vuole dare.
Si dirà che anche questo profilo è il risultato dell’assenza di un disegno
complessivo di riforma dello Stato regionale italiano, che ripensi davvero il ruolo
complessivo di Regioni ed Enti Locali nei rapporti con lo Stato centrale: ma ciò,
appare, più che un’attenuante, un’ulteriore aggravante nei confronti di chi ha inteso
mettere mano, anche solo per alcuni specifici aspetti, alla riforma della carta
costituzionale. Laddove, in assenza appunto di un disegno complessivo di più ampio
respiro, e con l’intenzione dichiarata di voler valorizzare ulteriormente le autonomie
locali, il risultato da raggiungere avrebbe dovuto essere quello di potenziare gli
istituti che meglio hanno funzionato nelle relazioni fra potere centrale ed autonomie
locali: cercando al contempo di ridurre quegli aspetti di incertezza e conflittualità
nei rapporti fra centro e periferia che hanno portato, in passato, ad una definizione in
via contenziosa dei tratti caratterizzanti il regionalismo italiano.
433
Per quanto riguarda l’argomento dei poteri sostitutivi delle Regioni nei confronti degli Enti Locali,
rinvio ulteriormente alle successive sentenze nn. 69, 70, 71, 72, 73, 74 del 2004 confermative della
precedente giurisprudenza della Corte.
333
Esattamente il contrario, insomma, di quanto si è fatto formulando la
disposizione qui commentata, che è presto divenuta un terreno assai fertile di
contenzioso giuridico fra Stato ed autonomie locali.
Unica nota di certo positiva è che anche questo aspetto del regionalismo, così
come l’interesse nazionale e l’indirizzo e coordinamento ai quali è concettualmente
legato, sono ormai letti, sia dalla giurisprudenza che dal legislatore, nella ormai
consolidata ed immancabile ottica della leale collaborazione tra centro e periferia
che rappresenta, oggi, il punto cardine intorno al quale ruota tutto il regionalismo
italiano.
3345
5. Altri aspetti trattati dalla giurisprudenza costituzionale di questi
ultimi anni e premesse per delle conclusioni.
Dopo aver tracciato il triplice percorso di cui sopra, vorrei comunque ricordare
che la Corte, sempre in questi anni, si è trovata a trattare le più disparate materie
relativamente al regionalismo. La loro sporadicità ed occasionalità non ne ha fatto
un filone giurisprudenziale meritevole, anche per ragioni di economia espositiva, di
trattazione in questo lavoro. Però, ritengo che alcune di queste pronunce siano
comunque meritevoli di una breve analisi, la quale possa essere utile a dare
maggiore chiarezza e completezza all’esposizione compiuta e mi permetta di
cominciare a tracciare le fila di una possibile conclusione della stessa.
La riforma del 2001, come sappiamo, ha trovato un importante precedente nella
Legge Costituzionale n.1 del 1999, la quale, tra le altre novità introdotte, è
intervenuta sull’art.123 Cost. e sul relativo controllo di costituzionalità degli statuti
regionali. Com’è noto, fin dall’entrata in vigore di tale legge, uno dei nodi
maggiormente problematici nella ricostruzione della novellata autonomia statutaria
delle Regioni c.d. Ordinarie è subito apparso quello relativo al controllo di
costituzionalità dello Statuto a seguito dell’impugnazione governativa. In particolare
le principali incertezze si sono appuntate sul carattere preventivo o successivo di
tale controllo, e ciò a causa della laconicità e dell’ambiguità della formulazione
normativa utilizzata dal legislatore della revisione costituzionale. Il nuovo testo
dell’art.123 Cost., infatti, si limita a prevedere, al secondo comma, che: “il Governo
della Repubblica può promuovere la questione di legittimità costituzionale sugli
statuti regionali davanti alla Corte Costituzionale entro trenta giorni dalla loro
pubblicazione” ed al terzo e ultimo comma che “lo statuto è sottoposto a
referendum popolare qual’ora entro tre mesi dalla sua pubblicazione ne faccia
richiesta un cinquantesimo degli elettori della Regione o un quinto dei componenti
del Consiglio regionale” e stabilisce che “lo statuto sottoposto a referendum non è
promulgato se non è approvato dalla maggioranza dei voti validi”. Nessuna
incertezza sembra prospettarsi sulla circostanza che la pubblicazione di cui al terzo
comma abbia carattere meramente notiziale e che, in definitiva, lo statuto sia
destinato ad una doppia pubblicazione: la prima subito dopo la seconda delibera
consiliare, ai fini del decorso del termine di proposizione del referendum ed una
seconda, successiva alla promulgazione, ai fini dell’entrata in vigore quale nuovo
statuto.
Pare opportuno sottolineare come, il problema ermeneutico lasciato irrisolto dal
legislatore investa la stessa natura del controllo di costituzionalità sugli statuti,
poiché con tutta evidenza, dalla qualificazione (come notiziale o necessaria) della
pubblicazione prevista dal secondo comma dell’art.123 Cost., deriva il
riconoscimento o meno della collocazione infra-procedimentale dell’impugnazione
governativa, la quale, a sua volta, incide direttamente e pesantemente sulla stessa
fisionomia della nuova autonomia statutaria, in quanto è chiaro che, affermare che il
controllo di costituzionalità della Corte ha ad oggetto uno statuto perfettamente
formato ed entrato in vigore significa ridurre notevolmente il peso dell’impugnativa
governativa, laddove, invece, ammettere che il sindacato “sull’armonia con la
Costituzione” ha carattere preventivo vuol dire riconoscere un ruolo più incisivo,
335
della Corte costituzionale, nella definizione dei nuovi assetti del sistema delle
autonomie434.
Su questi, ed altri profili, è intervenuta, colmando la lacuna lasciata dal
legislatore della legge cost. n.1 del 1999, la sentenza 20 giugno – 3 luglio 2002
n.304, con la quale si è affrontato il ricorso presentato (ex nuovo art.123 Cost.), dal
Consiglio dei Ministri, per questione di legittimità costituzionale (relativamente agli
articoli 122, ultimo comma, e 126, terzo comma, Cost., ed art.5, comma 2, lett.b,
della legge cost. n.1/’99), contro la delibera legislativa adottata, in seconda
votazione, il 24 luglio 2001 dal Consiglio regionale della Regione Marche, e recante
“Disciplina transitoria in attuazione dell’articolo 3 della legge costituzionale 22
novembre 1999 n.1”, nella parte in cui disponeva che, fino all’approvazione del
nuovo statuto regionale, nel caso di morte o impedimento permanente del Presidente
della Giunta regionale, il Vicepresidente, nominato ai sensi dell’art.5, comma 2
lett.a, della legge costituzionale n.1/’99, dovesse subentrare al Presidente,
nell’esercizio delle relative funzioni.
Preliminarmente la Corte precisa che “il termine per promuovere il controllo di
legittimità costituzionale dinanzi a questa Corte decorre dalla pubblicazione
notiziale della delibera statutaria e non da quella, successiva alla promulgazione,
che è condizione per l’entrata in vigore”, chiarendo, dunque, i dubbi in merito che
ho esposto sopra. E con ciò la Corte prosegue specificando che ormai (cioè dopo la
riforma del 2001) un parallelo con il sistema di controllo sulle leggi regionali è
venuto meno, in quanto queste ultime sono impugnabili solo in un momento
“successivo all’entrata in vigore della legge”. Non solo, ma specifica che “ragioni
di coerenza sistematica, inducono a negare che il valore della legge regionale sia in
tutto assimilabile a quello degli statuti, la peculiarità dei quali si fa evidente se si
considerano le diverse innovazioni che li hanno coinvolti”. Ciò che si sottolinea è
che il legislatore del 1999 ha introdotto, per quanto riguarda gli statuti, un
procedimento aggravato di formazione dell’atto, imponendo al Consiglio regionale
due delibere successive (e distanziate con un intervallo non inferiore a due mesi), ha
escluso il controllo preventivo del Governo ed ha previsto, in sua vece, uno speciale
controllo di legittimità da parte della Corte costituzionale. Ha, infine, prefigurato
un’eventuale consultazione referendaria, sicché può dirsi che tale procedimento
richiama il modello ex art.138 Cost. delineato per le leggi di revisione
costituzionale.
Ciò che la Corte si premura d’affermare è che un tale controllo preventivo sugli
statuti regionali è conseguenza necessaria della posizione che queste hanno assunto
nel sistema regionale a seguito della riforma. Infatti, la previsione di un controllo di
legittimità costituzionale in via preventiva, delle delibere statutarie, è inteso ad
impedire che eventuali vizi di legittimità dello statuto si riversino a cascata
sull’attività amministrativa e legislativa della Regione, per le parti in cui queste
siano destinate a trovare nello statuto medesimo il proprio fondamento esclusivo o
concorrente
Tornando alla questione, la Corte, affronta le due censure mosse
dall’Avvocatura dello Stato.
434
In tal senso vedi Cardone A. in “Il controllo di costituzionalità sugli statuti regionali. Le lacune del
legislatore e la supplenza della Corte costituzionale”, pubblicato sulla rivista Le Istituzioni del
Federalismo, 2002, fasc.5, pagg.655 ss.
336
In una prima si eccepisce che una riforma statutaria deve avere ad oggetto uno
statuto organico (ed eventuali sue successive modifiche), in quanto, si sostiene che
una semplice modifica dello statuto previgente andrebbe incontro a due
problematiche: in primo luogo vi sarebbe la disorganicità ed il timore di incoerenza,
ed in secondo luogo la penalizzazione dell’autonomia regionale, che avente, adesso,
la possibilità di adottare uno statuto interamente regionale, continuerebbe a valersi
di uno statuto adottato con legge dello Stato. Ma la Corte rigettò tali censure,
dichiarandole infondate, in quanto: in primo luogo l’autonomia della Regione può
esprimersi come meglio crede (per cui se si ritiene soddisfatta con il mantenimento
in vigore del vecchio testo, lo Stato di certo non può farsi portatore di un’opinione
diversa), ed in secondo luogo, essa ricorda che, sebbene tali statuti fossero stati
adottati con legge dello Stato, il procedimento aveva dato, comunque, un rilievo non
indifferente al ruolo delle Regioni (le quali presentavano il testo che lo Stato doveva
commutare in legge, senza avere alcun potere di intervento o di emendazione del
testo dello stesso) senza che, dunque, fosse del tutto assente la tutela dell’autonomia
regionale.
Una seconda censura riguardò, invece, la disposizione che prevedeva la
possibilità, in pendenza dell’emanazione del nuovo statuto, al verificarsi della
morte, o d’impedimento permanente, del Presidente della Giunta regionale, che vi
subentrasse con pieni poteri il Vicepresidente. Tale questione è stata ritenuta fondata
dalla Corte, la quale accolse le eccezioni per cui, ex art.126 Cost., tali eventi
dovrebbero portare alle dimissioni della Giunta ed allo scioglimento del Consiglio,
in quanto tale norma è richiamata anche dalla legge costituzionale n.1/’99, nella
parte in cui prevedendo una disciplina transitoria dichiara che “fino all’entrata in
vigore dei nuovi statuti” si applica il sistema previsto nella stessa (e che per l’ipotesi
in questione rinvia all’applicazione del citato art.126 Cost.). Il significato, dunque,
delle due disposizioni è chiaro, infatti, con esse si intende garantire, mediante il
vincolo “simul stabunt - simul cadent”, la stabilità dell’esecutivo regionale secondo
una disciplina transitoria destinata a permanere fino a quando non verranno adottati
i nuovi statuti (e dunque le Regioni si doteranno di forme di Governo scelte da loro).
Ed è alla luce di quest’ultima riflessione (e del fatto che la delibera in questione
non era un progetto di nuovo statuto ma solo un insieme di disposizioni emanate in
attuazione della legge cost. n.1/’99, in attesa del nuovo Statuto) che la Corte
dichiara l’incostituzionalità della delibera legislativa statutaria, adottata dalle
Regione Marche, in seconda votazione, il 24 luglio 2001.
Un’ultima precisazione, infine, la voglio dedicare ad un passo della sentenza
sopra analizzato. Infatti, particolare è come, la Corte, prima di affrontare il merito
della questione, prenda in esame, senza peraltro che la Regione resistente avesse
prospettato una specifica eccezione di inammissibilità del ricorso, la questione della
natura successiva o preventiva del controllo di costituzionalità dello statuto e della
sua conseguente collocazione temporale. Essa, prende atto che la delibera
impugnata non è stata, ancora, oggetto di promulgazione e dedica al problema una
serie di puntuali considerazioni, che colmano così, almeno in parte, la lacuna
lasciata dal legislatore del 1999.
337
Purtroppo, tale pronuncia, non si fa carico di tutte le problematiche aperte con la
riforma in commento, infatti, deve essere notato come, la Corte, non ha dato risposta
al quesito posto dall’Avvocatura dello Stato, la quale chiedeva se, una volta
trascorsi inutilmente i tre mesi per la proposizione del referendum, le leggi statutarie
pendenti dinnanzi alla Corte, potessero essere promulgate comunque. Nel caso di
specie, infatti, la Corte approfitta del fatto che la delibera in questione non è ancora
stata promulgata, per non affrontare il problema che rimane una questione aperta per
il futuro. Ma, tale pronuncia lascia aperta un’altra delicata questione, quale il
possibile contrasto tra sindacato di costituzionalità e referendum popolare. In
particolare, la Consulta non ha chiarito se, ed in quale misura, la proposizione del
ricorso governativo, di cui si assume il carattere preventivo, produca effetti sul
procedimento referendario (tenuto conto che la disciplina dettata dal legislatore, non
è di per se sufficiente a garantire che il controllo di legittimità costituzionale si
consumi prima della consultazione referendaria stessa). La soluzione più opportuna
sembrerebbe quella di ritenere che la proposizione del ricorso governativo abbia
effetto sospensivo del procedimento referendario, ma di ciò, né di altra soluzione,
non si trova traccia nella pronuncia in questione (ed in nient’altro, purtroppo)435.
In conclusione, tralasciando le problematiche irrisolte, vale la pena di osservare
che, comunque, rimangono delle riflessioni da fare, su quelli che potrebbero essere i
nuovi scenari aperti dal sistema di controllo preventivo di costituzionalità di cui si è
qui parlato. Vale la pena di osservare come, in mancanza di un termine per la
decisione della Corte, il controllo preventivo di conformità, alla Costituzione, venga
ad incidere pesantemente sull’autonomia statutaria delle Regioni c.d. Ordinarie, le
quali, per non attendere i tempi della pronuncia del giudice costituzionale,
potrebbero trovarsi ad assumere un atteggiamento di sostanziale acquiescenza nei
confronti delle richieste, avanzate dal Governo, dietro la minaccia di un ricorso ex
art.123 Cost.
In altri termini si rischia il ripetersi di quello che si è verificato negli anni
settanta, quando, vigente il vecchio procedimento di formazione degli statuti, i
Consigli regionali si videro costretti a modificare le proprie deliberazioni statutarie
per adeguarle alle richieste, non sempre fondate, dello Stato. Naturalmente tale
rischio resterà circoscritto se la Corte continuerà, anche in futuro (come ha fatto fino
ad oggi), ad operare in tempi relativamente brevi. Se, invece, come sembra
prevedibile, tali tempi dovessero allungarsi (presumibilmente a causa della crescita
esponenziale del numero di ricorsi), il pericolo che i Consigli regionali vengano
tenuti sotto scacco dal Governo assumerebbe proporzioni rilevanti, tali da
compromettere il fisiologico svolgimento di questa fase di transizione (che a
distanza di più di due anni non si è ancora conclusa).
In quest’ultima deprecabile ipotesi, non resta che augurarsi che il Governo e le
Regioni, sappiano gestire tale nuova stagione statuaria all’insegna della leale
collaborazione, infatti, solo l’accresciuto senso di responsabilità istituzionale dei
soggetti coinvolti potrà dare l’effettivo senso del processo d’attuazione dei principi
costituzionali in materia d’autonomia territoriale, con le riforme del 1999 e del
2001.
435
Per una nota alla sentenza in commento vedi Mangiameli S. in “La nuova potestà statutaria delle
Regioni davanti alla Corte Costituzionale”, pubblicato su Giur. Cost., 2002, fasc.4, pagg.2358 ss.
338
Tra le pronunce del 2003436, una nota a parte merita la già vista sentenza 13-21
ottobre 2003 n.313. Con tale pronuncia la Corte ritornò ad affrontare un argomento
che ormai si pensava chiuso, e cioè il rapporto tra la legge costituzionale n.1 del
1999 e gli statuti regionali vigenti.
436
Meritano una breve nota anche le seguenti:
- sentenza 16-30 gennaio 2003 n.13, nella quale si è affrontato il conflitto di attribuzione proposto dal
Presidente del Consiglio dei Ministri nei confronti della Regione Veneto in merito ad una “lettera di
intenti” sottoscritta a Venezia il 31 marzo 1999 dal Presidente della Regione Veneto e dal Ministro degli
Affari Esteri, Commercio Internazionale e Culto della Repubblica Argentina, con la quale le parti
contraenti hanno convenuto di “promuovere, nell’osservanza dei rispettivi ordinamenti giuridici,
l’adozione dei provvedimenti necessari a sviluppare la collaborazione istituzionale, economica e
culturale tra la Regione del Veneto e la Repubblica Argentina, favorendo attività di interscambio nei
settori culturale, economico e sociale”, e prevedendo di favorire la realizzazione di una serie di attività e
iniziative. Con tale pronuncia, la Corte ritenne fondata la questione dichiarando “che non spetta alla
Regione Veneto il potere di stipulare la «lettera di intenti» sottoscritta a Venezia il 31 marzo 1999 dal
Presidente della Regione e, di conseguenza, annulla tale atto”, perché, essa stessa osservava che, come
più volte aveva affermato, la sottoscrizione di accordi con organi o enti esteri senza che la Regione abbia
preventivamente informato il Governo, quindi senza la necessaria intesa o assenso, è di per sé lesiva della
sfera di attribuzioni statali (in tal senso vedi le precedenti sentenze n. 204 e n. 290 del 1993; n. 212 del
1994). Il Governo, infatti, secondo la Corte, doveva essere messo in grado, in osservanza del principio di
leale cooperazione, di verificare la compatibilità di tali atti con gli indirizzi di politica estera, riservati alla
competenza dello Stato (sentenza n. 332 del 1998).
- sentenza 16 gennaio – 5 febbraio 2003 n.37, in cui la Corte affrontò due distinti ricorsi presentati dalla
Regione Friuli-Venezia Giulia al fine di impugnare due disposizioni di legge sostanzialmente analoghe, di
cui la prima è contenuta in un decreto-legge non convertito (art. 2, commi 2 e 3, del decreto-legge 24
novembre 2000, n.346, Interventi urgenti in materia di ammortizzatori sociali, di previdenza, di lavori
socialmente utili e di formazione continua), e la seconda nella legge finanziaria per il 2001 (art. 78,
commi 2, 3 e 33, della legge 23 dicembre 2000, n.388, Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato). Questa legge, ai commi 2 e 3, ripete essenzialmente la disciplina
introdotta dai commi 2 e 3 del decreto-legge non convertito (con qualche modifica non incidente sulla
portata della questione di costituzionalità); e, al comma 33, prevede la clausola di salvezza degli atti e
degli effetti prodottisi sulla base del medesimo decreto-legge. Entrambi i ricorsi censurano tali
disposizioni nella parte in cui prevedono che il Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale e le
Regioni possano stipulare sia le convenzioni di cui all'art. 8, comma 1, del decreto legislativo 28 febbraio
2000, n. 81 (Integrazioni e modifiche della disciplina dei lavori socialmente utili, a norma dell'art. 45,
comma 2, della legge 17 maggio 1999, n. 144), sia ulteriori convenzioni in riferimento a «situazioni
straordinarie», e prospettano il possibile contrasto con l'art. 4, n.1, dello statuto di autonomia (perché
risulterebbe incisa la potestà legislativa regionale primaria in materia di ordinamento degli uffici e degli
enti dipendenti dalla Regione), con l'art. 97 della Costituzione (per la compromissione del funzionamento
ottimale degli uffici regionali) e con l'art. 48 dello statuto medesimo (per la possibile lesione
dell'autonomia finanziaria della Regione). Nel riunire i due ricorsi, la Corte, dichiarò la manifesta
inammissibilità (e l’infondatezza della questione di costituzionalità) degli stessi perché: a) il decretolegge n.346/2000 non è stato convertito (e quindi è venuto meno); b) il sistema delle convenzioni è
bilaterale, perciò la Regione non potrebbe trovarsi coinvolta in una situazione di utilizzazione dei suoi
uffici tale da compromettere la sua competenza ad organizzarli; c) grazie all’esistenza di una convenzione
non può intendersi lesa l’autonomia finanziaria della Regione stessa. Il punto interessante è che anche con
tale sentenza la Corte rinnova il principio tempus regit actum, tant’è che al punto 4 delle Considerazioni
in Diritto, afferma che: “Il secondo ricorso è stato proposto dalla Regione prima della riforma del Titolo
V° della seconda parte della Costituzione (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), e pertanto le
questioni da esso sollevate devono essere decise - come questa Corte ha già ritenuto (sentenza n. 422 del
2002) – alla stregua dei parametri costituzionali all'epoca vigenti non rilevando, in questa circostanza, il
sopravvenuto mutamento di quadro costituzionale operato con la legge costituzionale menzionata.
339
Prima di questa pronuncia si riteneva ormai pacifico che, in seguito alla riforma
del ’99 il potere regolamentare fosse rimesso nelle mani della Giunta sottraendolo,
definitivamente alle competenze del Consiglio regionale. Infatti, la conseguente
attribuzione alla Giunta della potestà regolamentare avrebbe consentito una stretta
connessione dei regolamenti con le attribuzioni degli organi esecutivi, oltre che una
maggiore speditezza nella loro emanazione. Si sarebbe avuto una riproposizione
dello schema di distribuzione della funzione normativa, proprio dello Stato-soggetto
nel quale spetta al Governo la delibera dei regolamenti. Anzi, su questa linea, lo
stesso Governo, all’indomani della legge del 1999, aveva ritenuto utile già
indirizzare i commissari di governo nel verso della legittimità dei regolamenti
emanati dalle Giunte regionali. Questa situazione, però, con la presente pronuncia, è,
oggi, stata rimessa in discussione.
Con la presente pronuncia, la Corte si è trovata a risolvere i ricorsi presentati dal
Governo contro due leggi della Regione Lombardia in materia di Corpo Forestale (le
leggi n.2 e 4 del 2002437) delle quali si contestava il contrasto con gli artt.114, 117,
118, 120 Cost. e l’art.6 dello Statuto regionale. Con i presenti ricorsi, dunque, il
Governo sanciva la rottura di quella sorta di armistizio che, in merito alla riforma
del 1999, era stato, unilateralmente, proclamato.
Nella pronuncia, la Corte, procedette a dichiarare la fondatezza, e quindi
l’incostituzionalità, dell’art.1 (commi 2 e 3)438 della legge regionale n.2/’02,
ricordando che la stessa, in una sua precedente ordinanza n. 87 del 2002, aveva già
affermato che la modifica del secondo comma dell’art. 121 della Costituzione,
operata dalla legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, sopprimendo dal testo
costituzionale originario, l’indicazione della potestà regolamentare quale
competenza del Consiglio regionale, ha avuto l’effetto di eliminare la relativa
riserva di competenza, consentendo alla Regione una diversa scelta organizzativa.
La Corte, confermando quest’affermazione, con la precisazione che tale scelta
non può che essere contenuta in una disposizione dello statuto regionale,
modificativa di quello attualmente vigente, riconosceva che ciò portava alla
conseguenza che, nel frattempo, continuasse a valere la distribuzione delle
competenze normative già stabilita nello statuto medesimo, di per sé non
incompatibile con il nuovo art. 121 della Costituzione.
437
Di cui si censuravano per questioni di legittimità costituzionale le seguenti norme: (a) sull’art. 1,
commi 2 e 3, della legge regionale n. 2 del 2002, in tema di potere regolamentare della Giunta regionale;
(b) sull’art. 2, commi 1-5, della legge regionale n. 2 del 2002, come sostituito dall’art. 1, comma 3, lett.b,
della legge regionale n. 4 del 2002, in tema di funzioni del Corpo Forestale Regionale; (c) sull’art. 3 della
legge regionale n. 2 del 2002, in tema di coordinamento con le funzioni di competenza di altri enti; (d)
sull’art. 4, comma 3, della legge regionale n. 2 del 2002, in tema di attribuzione al personale del Corpo
Forestale Regionale della qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza
438
Il comma 2 dell’art. 1 prevedeva che, entro un dato termine, la Giunta regionale, con apposito
regolamento, sentita la commissione consiliare competente, disciplinasse l’organizzazione e la dotazione
strumentale del Corpo Forestale Regionale, definendone, tra l’altro: l’inserimento nell’organizzazione
amministrativa della Regione; l’articolazione decentrata; la pianta organica, nella quale deve trovare
garanzia di inquadramento il personale del Corpo Forestale dello Stato trasferito alla Regione (con un
precedente D.P.C.M. dell’11 maggio 2001); le qualifiche e i livelli professionali; le funzioni del dirigente
responsabile; i requisiti e le modalità di accesso al Corpo Forestale Regionale; le dotazioni strumentali; i
modi di aggiornamento del personale. Il comma 3 prevedeva un successivo "provvedimento" della
Giunta, di attuazione concreta della struttura del Corpo forestale, con la determinazione
dell’organizzazione e dell’organico, distinti rispetto a quelli della medesima Giunta regionale.
340
Malgrado tale precedente, le Regione resistente, sostenne una tesi contraria439,
affermando che l’art.121, secondo comma, della Costituzione, tacendo della
competenza regolamentare precedentemente assegnata al Consiglio, equivarrebbe
alla sottrazione a questo ed alla assegnazione alla Giunta di tale potere. Così, questo
silenzio, secondo la sua ratio, sarebbe stato eloquente e tassativo. Le norme
statutarie in contrasto avrebbero dovuto conseguentemente essere "disapplicate" e le
leggi regionali incompatibili con quelle, ma conformi al silenzio dell’art.121,
secondo comma, della Costituzione (come quella in esame) non sarebbero
costituzionalmente illegittime.
Ma a ciò, nello schierarsi per una tesi opposta (e confermativa della precedente
giurisprudenza), la Corte, sostenne che “nell’incontrovertibile mancanza di
disciplina espressa… la tesi della Regione resistente non può essere accolta”, per
due generali ordini di ragioni. Innanzitutto, essa presuppone concettualmente
un’alternativa rigida (sulla quale si basa nel formulare le proprie ragioni), e che cioè
si parli solo di competenza sempre del Consiglio o sempre della Giunta, tale che, in
generale, se non è tutta dell’uno, non possa che essere tutta della seconda: cosicché,
non avendola (più), l’art. 121 della Costituzione, assegnata al Consiglio, essa
sarebbe implicitamente ma necessariamente assegnata alla Giunta. Ma, ciò che la
Corte afferma è che non è necessariamente questa l’impostazione da seguire, poiché
le scelte organizzative in proposito possono essere molteplici, oltre le due radicali.
Essa ipotizza che, il potere regolamentare, “non sia pre-assegnato in via esclusiva
(da norma statutaria o costituzionale) al Consiglio o alla Giunta, ma che lo statuto
riconosca al legislatore regionale la facoltà di disciplinarlo, organizzandolo in
relazione alla materia da regolare e in funzione dell’ampiezza di scelta che la legge
lascia aperta all’apprezzamento discrezionale del potere regolamentare”. Se
dunque l’alternativa su cui si fonda l’argomentazione della difesa della Regione non
439
Essa affermava che la modifica dell’art. 121, secondo comma, della Costituzione comporterebbe
l’immediata attribuzione della potestà regolamentare alla Giunta regionale, o con portata assoluta o, in
subordine, almeno fino a quando i nuovi statuti regionali, da approvarsi a norma dell’art. 123 della
Costituzione, non dispongano altrimenti (qualora l’ipotizzata riserva regolamentare a favore della Giunta
stabilita dal secondo comma dell’art. 121 sia da ritenersi cedevole). Gli argomenti addotti a favore di
questa tesi sono vari e di varia natura: (a) la riconducibilità, come principio, della potestà regolamentare,
quanto meno di quella esecutivo-attuativa, alla natura di "organo esecutivo" della Giunta regionale (art.
121, terzo comma, della Costituzione) e quindi l’immediata espansione di tale principio, una volta
eliminata la previsione espressa, da parte dell’art. 121 della Costituzione, della competenza regolamentare
del Consiglio, da concepirsi come derogatoria del principio; (b) il potere riconosciuto al Presidente della
Giunta di emanare i regolamenti regionali, potere distinto da quello di "promulgare" le leggi regionali
(art. 121, quarto comma), emanazione che presupporrebbe l’idea di una partecipazione del vertice
dell’esecutivo regionale alla formazione degli atti regolamentari; (c) l’attuale forma di governo regionale,
caratterizzata dal rafforzamento dell’organo esecutivo risultante dal nuovo art. 123 della Costituzione, al
quale dovrebbe corrispondere il rafforzamento dei suoi poteri normativi tramite l’assegnazione della
potestà regolamentare; (d) l’aumento delle competenze legislative regionali cui consegue, a norma
dell’art. 117, sesto comma, l’espansione della potestà regolamentare, con la conseguente incongruità,
anche sotto il profilo del principio di «buon andamento» dell’amministrazione, di una perdurante potestà
regolamentare consiliare, la quale sarebbe stata prevista, nell’originario art. 121 della Costituzione, più in
funzione attuativa delle leggi dello Stato che non delle leggi della Regione; (e) gli orientamenti favorevoli
alla competenza regolamentare delle Giunte regionali manifestati da alcune Regioni, durante
l’elaborazione della legge costituzionale n. 1 del 1999, e varie prese di posizione risultanti dai lavori
preparatori; (f) infine, l’interpretazione, ancora nel medesimo senso, della Presidenza del Consiglio dei
Ministri, di giudici amministrativi e di alcune Commissioni statali di controllo sugli atti amministrativi
delle Regioni ordinarie.
341
sussiste nei termini rigidi anzidetti, secondo la Corte “è necessario escludere che la
modifica che il nuovo secondo comma dell’art. 121 della Costituzione ha apportato
al precedente, tacendo circa la spettanza attuale del potere regolamentare, possa
essere interpretato altro che, per l’appunto, come vuoto di normazione che spetta
alla Regione colmare nell’esercizio della propria autonomia statutaria”.
In secondo luogo, è l’autonomia statutaria (secondo la Corte) l’altro argomento
che impedisce di ritenere l’esistenza di soluzioni organizzative obbligate, in
mancanza di una disciplina costituzionale chiaramente riconoscibile. L’autonomia è
la regola, mentre i limiti sono l’eccezione. Secondo la stessa, l’espressione "in
armonia con la Costituzione", che compare nel primo comma dell’art. 123 della
Costituzione, non consente perciò un eccesso di costruttivismo interpretativo440,
come quello di cui fa mostra la difesa della Regione Lombardia, quando argomenta
da una presunta forma di governo regionale, implicitamente stabilita dagli articoli
121 e 123 della Costituzione, la spettanza del potere regolamentare alla Giunta
regionale: un modo di ragionare che, secondo la Corte, oltre al rischio di
sovrapporre modelli concettuali alle regole particolari, comporta anche quello di
“comprimere indebitamente la potestà statutaria di tutte le Regioni ad autonomia
ordinaria, tramite non controllabili inferenze e deduzioni da concetti generali,
assunti a priori”.
In sintesi, nel silenzio della Costituzione, la Corte concludeva affermando che:
“in presenza di una pluralità di possibili soluzioni organizzative del potere
regolamentare regionale e per il rispetto dell’autonomia statutaria regionale, la tesi
che l’art. 121, secondo comma, della Costituzione abbia attribuito tale potere alla
Giunta regionale (sia tale attribuzione assoluta o derogabile dai nuovi statuti) deve
essere respinta”.
La dichiarazione di incostituzionalità del comma 2, art. 1, segna la sorte anche
del comma 3, medesimo articolo, perché la norma che conferisce il potere previsto
da tal ultimo comma 3, testualmente presuppone quella contenuta nel comma 2:
cosicché, caduta questa, cade anche quella.
Sempre nell’analisi dei citati ricorsi, la Corte si pronunciava favorevolmente (e
quindi per l’incostituzionalità) anche in merito alle censure mosse contro l’art.2,
comma 5, della legge Regione Lombardia n.2/’02 (così come sostituito dall’art.1,
comma 3, lett.b, della legge Regione Lombardia n.4/’02)441, osservando che, l’art. 3
della stessa legge regionale n. 2 del 2002 (anch’esso impugnato) stabiliva che
l’attività della Regione nei settori indicati dal predetto comma 4 dell’art. 2, si
svolgeva secondo convenzioni quadro stipulate tra la Regione e le associazioni
rappresentative degli Enti Locali e degli altri enti interessati.
440
In tal senso vedi Balboni E. in “Il ruolo degli statuti: l’autonomia è la regola; i limiti sono
l’eccezione”, pubblicato il 22 ottobre 2003 sul sito www.costituzionalismo.it .
441
In cui si prevede che il Corpo Forestale Regionale eserciti funzioni di vigilanza e controllo, in
determinati settori, in sostituzione degli enti locali competenti, qualora questi per qualsiasi motivo
omettano di intervenire. In tali casi il Corpo Forestale Regionale interviene previa segnalazione all’ente
competente e dà notizia allo stesso degli accertamenti eseguiti, dei rilievi effettuati e dei provvedimenti
adottati.
342
Alla luce di ciò, si osservava che, si sarebbe potuto ritenere che tale disposizione
censurata era stata posta per promuovere rapporti collaborativi di supporto e stimolo
da parte della Regione, tramite il suo Corpo forestale, nei confronti e a favore degli
Enti Locali, entro un quadro di norme concordate, e ciò per ovviare a eventuali
lentezze o omissioni, senza peraltro alterare il quadro delle rispettive competenze.
Ma ciò, secondo la Corte, non era più sostenibile là dove la disposizione
impugnata prevedeva che il Corpo Forestale Regionale operasse "in sostituzione
degli Enti Locali competenti", per di più tramite una procedura che contemplasse
una semplice "previa segnalazione all’ente competente", alla quale segue la notizia,
non solo degli accertamenti eseguiti e dei rilievi effettuati, ma anche dei
"provvedimenti adottati".
Con queste previsioni, secondo la Corte, non si assisteva più alla collaborazione
tra i diversi enti di governo, nel rispetto delle competenze di ciascuno, ma alla
sostituzione dell’uno all’altro, con spostamento delle competenze.
Così ricostruito il significato della disposizione censurata, la sua
incostituzionalità appariva alla Corte, evidente nella parte in cui la funzione
collaborativa svolta dall’apparato tecnico forestale della Regione si trasformava in
funzione sostitutiva, conducendo all’incostituzionalità della norma, per violazione
del principio di autonomia degli Enti Locali, quale affermato dall’art.114, commi 1
e 2, della Costituzione.
Infine, sempre fondata è stata ritenuta la questione di legittimità costituzionale
sollevata contro l’art.4, comma 3, della legge regionale n.2 del 2002, nella parte in
cui prevedeva l’attribuzione della qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria
a norma dell’art. 57 del codice di procedura penale, al personale del Corpo Forestale
Regionale appartenente alle qualifiche individuate dalla Giunta regionale a norma
dell’art. 1, comma 2, della legge, per lo svolgimento dei compiti di vigilanza e
controllo previsti dall’art. 2; nonché nella parte in cui prevedeva la possibilità di
riconoscere al medesimo personale la qualifica di ufficiale o agente di pubblica
sicurezza, “secondo quanto previsto dalla vigente normativa statale in materia”. La
Corte incentrò la questione nello “stabilire se esiste una competenza legislativa
della Regione in materia di corpi di polizia giudiziaria e di corpi di polizia di
sicurezza”. A tale dubbio essa rispose argomentando che in merito “l’esclusione
della competenza regionale risulta dalla competenza esclusiva dello Stato in
materia di giurisdizione penale disposta dalla lettera l)… e h) del secondo comma
dell’art.117 della Costituzione”.
343
Tralasciando, ora, le altre censure442, vorrei osservare che secondo alcuni la
sentenza in commento ha rappresentato un monito, per quelle Regioni in ritardo
nell’adottare i nuovi statuti, tra cui anche la Lombardia, ma ha al contempo
disorientato notevolmente gli interpreti e creato una notevole incertezza nei rapporti
giuridici scaturenti da quei regolamenti figli della legge costituzionale n.1 del
1999443. Infatti, nel momento in cui la Corte dichiara che la riserva esclusiva a
favore della Giunta potrà essere disposta soltanto dallo statuto regionale e non in
quanto ricavabile dalle disposizioni costituzionali modificate dalla legge cost.
n.1/’99 (osservando, ulteriormente, che la scelta dello statuto regionale non deve
ricadere, per forza, sulla rigida alternativa tra Consiglio e Giunta), giunge alla
conclusione per la quale, “la potestà regolamentare può essere anche differente da
come ipotizzata dalla Regione… poiché le scelte organizzative possono essere
molteplici, oltre le due radicali” e quindi “è necessario escludere che la modifica
che il nuovo secondo comma dell’art.121 della Costituzione ha apportato al
precedente, tacendo circa la spettanza attuale del potere regolamentare, possa
essere interpretata altro che, come vuoto di normazione che spetta alla Regione
colmare nell’esercizio della propria autonomia statutaria”. Ciò a condotto gli
interpreti a ritenere che la Corte abbia voluto sancire una sorta di intoccabile
autonomia statutaria con efficacia retroattiva, secondo cui si sia operata una sorta di
negazione implicita della riforma costituzionale ex legge cost. n.1/’99.
In effetti, la Corte con la pronuncia in commento, se da un lato dichiara
l’incostituzionalità delle norme regionali per evidente contrasto con lo statuto,
dall’altro, tende a segnalare una possibile soluzione alla confusione legislativa,
442
Al punto 8 delle C.i.D. la Corte pronunzia l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale
sollevate sull’art. 1, comma 3, lettera b), della legge regionale n. 4 del 2002, in tema di funzioni del
Corpo Forestale Regionale, istituito dalla Regione Lombardia con l’art.1, comma 1, della legge regionale
n. 2 del 2002, come sostituito dall’art. 1, comma 3, lett.a, della legge regionale n. 4 del 2002
(disposizione, quest’ultima, non impugnata), dopo che l’art. 4 del decreto legislativo 4 giugno 1997, n.
143 (Conferimento alle Regioni delle funzioni amministrative in materia di agricoltura e pesca e
riorganizzazione dell’Amministrazione centrale) ha previsto il trasferimento alle Regioni ordinarie dei
beni e delle "risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative del Corpo Forestale dello Stato, non
necessari all’esercizio delle funzioni di competenza statale". Al punto 10 si dichiarava l’infondatezza
della questione di legittimità costituzionale sollevata sull’art. 3 della legge regionale n. 2 del 2002, perché
la Corte sosteneva che la norma, al contrario di quanto sostenuto, “predispone un procedimento bilaterale
che si svolge tra la Regione e le associazioni rappresentative degli Enti Locali interessati”, nel quale
interviene, tramite parere, la Conferenza Regionale delle Autonomie, la "sede permanente di
partecipazione degli Enti Locali della comunità lombarda alla definizione delle politiche regionali"
prevista dall’art. 1, comma 16, della legge regionale n. 1 del 2000, come organo che "concorre alla
definizione dei rapporti tra Regione ed autonomie locali e funzionali e promuove lo sviluppo delle forme
collaborative tra i medesimi soggetti". Si tratta, nella specie, di un procedimento di partecipazione
conforme all’esigenza che le Regioni, nell’ambito della propria autonomia legislativa, prevedano
strumenti e procedure di raccordo e concertazione che diano luogo a forme di cooperazione strutturali e
funzionali, al fine di consentire la collaborazione e l’azione coordinata fra Regioni ed Enti Locali
nell’ambito delle rispettive competenze, come recita l’art. 4, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto
2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli Enti Locali). Ed, infine, con la presente
pronuncia ha dichiarato cessata la materia del contendere in relazione alle questioni di legittimità
costituzionale degli articoli 1, comma 1, e 2 della legge della Regione Lombardia n. 2 del 2002, nel testo
anteriore alle modifiche recate dalla legge della Regione Lombardia n. 4 del 2002, sollevate, in
riferimento agli articoli 114, 117, secondo comma, lettere q) e s), 118 e 120 della Costituzione, dal
Presidente del Consiglio dei Ministri, con il ricorso iscritto al reg. ricorsi n. 29 del 2002.
443
In tal senso vedi Salvemini L. in “Ulteriori riflessioni sulla sentenza della Corte costituzionale
n.313/03”, pubblicato sul sito www.federalismi.it , il 6 novembre 2003.
344
regolamentare e amministrativa dalla stessa, altrimenti scaturenti. Infatti,
concludendo con il richiamo all’ordinanza n.87/’02, essa ricorda che una scelta in
merito non può che essere contenuta in una disposizione dello statuto regionale,
modificativa di quello attualmente vigente, con la conseguenza che nel frattempo
vale la distribuzione delle competenze normative già stabilita nello statuto
medesimo, di per sé non incompatibile con il nuovo art.121 della Costituzione
(cosa di cui è legittimo dubitare se si legge, ad esempio, nel caso dell’art.37 dello
statuto della Regione Lombardia444, norma che si pone chiaramente in contrasto con
gli art.121 e 123 Cost., e che dunque si dovrebbe intendere tacitamente caducata di
fronte alla riforma del 1999). Ed è proprio in riferimento allo statuto della Regione
resistente che si possono osservare le prime conseguenze della pronuncia in
commento, in quanto alla luce di quanto detto è chiaro che l’art.37 dello statuto non
può ritenersi in armonia con la Costituzione (come uscita dalla riforma) quando
prevede che la competenza regolamentare sia solo del Consiglio regionale, e da ciò
scaturisce che la riserva assoluta di competenza regolamentare ivi prevista, può
essere ritenuta legittimamente abrogata o integrata con la riconosciuta potestà
costituzionale regolamentare della Giunta, secondo la dizione della Corte. Tutto ciò
nella convinzione che la riserva assoluta, prevista nel nuovo art.121 Cost., riguardi
solo la potestà legislativa, mentre quella regolamentare, argomentando come la
Corte ha fatto nella pronuncia in commento, può e deve essere posta in capo sia al
Consiglio che alla Giunta, da subito, salvo differente disposizione statutaria
compatibile con la nuova carta costituzionale.
In conclusione, si può osservare che, con questa pronuncia, la Corte, è oggi
propensa a svolgere un raffinato ragionamento per dimostrare che la rimozione
dall’art.121 Cost. delle parole “e regolamentari” apra a vantaggio degli statuti molte
possibilità operative, tra le quali appunto quella della conservazione della disciplina
anteriore (… e vigente). Peccato, però, che non si applichi lo stesso metro all’assetto
complessivo della forma di governo: ad esempio, per quanto concerne l’elezione del
Presidente della Regione, a riguardo delle quali non si è pensato che possano
considerarsi sopravvissute alla riforma le disposizioni che assegnavano al Consiglio
l’elezione dell’organo di vertice della Regione. Eppure, anch’esse sono
astrattamente compatibili col quadro costituzionale, nel quale (qui, anzi, in modo
esplicito) si offre un’opportunità agli statuti che è invece problematicamente
riconoscibile (o quanto meno, come si dirà, riconoscibile in modo pieno) per ciò che
attiene alla dislocazione della potestà regolamentare in seno all’apparato regionale.
Ciò ha, ovviamente, spinto a chiedersi se tutto ciò abbia dato origine ad una nuova
Costituzione, avente forza diversa e graduata a seconda che si applichi a questa o a
quella norma statutaria445. In via di principio, però, la preoccupazione che sollecita a
considerare complessivamente vigente la massima parte delle fonti regionali, in
attesa della riscrittura, non sussiste, in quanto si può osservare che tale impostazione
è pienamente accoglibile specie a fronte di politiche tendenzialmente portate a
debordare dall’alveo tracciato per il loro scorrimento nella fonte stessa. Qui,
semmai, si tratta di stabilire se talune formule statutarie possano seguitare a spiegare
444
Nel quale si legge “L’esercizio della potestà legislativa e regolamentare della Regione spetta al
Consiglio Regionale e non può essere delegato”.
445
In tal senso vedi Ruggeri A. in “L’autonomia statutaria al banco di prova del riordino del sistema
regionale delle fonti”, pubblicato il 28 ottobre 2003 sul forum di Quad. Cost.
345
effetti, pur laddove siano, per caso, in tutto o in parte, uguali a formule
espressamente cancellate dalla carta costituzionale.
Dunque, l’autonomia statutaria è un bene prezioso da salvaguardare e
trasmettere alle future esperienze. E, le indicazioni date dalla decisione qui annotata,
possono tornare assai utili alla progettazione statutaria in cantiere. Ma, è appunto un
bene che va difeso anche contro se stesso, per il caso che gli autori dei nuovi statuti,
per eccesso di reticenza o di timidezza espressiva, abbandonino questi ultimi nelle
mani di una politica, praticamente «costitutioni soluta», riprendendo l’affrettato
suggerimento ora dato dalla Corte, a favore di una possibile “delega in bianco”
statutariamente concessa alla legge comune. Invece una forte autonomia statutaria
può svilupparsi e crescere unicamente su un terreno adeguatamente spianato per il
suo fruttuoso radicamento. Ciò, però, richiede che si faccia un uso accorto e
ragionevole, dello strumento statutario, in rapporto a strumenti di normazione
diversi, a partire, appunto, dalla legge. Un uso, poi, congruo, misurato sul piano dei
limiti, conformemente all’indicazione costituzionale che vuole comunque orientato
verso la Costituzione il quadro statutario e, per il suo tramite, il quadro delle fonti da
questo derivate e discendenti.
Ritengo, piuttosto, che non sia vero che, l’autonomia sia la regola e i limiti
(quale l’armonia con la Costituzione) l’eccezione. Un’autonomia “sregolata” (o da
se medesima portata a “sregolarsi”) è una contraddizione in termini, per la
elementare (ma, evidentemente non tanto ovvia) ragione che l’autonomia ha senso
proprio nel suo essere limitata: né più né meno, per questo verso, di ciò che è
proprio della stessa sovranità, come insegna l’art. 1 della carta costituzionale.
Semmai, il problema, poi, si sposta e si appunta sulla determinazione teorica della
consistenza dei limiti stessi: si potrebbe dire, sui limiti dei… limiti. Ma, questo è un
altro discorso, che non può ora nuovamente farsi né, per vero, toccava alla Corte
fare nella circostanza che ha dato lo spunto all’adozione della pronunzia qui
annotata. Peccato, però, che la Corte abbia mostrato di non tenere in gran conto il
suo stesso insegnamento, laddove proprio “dell’armonia con la Costituzione” ci
aveva consegnato una definizione “forte”, col riferimento (come si sa, fatto nelle
sentenze nn.304 e 306 del 2002) all’osservanza dello “spirito della Costituzione”,
in aggiunta a quella delle singole disposizioni nella Costituzione stessa contenute.
Un’ultima considerazione la merita una recentissima pronuncia costituzionale
che ha inciso su aspetti diversi e convergenti dell’autonomia regionale.
Mi riferisco alla, controversa, sentenza n.2 del 2004 in cui si affronta il ricorso
del Consiglio dei Ministri contro alcuni articoli del nuovo Statuto della Regione
Calabria, approvato in seconda delibera il 31 luglio 2003. In tale pronuncia
l’attenzione si è concentrata sull’art.33 dello Statuto in cui si è contestato che la
disciplina dell’elezione del Presidente e del Vice Presidente della Giunta da parte
del corpo elettorale e la loro necessaria successiva designazione da parte del
Consiglio regionale nella prima seduta, a meno di un automatico scioglimento del
Consiglio stesso, nonché la regola per cui il Vice Presidente subentri nella carica al
Presidente in caso di dimissioni volontarie, incompatibilità sopravvenuta, rimozione,
impedimento permanente o morte, violerebbe gli artt.122, ultimo comma, e 126,
terzo comma, della Costituzione. Ciò in quanto, malgrado un meccanismo di
elezione sostanzialmente a suffragio universale e diretto, si verrebbe ad eludere il
principio simul stabunt, simul cadent, che è derogabile solo se a livello statutario si
346
operi una scelta istituzionale diversa dalla elezione a suffragio universale e diretto,
ed in più la ricorrente specifica che tale disposizione statutaria violerebbe, anche,
l’art. 122, primo comma, della Costituzione, perché inciderebbe inevitabilmente
sulla materia elettorale, riservata alla legge regionale, nel rispetto dei principi
fondamentali stabiliti dal legislatore statale.
La Corte, pur riconoscendo che con la legge cost. n.1/’99 (recepita ed integrata
dalla riforma del Titolo V° effettuata con la legge cost. n.3/’01) si è introdotta la
possibilità delle Regioni di scegliere la propria forma di governo (e con propria
legge, di disciplinarsi il sistema elettorale regionale), al contempo sancendo all’art.5
una provvisoria forma di governo regionale unitaria valida tanto per il periodo di
transizione che per il momento successivo (se le Regioni dovessero sceglierla),
comunque accoglie il ricorso della presidenza del C.d.M., osservando che con la
suddetta legge cost.n.1/’99 il legislatore ha compiuto una scelta mirante ad una
radicale semplificazione del sistema politico a livello regionale e per l’unificazione
dello schieramento maggioritario intorno alla figura del Presidente della Giunta, pur
imposta temporaneamente al sistema politico regionale ed anche indicata come
“normale” possibilità di assetto istituzionale, potendo essere però legittimamente
sostituita da altri modelli di organizzazione dei rapporti fra corpo elettorale,
consiglieri regionali e Presidente della Giunta, che in sede di elaborazione statutaria
possano essere considerati più idonei a meglio rappresentare le diverse realtà sociali
e territoriali delle nostre Regioni o anche più adatti per alcuni sistemi politici
regionali, scelta che va comunque a dover essere conciliata con la possibilità di
optare per uno dei tanti possibili modelli di forme di governo regionale non fondati
sull’elezione diretta del Presidente della Giunta nel limite, del tutto evidente nella
volontà del legislatore di revisione costituzionale, di prevedere ipotesi di elezione
diretta nel solo caso del Presidente della Giunta, al cui ruolo personale di
mantenimento dell’unità dell’indirizzo politico e amministrativo si conferisce ampio
credito, tanto da affidargli, come accennato, anche alcuni decisivi poteri politici.
In tale pronuncia, la Corte, afferma che ciò sembra pienamente condiviso dalla
stessa Regione Calabria, che infatti sostiene di aver fatto una scelta istituzionale
diversa da quella della elezione a suffragio diretto del Presidente, fondamentalmente
perché l’immissione nell’ufficio di Presidente (e di Vice Presidente) avverrebbe solo
dopo il voto del Consiglio e solo in ragione di esso, mentre l’approvazione
consiliare del programma di governo instaurerebbe tra Presidente della Giunta e
Consiglio regionale un rapporto politico diverso rispetto a quello che consegue
all’elezione a suffragio universale e diretto. Per tali ragioni la difesa della resistente
giunge ad asserire che “lo statuto calabrese si muove (...) nell’ambito della forma di
governo parlamentare con i correttivi che l’evoluzione recente del sistema politico
italiano ha prodotto”.
Peraltro, la Corte nota che il sistema configurato nell’art.33 del testo statutario
appare, invece, caratterizzato da un meccanismo di elezione diretta del Presidente e
del Vice Presidente della Giunta del tutto analogo a quello disciplinato per il solo
Presidente dall’art. 5 della legge cost. n. 1/’99, salva la diversità che la preposizione
alla carica sarebbe conseguita non alla mera proclamazione dei risultati elettorali,
ma alla nomina (o meglio, alla conferma) da parte del Consiglio regionale.
347
Questa diversità appare tuttavia essenzialmente formale se si considera che, ai
sensi del secondo comma dell’art. 33, il Consiglio regionale avrebbe dovuto
procedere “sulla base dell’investitura popolare espressa dagli elettori, nella sua
prima seduta” e che “la mancata nomina del Presidente e del Vice Presidente
indicati dal corpo elettorale comporta lo scioglimento del Consiglio regionale”. Ciò
porta a ritenere che il Consiglio regionale sarebbe stato, anche giuridicamente,
vincolato ad uniformarsi alla scelta compiuta dal corpo elettorale, a pena del suo
stesso scioglimento.
Al contempo la Corte rileva che diversamente da quanto normalmente accade
quando si conferisce un potere di nomina, per l’art. 33 nessun altro consigliere eletto
può essere nominato Presidente o Vice Presidente: ciò conferma che ci si sarebbe
trovati dinanzi ad un procedimento di elezione diretta del Presidente e del Vice
Presidente, solo mascherato da una sorta di obbligatoria “conferma” da parte del
Consiglio regionale.
Sul punto, dunque, la Corte concludeva affermando che “il sistema configurato
dall’art.33 della delibera legislativa concernente lo statuto calabrese consiste
sostanzialmente nella elezione diretta del Presidente e del Vice Presidente, in
violazione degli articoli 122, quinto comma, della Costituzione a causa dell’elezione
diretta anche del Vice Presidente, e 126, terzo comma, della Costituzione, a causa
della riduzione dei poteri del Presidente della Giunta eletto a suffragio universale e
diretto”. Al tempo stesso, si rileva anche che, il primo comma dell’art.33,
prescrivendo analiticamente che “i candidati alle cariche di Presidente e di Vice
Presidente della Giunta regionale sono indicati sulla scheda elettorale e sono votati
contestualmente agli altri componenti del Consiglio regionale”, invade in modo
palese l’area legislativa riservata dal primo comma dell’art. 122 della Cost. alla
“legge della Regione nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della
Repubblica”446.
Accolta è stata, infine, la censura dell’art.38, comma 1, lett. a ed e, della delibera
statutaria in commento, in quanto la Corte ha osservato che le attuali norme
costituzionali prevedono che sia la legge regionale, e non lo statuto, a disciplinare il
sistema elettorale regionale.
A seguito di questa veloce analisi della pronuncia, è bene precisare che essa ha
acceso un’attenta discussione sulla materia dell’autonomia statutaria delle Regioni a
Statuto Ordinario. Infatti, col piglio formalistico che la ha caratterizzata, essa si è
posta in maniera pericolosamente critica nei confronti del lento e stentato percorso
di riforma statutaria che, ha seguito delle riforme costituzionali che in questi anni
hanno caratterizzato il nostro Paese, si sono avviate.
Con la delibera del luglio 2003, la Regione Calabria, è stata la prima a tagliare il
traguardo dell’approvazione di uno Statuto interamente nuovo, introducendo una
forma di governo invero un po’ confusa, nel suo mal riuscito sforzo di svincolarsi
dal principio simul stabunt simul cadent.
446
La dichiarazione di illegittimità costituzionale, sotto i profili indicati, dell’art. 33, commi 1, 2, 3, 4, 5 e
7, della delibera legislativa in questione comporta che essa sia estesa, ai sensi dell’art. 27 della legge 11
marzo 1953, n. 87, all’art. 15, all’art. 16, comma 2, lettere a) e b), nonché all’art. 38, comma 1, lettera c),
della medesima delibera legislativa, che disciplinano alcune fasi ulteriori dei procedimenti di cui all’art.
33 o fanno esplicito riferimento agli istituti ivi previsti.
348
Secondo la delibera statutaria, i cittadini avrebbero non eletto, ma designato un
Presidente e un Vicepresidente della Regione, poi il Consiglio avrebbe dovuto
scegliere se ratificare l’indirizzo del corpo elettorale, investendo formalmente,
mediante elezione delle cariche di vertice dell’esecutivo, i nominativi votati, oppure
se subire lo scioglimento immediato. Dopo di che, nel corso del mandato, se si
fossero verificate le dimissioni o l’impedimento permanente del Presidente, il
Consiglio avrebbe potuto eleggere, come nuovo Presidente, il Vice a suo tempo
eletto dai cittadini, sia pure in una subordinazione dichiarata, senza dover subire lo
scioglimento (qui sta la rottura del principio): ogni altra crisi avrebbe invece
condotto alle nuove elezioni.
È opportuno ricordare che lo Statuto deliberato dal Consiglio calabrese
prevedeva anche una norma di principio sul sistema elettorale regionale, per il quale
si sceglieva una formula a base proporzionale, con voto di preferenza e premio di
maggioranza.Complessivamente, l’immagine della forma di governo calabrese era
un po’ confusa, ma, al contempo, costituiva un passo verso il recupero della
centralità dell’assemblea (e dunque del parlamentarismo). Il difetto, consisteva, però
nel fatto che l’avvicendamento al vertice dell’esecutivo era costretto nei limiti
rigorosi delle coalizioni politiche, con il risultato di consentire le famigerate
“staffette”, che avevano dato cattiva prova di sé in periodi non aurei della c.d. I°
Repubblica. Insomma, il recupero del ruolo del Consiglio si colorava di una luce
tutt’altro che innovatrice, alludendo ad esperienze poco fortunate di un passato che
tutti, a parole, volevano mettersi alle spalle.
È comprensibile che la Corte non abbia manifestato alcuna simpatia per una
simile soluzione447: ma il punto è che la presa di posizione del Giudice delle leggi
colpisce non solo il modello calabrese, ma la stessa autonomia statutaria di tutte le
Regioni, pur nella consapevolezza che tale indirizzo potrebbe essere in qualche
misura smussato in futuro. Il ragionamento della Corte è intrinsecamente
coerente448, tuttavia esso è discutibile nelle sue premesse e, soprattutto, non del tutto
coerente con la giurisprudenza pregressa.
Indubbiamente alle spalle della legge cost. n.1/’99 c’era l’idea che fosse
necessario rafforzare la posizione degli esecutivi regionali e che il modo migliore
per farlo fosse di configurare l’elezione diretta del Presidente della Giunta, mettendo
nelle mani di questi la possibilità di indurre in qualsiasi momento, dimettendosi, lo
scioglimento del Consiglio.
447
Di cui, in effetti, anche M. Olivetti, in “Requiem per l’autonomia statutaria delle Regioni ordinarie,”
pubblicato sul Forum di Quaderni costituzionali riconosce il carattere barocco e poco lineare.
448
Da questo punto di vista, mi sembra che le critiche a questa decisione di N. Vizioli in “Prime
osservazioni su una sentenza con poche luci e molte ombre” pubblicato sul forum di Quaderni
Costituzionali, M. Volpi in “Quale autonomia statutaria dopo la sentenza della corte costituzionale n.2
del 2004” pubblicato sul sito www.federalismi.it, ma soprattutto quelle di M. Olivetti, op. cit. (cui
scivola dalla penna il termine «sciatteria»), possano suonare addirittura troppo aspre: l’impostazione della
Corte non è priva di una sua logica lineare, della quale, se mai, è da contestare l’impostazione di base,
laddove, cioè, si determina implicitamente se sia corretto o meno prendere la via dell’interpretazione
estensiva: è qui che si colloca il dilemma giuridico ed è da questa fondamentale opzione che discendono i
vari ordini di conseguenze che le differenti impostazioni deducono.
349
Tuttavia, una parte consistente della stessa maggioranza politica della XIII°
Legislatura era molto dubbiosa sull’opportunità di codificare una forma di governo
sostanzialmente presidenzialista: si decise allora di stabilire una forma di governo
standard, derogabile però dall’autonomia statutaria regionale, la quale veniva così
ad assumere la posizione centrale nell’iniziativa di riforma costituzionale.
Comunque, ciò che mette qui conto sottolineare è che dai lavori parlamentari
emerge senz’altro, come ricorda la pronuncia in commento, «la volontà, largamente
espressa in sede parlamentare, di imporre (la scelta dell’elezione diretta) nella
esplicita speranza di eliminare in tal modo la instabilità nella gestione politica delle
Regioni». Ma dai medesimi lavori emerge anche come non sia stato questo l’unico
aspetto considerato: soprattutto, il testo finale della legge, non solo nella sua
formulazione letterale quanto nel suo significato sostanziale, ha riconosciuto la
preminenza dell’autonomia statutaria, anche in tema di forma di governo.
In verità, la Corte aveva già affrontato il problema dell’autonomia statutaria
regionale con la sentenza n.313 del 2003 e l’aveva magistralmente risolto
riconoscendo che «l’autonomia è la regola; i limiti sono l’eccezione» ed, in questa
prospettiva, aveva respinto con pochi cenni le diverse considerazioni proposte a
sostegno della tesi sfavorevole all’autonomia statutaria. Ma, purtroppo, con la
presente pronuncia essa si è mossa in senso opposto a tale indirizzo, preferendo
un’interpretazione sostanzialistica ed effettivistica, serrando il vincolo
dell’autonomia statutaria e costringendo quest’ultima in limiti più stretti. Insomma,
due pesi e due misure: le Regioni hanno mano libera nell’organizzarsi, ed in
particolare nel distribuire la potestà regolamentare, ma non possono spingersi molto
in là quando si viene ai temi più “seri” e ponderati, ossia alla forma di governo.
In effetti molti hanno riconosciuto come il colpo inferto all’autonomia statutaria
è così penetrante che si ci è chiesto cosa resta di essa dopo tale decisione, ed in
effetti si è unanimamente risposto che l’autonomia statutaria, costretta tra l’art. 126
Cost., da un lato, e la competenza statale in tema di sistema elettorale regionale,
dall’altro, naviga in canali turbolenti ed angusti e sembra destinata, per ora, ad
esercitarsi solo nell’opzione fondamentale tra modello consiliarista e modello
vigente, con la possibilità di aggiungere a questi due modelli di base pochi e limitati
ritocchi secondari449.
449
In commento alla presente pronuncia vedi i seguenti articoli pubblicati nel forum di Quaderni
Costituzionali: S. Ceccanti in “La sentenza sullo Statuto Calabria: chiara, convincente, federalista”; A.
Ruggeri in “L’autonomia statutaria al banco della Consulta”; M. Olivetti op. cit. Vedi anche M. Volpi in
“Quale autonomie statutarie dopo la sentenza della Corte Costituzionale n.2 del 2004?” pubblicato sul
www.federalismi.it il 19 febbraio del 2004.
350
Sebbene vi siano altre sentenze, di questi anni, certamente altrettanto
importanti450, vorrei adesso, avviarmi verso delle conclusioni.
450
Limito questo richiamo a solo tre pronunce. Una prima è la sentenza n.314 del 2003, in cui si è creato
un pericoloso precedente, suscettibile di proiettare una lunga ombra ben oltre l’ambito dalla decisione
stessa coperto, dando vita ad effetti imprevedibili, forse non poco pregiudizievoli, per l’autonomia
siciliana. Come noto, il penultimo articolo della legge costituzionale di riforma del Titolo V° della Parte
II° della Costituzione prevede un originale meccanismo di “estensione automatica” alle Regioni Speciali
(nonché alle Province Autonome di Trento e di Bolzano) delle disposizioni contenute nella legge
medesima, limitatamente alle parti in cui siano previste forme di autonomia più ampie rispetto a quelle a
tali Regioni già attribuite dai rispettivi Statuti (e fino all’adeguamento di questi ultimi).
Secondo la dottrina maggioritaria, questo meccanismo, calato all’interno delle dinamiche del controllo di
costituzionalità delle leggi delle Regioni Speciali, non potrebbe non comportarne (a pena di ulteriormente
accentuare le implicazioni negative spesso collegate alla specialità) la generalizzata trasformazione da
preventivo in successivo, con conseguente estensione alle leggi medesime del sistema di impugnativa
comune delle leggi regionali previsto dal riformato articolo 127 della Costituzione. Come affermato dalla
stessa Corte Costituzionale nella sentenza che qui si annota, infatti, tra le maggiori forme di autonomia
che si riversano nel bacino della specialità “sono comprese anche le modalità in cui si estrinsecano i
controlli che lo Stato svolge sull'esercizio della potestà legislativa regionale e le forme di proposizione
del giudizio costituzionale” (punto 3 del Considerato in diritto, laddove la Consulta richiama i suoi
precedenti sul punto, rappresentati dalle ordinanze n. 65 e 377 del 2002 e dalle sentenze 408 e 533 dello
stesso anno).
Con la sentenza cui si riferiscono queste brevi note, peraltro, il Giudice delle leggi ha voluto precisare,
con riferimento al particolare procedimento previsto per l’impugnazione delle leggi della Regione
Siciliana (ed in contrasto con l’orientamento della dottrina maggioritaria) la sua giurisprudenza da ultimo
richiamata.
Mentre per le leggi delle restanti Regioni ad autonomia differenziata il sindacato di costituzionalità
continua ad esplicarsi secondo un modello sostanzialmente identico (anche se, in entrambi i casi,
profondamente rinnovato nel suo neo-acquisito carattere successivo) rispetto a quello previsto per i
provvedimenti legislativi delle Regioni Ordinarie, per la Sicilia la Consulta ha ritenuto che il particolare
meccanismo di controllo disciplinato dagli articoli 28 e 29 del rispettivo Statuto speciale resista al
combinato disposto degli articoli 8 e 10 della legge costituzionale n.3/2001. La Corte giunge a tale
conclusione attraverso una puntuale ricostruzione degli aspetti salienti di tale meccanismo, richiamando le
sue numerose pronunce che, a partire dalla storica sentenza n. 38 del 1957, hanno concorso a
“lubrificarne gli ingranaggi”, consentendogli di funzionare e, anzi, di assumere una sua “stabile
connotazione” (pur in presenza di qualche anomalia, come riconosce la stessa Consulta nel punto 3.2 del
Considerato in Diritto).
Attraverso tale ricostruzione, il Giudice delle leggi mette in luce la “essenziale diversità” dei sistemi di
impugnazione previsti, rispettivamente, per leggi siciliane e per le corrispondenti fonti primarie di tutte le
altre Regioni (sia ordinarie che speciali), diversità che preclude quella valutazione comparativa che
costituisce, secondo la Corte, presupposto indefettibile per l’operatività del meccanismo di adattamento
automatico disciplinato dal più volte citato articolo 10.
Pur considerando con favore l’eventuale equiparazione della Regione Siciliana alle altre Regioni ad
autonomia differenziata ed, in ultima analisi, alle stesse Regioni ordinarie, attraverso l’estensione alla
prima del sistema di impugnativa di cui all’articolo 127 della Costituzione, la Corte si trova quasi
costretta (per la natura delle funzioni ad essa spettanti, che non le consentono di operare “un giudizio di
merito sulla preferibilità dei differenti sistemi di impugnazione delle leggi regionali”) a conservare il
peculiare procedimento disciplinato dallo Statuto siciliano, già “graziato”, a suo tempo (per circostanze
contingenti) dall’Assemblea Costituente e più volte rimaneggiato dalle stesse sentenze costituzionali.
Da notare, in conclusione, che la pronuncia annotata vale a fugare definitivamente almeno uno dei dubbi
di costituzionalità da cui era affetta la c.d. Legge La Loggia (legge n.131/2003), il cui articolo 9, nella sua
opera di adeguamento della legge n.87/1953 alla nuova disciplina costituzionale dei controlli sulle leggi
regionali, fa espressamente salva “la particolare forma di controllo delle leggi prevista dallo statuto
speciale della Regione siciliana”. Per alcuni commenti a tale pronuncia vedi Teresi F. in “La inaspettata
cristallizzazione del sistema di sindacato costituzionale delle leggi siciliane prevista dallo statuto
speciale in una discutibile sentenza della Corte costituzionale”, ed anche Ruggeri A. in “Il controllo sulle
leggi siciliane e il bilanciamento mancato”, entrambi pubblicati sul forum di Quad.Cost.
351
Nel mare tormentato dell’assetto istituzionale italiano451 in questi ultimi tre anni
sono approdate una notevole quantità di sentenze della Corte costituzionale, sui temi
più vari e disparati, ancorché connessi con la (non più tanto recente) riforma della
Costituzione realizzatasi con le leggi costituzionali n.1 del 1999 e n.2 e 3 del 2001.
La dottrina, gli esperti, ma persino l’opinione pubblica, se ne sono occupati,
anche con titoli in prima pagina, commentando e valutando gli aspetti legati alle
singole discipline coinvolte (tassazione, fondazioni bancarie, grandi opere e lavori
pubblici, regime d’incompatibilità ed ineleggibilità, elettro-smog, etc…, anche con
riguardo alle Regioni a Statuto Speciale), esprimendo i più svariati punti di vista e le
più diverse linee di pensiero. Tutto ciò legato al fatto che in fondo ancor oggi
viviamo in un periodo di piena transizione, in cui tali riforme, appena iniziata la loro
applicazione concreta, vedono già, all’orizzonte, l’arrivo di una nuova riforma che
sconvolgerà ulteriormente gli assetti istituzionali.
Ciò che oggi si può constatare è che manca, ancora, una riflessione complessiva
dell’impatto di un così complesso corpo giurisprudenziale, sull’assetto istituzionale
italiano. Ma, cosa più importante, è che tale visione manca, innanzi tutto, alla stessa
Corte costituzionale, la quale non ha omesso di farci assistere a capolavori
interpretativi di cui certo non sono dubbie le utilità che al nostro Paese ne potranno
addivenire. Questa, celandosi dietro la scusa di dover applicare in via interpretativa
la riforma costituzionale, ne ha piegato il significato alle proprie idee ed alla propria
visione. Ciò era prevedibile (e, a quanto pare, dai più, previsto), ma ciò non cambia
il fatto che, l’aver consentito agli esponenti della dottrina di parlare di drafting
processuale, di revisione della riforma o addirittura di riforma della riforma, per vie
giurisprudenziali, ha certamente dato la sensazione di trovarci davanti ad un lavoro
giurisprudenziale che, forse anche perché influenzato dall’uso congiunturale che la
politica sta facendo della Costituzione negli ultimi anni, ha decisamente oltrepassato
i limiti che dovrebbero esserle propri, addentrandosi in campi interpretativi
particolarmente delicati, e nell’ambito dei quali, sono maturati, in questi anni,
problemi (per l'appunto essenzialmente interpretativi) che in buona parte hanno
ostacolato, e rallentato, il pieno ed organico avvio del cambiamento istituzionale nel
nostro Paese.
Spesso si è affermato il timore che il Giudice delle leggi avesse acquisito una
visione errata della carta fondamentale (cosa che risulta tanto improbabile quanto
insensata) tale da essersi tradotta in una sorta d’incapacità, della stessa, a sancire una
vera svolta rispetto al passato (cosa che sarebbe avvalorata dall’enorme quantità di
giurisprudenza ante-riforma, fatta salva dalla stessa Corte con la sempre più
inflazionata tecnica del riferimento a proprie pronunce di anni precedenti) e di dare
un taglio netto con il modo di vedere il regionalismo, del passato.
Una seconda pronuncia da menzionare è la sentenza 10-14 novembre 2003 n.338, in cui si riprende la
materia dei trattamenti sanitario-psichiatrici (TEC, lobotomia ed altri) già affrontati con la sentenza n.282
del 2002 della quale è confermato l’indirizzo giurisprudenziale, giungendo così alla dichiarazione
d’incostituzionalità di ben due leggi regionali (per la precisione: gli artt.4 e 5 delle legge Regione
Piemonte 3 giugno 2002 n.14 e dell’art.3, commi 2, 3 e 4, della legge Regione Toscana 28 ottobre 2002
n.39).
L’ultima è la sentenza 18 dicembre 2004 n.13 relativa al dibattito svoltosi intorno al principio di
continuità giuridica tra normativa ante riforma del 2001 e post. Vedi per ciò R. Dickmann in “La Corte
amplia la portata del Principio di Continuità” pubblicato su www.federalismi.it il 22 gennaio 2004.
451
Mutuo questa espressione da Caravita di Toritto B. in “La Corte e i processi di assestamento della
riforma del titolo V”, pubblicato, come editoriale, nel numero 10 del 2003, sul sito www.federalismi.it .
352
Ma, tali dubbi non erano altro che il risultato del sopravvissuto retaggio di
quell’immagine (ancora oggi da alcuni sostenuta) che vede nella Corte
costituzionale il nemico delle Regioni. Invece, è proprio la visione opposta quella
che oggi si deve consolidare e trasmettere a chi si occupa di questa materia per
motivazioni politiche, istituzionali o di studio. Infatti, è vero che la famosa svolta
del regionalismo italiano non c’è stata, ma è anche vero che questo non è certo colpa
della Corte costituzionale. Anzi, rinviando alle critiche sopra esposte alla riforma
del Titolo V° della Costituzione, la Corte ha davvero compiuto acrobazie giuridiche
a favore del regionalismo. E’ vero che la sua giurisprudenza non si può dire essere
un esempio di coerenza ed organicità, però è anche vero che essa, rivedendo e
correggendo il senso applicativo di tale riforma, ha permesso di gettare le basi per
un concreto regionalismo, cooperativo, italiano.
Una riforma che si è dimenticata il sistema delle Conferenze; che solo
marginalmente considera gli strumenti di collaborazione istituzionale; che espelle
dalla carta costituzionale, un interesse nazionale praticamente inutile (quello della
questione di merito davanti al Parlamento, mai utilizzata) convinto di averlo
cancellato dalla stessa (cosa non vera, dato che questo è un concetto implicitamente
desumibile da tutti gli articoli della stessa); ed ancora, che ha valorizzato l’ormai
datato concetto di regionalismo separazionista noncurante che il vero regionalismo,
si è ormai tutti d’accordo nel ritenere essere quello cooperativista; e molto altro
(come in fondo ho evidenziato man mano in questo scritto).
A fronte di una simile riforma, se non vi fossero stati gli interventi della Corte,
posso azzardarmi a dire che, non solo nulla sarebbe cambiato ma, addirittura,
c’erano le premesse per un peggioramento della situazione, a carico delle
autonomie, tutte.
E’ solo grazie agli interventi della Corte che oggi si può parlare di un vero
cambiamento, positivo, nel sistema regionalista italiano, volto alla valorizzazione ed
al potenziamento delle realtà territoriali periferiche (in primo luogo proprio delle
Regioni). Grazie alla giurisprudenza costituzionale di questi anni, politici ed
operatori del diritto hanno avuto a disposizione una visione (pressoché imposta) del
senso della riforma, che si schierava, tendenzialmente, a favore della periferia ed a
sfavore del centro (d’altronde come potrebbe essere diversamente se vediamo che
tra i membri della stessa, si annoverano tra i più strenui sostenitori del regionalismo
italiano). Dunque, una svolta c’è stata, essa non è però tanto collegata alla riforma
del Titolo V° Cost. (che, in ogni caso, molto ha contribuito) ma ad un cambiamento
del clima istituzionale-politico e di una diversa visione, del regionalismo, che la
stessa dottrina a maturato in questi ultimi vent’anni. Svolta che, sebbene non
potendosi dire conclusa, ha permesso che fossero i tecnici del diritto (e mi riferisco,
ovviamente, alla Corte stessa) ad apportare quei correttivi, e colmare quelle lacune,
che il legislatore ha lasciato o non ha avuto la forza (o la volontà, politica) di
colmare452.
452
Nella Conferenza stampa d’inizio 2004, il Presidente della Corte, Gustavo Zagrebelsky, ha dichiarato
“Le nuove regole, hanno bisogno di leggi d’attuazione per gestire il passaggio dal vecchio al nuovo e
garantire la continuità istituzionale”, ed “la Corte è costretta a svolgere un ruolo di supplenza, non
richiesta e non gradita, perché non è un organo legislativo e non le spetta scrivere regole attuative. Ma
l’auspicio è che sia il Parlamento a scrivere in fretta le nuove regole”. Vedi articolo pubblicato sul
quotidiano Repubblica, a pag.13, il 3 aprile 2004.
353
Nell’attesa di una nuova ed inevitabile riforma (si spera, finalmente in grado di
chiudere la questione e di darci un testo che permetta, al sistema, di ristrutturarsi ed
assestarsi senza più dubbi, incertezze e soluzioni di compromesso) che rimetta tutto
in discussione, è alla giurisprudenza costituzionale che si devono affidare i destini
del regionalismo italiano (si spera, nel senso visto in questi ultimi anni, e cioè
cooperativo).
354
IV) Il regionalismo italiano oggi: tra istanze unitarie e leale
cooperazione (conclusioni)
Il vero problema da cui il sistema delle autonomie italiano è tormentato sin dalle
origini è l’assenza di un preciso modello di organizzazione della “forma di Stato” e
di una cultura istituzionale adeguata alle esigenze tipiche di uno Stato policentrico.
Delle Regioni, delle autonomie, del federalismo si è sempre discusso nelle sedi
politiche sul piano astratto degli slogan politici e mai si è affrontato con serietà il
problema di come costruire il modello di Stato delle autonomie attraverso la
predisposizione di congegni istituzionali adeguati.
Lo Stato regionale è stato inventato dai costituenti per ragioni squisitamente
politiche, cioè per l’esigenza di individuare sedi di contropotere politico su base
territoriale, in modo da garantire zone di sopravvivenza per le forze politiche che,
con le prime libere elezioni dell’Italia repubblicana, avrebbero dovuto accontentarsi
di sedere sui banchi dell’opposizione; è stato poi riformato con le “leggi Bassanini”
prima, con la riforma del 2001 poi, ancora per ragioni essenzialmente simboliche e
politiche, per dimostrare l’impegno fattivo del centro-sinistra sul terreno del
federalismo, contro lo slogan di Bossi e del centro-destra; ed, infine, oggi è in
procinto di essere contro-riformato dallo stesso centro-destra per soddisfare
simbolicamente le richieste del proprio elettorato e per sottolineare gli errori del
centro-sinistra.
Ciò che, però, facilmente, si evince è che in tutta questa vicenda è sempre
mancato un progetto chiaro ed una sua attenta costruzione.
Sin dall’inizio è rimasto incerto quale fosse il centro gravitazionale del sistema
delle autonomie. Infatti, le Regioni, munite di un potere legislativo completamente
assente per gli Enti Locali e di garanzie costituzionali delle proprie attribuzioni ad
essi negate, sono state inserite in un sistema storico di organizzazione del potere
pubblico in cui lo Stato centrale e gli Enti Locali costituivano un corpo unico,
gerarchicamente ordinato, privo di interruzioni e di spazi liberi. Un corpo che ha
rigettato l’inserimento delle Regioni, alle quali, per altro, non era stato riconosciuto
alcun potere (indispensabile per gli enti che compongono un sistema federale) di
conformare l’amministrazione locale, rimasta perciò legata all’apparato centrale.
Negli anni la situazione è andata avvitandosi su se stessa, rendendo sempre più
stretto il nodo. Le Regioni hanno cercato di conquistarsi uno spazio competendo sia
con l’amministrazione centrale che con quella locale, ma su entrambi i fronti hanno
avuto scarsi risultati.
Sul fronte degli apparati centrali, hanno scontato la loro debolezza politica e
scarsa efficienza amministrativa. La scarsa affidabilità di alcune Regioni divenne
presto motivo per trattenere al centro tutte le funzioni più importanti. La stessa
Corte costituzionale è stata sensibile a questo ragionamento, giustificandolo alla
luce dell’interesse nazionale, ossia riconoscendo in ogni funzione di un certo rilievo
le caratteristiche delle “esigenze unitarie non frazionabili” che legittimavano la
permanenza della competenza al centro. C’è da dire che una delle motivazioni più
importanti si è prodotta verso la metà degli anni ’80, quando la Corte, accettando
che le leggi dello Stato contenessero, accanto ai “principi”, anche le norme di
dettaglio auto-applicative, ha aperto le porte ad una certa differenziazione delle
Regioni: quelle più attive avrebbero potuto sostituire la disciplina statale con la
355
propria, quelle inerti avrebbero, invece, scontato una compressione della propria
funzione, poiché in esse la disciplina statale “nuova” scalzava quella regionale più
vecchia.
Tale debolezza ha prodotto anche un altro grave effetto. L’incapacità della classe
politica di affermarsi rispetto a quella nazionale ed a quella locale, ha portato le
Regioni a non esercitare i propri poteri come configurati e definiti. Andando, questo,
a generare un osmosi verso l’alto (il Parlamento, il Governo, persino il Parlamento
Europeo) e verso il basso (specie verso ruoli di vertice negli esecutivi dei Comuni
capoluogo).
Non essendo il ruolo regionale concepito come un punto apicale della carriera
politica, la funzione della Regione come sede istituzionale di rappresentanza politica
della collettività locale non poteva che uscirne grandemente indebolita.
Verso l’amministrazione locale, invece, le Regioni hanno cercato di sviluppare il
proprio ruolo attraverso la legislazione e attraverso l’accentramento di parte delle
attività amministrative, sotto forma di piani, programmi, atti di indirizzo, forme di
controllo, nulla osta o l’istituzione di amministrazione regionali decentrate. La
reazione a questo neo-centralismo regionale è stata chiarissima ed ha rafforzato il
ruolo delle associazioni nazionali degli Enti Locali (ANCI, UPI, UNCEM), le quali,
movendosi come organizzazioni d’interessi di tipo sindacale, hanno chiesto
protezione al centro. Queste organizzazioni si sono mosse sul piano nazionale in
modo piuttosto compatto contro il rafforzamento dell’autonomia regionale.
Particolare peso, poi, hanno avuto le istanze anti-regionalistiche delle autonomie
locali a seguito della riforma elettorale del 1993. La forza rappresentativa di cui
godevano, a questo punto, i leader delle amministrazioni locali rese ancora più
intensa la richiesta di essere liberati dai vincoli regionali, molto volte più stretti di
quelli statali.
Tale forza si espresse, essenzialmente, su due piani: a) la conquista di pari
dignità istituzionale rispetto alle Regioni (ottenuta in modo particolare con le
riforme Bassanini); b) il riconoscimento parallelo del ruolo istituzionale degli Enti
Locali nel processo di formazione delle decisioni nazionali attraverso l’istituzione
(parallelamente alla Conferenza Stato-Regioni) della Conferenza permanente StatoCittà ed Autonomie Locali.
La riforma del Titolo V° fatta con la legge costituzionale n.3 del 2001 è, dunque,
intervenuta in questo contesto di regionalismo profondamente in crisi. Però, il suo
più grande difetto è stato proprio quello di non cercare di capire perché il
regionalismo in Italia sembrava non funzionare. Ed in ciò, inevitabilmente, si rivelò
incapace di individuare i rimedi necessari per cercare di cambiare le cose.
Il fallimento del disegno regionale, come è stato più volte osservato, è dovuto ad
un difetto che risulta evidente: l’aver perseguito il tentativo di separare con nettezza
le attribuzioni delle Regioni e quelle dello Stato con strumenti come le “materie”, i
“principi”, “l’interesse nazionale”.
Alla Regione veniva riconosciuto il potere di fare leggi, al pari dello Stato, e di
difendere questo suo potere contro lo Stato di fronte alla Corte costituzionale: ma la
linea di confine tra la sfera della Regione e quella dello Stato, la linea che la Corte
costituzionale avrebbe dovuto controllare per evitare sconfinamenti, era
impercettibile, segnata da indicazioni inconsistenti, affidata a valutazioni di tipo
356
politico che un giudice, sia pure un giudice tutto particolare, non può maneggiare
senza sconfinare dai suoi compiti istituzionali.
Ed è proprio questa incertezza che ha scatenato quell’enorme contenzioso
costituzionale fra Stato e Regioni che è uno dei tratti salienti del nostro Paese.
Tutta la storia delle Regioni in Italia, dalla fondazione costituzionale della
Repubblica all’ultimo progetto di riforma licenziato dal Governo attualmente in
carica, è caratterizzata dalla stessa incapacità di mettere a fuoco le ragioni per cui
questo approccio non funziona. Sia il testo originario della Costituzione, sia le
riforme introdotte, si sforzano di scrivere e riscrivere il quadro dei rapporti di
governo, come se il problema fosse davvero quello di separare le sfere di
competenza degli enti e non invece di individuare le istituzioni della cooperazione
tra essi. E’ sicuramente un difetto di impostazione, perché tiene conto
dell’insegnamento che ci viene da tutte le moderne esperienze di Stato federale o
regionale.
Mentre, come si disse, la nostra Costituzione impostava il problema nella logica
del regolamentare-separazionista, tutto il mondo si muoveva in una direzione
fondata sull’idea per cui in uno Stato moderno non serve tanto decidere se, per
esempio, l’agricoltura la governa lo Stato o la Regione, per il semplice fatto che i
problemi veri sono così complessi da richiedere un intervento coordinato a più
livelli.
Il nostro regionalismo originariamente era, confusamente, duale, nel senso che
intendeva dividere in due le funzioni pubbliche, ripartendole tra Stato e Regioni; ma
la realtà di tutto il mondo, compresa quella propria della Unione Europea, nonché la
stessa realtà italiana come si è venuta a formare nei fatti è una realtà di tipo
“cooperativo”, che parte dal presupposto che la separazione delle funzioni deve
cedere al coordinamento degli interventi.
Di fatto, in Italia, sino al 2001, si è avuta una realtà formalmente dualista e
sostanzialmente cooperativista (sviluppatasi a colpi di sentenze, accordi, leggi,
etc…). Da cui l’evidente necessità di una riforma.
Per di più ogni tentativo di separare con nettezza le competenze urta con
difficoltà tecniche insormontabili: come cinquant’anni di giurisprudenza
costituzionale insegnano, nessuna materia può essere definita con sufficiente
nettezza da non suscitare continui problemi di ridefinizione dei confini. Perciò non è
stato un caso se la giurisprudenza costituzionale ha progressivamente offuscato le
linee di separazione tracciate dai costituenti per accostarsi ai conflitti, armata di due
strumenti: il “variabile livello degli interessi” (nel gioco tra interessi nazionali,
unitari e infrazionabili, con interessi regionali o puramente locali) e il principio di
“leale collaborazione” (per cui se più livelli di interesse sono coinvolti, chi è titolare
dell’interesse prevalente non può agire unilateralmente, ma deve coinvolgere anche
gli altri soggetti titolari di un interesse rilevante).
Sono due strumenti che non hanno, inizialmente, avuto alcun aggancio esplicito
nel testo costituzionale, ma si sono affermati per l’esigenza di offrire una risposta
adeguata al tipo di realtà che i moderni sistemi istituzionali devono affrontare. Il
problema è che sono due strumenti che non possono essere maneggiati con le sole
tecniche del giudice, attraverso valutazioni formali tipiche del giudizio di
legittimità, ma richiedono valutazioni di merito, di opportunità. Per cui la Corte
costituzionale ha dovuto condurre i suoi giudizi in mancanza di altre sedi politiche
357
non previste dal nostro ordinamento. Ma tutto ciò è stato del tutto ignorato dalle
riforme che in questi anni il Paese ha vissuto.
Sono quattro, essenzialmente, i difetti della riforma del 2001: per definire le
competenze legislative, persevera nell’impiego di vecchie tecniche come gli
“elenchi” di materie e la distinzione tra norme di principio e norme di dettaglio;
viene introdotto un principio di sussidiarietà limitato alla sola materia
amministrativa e per di più senza che si dica come questo deve operare; viene
eliminato dal testo costituzionale ogni riferimento letterale all’interesse nazionale,
con un tentativo (non riuscito) di eliminare proprio quel parametro primo su cui la
Corte ha, da sempre, risolto la gran parte dei ricorsi costituzionali proposti negli
anni del suo operare; viene sancita la pari dignità costituzionale tra i soggetti che
compongono la Repubblica, ma non viene previsto alcun meccanismo di
collaborazione tra questi.
Nell’ordinamento passato le funzioni da trasferire dallo Stato alle Regioni
venivano individuate e delimitate partendo da precise strutture burocratiche
ministeriali che svolgevano specifiche funzioni, sicché trasferendo le funzioni
insieme con le strutture amministrative e con il personale, le “materie” assumevano
una consistenza abbastanza precisa , quasi fisica.
Oggi, nel nuovo ordinamento le cose non sono più così. Né le materie indicate
all’art.117 hanno consistenza precisa. Ancor meno chiaro è come determinare quali
materie restino affidate alla competenza regionale.
E’ vero che, in linea di principio, ad esse spettano tutte le materie non attribuite,
in via esclusiva o concorrente, allo Stato, ma ciò crea problemi di delimitazione dei
confini e delle responsabilità difficili da risolvere. Infatti, mentre nel vecchio
ordinamento il trasferimento di funzioni alle Regioni, significava staccare un
mattone preciso dell’edificio complessivo delle funzioni pubbliche,
complessivamente attribuite allo Stato, oggi tale edificio non c’è più.
La Corte costituzionale, nelle sue prime sentenze, successive alla riforma del
2001, ci offre un suggerimento. Nelle pronunce n.282 del 20002 e n.88 del 2003,
con riferimento ad alcune materie attribuite da nuovo art.117 alla competenza
esclusiva dello Stato, osserva che esse non sono affatto materie in senso stretto, cioè
sfere di competenza statale rigorosamente circoscritte. Ciò vale per i “livelli
essenziali delle prestazioni”, ma anche, ad esempio, per la “tutela dell’ambiente”.
Essa riconosce che in tali casi si tratta, non di materie, ma di valori
costituzionalmente protetti che, in quanto tali, delineano una sorta di materie
trasversali, in ordine alle quali si manifestano competenze diverse, che ben possono
essere regionali, spettando allo Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze
meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale (vedi anche le
sentenze n.407 del 2002 e n.536 del 2002). Dunque, la Corte richiama il concetto di
“esigenze unitarie ed infrazionabili” per giustificare l’intervento dello Stato rivolto
a dettare una disciplina unitaria.
In queste sentenze, la Corte, risolve le questioni prospettatele, attraverso un
attento esame degli interessi coinvolti e rafforzando sempre più il legame tra materie
ed interessi.
Ed è qui che è intervenuta la legge a Loggia (l.n.131 del 2003). Con essa è nato
il meccanismo dei decreti legislativi meramente ricognitivi dei principi
358
fondamentali che si traggono dalle leggi vigenti, nelle materie di cui al terzo
comma dell’art.117 Cost.
Bene, a ciò si può rispondere osservando che mai si era osato giungere al punto
di attribuire al Governo ciò che dovrebbe essere, indubbiamente, di competenza del
Parlamento, ossia la disciplina di principio. Si è obiettato che si tratterebbe di una
semplice attività ricognitiva, non creativa, a basso potere di discrezionalità ed a
bassa intensità normativa (dato che la funzione di tali decreti sarebbe solo quella di
orientare l’iniziativa legislativa dello Stato e delle Regioni fino all’entrata in vigore
delle leggi con le quali il Parlamento definirà i nuovi principi fondamentali). Ma il
problema non è tanto nella definizione dei principi fondamentali, quanto in quella
delle materie. Infatti, prima di procedere alla ricognizione dei principi fondamentali
di ciascuna materia, è indispensabile delimitarne il territorio, ossia definire la
materia stessa: cosa il cui elevato tasso di discrezionalità è più che evidente.
Tale legge ha, dunque, rappresentato una via di mezzo tra un esperimento
dilettantesco (perché compilare tali Testi Unici dei principi rappresenterebbe un
opera pressoché impossibile data la natura e la mole della nostra legislazione) ed
una truffa (perché è chiaro che, non i principi della legislazione, ma le funzioni
amministrative che danno forma alle materie, saranno l’oggetto di tale
ricognizione). Insomma, ciò che ci si deve aspettare è più una serie di decreti di
trasferimento delle funzioni amministrative (con il conseguente transito delle
attribuzione legislative, secondo il redivivo principio di parallelismo delle funzioni)
che una vera ricognizione dei principi.
La legge La Loggia, ha voluto, dunque, smentire una lettura troppo innovativa
della riforma del 2001, riaffermando una certa continuità con il vecchio
ordinamento: il riparto delle funzioni non può basarsi sulla semplice elencazione
delle “etichette” relative alle materie, ma vanno considerati anche gli interessi
sottostanti (prevalenza della sussidiarietà sulla separazione delle competenze per
materia).
Il problema, allora, è un altro. Il vincolo a non fuoriuscire dalla legislazione
vigente può indurre a costruire decreti delegati in modo ben poco innovativo rispetto
al passato, con conseguenze che non saranno affatto di garanzia per le Regioni,
perché, inevitabilmente, di molto verrebbe ridotto l’impatto politico della riforma
costituzionale. La natura ambigua che così i decreti assumerebbero, potrebbe
presentare un’insidia per le Regioni, che rischierebbero di restare invischiate
nell’approvazione di schemi di decreto predisposti dai “tavoli tecnici” formati da
funzionari statali e regionali competenti per settore, in cui certamente prevarrà
l’ottica della continuità dell’organizzazione amministrativa delle funzioni oggi
vigente, piuttosto che l’innovazione di cui tanto si sente il bisogno.
In tal ottica si può capire anche il senso della proposta riforma di devolution
dell’attuale Governo, che, tra le altre, è stato chiamato ad attuare una riforma che
aveva avversato e che, invece, era stata apprezzata dalle Regioni (anche da quelle
governate dal suo stesso schieramento politico).
Questo Governo ha tenuto, sin dal suo insediamento, un comportamento da
alcuni definito schizofrenico. Da un lato ha avuto un comportamento di netta
chiusura verso ogni istanza regionalista (basta leggere le finanziarie degli ultimi
anni o analizzare i ricorsi statali presentati alla Corte costituzionale contro atti
regionali), dall’altro lato ha proposto una nuova riforma in senso federalistico.
359
E’ pur vero, però, che la riforma c.d. devolution risponde ad un’abitudine
tipicamente italiana, quale quella di fare propria l’ultima moda d’importazione
sacrificandone lo spirito sull’altare della politica. Come è facile capire, questa più
che una concreta proposta di riforma istituzionale è divenuta una risposta mediatica
e politica ad esigenze elettorali (rinvio alla breve lettura che ne ho dato per far
capire come essa non risolverebbe nulla, anzi, molto probabilmente, creerebbe nuovi
problemi).
Come si è già avuto modo di osservare alla luce della giurisprudenza
costituzionale fatta sopra, gli strumenti quali l’interesse nazionale e l’indirizzo e
coordinamento non sono scomparsi con la loro cancellazione dalla Carta
costituzionale. Infatti, essi necessariamente sopravvivono in quanto è stato
riconosciuto che la loro esistenza risponde a quelle congenite esigenze di ogni
sistema nazionale conformato al concetto di autonomia territoriale, per il quale,
anche conformemente all’ormai tanto propagandato criterio di sussidiarietà, data
l’esistenza di differenti esigenze, poste sui diversi livelli territoriali, queste devono
essere attribuite alla struttura di livello maggiormente adeguata al loro
soddisfacimento (nel caso di esigenze nazionali, dunque, lo Stato). Quindi la loro
cancellazione dalla Costituzione non né ha comportato la scomparsa, in quanto
questi sono parametri che preesistono ad essa, essendo implicitamente compresi in
qualunque sistema federale o regionale. In tal ottica è facile rispondere a coloro i
quali si chiedevano se un loro reinserimento fosse necessario (vedi la nuova
proposta di riforma costituzionale) in quanto è ormai chiaro che in effetti la loro
cancellazione formale non solo non ne ha causato la scomparsa ma, anzi, ne ha
consentito la maggiore flessibilizzazione e l’adeguamento al nuovo assetto
regionalistico italiano.
Infatti, al di là delle critiche che si possono muovere alla carta costituzionale (ed
alla riforma del 2001 che si è rivelata incapace di apportare cambiamenti concreti
per la promozione di un vero regionalismo), è chiaro che oggi quello italiano è un
regionalismo cooperativo che cerca di affermarsi tramite tutti i canali a sua
disposizione, nel tentativo di gettare le basi per una futura riforma costituzionale che
possa, davvero, ridisegnare le istituzioni della Repubblica in un senso veramente e
concretamente autonomistico.
Dunque, è nel principio della leale collaborazione, come abbiamo visto, che tali
strumenti unitari vedono la propria nuova veste e giustificazione funzionale. Ed è in
esso che lo stesso potere sostitutivo del Governo ex novo art.120 Cost. trova
giustificazione, come strumento che esiste ed opera alla luce di questa nuova
concezione di gestione della Repubblica che ha il proprio primo riconoscimento
nella nuova concezione di pari dignità costituzionale di tutti i livelli di governo
territoriale.
A questo punto, però si capisce qual è, ancor oggi, il vero momento critico del
regionalismo italiano, nonostante le tante riforme tentate, varate, attuate, promesse o
minacciate. Infatti, è facile intuire l’inaccettabilità che in un sistema regionale di
tipo cooperativo, la Costituzione non dica una parola sulle sedi e sulle procedure
della cooperazione, continuando a fare finta che il problema del riparto dei compiti
tra i livelli di governo si possa risolvere con un elenco di materie, più o meno,
chiaramente descritte, e qualche concetto, come il principio di sussidiarietà, in cui si
vorrebbe far credere che risiede la soluzione di ogni male.
360
In tal senso si è più volte proposta l’istituzione del Senato delle Regioni (da
ultimo vedi la delibera approvata in Senato il 25 marzo del 2004 per una nuova
riforma delle Costituzione). Effettivamente, la nascita di tale sede risponderebbe a
logiche di ottimale governo della Repubblica che difficilmente potrebbero essere
soddisfatte analogamente in altro modo. Infatti, quale soluzione migliore di quella
che prevedrebbe che le Regioni scrivano le leggi insieme allo Stato, facendo in
modo di farle corrispondere alle proprie esigenze e, di conseguenza, senza il
successivo bisogno di fare altre leggi diverse, a livello regionale, o di contrastare tali
leggi statali impugnandole davanti alla Corte costituzionale.
In tal senso basterebbe una legge c.d. federale per consentire la co-gestione del
Paese soddisfacendo tutte le esigenze di volta in volta in gioco (perché frutto di una
concertazione) e facendo cessare quel continuo scontro istituzionale che, ormai da
circa sessant’anni il nostro Paese vive, tra centro e periferia.
Il problema è che in tal senso una proposta seria non è ancora arrivata. La
soluzione più ovvia sarebbe, infatti, quella di costituire un Parlamento bicamerale in
cui ad una Camera politica se ne affianchi una delle Regioni (la cui prima
caratteristica dovrebbe essere proprio quella di essere composta da rappresentanti di
queste ultime).
E’ bene, però, sottolineare che per risolvere i problemi prospettati non è
sufficiente costituire un Senato delle Regioni, quanto, piuttosto, disegnarlo con un
impianto seriamente federalistico (a differenza di quanto si è fatto con la ricordata
delibera del 25 marzo 2004). In tal senso è stato proposto un facile teorema, utile a
capire questa mia ultima affermazione, il quale si può leggere così: «tanto più il
Senato federale è numeroso, basato sull’elezione diretta dei suoi membri,
rappresentativo sia della maggioranza che delle minoranze politiche di ciascuna
Regione, tanto meno serve come sede di cooperazione, perché così acquisirebbe
una vocazione politica destinata a prevalere sulla rappresentanza dei territori».
Oltretutto, il problema del coordinamento e della cooperazione non si risolve
soltanto nel momento legislativo. Sicuramente indispensabile è che le leggi dello
Stato che interferiscono nelle attribuzioni legislative, amministrative e finanziarie
delle Regioni ottengano il consenso di chi rappresenta le Regioni: ciò vale per tutte
le leggi su materie “trasversali” (anche quelle, dunque, riservate alla legislazione
esclusiva dello Stato) e per tutte le leggi di principio nelle materie concorrenti (ma
ciò dovrebbe valere anche per la legge finanziaria e per quella comunitaria).
Il tutto legato, infine, al fatto che gran parte del coordinamento non ha natura
legislativa, bensì amministrativa. Ed in ciò sarebbe impensabile affidare ad una
Camera legislativa tali ultimi problemi, chiamandola a risolverli con strumenti
legislativi. Qui sono anzitutto le burocrazie a dover istruire le decisioni e gli
esecutivi a trattare ciò che ha rilevanza. Ed è questo il compito già oggi espletato dal
Sistema delle Conferenze.
Infatti è proprio alle Conferenze Permanenti che bisogna, in conclusione
rivolgere lo sguardo. In attesa di vedere varata una nuova riforma costituzionale, e
di capire se e come nascerà questo Senato delle Regioni, è in esse che al momento il
nostro sistema regionale ripone tutti i principiali strumenti della leale
collaborazione.
Ma, se il federalismo italiano sembra continui ad essere affidato a tale Sistema
delle Conferenze (il quale ha continuato ad operare a pieno regime con riunioni a
361
cadenza quasi settimanale, ha elaborato sempre più strumenti incisivi come gli
accordi-quadro, ha istituito proprie sotto-articolazioni, etc…), la sua mancata
costituzionalizzazione non lo ha di certo rafforzato, né tanto meno ne ha lasciato
integra l’immagine nel nostro panorama istituzionale.
Presidenti che disertano le riunioni, che minacciano di trovare altre vie (come il
contatto diretto con il Parlamento), che denunciano di esser tagliati fuori dai
processi decisionali453, sono tutti segnali che dimostrano un generale incrinarsi dello
spirito collaborativo tra Stato e Regioni (non a caso se si consultano le statistiche del
sito istituzionale delle Conferenze si osserva che, dopo anni di crescita, con il 2002,
per la prima volta si è vissuta una diminuzione del numero di atti adottati dal
Sistema).
Di certo c’è che negli anni precedenti il Sistema delle Conferenze ha avuto
modo di divenire una struttura centrale nell’architettura istituzionale dei rapporti tra
Stato e Regioni ( come alcuni hanno voluto osservare, a dimostrazione di ciò ci
sarebbe anche la frequenza con cui il contenzioso costituzionale più recente ha
richiamato ciò che avviene nella Conferenza Stato-Regione e nella Conferenza
Unificata454). Tuttavia la natura ambigua delle Conferenze, e l’estrema informalità
delle procedure decisionali in esse seguite, hanno di certo pregiudicato
l’affermazione di un ruolo preciso di questi organi e la piena efficacia delle loro
deliberazioni.
La Conferenza Stato-Regioni, come evidenziato dagli studi più recenti455, adotta
ormai mediamente circa 250 atti all’anno; è sempre più spesso richiamata dalla
legislazione di settore, che affida ad essa compiti specifici di cooperazione tra livelli
di governo; è assai frequentemente investita dal Governo di questioni
particolarmente importanti sotto il profilo politico, anche quando non sono le norme
vigenti ad imporlo.
A fronte di un peso politico che appare in via di consolidamento, sta il fatto che
la Conferenza per lo più “delibera” senza votare. In effetti il D.Lgs. n.281/’97
prevede delle procedure di voto: l’art. 2 stabilisce che, “ferma la necessità
dell'assenso del Governo, l'assenso delle Regioni e delle Province Autonome di
453
Finanziaria, le Regioni rompono con il Governo, articolo pubblicato sul quotidiano Corriere della
Sera, l’8 novembre 2002, a pag.5.
454
Dopo la disciplina introdotta dalla legge n.59/1997 e dal D.Lgs. n.281/1997 (sulla cui legittimità è
intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza n.408/1998, a cui si sono aggiunte altre pronunce in
merito a singole previsioni normative di competenze delle Conferenze, di cui merita ricordare in
particolare la sentenza n.337/2001, perché riguarda le modalità con cui si delibera nella Conferenza
unificata), in diverse decisioni si fa riferimento a quanto si è svolto in esse: si vedano le sentt.110/2001
(in cui la Regione Veneto lamenta che il Governo non ha informato la Conferenza Stato-Regioni
dell’intenzione di intervenire in via sostitutiva per la ripartizione di funzioni amministrative tra regioni ed
enti locali), 206/2001 (in cui sempre la Regione Veneto contesta il D.Lgs. 112/1998, in quanto avrebbe
fissato i compiti di rilievo nazionale, di competenza dello Stato, senza aver raggiunto in Conferenza
l’intesa con le regioni, ritenendo che per essa sia necessario il consenso almeno della maggioranza
assoluta delle regioni stesse), 437/2001 (che nega carattere vincolante per il legislatore statale alle intese
che non abbiamo una “copertura” costituzionale), 315/2001 (l’intesa in Conferenza unificata è impiegata
dalla Corte costituzionale per comprovare l’interpretazione dell’atto impugnato dalle Province autonome),
nonché l’ord. n. 476/2000 (l’accordo raggiunto in Conferenza unificata è richiamato dalla regione
ricorrente per motivare la rinuncia al ricorso). Del resto anche prima che la “riforma Bassanini” facesse
sentire i suoi effetti qualche riferimento agli atti della Conferenza Stato-Regioni compare nella
giurisprudenza costituzionale: si veda per esempio la famosa sentenza 398/1998 sulle “quote-latte”
455
Vedi. I. Ruggii in “La Conferenza Stato-Regioni nella XIII e XIV legislatura”, in Le regioni 2003,
vol.1.
362
Trento e di Bolzano… è espresso, quando non è raggiunta l'unanimità, dalla
maggioranza dei Presidenti delle Regioni e delle Province Autonome di Trento e di
Bolzano, componenti la Conferenza Stato-Regioni, o da assessori da essi delegati a
rappresentarli nella singola seduta”. Ciò vale per una serie di delibere importanti
(fissazione dei criteri di ripartizione delle risorse finanziarie, adozione dei
provvedimenti che sono attribuiti alla Conferenza dalla legge, nomine, ecc.), ma non
per le “intese” e gli “accordi”, per i quali non è previsto nulla di più specifico
dell’indicazione che essi “si perfezionano con l'espressione dell'assenso del
Governo e dei Presidenti delle Regioni e delle Province Autonome di Trento e di
Bolzano” (artt.3 e 4 del citato decreto delegato).
Di fatto però rarissime risultano le votazioni a maggioranza456, mentre per il
resto tutto sembra svolgersi all’unanimità. I verbali delle riunioni si limitano a
registrare “l’acquisito consenso” del Governo e dei Presidenti sul documento
approvato.
Come è stato opportunamente sottolineato, la supposta unanimità che risulta
dalla verbalizzazione nasconde spesso conflitti tra le Regioni già mediati in sede di
Conferenza dei Presidenti (l’organismo di coordinamento inter-regionale che si
riunisce sistematicamente prima della Conferenza proprio al fine di ricercare una
“posizione comune” delle Regioni sui punti all’ordine del giorno della Conferenza).
La tecnica di verbalizzazione delle sedute della Conferenza fotografa perciò o
questioni su cui la posizione delle Regioni si è già formata o questioni su cui le
Regioni stesse chiedono il rinvio; quando la posizione delle Regioni è chiara,
l’espressione di assenso del Governo sulle proposte regionali (che spesso esprimono
osservazioni integrative o fanno riferimento ad emendamenti già concordati in sede
tecnica con i rappresentanti del Governo) o del “Presidente dei Presidenti”, su quelle
del Governo, fissa la decisione.
Per le deliberazioni della Conferenza Unificata vi è un problema in più. L’art.9,
comma 4, del decreto 281 prevede che, “ferma restando la necessità dell'assenso del
Governo… l'assenso delle Regioni, delle Province, dei Comuni e delle Comunità
Montane è assunto con il consenso distinto dei membri dei due gruppi delle
autonomie che compongono, rispettivamente, la Conferenza Stato-Regioni e la
Conferenza Stato-Città ed Autonomie Locali”, aggiungendo che “l'assenso è
espresso di regola all'unanimità dei membri dei due predetti gruppi”, o, in
subordine, “dalla maggioranza dei rappresentanti di ciascuno dei due gruppi”.
Come ha osservato la Corte nella sentenza n.337 del 2001, “nell’organismo
unificato non vi è la totale compenetrazione fra la Conferenza Stato-Regioni e
quella Stato-Città, che, anzi, rimangono organismi fra loro ben distinti”: i due
“corpi” restano separati, ognuno esprimendo distintamente il consenso (unanime o
maggioritario).
Anche in questo caso il verbale rende conto delle posizioni espresse dai due
corpi. Nei rari casi in cui si è proceduto ad una votazione (che si svolge anch’essa in
un modo assai particolare, venendo richiesto ad ogni soggetto presente di esprimersi
sull’oggetto in questione), il verbale registra le singole posizioni, non sommando
rispettivamente i favorevoli e i contrari, ma riportando le più sfumate posizioni
espresse da ogni presente: così, per esempio, a conclusione della delicata
discussione del 14 febbraio 2002 sulla bozza di “devolution” proposta dal Ministro
456
Vedi F. Pizzetti in “Il sistema delle conferenze e la forma di Governo italiana”, in Le regioni, 2000,
481 ss.
363
Bossi, si legge nel verbale457 che “la Conferenza unificata esprime parere… nei
termini delle considerazioni e della proposta emendativa indicate nelle premesse e
in quanto contenuto nei documenti che, allegati al presente atto, ne costituiscono
parte integrante”.
Un elevato tasso di informalità domina, dunque, il funzionamento delle due
Conferenze: ma ciò non deve affatto sorprendere, perché è perfettamente coerente
con ogni altro tratto che le caratterizza. Sono organi essenzialmente politici sia come
composizione che come modalità di funzionamento ed “efficacia” dei propri atti.
Guardiamo in primo luogo alla composizione della Stato-Regioni. Il Presidente
del Consiglio dei Ministri e i Presidenti di Regione possono tutti farsi sostituire da
un membro del rispettivo esecutivo: anzi di fatto le riunioni sono presiedute dal
Ministro degli Affari Regionali, che può invitare alle sedute i Ministri o i
rappresentanti politici delle amministrazioni interessate all’oggetto in discussione.
La Conferenza Stato-Regioni ha una propria struttura amministrativa, posta alle
dipendenze del Presidente, e composta da personale proveniente in pari misura dallo
Stato e dalle Regioni: essa svolge anche le funzioni di segreteria della Conferenza
Unificata. In applicazione dell’art.7 del D.Lgs. n.281/’97 si è istituita una dozzina di
gruppi di lavoro o tavoli tecnici, composti da funzionari delle amministrazioni
statali e regionali, che svolgono “funzioni istruttorie, di raccordo, collaborazione o
concorso alla attività della Conferenza stessa”, e a cui spesso i lavori della
Conferenza fanno rinvio. Le riunioni della Conferenza, come già si è detto, sono
precedute dalla riunione di un organismo informale, la Conferenza dei Presidenti, il
cui Presidente funge poi da portavoce delle Regioni nella Stato-Regioni.
Nella Unificata, i Presidenti di Regione (o i loro delegati) incontrano 23
rappresentanti delle autonomie locali che sono però designati non attraverso
procedure pubbliche, ma dalle organizzazioni associative dei Comuni, delle
Province e delle Comunità Montane. Non è senza significato che il sito internet del
Governo, nelle pagine dedicate alla Conferenza Unificata458, faccia costantemente
riferimento alle posizioni “delle Regioni, dell'ANCI, dell'UPI e dell'UNCEM”, quasi
che esse fossero soggetti equiparabili: mentre non lo sono, non solo per l’evidente
ragione che le prime sono enti pubblici territoriali e le altre mere associazioni
private, ma soprattutto perché le prime sono enti politici che rappresentano gli
interessi collettivi delle comunità regionali, mentre le seconde, per citare dallo
Statuto dell’ANCI, “rappresenta(no) gli interessi degli associati”, cioè gli interessi
de-territorializzati di un determinato livello di governo locale.
Particolare attenzione meritano poi le modalità di funzionamento delle
Conferenze.
Poco ci dice a proposito la disciplina legislativa, a cui già si è accennato.
Innanzitutto nulla viene detto sul quorum strutturale. Per quanto riguarda la
Conferenza Stato-Regioni, la Corte (vedi la sentenza n.206 del 2001) ha avuto modo
di smentire l’idea che, laddove la legge richiede la maggioranza assoluta o
l’unanimità, questa previsione si traduca nella prescrizione di un quorum strutturale
e si rifletta perciò sulla validità delle deliberazioni della Conferenza. Le
argomentazioni della Corte sembrano riflettere l’informalità delle procedure
decisionali della Conferenza: la Corte registra il fatto che la Conferenza dei
Presidenti ha preventivamente concordato all’unanimità il parere, alla presenza della
457
458
Che può essere consultato all’indirizzo http://www.governo.it/backoffice/allegati/15928-792.pdf
http://www.governo.it/Conferenze/c_unificata/index.html
364
maggioranza dei suoi componenti; constata che in sede di Conferenza StatoRegioni, pur non essendo presente la maggioranza dei Presidenti regionali ma
risultando tutti regolarmente invitati, il parere è stato espresso all’unanimità dei
presenti; registra infine il fatto che “nessuna posizione di dissenso rispetto al testo
definitivo dell’intesa risulta essere stata espressa da rappresentanti regionali, in
particolare della Regione ricorrente, nell’ambito della Conferenza, né, peraltro, al
di fuori di essa nei rapporti fra le Regioni ed il Governo”; conclude perciò per la
regolarità della procedura. Infatti, la disposizione del decreto legislativo,
“conformemente alla sua ratio e ad una interpretazione congruente con il principio
di leale collaborazione”, non può essere intesa “nel senso che l’assenza di alcune
Regioni, al limite anche di una sola, pur regolarmente convocate, alla riunione
della Conferenza, non accompagnata da alcuna espressione di dissenso,
eventualmente manifestata anche fuori della sede della Conferenza, possa inficiare
l’assenso delle Regioni e dunque impedire il perfezionamento dell’intesa”.
Per quanto riguarda il problema delle procedure nella Conferenza Unificata, la
lettera dell’art. 9, comma 4, del D.Lgs. n.281, facendo riferimento ai “membri” dei
due gruppi di rappresentanti delle autonomie, potrebbe indurre a ritenere che non sia
in riferimento ai “presenti”, ma agli “aventi diritto” che si debba calcolare la
maggioranza o si riscontrare l’unanimità di consensi. Ma non è così. Con la sentenza
n.507 del 2002, la Corte costituzionale, apre una prospettiva interessante, perché
lascia intendere che potrebbe avere significato il dissenso espresso da una Regione
non solo se formalizzato nei verbali della seduta della Conferenza, ma anche in
qualsiasi altra forma, anche fuori della Conferenza, purché prima della seduta della
stessa. È il massimo riconoscimento dell’informalità delle procedure delle
Conferenze.
Ma, fatte queste riflessioni, c’è da chiedersi quale sia il valore degli atti delle
Conferenze, e per rispondere a ciò bisogna muoversi su i due diversi fronti.
E’ necessario, infatti, chiedersi quali effetti eserciti la deliberazione che si
perfeziona con l’assenso del rappresentante del Governo e dei Presidenti delle
Regioni, nei confronti, rispettivamente, dello Stato e delle Regioni.
Del primo versante, cioè degli effetti nei confronti degli organi dello Stato, si è
già occupata la sentenza n.437 del 2001. Raggelando le aspettative di quanti
avevano scorto nel Sistema delle Conferenze un elemento significativo della stessa
forma di governo, la Corte ha affermato quello che non poteva non affermare459, e
cioè che, in assenza di una precisa prescrizione costituzionale, gli accordi che si
raggiungono in Conferenza non hanno, per forza propria, la capacità di imporsi sui
circuiti decisionali degli organi costituzionali. E d’altronde non potrebbe essere
diversamente. Come potrebbe “una manifestazione politica di intento”, cui si
perviene tramite procedure del tutto informali, cui oltretutto il Governo potrebbe
sottrarsi per motivi di urgenza, condizionare giuridicamente i successivi
procedimenti decisionali degli organi costituzionali.
In uno stato di diritto la volontà politica può produrre effetti giuridici solo
attraverso le procedure formali e tipiche che la Costituzione prescrive per la
produzione di norme.
Fuori da questo schema, neppure lo stesso Governo potrebbe essere
giuridicamente costretto a rispettare intese e accordi conclusi nelle Conferenze
459
Vedi la nota adesiva di P. Caretti, Gli “accordi” tra Stato, regioni e autonomie locali: una doccia
fredda sul mito del “sistema delle conferenze”?, in Le Regioni 2002, 1169 ss.
365
grazie all’assenso del suo rappresentante. Quando invece si rientra nello schema
della disciplina delle fonti normative, il Governo è giuridicamente tenuto ad
acquisire il parere o l’intesa con le Regioni perché è la legge ad imporlo come
vincolo all’esercizio di poteri normativi delegati o autorizzati. Tuttavia, come è
spiegato nella sentenza n.206 del 2001, in cui si discute, appunto, della regolarità di
un’intesa prescritta dalla legge di delega come condizione di validità del decreto
delegato, “la Conferenza non opera qui come collegio deliberante, ma come sede di
concertazione e di confronto, anzitutto politico, fra Governo e Regioni - queste
ultime considerate quale componente complessiva e unitaria”. Essendo il confronto
“volto a raggiungere, ove possibile, una posizione comune”, è decisivo “che esso si
svolga, in conformità al principio di leale collaborazione, con modalità idonee a
consentire a ciascuna delle due componenti di esprimere le proprie posizioni, di
valutare le posizioni dell’altra parte e di elaborare e proporre soluzioni su cui
concordare”, così come non sfugge a censura l’atto del Governo che ritenga assolti
con un “passaggio” in Conferenza gli obblighi di cooperazione che la legge vuole
invece assolti solo attraverso contatti diretti con la singola regione interessata al
provvedimento stesso.
Visto questo primo punto di vista passiamo, adesso al secondo, cioè cerchiamo
di capire per le Regioni, che efficacia hanno le deliberazioni delle Conferenze.
Ed è facile dire, immediatamente, che per esse valgono le stesse considerazioni
appena svolte. In quale modo la volontà espressa dal Presidente della Regione
potrebbe tradursi in un vincolo giuridico, per esempio, per la formazione della
volontà dell’assemblea legislativa?
Ciò potrebbe accadere solo se quanto viene concordato in sede di Conferenza si
traduce in un preciso schema normativo, per esempio in un decreto legislativo o in
un atto di indirizzo e coordinamento.
Altrimenti gli impegni assunti possono valere solo sul piano politico, ossia sul
piano della leale cooperazione: “né il principio di leale collaborazione fra Stato e
Regioni può esser dilatato fino a trarne condizionamenti, non altrimenti
riconducibili alla Costituzione, rispetto alla formazione e al contenuto delle leggi”
(vedi sempre la sentenza n.437 del 2001), siano esse leggi statali o regionali.
Proprio sul piano della leale cooperazione, però, ciò che accade nelle
Conferenze può assumere rilevanza giuridica: nel senso che la sottoposizione alla
discussione in Conferenza di un determinato argomento costituisce una delle forme
più intense ed apprezzabili con cui si realizza il principio di cooperazione.
Attraverso il rafforzamento del ruolo delle Conferenze e il trasferimento ad esse
di larga parte delle procedure di intesa, di accordo e di espressione di parere, il
decreto legislativo n.281 del 1997 ha dotato la cooperazione tra i livelli di governo
di sedi istituzionali e di forme procedurali più precise che in passato, benché ancora
lontane da una completa formalizzazione. Per questo motivo le Regioni (come pure
lo Stato) devono ritenere rispettato il principio di collaborazione quando un
argomento sia trattato in sede di Conferenza. Tutto ciò, con la conseguenza che poi
non possono denunciare l’atto per la presunta violazione di quel principio, né
possono considerare violate le proprie prerogative se non hanno partecipato alla
seduta della Conferenza, regolarmente convocata, o in quella sede non hanno fatto
rilevare il proprio dissenso.
In conclusione, dunque, aver tenuto le Conferenze ad un basso grado di
formalismo delle procedure di deliberazione è stata forse una scelta saggia, in
366
passato. È stato possibile infatti, per questa via, che le uniche sedi istituzionali di
collaborazione introdotte nel nostro sistema si radicassero nella prassi e acquisissero
un ruolo politico di tutto rilievo, senza rischiare che i formalismi procedurali
soffocassero organismi che già tanta difficoltà incontravano nel sopravvivere alla
polarizzazione degli schieramenti e alla lotta politica. Il nostro sistema istituzionale
da tempo viaggia sui binari della sussidiarietà e della cooperazione senza avere,
oltre alle Conferenze, altre istituzioni predisposte a svolgere la indispensabile
funzione di concertazione e di coordinamento decisionale. La stessa riforma del
Titolo V° è stata, come abbiamo visto, del tutto deludente, non essendo riuscita a
introdurre nulla di più del palliativo costituito dall’integrazione, per il resto solo
eventuale, della Commissione Bicamerale per le Questioni Regionali con una
rappresentanza delle autonomie (vorrei ricordare che, nel 2004, ancora tale
Commissione integrata non si è riunita nemmeno una volta).
Tuttavia è ormai evidente che il sistema delineato dalla riforma costituzionale
non può funzionare senza forti istituzioni di coordinamento.
Quindi, la riforma costituzionale aggrava i compiti cui sono chiamate le
Conferenze e rende inevitabile che se ne delineino con maggior precisione il ruolo e
le procedure. Sinora la Corte ha evitato di operare anche su questo versante in
supplenza del legislatore. Lo ha potuto fare aggirando i profili giuridici dei problemi
che le sono stati prospettati, affrontati invece sul piano della mera ricostruzione dei
fatti (come certificati dai verbali della Conferenza). Ma le questioni giuridiche
restano tutte in piedi e sono ben riassunte nella tesi posta dall’Avvocatura dello
Stato nella sua memoria conclusionale presentata in resistenza ai ricorsi risolti con
la sentenza n.507 del 2002: “un’intesa multilaterale regolarmente raggiunta in
seno alla Conferenza Stato-Regioni o alla Conferenza Unificata non potrebbe
essere oggetto di un conflitto di attribuzione da parte di una soltanto delle Regioni
partecipanti alla Conferenza”, perché tale atto “sarebbe solo formalmente riferibile
allo Stato” in quanto “espressione di una convenzione, della quale – se
multilaterale - sarebbero parti stipulanti anche le altre Regioni”; perciò “agli
accordi ed alle intese andrebbe riconosciuta… la capacità di produrre impegni e
vincoli giuridici e non soltanto una valenza politica, sicché nel caso in cui una
Regione, dopo avere partecipato alla Conferenza Unificata, rimanendo in quella
sede isolata, non accetti la volontà ivi collegialmente espressa e proponga un
individuale ricorso per conflitto di attribuzione tendente a demolire quella volontà,
tale ricorso dovrebbe essere dichiarato inammissibile”.
Questa tesi implica però che siano riconsiderate le procedure con cui le
Conferenze operano e decidono, assicurando un livello di formalità adeguato. Il che
è senz’altro auspicabile, ma è un compito che non spetta di certo alla Corte
costituzionale.
Dunque, ciò che è evidente è che la connotazione in chiave federale del Sistema
delle Conferenze si gioca su tre variabili: la sua capacità di farsi interprete degli
interessi territoriali resistendo a contaminazioni partitiche; la sua capacità di ergersi
a riferimento istituzionale dei territori; la sua posizione di forza rispetto al
Governo460.
460
Sui rapporti tra Governo e Regioni vedi G.Berti in “Governo tra Unione Europea e autonomie
territoriali” in Le Regioni 2002 vol.1, pagg.9 ss.
367
Ebbene, se sotto il profilo delle prime due variabili si è avuto modo di osservare
una certa costanza negli ultimi anni, è proprio sulla terza che invece le cose sono
nettamente cambiate (specie tra la XIII° e la XIV° Legislatura). Infatti, nella XIV°
Legislatura gli scenari sono molto variati rispetto alle precedenti sinergie,
faticosamente ma opportunamente costruite. Il Governo ha smesso di ascoltare
puntualmente le istanze regionali, e la compattezza dell’asse Regioni-Governo è
stata più volte incrinata: talvolta per la necessità di ribadire il ruolo forte del premier
e di contenere la carica di legittimazione iniettata nei Presidenti regionali
dall’elezione diretta, talvolta per perseguire il programma politico del Governo nelle
parti in cui era difficilmente conciliabile con la riforma del 2001, tal altra, infine,
perché i singoli Ministri hanno interrotto il dialogo con le Regioni.
Sono stati diversi i tentativi dell’attuale maggioranza di affermare la propria
supremazia sui territori. Significativo è stato il complessivo comportamento del
Governo in sede di attuazione del nuovo Titolo V° Cost., continuando a legiferare in
materie di competenza regionale, rifiutando l’istituzione della Cabina di Regia per
l’attuazione del Titolo V° e cercando di negare, nella finanziaria 2003, i
trasferimenti di risorse per rendere effettivo il federalismo.
Alla luce, dunque, dei numerosi episodi cha hanno caratterizzato gli ultimi anni,
è possibile trarre due conclusioni relativamente al rapporto tra Conferenze e
Governo: una è quella per cui si è dimostrato che, a prescindere dai colori politici il
Sistema delle Conferenze non è divenuto, come si temeva fino a qualche anno fa, un
organo satellite del Governo, bensì si sta, piuttosto, caratterizzando quasi fosse una
sorta di contro-governo; l’altra è quella per cui si è dimostrato che il peso politico
acquisito dalla Conferenza ne ha evitato una regressione a mero organo consultivo,
qual’era fino alla prima metà degli anni ‘90, le cui istanze potevano essere
deliberatamente disattese dal Governo. In effetti quest’ultimo punto merita una
breve riflessione.
La forza del Sistema è essenzialmente politica. Questo significa che fintantoché
il Governo di turno riconoscerà in esso un plusvalore politico da tenersi caro in
garanzia degli equilibri istituzionali, allora ne legittimerà le posizioni.
Ma cosa succederebbe se il nostro sistema istituzionale assistesse alla nascita di
un esecutivo ancora più forte di quello attuale (cosa che accadrebbe, ad esempio, se
passasse l’attuale proposta di riforma costituzionale per una forma di governo a
premierato forte)?
Bè è indubbio che a fronte di un Sistema di Conferenze incapace di condizionare
le scelte governative, le realtà territoriali si porrebbero alla ricerca di canali
alternativi per portare avanti le proprie istanze. E, quale canale, se non quello
parlamentare?
L’esperienza degli anni passati ha dimostrato che i territori, pur in assenza di un
organo incardinato nel Parlamento, sono riusciti ad insinuarsi perfino nel processo
legislativo (addirittura in quello di revisione costituzionale, si pensi alla vicenda
della legge costituzionale n.3 del 2001). Ma questo è solo ciò che appare con
maggiore evidenza, in quanto sono sempre più frequenti le occasioni in cui le
Regioni si recano in Parlamento per audizioni e pareri in relazione ai disegni di
368
legge461. Non è un caso che alcuni Presidenti di Regione abbiano avanzato
l’intenzione di muoversi proprio sul versante parlamentare nell’ipotesi che il
Governo non avesse recepito le loro proposte alla modifica del testo della legge
finanziaria 2003 (dato il fallimento per il 2004 non ci hanno nemmeno pensato).
Tali episodi ripropongono, dunque la questione della rappresentanza regionale in
Parlamento, di cui ho già accennato sopra. In parte per la rottura dell’asse GovernoConferenze, in parte per le obiettive esigenze di coinvolgimento dei territori in
questioni che li riguardano e che vengono discusse in Parlamento, la prassi a
registrato un’espansione della loro presenza anche in tale circuito, rafforzando i
presupposti per un suo riconoscimento normativo. D’altra parte, l’aumento
vertiginoso dei ricorsi regionali alla Corte costituzionale (praticamente raddoppiati
negli ultimi due anni), ha dimostrato che la contrattazione in sede di Conferenza non
riesce ad evitare il conflitto. Il tutto, dunque a ulteriore dimostrazione che il
raccordo centro-periferia a livello governativo, per quanto efficace, sia insufficiente
a contenere la conflittualità anche perché non copre l’area delle leggi approvate dal
Parlamento. A colmare parzialmente tale problematica si era previsto, all’art.11
della legge cost. n.3 del 2001, l’istituzione della Commissione bicamerale integrata
da membri regionali. Essa avrebbe avuto l’indubbio vantaggio di costituire una sede
in cui, di fronte a resistenze governative, le Regioni avrebbero potuto giocare una
carta ulteriore nella contrattazione con il centro, senza doversi destreggiare alla
ricerca di contatti con i capigruppo o a chiedere ogni volta l’ammissione delle
delegazioni regionali da parte delle Commissioni parlamentari. Ma, purtroppo, tale
organo, malgrado i sopravvenuti adeguamenti regolamentari delle Camere, non è
ancora partito462.
In conclusione, osservando che, comunque, il cammino verso l’istituzione di una
Camera delle Regioni non dovrebbe fare tabula rasa del passato, ma dovrebbe
sempre tenere presente l’importanza di un raccordo a livello governativo, si deve
constatare che, in attesa di una nuova e migliore riforma costituzionale in materia, il
cammino del federalismo all’italiana continua ad essere legato al destino del
Sistema delle Conferenze, il quale deve, però, prepararsi a reggere l’urto di un
regionalismo differenziale, del rafforzamento dell’esecutivo e dell’occasionalismo
istituzionale, il tutto nella speranza che una nuova riforma costituzionale in tal senso
sia migliorativa di quella vissuta nel 2001, e risolva i problemi da questa dimenticati
od anche creati. Purtroppo ad oggi, questa sembra una vana speranza, infatti basta
leggere il disegno di legge approvato in Senato il marzo scorso per capire che, a non
smentire una tipica tradizione italiana, la politica si dimostra sempre più sorda alle
vere esigenze della comunità che governa e sempre più preoccupata di far salvi i
propri privilegi e le proprie prerogative.
461
Per citare un episodio, vorrei ricordare l’invio di una delegazione di rappresentanti della Conferenza
dei Presidenti di Regione e Province Autonome, presso le “Commissioni riunite V° (quella del Bilancio,
Tesoro e Programmazione) e VIII° (quella su Ambiente, Territorio e Lavori Pubblici) della Camera dei
Deputati”, per essere ascoltati in relazione all’approvazione della proposta di legge A.C. 1174, recante
“Misure per il sostegno e per la valorizzazione del patrimonio naturale e storico-culturale dei Comuni
con popolazione inferiore ai 5000 abitanti”.
462
I problemi di tale ritardo sono numerosissimi (dalle materie di cui tale organo dovrebbe essere
competente, al determinare le modalità di scelta dei suoi componenti, il loro peso e ruolo, etc..) per cui
rinvio ai numerosi contribuiti pubblicati nel forum di Quaderni Costituzionali il cui indirizzo internet è
web.unife.it/progetti/forumcostituzionale .
369
APPENDICI
370
A) INDICE DEGLI AUTORI CITATI
AA.VV.
1970
- “Scritti in onore di Gaspare Ambrosini” ed. Giuffrè.
1994
- “Manifesto delle Regioni” del 2 marzo 1994 approvato dalla Conferenza dei
Presidenti .
- Fondazione Agnelli, “Un federalismo unitario e solidale”, in XXI sec., n.3.
1994
2003
2003
- “Audizione conoscitiva presso la Commissione statuto del Consiglio
Regionale della Regione Emilia-Romagna”, del 3 marzo a Bologna.
- “Proposta unitaria delle Associazioni degli enti locali per la redazione dello
statuto
regionale”, Bologna, 3 marzo, consultabile sul sito
www.federalismi.it .
AGOSTA STEFANO
2004
2004
- “La Corte costituzionale dà finalmente la… «scossa» alla materia delle intese
tra Stato e Regioni?”, brevi note a margine di una recente pronuncia sul
sistema elettrico nazionale, pubblicato sul forum di Quad.Cost.;
- “Dall’intesa in senso debole alla leale collaborazione in senso forte? Spunti
per una riflessione alla luce della giurisprudenza costituzionale dell’anno
2003 tra molte conferme e qualche novità” pubblicato sul sito
www.federalismi.it .
AMBROSINI GASPARE
1957
- “L’ordinamento regionale e la riforma regionale nella Costituzione italiana”
ed. Zanichelli.
ANDRONIO ALESSANDRO
2003
- “I livelli essenziali delle prestazioni sanitarie nella sentenza della Corte
costituzionale 13-27 marzo 2003 n.88”, pubblicato sul sito
www.federalismi.it.
ANZON ADELE
1986
1998
- “Principio cooperativo e strumenti di raccordo tra le competenze statali e
regionali” pubblicato come osservazione alla sent.151/1986 su Giur. Cost.
,1986, pagg.1039 ss.;
- “Leale collaborazione tra Stato e Regioni, modalità applicative e controllo di
costituzionalità” su Giur. Cost.,1998, fasc.6, pagg..3531 ss.
371
2003
- “Flessibilità dell’ordine delle competenze legislative e collaborazione tra
Stato e Regioni (nota a Corte cost. n. 303/2003)” si Giust. Cost.
BALBONI ENZO
2003
2003
- “Pensieri quasi-francescani sulla forma di governo regionale”, pubblicato nel
forum di Quad. Cost.
- “Il ruolo degli statuti: l’autonomia è la regola; i limiti sono l’eccezione”,
pubblicato il 22 ottobre 2003 sul sito www.costituzionalismo.it .
BALDASSARRE A.
2002
- in Senato della Repubblica, “Costituzione, Regioni e autonomie locali.
Indagine conoscitiva sugli effetti nell’ordinamento della revisione del titolo V
seconda parte della Costituzione”, I, Roma, 2002 pagg.14 ss.
BARBERA AUGUSTO
2001
2001
- “Scompare l’interesse nazionale” del 9 aprile 2001, pubblicato sul sito
www.federalismi.it ;
- “Chi è il custode dell’interesse nazionale?” in Quad. Cost., 2001, pagg.345
ss.
BARBERO MATTEO
2004
2004
- “Dalla Corte costituzionale un «vademecum» per l’attuazione dell’articolo
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www.federalismi.it ;
- “Prime indicazioni della Corte Costituzionale in materia di Federalismo
Fiscale”, pubblicato sul sito www.federalismi.it il 8 gennaio 2004.
BARTOLE SERGIO, MASTRAGOSTINO FRANCO, VANDELLI LUCIANO
1987
- “Le autonome territoriali”, ed. Mulino.
BARTOLE SERGIO - MASTRAGOSTINO FRANCO
1997
- “Le Regioni”, ed. Mulino.
BARTOLE SERGIO
1970
1971
1982
- “A proposito delle interferenze fra programmazione economica nazionale e
competenze regionali”, pubblicato su Giur. Cost., 1970, pagg.181 ss.;
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Riv. Trim. Dir. Publ., ed. Giuffrè, Milano, 1971, pagg.145 e ss.;
- “Ripensando alla collaborazione tra Stato e Regioni alla luce della Teoria
dei Principi di diritto” su Giur. Cost. pagg.2420 ss;
372
1988
2001
2003
2003
- “La Corte costituzionale e la ricerca di un contemperamento fra supremazia
e collaborazione nei rapporti stato e Regioni”, pubblicato su Le Regioni,
pagg.563 ss.;
- “Dopo il referendum di ottobre” su Le Regioni, n.5;
- “Principio di collaborazione e proporzionalità degli interventi statali in
ambiti regionali”, pubblicato su Giur. Cost. il 2003, fasc.1, pagg.259 ss. ;
- “Collaborazione e sussidiarietà nel nuovo ordine regionale (nota a Corte
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BELLETTI MICHELE
2002
2004
- “Il contributo giurisprudenziale alla concreta delineazione dei contorni del
Titolo V. Connessione tra problematiche di diritto intertemporale e questioni
di natura sostanziale”, pubblicato su Le Istituzioni del Fededarlismo del
2002, fasc.6, pagg.1113 ss.;
- “Potere sostitutivo straordinario ed ordinario dopo la sentenza n.43 del
2004” pubblicato nel forum di Quaderni Costituzionali il 9 marzo 2004.
BERTI GIORGIO
1975
2002
- Commentario della Costituzione commento ad art.5 Cost, a cura di G.
Branca;
- “Governo tra Unione Europea e autonomie territoriali” in Le Regioni 2002
vol.1, pagg.9 ss.
BERTOLINI FRANCESCO
1999
- “Osservazioni in tema di conflitti di attribuzione accolti «nei confronti» della
regione ricorrente”, pubblicato su Giur. Cost. fasc.2, pagg.1489 ss.
BESSI DEMIS
2003
- “L’interesse a ricorrere nel giudizio in via principale nel titolo V novellato:
verso una conferma della giurisprudenza antiregionalistica della Corte
costituzionale?”
pubblicato
sia
sul
sito
web.unife.it/progetti/forumcostituzionale e su Le Regioni, 2003, fascicolo
n.6.
BIN ROBERTO - PITRUZZELLA GIOVANNI
2001
- Diritto Pubblico, Torino, pagg.96.
BIN ROBERTO
1996
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- “Veri e falsi problemi del federalismo in Italia”, pubblicato su AA.VV. “Il
federalismo preso sul serio”, Bologna, 1996, pag.76;
- “L’indirizzo e il coordinamento nella Bassanini: ritorno alla legalità”, in Le
Regioni, 1999, pagg.406 ss.;
373
2000
- “Il ruggito del Governatore”, editoriale di Le Regioni n.3-4;
2001
- “Piani territoriali e principio di sussidiarietà” pubblicato su Le Regioni,
2001, fasc.1, pagg.114 ss.;
- “L’interesse nazionale dopo la riforma: continuità dei problemi, discontinuità
della giurisprudenza costituzionale”, pubblicato su Le Regioni, fasc.6,
pagg.1213 ss.;
- “Le Regioni nella Corte Costituzionale: davvero uno scandalo?”, su forum
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- “Le deboli istituzioni della leale collaborazione”, pubblicato su Giur. Cost.,
fasc.6, pagg.4184 ss.;
2001
2001
2002
2002
2002
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2003
- “I conflitti d’attribuzione tra Stato e Regioni (1997-2001)” pubblicato su Le
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- “Il nuovo titolo V°: cinque interrogativi (e cinque risposte) su sussidiarietà e
funzioni amministrative”, tratto dalla relazione dello stesso al Convegno sul
“Nuovo Titolo V°” tenutasi a Bologna il 13 gennaio 2002;
- “Sette anni di riforme ma i nodi rimangono irrisolti”, pubblicato su Le
Istituzioni del Federalismo, n.3-4, pagg.551 ss.
- “Lorenzago: scoutismo o furbismo”, pubblicato sul forum di Giust. Cost.
BOGNETTI GIOVANNI
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- Digesto delle Discipline Pubblicistiche alla voce Federalismo, pag.273 e ss.,
vol. VI.
BUFFONI LAURA
2002
- “Il Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato avente per oggetto atti
legislativi: lo Stato dell’arte in dottrina e giurisprudenza”, pubblicato su
Giur. Cost. a pagg.2269 ss.
CHELI ENZO
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- “Il giudice delle leggi” edizioni Mulino.
CALZOLAIO SIMONE
2003
- “L’ambiente e la riforma del titolo V”, pubblicato sul forum di Quad. Cost.
CAMERLENGO QUIRINO
2003
- “Dall’amministrazione alla legge, seguendo il principio di sussidiarietà.
Riflessioni in merito alla sentenza n. 303 del 2003 della Corte costituzionale”
su forum di Quad. Cost.
CAMMELI MARCO
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- “Dopo il titolo V: quali poteri locali?”, pubblicato su Le Regioni, n.1, come
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374
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CAPOTOSTI PIERO ALBERTO
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- “Guida ragionata di lettura della bozza di riforma costituzionale elaborata
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CERRI AUGUSTO
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CHELI ENZO
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- “Le forme dell’intesa e il controllo sulla leale collaborazione dopo la
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CRISAFULLI VEZIO
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- “Vicende della questione regionale” in Le Regioni, pagg.500 ss.
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- “La difficile transizione. In tema di attuazione della riforma del Titolo V”,
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- “La Consulta parla… e la riforma del titolo V entra in vigore”, pubblicato su
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DE FINA SILVIO
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GIUFFRÈ’ FELICE
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- “La Corte salva la continuità dell’ordinamento giuridico (di fonti di grado
legislativo), ma indebolisce la forza delle nuove norme costituzionali di
modifica
del
titolo
V”,
pubblicato
sul
sito
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GROPPI TANIA
2001
2001
- “I Rapporti Regioni-Enti Locali tra Corte costituzionale e giudici comuni”, su
Le Regioni, fasc.1, pagg.121 ss.;
- “La legge costituzionale n.3/2001 tra attuazione ed autoapplicazione”,
redatto in “La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo
titolo V”, a cura di Olivetti, Torino, pagg.227 ss
LAZZARO FRANCESCO M.
2003
- “La cooperazione fra Regioni comunitarie alla luce della riforma
costituzionale italiana” pubblicato su Le Istituzioni del Federalismo, 2003,
fasc.3/4, pagg.321 ss.
MABELLINI STEFANIA
378
2001
- “I pareri statali come condizione di legittimità delle leggi regionali”,
pubblicato su Giur.Cost. in commento alla sentenza n.135 del 2001.
MANGIA ALESSANDRO
2002
- “Referendum e collaborazione nei rapporti tra Stato e Regioni”, pubblicato
su Giur. Cost., 2002, fasc.3, pagg.1491 ss.
MANGIAMELI STELIO
2001
2002
2002
- “Brevi considerazioni sui meccanismi di conferimento e di sostituzione
previsti dalla legislazione del c.d. federalismo a costituzione invariata”
pubblicato su Giur. Cost., pagg.733 ss.;
- “Corte Costituzionale e Titolo V: l’impatto della riforma” pubblicato su Giur.
Cost., fasc.1, pagg.457 ss.;
- “La nuova potestà statutaria delle Regioni davanti alla Corte Costituzionale”,
pubblicato su Giur. Cost., fasc.4, pagg.2358 ss.
MANARDIS CESARE
2001
2002
2002
- “I poteri sostitutivi statali: una riforma costituzionale con (poche) luci e
(molte) ombre”, in Le Regioni;
- “Quale spazio per la leale collaborazione fra Regioni ed enti locali?”,
pubblicato su Le Regioni, fasc.1, pagg. 150 ss.;
- “Il nuovo regionalismo italiano ed i poteri sostitutivi statali: una riforma con
poche luci e molte ombre” pubblicato su sul forum di Quad. Cost.
MARINI FRANCESCO SAVERIO
2001
2002
- “Il plusvalore dei termini di impugnazione e la degradazione ad inviti delle
intese Stato-Regioni”, pubblicato su Giur. Cost., 2001, fasc.3, pagg.1596 ss.;
- “La Corte Costituzionale nel labirinto delle materie trasversali: dalla
sent.282 alla 407 del 2002”in Giur. Cost., 2002, pagg.2851 ss.
MARTINES – RUGGERI ANTONIO
1984
- “Lineamenti di Diritto Regionale”, ed Giuffrè, Milano.
1987
- “Lineamenti di Diritto Regionale”, ed Giuffrè, Milano.
MARTINES T., RUGGERI ANTONIO, SALAZAR CARMELA
2002
- “Lineamenti di Diritto Regionale”, ed. Giuffrè.
MEZZANOTTE CARLO
379
1979
- “La Corte costituzionale: esperienze e prospettive” in Attualità e attuazione
della Costituzione, Bari, pag.160.
MOR GIANFRANCO
1996
- “Gli accertamenti di invalidità nella confusione dei rapporti Stato-Regioni: in
mancanza di riforme organiche le soluzioni sono pasticciate”, pubblicato su
Le Regioni, vol.5, pagg.995 ss.;
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- “Tra Stato-Regioni e Stato-Città”, editoriale alla rivista le Regioni, pag.513.
MORANA D.
2002
- “La tutela della salute, fra libertà e prestazioni, popola riforma del titolo V. A
proposito della sentenza 282/2002 della Corte Costituzionale”, pubblicato su
Giur. Cost., fasc.3.
MORRONE ANDREA
2003
- “La Corte costituzionale riscrive il titolo V?” su forum di Quad. Cost.;
2003
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fasc.3.
MORTATI COSTANTINO
1976
- “Istituzioni di diritto pubblico”, Padova, ed.1976;
1987
- Enciclopedia del Diritto, alla voce “Costituzione Italiana”, ed. Giuffrè;
1999
- “I Cattolici Democratici e la Costituzione” Ricerca eseguita dall’Istituto
Luigi Sturzo a cura di Antonietti N., De Siervo U. e Malgeri F., nel tomo III,
nell’articolo “L’Ente Regione: problema incompreso”.
MOSCARINI ANNA
2003
- “Titolo V e prove di sussidiarietà: la sentenza n. 303/2003 della Corte
costituzionale” su www.federalismi.it .
MOSCHELLA GIOVANNI
2003
- “Regioni a Statuto
www.federalismi.it .
Speciale
e
Neoregionalismo”,
pubblicato
su
OLIVETTI MARCO
2004
- “Requiem per l’autonomia statutaria delle Regioni ordinarie,” pubblicato sul
Forum di Quaderni Costituzionali.
380
PACE ALESSANDRO
2004
- “La costituzione non è una legge qualsiasi” pubblicato nel forum di Quad.
Cost.
PALADIN LIVIO
1966
1971
- “In tema di atti esecutivi delle riforme economico-sociali dello Stato”, nota a
sentenza n.79/66 su Giur.Cost, pagg.1030 ss.;
- “Problemi legislativi e interpretativi nella definizione delle materie di
competenza regionale”, pubblicato su Foro Amm., III.
PALAZZO ANTONIO
2003
- “Dalla Conferenza Stato-Regioni alla Conferenza Unificata: tappe di
avvicinamento ad una possibile camera territoriale?”, pubblicato sul forum
di Quad. Cost.
PASSAGLIA PAOLO
2003
- “Il funzionamento (e la funzionalità) del giudizio in via principale dopo la
riforma del titolo V: osservazioni a margine della prima sentenza parziale
con riserva”, pubblicato su Foro Italiano, n.9, pagg.2227 e ss.
PASTORI GIORGIO
1994
1999
2001
- “La Conferenza Stato-Regioni fra strategia e gestione”, in Le Regioni,
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- “Il conferimento delle funzioni amministrative fra Regioni ed enti locali”,
pubblicato su Le Regioni, vol.2, pagg. 411 ss.;
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PIERANDREI FRANCO
1987
- in Enciclopedia del Diritto, alla voce “Corte Costituzionale”, ed. Giuffrè.
PINELLI C.
2001
- “I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con
l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento comunitario”, pubblicato
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PITRUZZELLA GIOVANNI – BIN ROBERTO
2003
- in “Diritto Pubblico”, ed. Giappichelli, Torino.
PIZZETTI FRANCO
381
1996
2000
2000
2001
2003
- “Federalismo, regionalismo e riforma dello Stato” ed. Giappichelli, Torino,
pagg.178 e ss.;
- “Il Sistema delle Conferenze e la forma di governo italiana” in Le Regioni,
2000 pagg. 473 ss.;
- “Il sistema delle Conferenze e la forma di governo italiana” in Le Regioni,
pagg. 473 ss.;
- “All’inizio della XIV legislatura: riforme da attuare, riforme da completare e
riforme da fare. Il difficile cammino dell’innovazione ordinamentale e
costituzionale in Italia”, pubblicato come Editoriale su Le Regioni, fasc.3,
pagg.437 ss.;
- “Il ruolo delle istituzioni nel quadro della democrazia della cittadinanza. Il
principio di sussidiarietà nel nuovo art.118”, tratto dal Convegno “118:
Cittadini attivi per una nuova amministrazione”, tenutosi a Roma il 7-8
febbraio, e pubblicato sul forum di Quaderni Costituzionali.
RIMOLI FRANCESCO
1988 - “Il principio di cooperazione tra Stato e Regioni nella Giurisprudenza della
Corte costituzionale: riflessioni su una prospettiva”, pubblicato su Dir. e
Soc., pagg.363 ss.
ROLLA GIANCARLO
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- “La commissione per le questioni regionali nei rapporti tra Stato e Regioni”,
ed Giuffrè, Milano.
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- “Aggiornamenti in tema di processo costituzionale” a cura di, ed.
Giappichelli, Torino.
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- “Costituzione, diritto internazionale e diritto comunitario: le precisazioni al
D.D.L. La Loggia”, pubblicato su www.federalismi.it, il 4 luglio 2002.
RUGGERI ANTONIO – SPADARO ANTONIO
1998
- “Lineamenti di Giustizia Costituzionale” ed. Giappichelli, Torino, 1998.
RUGGERI ANTONIO – SALAZAR CARMELA
2003
- “Le materie regionali tra vecchi criteri e nuovi (pre)ordinamenti metodici
d’interpretazione”, pubblicato, il 4 dicembre 2003, sul sito
www.federalismi.it .
RUGGERI ANTONIO
382
1984
2003
2003
2003
2003
2003
2003
2003
2003
2003
2003
2003
2003
- “Prime osservazioni sulla Conferenza Stato-Regioni”, in Le Regioni,
pagg.707 ss.;
- “Il parallelismo “redivivo” e la sussidiarietà legislativa (ma non
regolamentare…) in una storica (e, però, solo in parte soddisfacente)
pronunzia (Nota a Corte cost. n. 303 del 2003)” su forum Quad. Cost. il 29
ottobre 2003;
- “Il Titolo V della Costituzione tra attuazione e revisione” pubblicato su le
Istituzioni del Federalismo , fasc.3/4, 2003, pagg.461 ss.;
- “Devolution, controriforma del titolo V e uso congiunturale della
Costituzione, ovverosia quando le ragioni della politica offuscano la ragione
costituzionale”, pubblicato il 24 aprile 2003 sul sito www.federalismi.it;
- “Regionalizzazione apparente e politicizzazione evidente della Corte
Costituzionale attraverso la modifica della sua composizione” pubblicato il
19 settembre 2003 sul sito web.unife.it/progetti/forumcostituzionale;
- “Riforma del Titolo V e vizi delle leggi regionali: verso la conferma della
vecchia
giurisprudenza”,
pubblicato
su
web.unife.it/progetti/forumcostituzionale;
- “La Corte e il drafting processuale”, sul sito
web.unife.it/progetti/forumcostituzionale;
- “Potestà legislativa primaria e potestà residuale a confronto” nota minima a
Cort. Cost. n.48 del 2003, pubblicato su www.federalismi.it;
- “L’autonomia statutaria al banco di prova del riordino del sistema regionale
delle
fonti”,
pubblicato
il
28
ottobre
2003
sul
sito
web.unife.it/progetti/forumcostituzionale;
- “La questione dei vizi delle leggi regionali e l’oscillante soluzione ad essa
data da una sentenza che dice … non dice”, pubblicato su forum di Quad.
Cost.;
- “Sei questioni di diritto regionale, tra strategie argomentative e modelli
costituzionali”, pubblicato su www.federalismi.it ;
- “Le materie regionali tra vecchi criteri e nuovi (pre)orientamenti metodici
d’interpretazione”, pubblicato sul sito www.federalismi.it.
- “Il controllo sulle leggi siciliane e il bilanciamento mancato”, pubblicato sul
sito web.unife.it/progetti/forumcostituzionale .
RUGGIU ILENIA
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2003
- “Conferenza Stato-Regioni: un istituto del federalismo sommerso” in Le
Regioni, pag.854 ss.;
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Le Regioni, n.1, pagg.195 ss.
SALA GIOVANNI
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- “Autonomie speciali e poteri statali e poteri statali di sostituzione” pubblicato
su Le Regioni in commento alla sentenza n.177 del 1986.
383
SALOMONE RICCARDO
2003
- “Nessun dubbio sulla collocazione del lavoro pubblico rispetto al riparto
delle competenze delineato dal nuovo art.117Cost.?”, pubblicato il 6 ottobre
2003 sul sito
web.unife.it/progetti/forumcostituzionale .
SALVEMINI LEONARDO
2003
- “Ulteriori riflessioni sulla sentenza della Corte costituzionale n.313/03”,
pubblicato sul sito www.federalismi.it , il 6 novembre 2003.
SALVINI SARAH
2000
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Corte costituzionale: quando il Governo gioca su due tavoli”, pubblicato in
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- “Economia della finanza pubblica”, edizioni CEDAM, 8° ed., Padova.
STERPA ALESSANDRO
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- “Il dibattito sulle intese intergovernative. Profili teorici ed elementi
comparati”, pubblicato su www.federalismi.it;
2002
- “La Conferenza unificata sceglie il regionalismo collaborativo”, su
[email protected];
- “L’attività della Conferenza Stato-Regioni e della Conferenza Unificata nel
periodo 2001-2002”, pubblicato su www.federalismi.it .
2002
STURZO LUIGI
1999
- “I Cattolici Democratici e la Costituzione” ricerca eseguita dall’Istituto Luigi
Sturzo a cura di Antonietti N., De Siervo U. e Malgeri F., nel tomo III, a
pagg.1174 ss., si raccolgono passi di uno scritto di intitolato “La Regione
della Nazione”.
TERESI FRANCESCO
2002
- “Le Istituzioni Repubblicane” lezioni di diritto costituzionale, ed.
Giappichelli, Torino;
384
2003
- “La inaspettata cristallizzazione del sistema di sindacato costituzionale delle
leggi siciliane prevista dallo statuto speciale in una discutibile sentenza della
Corte costituzionale” pubblicato nel forum di Quad. Cost..
TORCHIA LUISA
2002
- “«Concorrenza» tra Stato e Regioni dopo la riforma del Titolo V: dalla
collaborazione unilaterale alla collaborazione paritaria”, pubblicata su Le
Regioni, n.4, editoriale.
TOSI ROSANNA
2003
- “A proposito dell’interesse nazionale” sul forum di Quad. Cost.
TRIMARCHI BANFI FRANCESCA
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- “Il regionalismo e i modelli” in Le Regioni, pagg.255 ss.
VANDELLI LUCIANO
1991
- “La Regione come «centro propulsore e di coordinamento del sistema delle
autonomie locali» e le funzioni delle Province”, pubblicato su Giur. Cost.,
fasc.4, pagg.2738 ss.
VERDE GIUSEPPE
2002
- “Alcune considerazioni sulla potestà legislativa statale e regionale nel nuovo
art.117 della Costituzione ”in Diritto e Società, ed. CEDAM Padova, 2002,
vol.4, pagg.549 ss.
VIOLINI LORENZA
2003
2003
- “Meno supremazia e più collaborazione nei rapporti tra i diversi livelli di
governo? Un primo sguardo (non privo di interesse) alla galassia degli
accordi e delle intese”, editoriale a Le Regioni n.5, pagg.691 ss.
- “I confini della sussidiarietà: potestà legislativa “concorrente”, leale
collaborazione e strict scrutiny (nota a Corte cost. n. 303/2003)” su forum
Quad. Cost.
VOLPI MAURO
2004
- “Quale autonomia statutaria dopo la sentenza della corte costituzionale n.2
del 2004” pubblicato sul sito www.federalismi.it .
385
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1987
1992
- Enciclopedia del Diritto, ed. Giuffrè, alla voce Processo Costituzionale,
vol.XXXVI.
- “Il Diritto Mite”, edizioni Einaudi;
ZANON NICOLO’
2003
- “Prime note sulle «norme generali» statali, sul rispetto dell’interesse
nazionale e sulla legislazione di «rilievo (o di ambito o di interesse)
regionale» nel progetto di riforma dell’art.117 Cost.”, pubblicato sul sito
www.federalismi.it.
386
ELENCO DELLA PRINCIPALE LEGISLAZIONE CITATA
LEGISLAZIONE
COSTITUZIONALE:
- Costituzione della Repubblica Italiana;
- Legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1: Norme sui giudizi
di legittimità costituzionale e sulle garanzie di indipendenza
della Corte costituzionale;
- Legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2: Conversione in
legge costituzionale dello Statuto della regione siciliana,
approvato con R.D.Lgs. 15maggio 1946, n. 455;
- Legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1: Norme integrative
della Costituzione concernenti la Corte costituzionale;
- Legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2: Modificazioni
dell'art. 135 della Costituzione e disposizioni sulla Corte
costituzionale;
- Legge costituzionale 22 novembre 1999, n.1: Disposizioni
concernenti l’elezione diretta del presidente della giunta
regionale e l’autonomia statutaria delle regioni.
- Legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2: Disposizioni
concernenti l’elezione diretta dei presidenti delle Regioni a
statuto speciale e delle province autonome di Trento e di
Bolzano
- Legge Costituzionale 18 ottobre 2001, n.3: Modifiche al titolo
V della parte seconda della Costituzione;
LEGISLAZIONE
ORDINARIA:
- Legge 11 marzo 1953, n. 87: Norme sulla costituzione e sul
funzionamento della Corte costituzionale;
- Legge 16 maggio 1970 n.281: Provvedimenti finanziari per
l’attuazione delle Regioni a Statuto Ordinario;
- Legge 17 maggio 1983 n.217: Legge quadro per il turismo e
interventi per il potenziamento e la qualificazione dell’offerta
turistica;
- Legge 28 febbraio 1985, n. 47: Norme in materia di controllo
dell'attività urbanistico-edilizia. Sanzioni amministrative e
penali;
- Legge 23 agosto 1988, n. 400: Disciplina dell'attività di
Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei
Ministri;
- Legge 18 maggio 1989, n. 183: Norme per il riassetto
organizzativo e funzionale della difesa del suolo;
- Legge 8 giugno 1990, n. 142: Ordinamento delle Autonomie
locali;
387
- Legge 14 giugno 1990 n.158: Norme di delega in materia di
autonomia impositiva delle Regioni e altre disposizioni
concernenti i rapporti finanziari fra lo Stato e le Regioni;
- Legge 6 agosto 1990, n. 223: Disciplina del sistema
radiotelevisivo pubblico e privato;
- Legge 6 dicembre 1991, n. 394: Legge quadro sulle aree
protette;
- Legge 25 marzo 1993, n. 81: Elezione diretta del sindaco, del
presidente della provincia, del consiglio comunale e del
consiglio provinciale;
- Legge 29 dicembre 1993 n. 580: Riordinamento delle camere
di commercio, industria, artigianato e agricoltura;
- Legge 5 gennaio 1994, n.36: Disposizioni in materia di risorse
idriche;
- Legge 21 gennaio 1994, n. 61: Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto-legge 4 dicembre 1993, n. 496,
recante disposizioni urgenti sulla riorganizzazione dei
controlli ambientali e istituzione dell'agenzia nazionale per la
protezione dell'ambiente;
- Legge 8 agosto 1996, n. 421: Conversione in legge, con
modificazioni, del decreto-legge 17 giugno 1996, n. 321,
recante disposizioni urgenti per le attività produttive;
- Legge 15 marzo 1997, n. 59: Delega al Governo per il
conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali,
per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la
semplificazione amministrativa;
- Legge 9 marzo 1989, n. 86: Norme generali sulla
partecipazione dell'Italia al processo normativo comunitario e
sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari;
- Legge 5 giugno 2003, n. 131: Disposizioni per l'adeguamento
dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18
ottobre 2001, n. 3.
DECRETI
LEGISLATIVI:
- D.Lgs. 16 dicembre 1989 n.418: Attuazione della delega di cui
al comma 7 dell’art.12 della legge n.400 del 1988;
- D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29: Razionalizzazione
dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e
revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a
norma dell'articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421;
- Decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517 : Modificazioni al
decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, recante riordino
della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'art. 1 della
legge 23 ottobre 1992, n. 421;
388
- Decreto Legislativo 2 gennaio 1997, n. 9 : Norme di
attuazione dello statuto speciale per la regione Friuli-Venezia
Giulia in materia di ordinamento degli enti locali e delle
relative circoscrizioni;
- Decreto Legislativo 28 agosto 1997, n. 281: Definizione ed
ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente
per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di
Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti
di interesse comune delle regioni, delle province e dei comuni,
con la Conferenza Stato - Città ed autonomie locali;
- Decreto Legislativo 15 dicembre 1997, n. 446: Istituzione
dell'imposta regionale sulle attività produttive, revisione degli
scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell'Irpef e
istituzione di una addizionale regionale a tale imposta, nonché
riordino della disciplina dei tributi locali;
- Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 112: Conferimento di
funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed
agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo
1997, n. 59;
- D.Lgs. 30 marzo 1999, n.96: Intervento sostitutivo del
Governo per la ripartizione delle funzioni amministrative tra
Regioni ed Enti Locali, a norma dell’articolo 4, comma 5,
della legge 15 marzo 1997, n.59 e successive modifiche;
- D.Lgs. 30 luglio 1999, n.303: Ordinamento della Presidenza
del Consiglio dei Ministri a norma dell’articolo 11 della legge
15 marzo 1997, n.59;
- D.Lgs 29 ottobre 1999 n.443: Disposizioni correttive ed
integrative del D.Lgs.112/98, recante conferimento di funzioni
e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli Enti
Locali;
- Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 15 aprile
2000:
Ordinamento delle strutture generali della Presidenza del
Consiglio dei Ministri;
- D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267: Testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali;
- Decreto Legislativo 21 gennaio 2004, n. 35: "Norme di
attuazione dello statuto speciale della Regione siciliana
relative alla partecipazione del Presidente della Regione alle
riunioni del Consiglio dei Ministri".
389
ELENCO DELLA GIURISPRUDENZA CITATA
ORDINANZE
ANNO
NUMERO
1987:
- n.247
1988:
- n.12
- n.163
- n.243
1992:
- n.61
2000:
- n.476
- n.498
2001:
-
n.102
n.382
n.397
n.415
-
n.9
n.26
n.65
n.72
n.73
n.76
n.96
n.182
n.377
n.383
-
n.15
n.22
n.230
n.357
2002:
2003:
390
SENTENZE
ANNO
1957
NUMERO ANNO
- n.38
1958
1976
- n.175
ANNO
1986
1977:
- n.58
1959
NUMERO ANNO
- n.151
1989
- n.152
- n.155
- n.153
1981:
NUMERO
- n.337
- n.338
1990:
- n.177
- n.85
- n.92
- n.195
- n.157
- n.94
- n.271
- n.220
- n.04
- n.95
- n.273
- n.13
- n.148
- n.294
- n.30
1964
1966
- n.181
- n.79
- n.116
1968
- n.46
- n.143
- n.73
- n.116
- n.150
- n.64
- n.212
- n.162
- n.87
- n.343
- n.239
- n.167
- n.453
- n.192
- n.482
- n.201
- n.483
- n.210
- n.487
- n.307
1984:
1969
- n.21
- n.49
1983:
- n.92
1991:
1987:
1982:
1967
- n.39
- n.216
- n.136
- n.188
- n.304
- n.123
- n.150
- n.219
- n.399
- n.188
- n.603
- n.245
- n.433
- n.379
- n.299
- n.617
- n.473
1970
- n.18
1985:
1988:
1992:
1993:
- n.20
- n.94
- n.177
- n.204
- n.110
- n.206
- n.211
- n.290
- n.214
- n.212
- n.411
- n.242
- n.214
- n.245
- n.217
- n.116
- n.356
- n.302
- n.124
- n.357
- n.400
- n.212
- n.14
- n.358
- n.418
- n.338
- n.13
- n.359
- n.470
1971
- n.39
1972
- n.138
1973
1974
NUMERO
- n.225
- n.747
- n.269
- n.1010
1994
391
ANNO
NUMERO
1995
ANNO
NUMERO ANNO
2001
NUMERO ANNO
2003
NUMERO
2004
- n.127
- n.55
- n.13
- n.02
- n.157
- n.110
- n.37
- n.03
- n.333
- n.111
- n.39
- n.13
- n.408
- n.206
- n.48
- n.17
- n.482
- n.229
- n.49
- n.27
- n.520
- n.288
- n.88
- n.37
- n.337
- n.93
- n.43
- n.437
- n.94
- n.69
- n.103
- n.70
- n.17
- n.186
- n.71
- n.18
- n.87
- n.196
- n.72
- n.83
- n.106
- n.197
- n.73
- n.242
- n.282
- n.201
- n.74
- n.286
- n.304
- n.221
- n.103
- n.306
- n.228
- n.112
- n.332
- n.376
- n.253
- n.338
- n.407
- n.274
- n.398
- n.422
- n.296
- n.408
- n.507
- n.297
- n.510
- n.300
- n.533
- n.301
1996
- n.26
- n.156
1997
1998
1999
- n.171
2002
- n.382
- n.302
- n.384
- n.303
2000
- n.311
- n.98
- n.313
- n.347
- n.314
- n.348
- n.329
- n.378
- n.334
- n.496
- n.370
- n.376