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Editoriale di Marco Ferrando Maurizio Landini ha varato la cosiddetta “coalizione sociale” contro il governo Renzi. Naturalmente l'opposizione al governo Renzi è cosa buona. Anzi ottima. Siamo in presenza di un governo reazionario di enorme pericolosità. Un governo che assale i diritti del lavoro per conto di Confindustria. Che promuove una riforma elettorale ed istituzionale mirata a concentrare nelle mani del Premier tutti i poteri. Che per di più ricerca e coltiva un metodo di governo “bonapartista”, basato sulla relazione diretta fra Capo e masse, fuori e contro la tradizionale dialettica istituzionale della democrazia borghese. Un anno fa denunciammo controcorrente i caratteri particolarmente reazionari del renzismo, quando tanti a sinistra lo presentavano come pura continuità del governo Letta. O quando addirittura Landini corteggiava Renzi offrendosi come suo interlocutore privilegiato nel nome della “svolta”. Ora che la svolta s'è manifestata in direzione opposta, contro il movimento operaio, tutti i corteggiatori di ieri si presentano come oppositori della prima ora, Landini in testa. E' il caso di dire: meglio tardi che mai. Se poi rivendicano la coalizione sociale più ampia contro il governo, ancora meglio. Sono anni che rivendichiamo l'esigenza del fronte unico del lavoro contro il fronte unico borghese. Se si vuole chiamare coalizione sociale, non c'è problema. Non poniamo certo questione di termini. Tuttavia il problema c'è, ed è di sostanza. Cosa intenda Landini per coalizione sociale non l'ha affatto chiarito. Ed anzi la proposta viaggia nella nebbia fitta dell'ambiguità. L'unica cosa chiara è ciò che la proposta non è. Non è una proposta di mobilitazione e di lotta: tanto è vero che non si combina con alcuna scadenza o qualsivoglia prospettiva di azione di massa. Non è una proposta politica di partito: ciò che Landini si affanna ad escludere. Ma allora cos'è? La semplice rivendicazione di un concetto retorico di unità del lavoro? Una generica “associazione delle associazioni” come si è detto? Nè l'una né l'altra rispondono ai due problemi concreti che stanno di fronte al movimento operaio: come costruire un'opposizione vera, capace di arrestare la valanga avversaria e strappare risultati; e come legare l'opposizione alla prospettiva di una vera alternativa. Qualunque Una lotta un partito proposta aggiri questi due nodi è un inganno per i lavoratori. Può forse servire a Landini per guadagnare tempo per decidere se puntare sulla conquista della segreteria CGIL o buttarsi in politica. Ma il movimento operaio non ha tempo da perdere nel seguire calcoli o attese dei suoi dirigenti. Ha bisogno di una proposta chiara, e di una prospettiva chiara. E ne ha bisogno ora. Innanzitutto una proposta di lotta. L'autunno CGIL contro il Job act di Renzi si è risolto in un fallimento per responsabilità dell'intero gruppo dirigente del sindacato. Nessuna piattaforma chiara di mobilitazione. Nessuna svolta reale delle forme di lotta. Uno sciopero generale di facciata il 12 dicembre convocato per chiudere la lotta. Nessuna continuità e prospettiva d'azione dopo di allora. Ci si può meravigliare se il governo ha proseguito indisturbato la propria offensiva umiliando lo stesso sindacato ed estendendo la libertà di licenziamento arbitrario ai licenziamenti collettivi? segue a pag.2 Un expo stretto tra cemento e speculazione di Luca Prini Tra poco Expo aprirà le porte. I lavori di sistemazione dell’area e per le infrastrutture sono in ritardo, accelerazioni dell’ultimo momento metteranno il sito in condizioni di aprire ma non al riparo da un prevedibile insuccesso. Ripercorrere la storia di Expo serve a capire in che modo è stata gestita questa vicenda, che ha inizio il 31 marzo 2008 quando il Bie ha assegnato l’or- ganizzazione della manifestazione a Milano. Il 1° dicembre dello stesso anno viene fondata Expo 2015 Spa, il cui amministratore delegato è Giuseppe Sala. La Spa è composta da Governo (40%), Comune di Milano (20%), Regione Lombardia (20%), Provincia di Milano (10%) e Camera di Commercio (10%). Scopo sociale la realizzazione, gestione ed organizzazione dell’Expo; è assegnataria dei finanziamenti pubblici degli Enti finanziatori. segue a pag.3 SINDACATO CONTRO LO SCIOPERO SOCIALE: per non disperdere il punto di vista di classe nella nuova composizione del lavoro a pag 9 Da Mafia Capitale alle grandi opere inutili: La COOP non sei (più) tu di Michele Terra Le vicende di Roma Mafia Capitale, così come altri piccoli-medi-grandi scandali locali, hanno portato alla ribalta il ruolo non proprio limpido di quello che fu il mondo delle cosiddette cooperative rosse, che nel corso degli ultimi decenni ha conosciuto una radicale modifica di senso, prospettive e valori. segue a pag.4 INTERNAZIONALE LA CONTRATTAZIONE IN FINCANTIERI DOPO IL JOBS ACT Intervista a Stefano Fontana, del Direttivo FIOM di Venezia e RSU a Marghera a pag. 8 Speciale: Settant’anni fa la liberazione dal nazifascismo Ad un anno da Maidan a pag 10 DALLA RIVOLUZIONE MANCATA ALLA RESISTENZA TRADITA a pag 6-7 UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015 POLITICA INTERNA segue dalla prima pagina Il fronte unico è prezioso, ma se si concreta nell'azione di massa. E l'azione di massa è utile se si pone sullo stesso terreno di radicalità dell'avversario. Si promuova un' assemblea nazionale di delegati eletti nei luoghi di lavoro, in ogni categoria del pubblico e del privato, a partire dalle fabbriche. Si definisca in quella sede una piattaforma di lotta generale capace di unificare il lavoro salariato, i precari, i disoccupati. E su quella piattaforma si organizzi una mobilitazione vera, continuativa, radicale, che ricomponga il movimento dei lavoratori e getti sul piatto della bilancia la forza sociale della classe. E' l'unica via per riaprire la partita e strappare risultati. E' l'unica via per sbarrare la strada allo stesso progetto bonapartista del governo. Perché senza l'irruzione sul campo dell'azione di massa, ci si avvia al plebiscito confermativo sulla riforma istituzionale del 2016 nelle condizioni peggiori. A tutto vantaggio di una stabilizzazione reazionaria. In secondo luogo c'è bisogno di una proposta politica chiara. Landini afferma che i lavoratori non hanno oggi una propria rappresentanza politica? Non saremo certo noi a negare questa realtà. Ma allora si tratta di costruirla senza infingimenti e su basi chiare. A latere dell'operazione “coalizione sociale” fioriscono i riferimenti a Syriza e Podemos assunti a faro luminoso nel buio della sinistra italiana. E' il caso di dire: non bastano le illusioni riformiste del passato, ogni volta salutate come “svolta” e ogni volta smentite dai fatti? Fu salutato Jospin, fu salutato Zapatero, fu salutato Hollande, ogni volta cercando in qualche socialdemocrazia “progressista” la propria stella cometa. Oggi, in forme diverse, lo spartito si ripete con Syriza. Eppure sono bastati due mesi a confermare la cruda realtà: non esiste uno spazio di riforma sociale progressiva al tavolo negoziale coi capitalisti e con l'Unione capitalistica europea. La pretesa di Tsipras di soddisfare ad un tempo i lavoratori greci e gli stati strozzini d'Europa si è rivelata un inganno. Le promesse elettorali sono rimaste lettera morta. Un governo di coalizione con la destra di Anel amministra di fatto la continuità del commissariamento della Grecia sotto la sorveglianza dei suoi creditori. Sarebbe questa la svolta? La verità è che non c'è alternativa reale alla lotta anticapitalista per un governo dei lavoratori, in Grecia come in Italia come in Europa. Ma per questa prospettiva è centrale costruire un partito di classe su basi anticapitaliste e rivoluzionarie. Un partito che si batta per la più ampia unità di lotta di tutti gli sfruttati ma organizzi al tempo stesso la loro avanguardia attorno a un progetto coerente. Un partito che non illuda le coscienze ma combatta ogni illusione. Un partito che in ogni lotta immediata coltivi la necessità della rivoluzione sociale quale unica vera alternativa. Il Partito Comunista dei Lavoratori costruisce ogni giorno questo partito. PAGINA 2 Renzi e il futuro: IL RISCHIO DI UNA STABILIZZAZIONE REAZIONARIA di Marco Ferrando Contrariamente alle previsioni frettolose di diversi commentatori superficiali, la crisi del cosiddetto patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi non ha affatto destabilizzato il governo. Siamo in presenza semmai di un processo di assestamento e consolidamento del renzismo. Un processo non lineare, né irreversibile, ma chiaro nelle sua linea di marcia. Fuori dall’area di governo non emergono, nell’immediato, insidie particolari per l’esecutivo. La crescita della tendenza lepenista del salvinismo avviene a scapito del centrodestra e ne favorisce un processo di disgregazione che percorre sia Forza Italia che NCD. Il grillismo, che pure preserva il grosso del proprio consenso sul piano politico generale, registra da tempo un arresto della propria dinamica espansiva, dentro la morsa tra Renzi e Salvini. Le elezioni regionali dovrebbero assicurare al PD di Renzi un successo politico relativamente agevole, a tutto beneficio del consolidamento del governo. Dopo le regionali non è affatto esclusa né la possibilità di una nuova svolta di Berlusconi in direzione di una riapertura a Renzi sul terreno della riforma istituzionale ed elettorale, né in caso contrario una scissione pro Renzi di una parte di senatori di Forza Italia guidata da Verdini. Nell’un caso come nell’altro lo spazio di manovra del capo del governo potrebbe nuovamente allargarsi. lamentare delle minoranze interne sui terreni decisivi della riforma elettorale e istituzionale. Ma il campo delle minoranze appare quanto mai composito e disarticolato, privo di progetto e di sbocco, sia complessivamente che distintamente. E Renzi ha già avviato nei loro confronti un’operazione a tenaglia. Da un lato una nuova corrente interna renziana aperta alla confluenza di tutti i transfughi disorientati delle minoranze all’insegna di una spregiudicata campagna acquisti. Dall’altro lato la proposta ufficiale di una camera di compensazione per le minoranze all’interno del PD attraverso l’abolizione delle primarie per la elezione dei segretari regionali e la definizione di un partito meno all’americana e più strutturato. In altri termini Renzi offre in cambio dell’obbedienza istituzionale e parlamentare un po’ di posti garantiti nella burocrazia di partito e nelle liste elettorali future. Tutto lascia credere che il dispositivo d’approccio sarà efficace. Cosa significa tutto questo? Che Renzi ha buone possibilità di incamminarsi verso l’approvazione della riforma elettorale ed istituzionale, e verso il referendum confermativo sulla riforma. Attenzione: è un passaggio chiave. Renzi vede nel referendum del 2016 l’occasione di un plebiscito. L’investitura del Bonaparte da parte del popolo plaudente. Dopo di che potrà decidere se precipitare in elezioni anticipate per incas- merito avendo incassato la distruzione dell’articolo 18 per i nuovi assunti, combinandola per di più con l’offerta di denaro fresco ai padroni attraverso l’azzeramento dei contributi previdenziali. Ma anche vincente sul piano politico. Renzi ha dimostrato al padronato che sa vincere in campo aperto contro il movimento operaio, sottraendosi al rituale della concertazione. Ha dimostrato ai governi borghesi d’Europa che è in grado di portar loro lo scalpo delle conquiste operaie senza arrischiare la tenuta del governo ed anzi consolidandolo. Su entrambi i lati rafforza le proprie posizioni. L’affidamento di Confindustria, un anno fa assai dubbio, è ormai acquisito. E in sede europea il consolidamento politico del governo e i risultati riportati nello scontro con il lavoro, accrescono obiettivamente la forza negoziale del capitalismo italiano nella definizione degli accordi di bilancio e più in generale negli equilibri continentali. A beneficio ulteriore dell’immagine del governo sul piano interno. Il cambio di fase è netto. In autunno lo scontro sociale sul Job act aveva provocato un danno elettorale consistente al PD, come si è visto nella clamorosa astensione del voto di sinistra nelle elezioni regionali emiliane. La conclusione di quel ciclo di lotta ha obiettivamente rafforzato l’esecutivo, uscitone vincente. Non significa necessariamente recupero di consenso. IL RAFFORZAMENTO POLITICO DEL RENZISMO sare finalmente un parlamento a propria immagine e somiglianza. Oppure prendersi tutta la legislatura con l’attuale parlamento sotto schiaffo. Nell’un caso come nell’altro il 2016 si prefigura come passaggio decisivo di una possibile stabilizzazione reazionaria. Significa arginamento della sua crisi. Anche questo un fattore di stabilizzazione. Dentro l’area del governo, si approfondisce la crisi dell’area “centrista” (NCD, Area Popolare). Ma senza ricadute destabilizzanti. La parte di NCD che sogna lo sganciamento dall’abbraccio soffocante del PD in funzione della ricomposizione con Forza Italia è frenata dalla crisi di Forza Italia e dall’incertezza del suo rapporto con Renzi. Un’altra parte ormai considera apertamente la prospettiva di una propria assimilazione progressiva al renzismo. Il nodo più delicato per Renzi si concentra all’interno del PD. La crisi del patto del Nazareno ha sicuramente rafforzato il peso par- LA STABILIZZAZIONE DEL GOVERNO SUL FRONTE SOCIALE Gli elementi di possibile rafforzamento del renzismo sono rintracciabili anche su altri versanti. Per responsabilità dei gruppi dirigenti sindacali, il governo è uscito vincente dallo scontro sociale di autunno. Vincente nel A questo si aggiunge una congiuntura economica migliorata. E’ presto per parlare di ripresa capitalista sul terreno decisivo della produzione. Ma l’operazione “quantitative easing” della BCE ha abbattuto gli interessi sul debito pubblico. La svalutazione dell’euro sul dollaro e il calo del prezzo del petrolio, fra loro combinati, agiscono direttamente e indirettamente nella medesima direzione. La risultante è un possibile allargamento delle capacità di spesa del governo. Si parla di un possibile “tesoretto” di 10 miliardi. La verifica sarà nel Def prossimo. Il governo lo investirà come in passato in qualche operazione populista sul terreno sociale, come fu un anno fa con gli 80 euro? E’ presto per dirlo. Ma non si può affatto escluderlo. Un Capo di governo non convenzionale, proiettato in un progetto bonapartista e alla ricerca di investitura popolare sarà attento a sfruttare ogni occasione di facile consenso. A vantaggio innanzitutto proprio e a beneficio della stabilità politica borghese. IL RIEQUILIBRIO FRA I POTERI Il governo non limita l’azione di consolidamento alla sfera parlamentare ed economica. La sfera istituzionale è un terreno essenziale del suo operato. Non solo in termini di riforma. Ma in termini di riequilibrio fra i poteri dello Stato. La riforma giudiziaria con l’approvazione della “responsabilità civile dei giudici” è parte di un riequilibrio complessivo dei rapporti di forza tra esecutivo e potere giudiziario. Nessun governo precedente aveva osato sfidare la magistratura. Berlusconi che ci aveva provato ne è uscito, come si è visto, con le ossa rotte. Se vi è riuscito il governo Renzi in modo relativamente indolore, per di più col viatico niente affatto scontato di parte della stampa borghese giustizialista (La Repubblica), lo si deve a un solo fatto: la forza politica superiore del renzismo rispetto ai governi del passato. E lo stesso vale per la prospettata riforma della RAI, incentrata su un progetto di più forte e diretto controllo governativo sull’informazione pubblica. Nessun altro esecutivo si era avventurato su questo terreno. Renzi può farlo. Anche questo è parte del progetto bonapartista del Capo. Intanto lo stesso Capo fortifica le proprie posizioni e relazioni con gli interessi vitali del grande capitale. Operazione Expo; riforma delle banche popolari con la loro apertura al mercato finanziario; varo dell’operazione banda larga e del relativo grande mercato di investimento; riorganizzazione dei rapporti col gruppo Berlusconi nel campo della televisione e dell’editoria (Mondadori/RCS), sono tutti tasselli di un’azione di progressivo allargamento e sfondamento del renzismo nel cuore della classe dominante. Che è parte del suo rafforzamento complessivo. La risultante d’insieme è una sola. Senza una svolta di lotta di massa, unitaria e radicale, il progetto reazionario avviato continuerà a marciare e a rafforzarsi. Solo un esplosione sociale può squadernare dal basso lo scenario politico e rovinare i sogni di Renzi. L’ingovernabilità di un vero conflitto di classe è l’unico antidoto alla governabilità del capitale. L’unica barriera contro la valanga. L’unica via di una vera alternativa. UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015 POLITICA INTERNA U N E X P O ST R E T TO T R A C E M E N TO E S P EC U L A Z I O N E di Luca Prini Tra poco Expo aprirà le porte. I lavori di sistemazione dell’area e per le infrastrutture sono in ritardo, accelerazioni dell’ultimo momento metteranno il sito in condizioni di aprire ma non al riparo da un prevedibile insuccesso. Ripercorrere la storia di Expo serve a capire in che modo è stata gestita questa vicenda, che ha inizio il 31 marzo 2008 quando il Bie ha assegnato l’organizzazione della manifestazione a Milano. Il 1° dicembre dello stesso anno viene fondata Expo 2015 Spa, il cui amministratore delegato è Giuseppe Sala. La Spa è composta da Governo (40%), Comune di Milano (20%), Regione Lombardia (20%), Provincia di Milano (10%) e Camera di Commercio (10%). Scopo sociale la realizzazione, gestione ed organizzazione dell’Expo; è assegnataria dei finanziamenti pubblici degli Enti finanziatori. La scelta su dove tenere l’Expo ricade sull’area di Rho-Fiera, una delle aree più trafficate, congestionate ed inquinate d’Italia, stretta tra la ferrovia, l’autostrada, la tangenziale e collocata proprio di fianco al polo fieristico. Questa scelta è un grosso regalo a Fiera Milano, proprietaria di gran parte dei terreni, nel comitato promotore di Expo 2015 e socia di Arexpo. La richiesta di tenere Expo nei padiglioni della Fiera, una struttura inaugurata nell’autunno del 2005 che dispone di 345mila metri quadri di spazi espositivi coperti e 60mila all’aperto, è stata ignorata in quanto la valorizzazione fondiaria dell’area ed il finanziamento di risorse pubbliche sono i veri obiettivi di Expo (tra costi dell’area, costi di realizzazione e per le infrastrutture superano i 10 miliardi). Il 1° giugno 2011, dopo la vittoria di Pisapia a Milano, viene costituita la società Arexpo, che ha acquisito il milione di metri quadri su cui sorgerà il sito. Al momento della sua costituzione le partecipazioni erano: Regione Lombardia col 34,67% del capitale, Comune di Milano col 34,67%, Fondazione Fiera Milano col 27,66%, Comune di Rho col 1% e Provincia di Milano con il 2%. L’ingresso di Fiera Milano in Arexpo, sostenuto dall’ex presidente della regione Formigoni, oltre a garantire forti legami con la Compagnia delle Opere, ha fatto si che quando si è proceduto all’acquisto delle aree i proprietari di una parte di quei terreni erano anche tra i compratori. Tra i compiti istituzionali affidati Arexpo si occuperà “della valorizzazione e la riqualificazione del sito espositivo….anche attraverso la possibile alienazione del compendio immobiliare di proprietà della Società nella fase post-Expo”. Già, perché comunque vadano le cose, dopo il 31 ottobre quell’area sarà alla mercé di forti appetiti speculativi. All’avvio dei lavori, il 24 ottobre 2011 l’impresa CMC di Ravenna (un colosso del mondo delle cooperative, fa parte di LegaCoop politicamente vicina al PD) ha vinto l’appalto per la rimozione delle interferenze (ovvero la pulizia del terreno prima della fase di costruzione), con un appalto al massimo ribasso di oltre il 42%; 58 milioni su una base d’asta di 90 (fonte: Sole 24 Ore). Un anno dopo l’aggiudicazione ha chiesto ed ottenuto a Expo Spa 30 milioni di extra-costi per “lavori non previsti”: la cifra esatta per tornare alla base d’asta iniziale. La CMC lavora anche alla costruzione del Tav in Val di Susa, alla base Usa Dal Molin, al nuovo porto commerciale di Molfetta, tutte oggetto di inchieste della magistratura. Alla rimozione delle interferenze lavorava anche la Ventura Spa, esclusa dal cantiere a gennaio 2013 per infiltrazioni mafiose. Il 14 settembre 2012, l’impresa ATI Mantovani si aggiudica l’appalto per la costruzione della piastra (ovvero la base su cui viene costruito il sito Expo), sempre col sistema al massimo ribasso scendendo al 41,8% dai 272 milioni iniziali ai 165 milioni. Azienda veneta politicamente vicina a Forza Italia ed all’ex presidente della regione Veneto Galan, la Mantovani ha lavorato alla costruzione della tangenziale di Padova, della terza corsia della tangenziale di Mestre e del Mose a Venezia; il presidente Piergiorgio Baita sarà arrestato il febbraio successivo nell’ambito di un inchiesta sul Mose. Expo Spa si avvale per la gestione di molti appalti (gestione dei bandi, direzione lavori…) di due aziende pubbliche che operano nel campo: MM (Metropolitana Milanese) e Infrastrutture Lombarde (controllata dalla Regione Lombardia). MM, Spa controllata dal Comune di Milano, è nata nel 1955 per progettare la metropolitana di Milano, si occupa di trasporti, ingegneria e servizio idrico. Ha il compito di gestire gli appalti dei lavori sul sito, coordinare i lavori di bonifica e dirigere i lavori del canale della Via d’acqua, uno dei più assurdi, dispendiosi ed inutili lavori previsti nell’area e fortemente contrastato da Comitati locali. Nel 2013 le imprese Maltauro e Tagliabue si aggiudicano l’appalto per i lavori “Via d’acqua” con un offerta di 42 milioni, appalto pilotato e per il quale l’ex sub-commissario di Expo Antonio Acerbo (già direttore generale di palazzo Marino con la giunta Moratti), il costruttore Giandomenico Maltauro e Andrea Castellotti (già direttore generale della società Tagliabue poi promosso a facility manager del Padiglione Italia) hanno raggiunto un accordo con la Procura per il patteggiamento delle loro condanne. Infrastrutture Lombarde è invece la società creata dalla Regione Lombardia nel 2004; gestisce i maggiori appalti pubblici regionali per un giro di affari di 11 miliardi. Il direttore generale è sempre stato Antonio Rognoni fino a poco prima del suo arresto per falso, truffa e turbativa d’asta. Uno degli appalti contestati riguarda proprio Expo: 1,2 milioni di euro sugli incarichi di consulenza legale. Infrastrutture Lombarde possiede anche il 50% di CAL la società concessioni autostradali lombarde che è ente concedente di alcune autostrade di nuova costruzione come la BRE.BE.MI., TEM (tangenziale est esterna di Milano) e Pedemontana. La gran parte di queste opere stradali ed altre minori saranno attrattive di ulteriore traffico su gomma ed inquinamento e traggono da Expo velocizzazione negli iter autorizzativi e nei finanziamenti. Tutto quanto detto conferma che Expo ha mosso enormi interessi in un sistema di spartizione bipartisan tra Centrodestra e Cen- trosinistra, ben sintetizzato dalla presenza dei ministri Maurizio Lupi (area Cl) alle infrastrutture e Giuliano Poletti (Pd, uomo di Legacoop) nel governo. Sistema che non ha niente a che vedere con i bisogni del territorio e della città. Sul versante del lavoro le cose non vanno meglio: è ormai chiaro che la promessa dei 70mila posti di lavoro garantiti da Expo è una bugia, mentre affiorano lavoro precario, lavoro nero, mancanza di diritti e sicurezza, ciò anche grazie agli accordi approvati dai sindacati confederali. E’ previsto un massiccio impiego di volontari inducendo migliaia di giovani a prestare il proprio lavoro gratis in cambio di una menzione da citare nel curriculum. Escludendo così la possibilità di assumere i lavoratori precari del comune, che già lo scorso luglio hanno protestato per l’impiego di volontari presso gli info-point, il Museo del ‘900, Palazzo Reale, la GAM ed il Castello. Era del resto del tutto evidente che lo sviluppo dell’occupazione combinato con i previsti lavori di infrastrutture fossero scuse utilizzate per argomentare una presunta “utilità” di Expo. Che senza dubbio si è rivelato utile, ed abbiamo visto a chi. Oggi è chiaro che Expo verrà pagato socialmente dai tagli alla spesa pubblica (vedi Legge 133/2009), dalle privatizzazioni, dalla devastazione dei territori agricoli e a parco. E che rappresenta una spesa insostenibile, tanto più dentro la crisi degli Enti locali. La Giunta Pisapia, insediata nel maggio 2011, non ha fatto nulla per allontanare questa iattura, anzi. Il 12 luglio dello stesso anno la Giunta approva l’Accordo di Programma sulle aree Expo ed a settembre, fatto un taglio di 54 milioni di euro al bilancio comunale (con tagli ai servizi sociali) addirittura chiede al capo dello Stato di potere sforare il patto di stabilità, non per poter garantire i servizi ai cittadini più bisognosi ma… per potere fare l’Expo! Ormai è deciso e si deve fare, questa la logica che abbraccia la Giunta. Con buona pace di chi si era illuso sulla svolta della “primavera arancione”. Così da anni la città si prepara al grande evento: riduzione dei servizi, chiusura di spazi sociali ed aggregativi, aumenti tariffari e peggioramento delle condizioni generali di salute e di vita nell’area metropolitana. Profonde ferite segnano il territorio e ne condizioneranno negativamente – in combinazione con il Pgt adottato – lo sviluppo nei prossimi 50 anni. Tutto a vantaggio di cementificatori e cordate speculative. A dimostrazione del fatto che il capitale, nel momento della crisi, sposta i propri investimenti dove sono più garantiti (dai soldi pubblici). Il 31 ottobre Expo finirà, ma non i disastri da esso procurati. Per parte nostra non verrà meno la battaglia contro questa e altre grandi opere. PAGINA 3 UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015 POLITICA INTERNA DA MAFIA CAPITALE ALLE GRANDI OPERE INUTILI: LA COOP NON SEI (PIÙ) TU di Michele Terra Le vicende di Roma Mafia Capitale, così come altri piccoli-medi-grandi scandali locali, hanno portato alla ribalta il ruolo non proprio limpido di quello che fu il mondo delle cosiddette cooperative rosse, che nel corso degli ultimi decenni ha conosciuto una radicale modifica di senso, prospettive e valori. Il mondo antico C’era una volta, come in una bella favola per bambini, il movimento cooperativo che nasceva da una costola del movimento dei lavoratori, della terra così come delle fabbriche, per porsi sul terreno del miglioramento immediato delle condizioni di vita del proletariato. E’ una storia lunga quella del movimento cooperativo in Italia, che affonda le sue radici nella fine dell’800 – ma alcune forme più primitive sono addirittura antecedenti – per aumentare la propria consistenza nei decenni del ‘900, di pari passo all’avanzare delle forme politiche e sindacali organizzate delle classi subalterne. Sono due le grandi categorie della cooperazione: le coop di consumo, che si pongono il problema di fornire ai soci beni di prima necessità – in primo luogo cibo - a prezzi calmierati rispetto il c.d. libero mercato; le coop di produzione-lavoro che associando lavoratori, spesso con varie specializzazioni, servono beni e servizi. Accanto a questi due tipi di coop si sviluppa il mutuo soccorso, con l’obiettivo, dietro il pagamento di basse quote associative, di garantire le prime forme di assistenza e previdenza sociale per i lavoratori e le loro famiglie. Ma il movimento cooperativo non rimarrà un fenomeno del mondo proletario e socialista; intuendone l’importanza in termini di aggregazione e consenso sociale, anche i cattolici, su iniziativa diretta della chiesa, si porrà sullo stesso terreno: arrivano così le cooperative bianche, che in più di un’occasione si porranno in contrapposizione ai “rossi”, a volte diventando strumenti operativi di crumiraggio contro gli scioperanti. L’immagine del nuovo potere cooperativo Il Novecento – con la maiuscola – delle lotte di classe, della battaglia del proletariato organizzato per il socialismo, per il mondo delle cooperative rosse è davvero finito e si è trasformato nel suo contrario esatto. Peraltro buona parte di questa mutazione delle coop verso il mondo del profitto anticipa la fine politica del PCI, in qualche misura ne è probabilmente anche agente attivo. E’ passato tanto tempo da quando nell’ultimo dopoguerra le coop erano ancora strumento ed elemento propulsore del movimento operaio e dei lavoratori. Vogliamo ricordare che nei primi anni ‘60 a presiedere la Lega delle Cooperativa fu un certo Silvio Paolicchi, dirigente nazionale del PCI e membro del Comitato Centrale, che, da comunista e rivoluzionario coerente, poco tempo dopo aderirà al trotskismo conseguente, rimanendone militante per il resto della vita. Oggi il potere economico del mondo cooperativo che fu rosso svetta alto nel cielo di Bologna e si specchia simbolicamente nel suo omologo potere politico. Nel moderno – addirittura avveniristico quando fu progettato - quartiere fieristico della città, la torre bianca della Legacoop si riflette a poche decine di metri nella sua IL GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI Registrazione del tribunale di Milano n.87 del 06/02/2008 Direttore responsabile: Francesco Moisio Proprietario: Partito Comunista dei Lavoratori Redazione: Via V.Marini, 1/B - 40127 Bologna tel. 3886184060 - fax 02700441899 [email protected] Stampa: Tipografia Irnerio, via Irnerio 22/c - Bologna PAGINA 4 copia ospitante la giunta e la presidenza della Regione Emilia-Romagna. La stessa morfologia della città è stata in parte modificata dalla megalomania edilizia dell’élite cooperativa. Appena fuori dal centro storico troviamo Porta Europa, vero mostro archi- milanese, e così via. Gli affari sono affari e non si guarda in faccia a niente e a nessuno. Qualche mese fa è stato fondato il nuovo giornale, cartaceo e online, La Croce Quotidiano, di chiara matrice integralista cattolica, diretto dall’ex deputato Pd Mario zioni assenti in altre catene, ma questo avviene anche grazie ancora ad una certa partecipazione e sorveglianza dei soci consumatori che comunque rimangono il marchio distintivo di questo mondo. Ma tristemente basta entrare in un supermercato o ipermercato coop tettonico, di proprietà Unipol (assicurazione da sempre legata al PCI e al mondo cooperativo, ora anche banca, che si è sviluppata e sostituita ai vecchi mutui soccorso) che, oltre a contenere parte della direzione del gruppo, ospita al suo interno uno dei ristoranti più esclusivi della città: a coperto sono circa 150 euro bevande escluse. Poco distante si lancia verso l’infinito la torre Unipol, il grattacielo più alto della regione, ben visibile da chi attraversi l’autostrada. Nella periferia opposta si trova il palazzone di vetro del famigerato CCC: Consorzio della Cooperative Costruttrici, i signori del mattone rosso, l’equivalente cooperativo dei volgarmente noti palazzinari. Adinolfi. La nuova testata dichiaratamente omofoba e reazionaria nel momento del lancio ha trovato tra i suoi inserzionisti di punta l’assicurazione on line Dialogo, del gruppo Unipol. Le condizioni dei lavoratori delle coop sono andate via via peggiorando allineandosi a quelle di mercato. Cosi per anni ai soci lavoratori veniva trattenuta una quota di stipendio per pagare la propria quota sociale e solo in anni recenti sono stati riconosciuti loro i diritti sindacali, che inizialmente venivano loro negati in quanto – astrattamente e teoricamente – cooperatori e quindi padroni di sé stessi. Mentre negli ultimi tempi è emerso con forza, grazie all’intervento del sindacalismo di base – in primis il SI.Cobas – presso i lavoratori in gran parte migranti lo scandalo delle coop di facchinaggio della logistica. Una situazione di supersfruttamento tale da mettere in imbarazzo ad un certo punto la stessa Legacoop che ha cominciato parlare di cooperative spurie. Ad osservatori attenti nulla di ciò meraviglia. Il ministro del Lavoro Poletti, uomo dell’ex PCI e proveniente dai vertici del mondo cooperativo, è il padre del nuovo Jobs act e le sue nuove proposte di lavoro non retribuito per gli studenti nel periodo estivo dimostrano più di tutto la logica lavorista e iper sfruttatrice che muove il personaggio, sicuro retaggio dell’ambiente di provenienza. e poi andare in un discount per vedere ad occhio nudo quale sia la differenza di classe o di ceto fra i clienti. Intanto rispetto ai soci consumatori o lavoratori i dirigenti sono veri e propri manager, come tali vengono pagati, come tali agiscono nei confronti dei loro sottoposti e come tali trattano alla pari con i loro omologhi dell’imprenditoria e del padronato. All’omologazione politica totale degli esponenti dell’ex PCI è corrisposta un’analoga operazione della dirigenza cooperativa. Finalmente la tanta normalità ambita dai dirigenti della sinistra storica italiana è avvenuta, in una sorta di mutazione neodemocristiana, si può dire che ce l’abbiano fatta, per dirla con Nenni sono entrati nella stanza dei bottoni, ma sono riusciti ad andare oltre: anche loro rubano e sfruttano, sono corrotti e corruttori. La foto della cena di Poletti e Buzzi insieme ad Alemanno e ad altri personaggi di dubbia moralità è paradigmatica, dovrebbero stamparla sulle tessere del Pd di quei signori che vanno a cena – per mille euro a coperto – con Renzi per finanziare il partito. Le stesse facce e storie che stanno al governo mostrano le alleanze e i blocchi del potere economico: Poletti per le Coop al lavoro, Federica Guidi per Confindustria allo sviluppo economico, Lupi (seppur recentemente trombato) alle infrastrutture, quindi alle grandi opere, per conto dell’imprenditoria cattolica, in primis Compagnia delle Opere. I vecchi e storici insegnamenti sono stati appresi senza fatica e senza remore dalla dirigenza cooperativa e dai suoi grandi manager che, forse, in gioventù furono rossi e progressisti. Pecunia non olet potrebbe essere il titolo di un convegno della Legacoop o il motto di una campagna pubblicitaria del CCC. Non c’è schifezza o vergogna italiana degli ultimi anni in cui le grandi e medie coop non siano coinvolte: dalla Tav in Val di Susa all’ampliamento dell’aeroporto militare Nato di Vicenza; dallo sventramento delle vie del centro storico bolognese per le opere stradali e murarie dell’originale tram su gomma di produzione Fiat (una grande opera “casualmente” bipartisan: agli Agnelli e Marchionne i mezzi, alle coop i cantieri), per arrivare all’Expo Finalmente come tutti Del vecchio spirito cooperativo resta ormai poco. Certo nelle Coop legate alla grande distribuzione le condizioni di lavoro e contrattuali sono ancora migliori (o forse meno peggio) degli omologhi delle catene di discount; certo anche lo smercio dei prodotti alimentari – e non solo – a marchio Coop mantiene certe atten- Alla tavola imbandita dei nemici di classe si è aggiunto un posto: quello dei grandi manager cooperativi. I comunisti rivoluzionari sapranno come porsi il problema di sbaragliare la cricca di Poletti e soci. Oggi la coop sono loro, ma non è detto che sia per sempre. UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015 QUESTIONE GIOVANILE E MOVIMENTO STUDENTESCO La conferenza degli studenti del PCL UN PROGETTO RIVOLUZIONARIO PER LE LOTTE STUDENTESCHE di Ottaviano Lalli Portare all’interno del movimento studentesco un punto di vista coerentemente e conseguentemente rivoluzionario, affrontare anche fra gli studenti la lotta per la trasformazione socialista di questa società. È questo, a volerlo sintetizzare in poche parole, il senso del progetto di costruzione di una tendenza studentesca rivoluzionaria che il PCL pone al centro della propria azione nelle scuole e nelle università e affida ai suoi giovani militanti, con l’obiettivo di dare impulso ad un percorso non solo di intervento (già peraltro avviato e in alcuni casi consolidato), ma di vera e propria impostazione di un discorso e di una battaglia politica generali. I due giorni di ricco dibattito su questi temi (28 febbraio e 1 marzo, a Genova), giunti al termine di un confronto durato oltre un anno e mezzo, hanno permesso di determinare con più precisione il contenuto di un lavoro politico che assume centralità proprio in ragione dei compiti strategici generali che si impongono ai marxisti rivoluzionari, e che sono resi ancor più chiari ed urgenti dall’odierno contesto politico e sociale. Ciò che infatti fa da sfondo allo scenario attuale, e che oramai nessuno può più negare, è una crisi capitalista permanente, che in Italia come altrove impatta le vite di milioni e milioni di esseri umani, soprattutto giovani. Ed è appunto nell’incidenza di questa vera e propria crisi di civiltà sull’esistenza delle giovani generazioni che si determina un cambiamento del fattore soggettivo, che si riflette su una consapevolezza e talvolta una volontà di agire, dettate più da elementi materiali che da un’effettiva pre- dalla fine dell’Unione Sovietica e dalla caduta del muro di Berlino matura la possibilità storica concreta di rimettere apertamente in discussione questo ordine politico ed economico, quindi di lavorare in quella direzione. La definizione di un’area di classe ed anticapitalista all’interno del movimento studentesco non riveste, per noi, carattere di mera propaganda e di presenza organizzata all’interno di un settore ben preciso, come lo è stato in passato e lo è tuttora per molte formazioni politiche. Quasi tutte queste formazioni, fra esse anche alcune che pure si definiscono comuniste, caratterizzano il proprio intervento in chiave di una proiezione della propria organizzazione fra gli studenti, in una logica in fin dei conti sterile e autoconservativa, che molto spesso finisce per coincidere con impostazioni “sindacaliste”. Per noi, viceversa, il progetto di una tendenza studentesca, cioè di una linea di identificazione politica all’interno del movimento, si inserisce all’interno di una strategia che ruota intorno a due assi. Il primo è quello dell’azione volta ad immettere all’interno di un terreno di massa (quale è quello di milioni di studenti) una posizione e dei contenuti di classe, cioè legati ad una analisi particolare e portatori di interessi determinati. Partendo dalla comprensione che “[…] scuola e università sono gli ambiti privilegiati all’interno dei quali la borghesia ha sempre e ovunque esercitato e conservato il suo comando, a partire dalle forme ideologiche e culturali in cui esso si manifesta e si ripro- battaglia per l’orientamento del movimento studentesco su quelle posizioni e di quei contenuti, che va combattuta non solo all’interno delle lotte e delle mobilitazioni, ma anche attraverso una demarcazione pratica e teorica da posizioni magari rivoluzionarie a parole, ma conservatrici nei fatti (si pensi ad esempio alle tematiche e alle parole d’ordine proprie dei movimenti di ascendenza strutturalista, autonoma o post-operaista). Se questi sono gli obiettivi, quindi, una tendenza studentesca anticapitalista non potrà certo essere il semplice trasferimento del capo d’azione di un partito all’interno del corpo studentesco, o la formazione di un’area più o meno ristretta che a quel partito fa riferimento. Al contrario, essa non potrà che configurarsi come uno spazio politico largo ma ben definito, che sia capace cioè di far avanzare posizioni anticapitaliste in maniera tale che da rivendica- sa di coscienza. Lo abbiamo visto in questi ultimi anni nelle Primavere arabe; lo abbiamo visto nelle rivolte in paesi come la Spagna, la Turchia, il Brasile; lo vediamo nella Grecia soffocata dai tentacoli del disfacimento dell’UE; lo vediamo nelle incalzanti fibrillazioni sociali dell’America Latina. È sulla base di questa primaria consapevolezza, che sempre più si fa largo in ampi strati di giovani e di studenti ai quattro angoli del pianeta, che per la prima volta duce.” (dal documento approvato alla conferenza nazionale di Genova). Questa posizione di classe trova per noi una valenza prima di tutto come chiara e concreta proposta politica, che sia immediatamente percepibile dagli studenti come tale. È chiaro che dire ciò equivale a far sì che questa proposta politica si definisca in un vero e proprio programma, che costituisce il fondamento della costruzione della tendenza. Il secondo asse è la conseguente tive diventino egemoni. È evidente quanto i due assi strategici abbiano la potenzialità di sottolineare e di far valere nella realtà il nesso fra lotta studentesca e lotta di classe, contro tutte le tendenze che, apertamente o meno, mirano a negare o a rompere il legame che le unisce. Legare lotta degli studenti e lotta di classe significa innanzitutto riconoscere la connessione che c’è fra mondo del lavoro e mondo del lavoro “in formazione”, e le relazioni che fra questi due ambiti si stabiliscono all’interno del modo di produzione e di scambio capitalistico. Come abbiamo detto a Genova, “[…] per i giovani proletari, e non solo per loro, la scuola, nel sistema capitalistico, assume il compito di formarli teoricamente, ideologicamente e nella pratica come forza-lavoro egemonizzata, allineata e assuefatta alle necessità del mercato del lavoro e della massimizzazione del profitto (precarietà, flessibilità, meritocrazia, competizione estrema, individualismo) [...]”. A chi pensasse che si tratta di fumose petizioni ideologiche, basta dare un’occhiata a tutta la legislazione da vent’anni a questa parte riguardante scuola e università, di qualsiasi colore e segno politico. O più semplicemente, agli ultimi temi all’ordine del giorno in materia di istruzione: l’alternanza scuola-lavoro (ormai largamente applicata e diffusa) e il sempre più insistente disegno dell’introduzione di un ciclo scolastico separato per la formazione professionale, in cui una parte notevole della didattica sarebbe costituita dalla pura e semplice prestazione lavorativa ai privati (ovviamente gratuita e regolarizzatissima). L’intenzione di questa iniziativa è fin troppo evidente: regalare generosamente forza-lavoro ai padroni allo scopo di sorreggere le loro attività, che la crisi di valorizzazione del capitale ha reso tanto improduttive quanto incapaci di creare domanda. La ripresa della lotta di classe, quindi, dovrebbe trascinare con sé l’avvio di un nuovo ciclo di mobilitazioni studentesche proprio nel verso di una unificazione delle istanze di lotta e di legame su un programma politico che le esprima e le faccia oggetto di un’unica vertenza generale. È sotto questo aspetto che ha senso il nesso lotta studentesca-lotta di classe, al di fuori di ogni retorica e stereotipo vuoti di significato politico. All’interno di questo quadro, la portata della sconfitta sto- rica della politica delle sinistre riformiste (che è andata di pari passo con la rapida trasformazione liberale della sinistra derivante dal PCI) è enorme, e le contrastanti conseguenze che ne derivano trovano una loro tangibile espressione nello stato di arretratezza di tutte le lotte sociali (anche delle lotte studentesche), laddove pur in presenza di numerose spinte al cambiamento non emerge il minimo spessore di coscienza politica che possa recepirle. Nel totale cedimento delle sinistre riformiste, si è registrata all’interno del movimento studentesco la scomparsa quasi definitiva delle organizzazioni giovanili ad esse legate, in primo luogo dei Giovani Comunisti (legati al Partito della Rifondazione Comunista). La triste parabola discendente di queste organizzazioni giovanili nell’arco dell’ultimo decennio è stata causata proprio dalle politiche compromissorie e di collaborazione di classe di cui si sono resi protagonisti i partiti di riferimento, si è manifestata dapprima con un crescente isolamento dalle (e nelle) lotte - come conseguenza della perdita di credibilità - e poi con un loro sempre maggiore logoramento e la perdita del loro ruolo. L’assenza di una prospettiva politica che inserisca le lotte degli studenti all’interno di un progetto rivoluzionario è ciò che ha caratterizzato la storia delle mobilitazioni successive al Sessantotto, e che ha maggiormente segnato in negativo la possibilità di una radicalizzazione delle stesse lotte studentesche. Sta a noi cominciare ad invertire la rotta. PAGINA 5 UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015 Settant’anni fa la liberazione dal nazifascismo DALLA RIVOLUZIONE MANCATA ALLA RESISTENZA TRADITA di Piero Nobili Quest’anno ricorre il settantesimo anniversario della liberazione dal nazifascismo. Le celebrazioni che ricordano la resistenza antifascista cadono in un momento particolare. I morsi feroci della crisi economica favoriscono la crescita di partiti e movimenti populistici di destra e di estrema destra. Queste formazioni, approfittando del fallimento della sinistra, occupano una parte del proscenio politico presentandosi con un profilo “antisistema” che gli consente di catturare il consenso di una parte dei ceti popolari colpiti dalla recessione. Nell’Europa piegata dai sacerdoti dell’austerità, prendono così forma derive nazionaliste e xenofobe, che si nutrono della nostalgia di un passato oscuro che non è mai troppo remoto. Anche il nostro paese è attraversato da questi fenomeni regressivi: l’alleanza nero-verde tra la Lega di Matteo Salvini e i neofascisti di Casa Pound alimenta le suggestioni lepeniste, consolida un blocco sociale di destra, favorisce lo sdoganamento dell’intero campionario delle idee reazionarie. dei suoi contrasti e delle sue contraddizioni, rendendola così un evento che ad una parte delle giovani generazioni, appare lontano e poco significativo. Per questo, pur in maniera sintetica, è di una qualche utilità riepilogare il contesto in cui si sviluppò il movimento resistenziale e i successivi avvenimenti che determinarono il tradimento delle sue aspirazioni. PAGINA 6 al potere, il fascismo si rivela come la più spietata forma di dominio del grande capitale, la cui funzione essenziale risiede nella distruzione sistematica di tutte le organizzazioni del movimento operaio. La cancellazione di ogni spazio democratico, e la soppressione di ogni forma di organizzazione collettiva dei lavoratori, sono gli elementi fondamentali che lo distinguono da altri regimi autoritari, repressivi e bonapartisti. Inizia così un ventennio segnato da una brutale repressione antioperaia e anticomunista. Il tribunale speciale istituito dal regime infligge 277 secoli di reclusione, 5000 condanne e 42 esecuzioni capitali. La repressione si abbatte soprattutto sui militanti, sui quadri e sui simpatizzanti dei disciolti partiti della sinistra. Il razzismo antisemita e lo sciovinismo antislavo sono l’odioso corollario di un regime criminale che vara le leggi razziali, e che con le sue truppe porta lutti, morte e disperazione tra i popoli della regione balcanica. In questo lasso di tempo, mentre le condizioni dei lavoratori precipitano verso il basso, Mussolini onora le cambiali firmate con il grande capitale: tutte le richieste degli imprenditori vengono soddisfatte, e con la “carta del lavoro” i padroni si assicurano la totale autonomia nella conduzione delle loro aziende. Anche l’aristocrazia “nera” papalina dei grandi proprietari terrieri e gli esponenti della finanza vaticana beneficiano largamente dei favori accordati dal regime, e con la firma dei Patti Lateranensi, il trinomio “Dio, Patria, Famiglia” viene iscritto sulle bandiere di un fascismo, che nella sua prima fase aveva coltivato una vena anticlericale. L’ultimo atto del regime è quello di trascinare il paese in una guerra mal preparata e mal condotta dai suoi vertici politici e militari; una guerra d’aggressione che porta a morire migliaia di soldati nel fango dei Balcani, nel deserto africano e nel gelo della steppa sovietica. La Caduta del Regime Passato e Presente La proposta reazionaria per camminare e prosperare ha bisogno anche di operare sulla memoria storica del paese: riaccreditare la storia del fascismo e smantellare ciò che resta della cultura e dei valori che animarono la Resistenza. Un’operazione che guarda al passato per influire sul presente: legittimare le pagine più oscure della storia patria per rendere senso comune le pulsioni reazionarie che si agitano nelle viscere della società. Di fronte a ciò, appaiono del tutto impotenti le rituali celebrazioni che ricordano la lotta contro il nazifascismo. L’imbalsamazione della Resistenza favorisce la rimozione del suo significato più autentico. La sua presentazione come fenomeno unitario e tricolore, la svuota do parole d’ordine demagogiche, si appoggia sugli strati sociali intermedi, impoveriti dalla crisi del periodo post bellico. Esso si pone al servizio della grande borghesia, ma la sua base d’appoggio proviene dalle fila della piccola borghesia urbana e rurale che teme di venire risucchiata verso il fondo della scala sociale. Le direzioni dei partiti della sinistra italiana proletariato, ma esclude l’adozione di efficaci forme di autodifesa operaia, rivendica invece la consegna impartita ai socialisti: “L’ordine è di restate nelle vostre case, non rispondere alle provocazioni. Anche il silenzio, anche la viltà sono talvolta eroici”. Invece, nel giovane Partito comunista d’Italia, prevale la concezione settaria di Bordiga che lo porta a rifiutare una politica di fronte unico delle organizzazioni operaie per contrastare l’ascesa del fascismo. Anche di fronte alla nascita degli Arditi del Popolo – un raggruppamento che si propone la difesa delle associazioni proletarie -, il gruppo dirigente raccolto intorno a Bordiga diffida i propri militanti ad unire le forze con chi, concretamente, combatte la violenza degli squadristi. Pur dichiarandosi favorevole all’organizzazione dell’autodifesa operaia, il Pcd’I considerando il fascismo una semplice “variante” del dominio borghese, sottovaluta l’urgenza di organizzare una mobilitazione ampia e determinata per stroncare il mostro in camicia nera. L’arrendevolezza del Psi e il settarismo del Pcd’i, indebolendo lo schieramento di forze in difesa dei lavoratori, contribuiscono così a rendere più agevole l’ascesa del fascismo in Italia. L’Ascesa del Fascismo Il fascismo nasce come reazione alle lotte operaie e popolari del biennio rosso. Le sue radici affondano nella crisi del primo dopoguerra, quando in Italia si susseguono governi deboli, impotenti, incapaci di mantenere sotto controllo un paese costantemente in fermento. La sua ascesa è favorita dall’occasione mancata dal proletariato italiano, quando il movimento di massa che occupa le fabbriche non è in grado di dare uno sbocco vincente alla dinamica rivoluzionaria che si era messa in moto. Come dirà Trotsky pochi giorni prima della marcia su Roma: “Il fascismo è la rivincita, la vendetta attuata dalla borghesia per il panico vissuto nel settembre del 1920”. Il fascismo agitan- sottovalutano il pericolo rappresentato dallo squadrismo e, alla sua violenza non sono in grado di opporre un contrasto efficace e risoluto. A parte Gramsci, esse non colgono la natura specifica del fenomeno fascista: quello di essere un movimento reazionario di massa, capace di attirare a sé il malessere dei diseredati e del ceto medio impaurito, e di scagliarlo contro il movimento operaio organizzato, al quale addebita la causa di ogni male. Il Psi si attesta perciò su una linea di resistenza passiva, cullando a lungo la speranza che il fenomeno fascista, epurato dallo squadrismo, venga normalizzato e inserito nell’alveo della normale dialettica politica. Lo stesso Matteotti, parlando alla Camera nel marzo del 1921, denuncia la ferocia delle bande nere che seminano morte tra le fila del Nascita di una Dittatura Nei primi anni venti, il fascismo si consolida legalmente ricevendo importanti sostegni e incoraggiamenti. E’ benedetto da Pio XI che arriva a indicare Mussolini come “l’’uomo che la Provvidenza ci ha fatto incontrare”. E’ incoraggiato dai liberali, i quali guardano con favore la chiamata al governo di una forza politica capace di neutralizzare il movimento operaio. E’ finanziato dagli agrari e dal grande capitale che puntano ad usare le camicie nere di Mussolini per ripristinare l’ordine padronale che le lotte proletarie avevano incrinato. Ed è infine tutelato in ogni modo dagli apparati polizieschi dello stato sabaudo che non muovono un dito per scoraggiare la violenza squadrista. Salito È la guerra ad aprire larghe brecce nelle mura dell’edificio dittatoriale eretto da Mussolini. Nel marzo del 1943 entra in sciopero la Fiat: a Torino gli operai protestano contro il carovita e manifestano per la pace. Le agitazioni si estendono rapidamente a Milano e a Porto Marghera, diffondendosi poi in tutte le principali aziende del nord Italia. Sono queste mobilitazioni operaie – rese possibili dalla rete clandestina del Pci - ad incrinare la stabilità del regime. Le classi dominanti del paese, che per convenienza o per convinzione hanno indossato la camicia nera, temono di essere travolte da una possibile esplosione di furore popolare. I ceti possidenti temono la crescita di una resistenza classista, temono che la lotta operaia s’indirizzi contro il capitale, contro quei padroni che sono i veri responsabili di un ventennio di dittatura fascista. Mentre i gerarchi si dividono sulle misure da prendere, gli industriali, la corona e i vertici militari, iniziano a lavorare a una soluzione politica di ricambio per rimuovere il fascismo nel modo più indolore possibile, sostituendolo con un regime autoritario dal profilo più presentabile. Quattro mesi dopo, sotto la regia del monarca sabaudo, il gran consiglio sfiducia il capo supremo del fascismo e Mussolini viene defenestrato. Al suo posto viene insediato un governo presieduto da Badoglio, il maresciallo d’Italia che solo pochi anni prima si era reso protagonista dei peggiori crimini coloniali in Libia ed Etiopia. La svolta di Salerno All’indomani del colpo di mano monarchico, mentre l’intera struttura del partito fascista si sgretola silenziosamente, senza che qualcuno azzardi un gesto di difesa, riprendono fiato i partiti che per vent’anni erano stati messi fuorigioco. Inizia ad operare il Consiglio nazionale delle opposizioni, che si costituirà poi in Comitato di Liberazione Nazionale: ne fanno parte la Dc, i partiti della sinistra, gli azionisti, e altre piccole forze di matrice liberale. Nei 45 giorni che precedono la firma dell’armistizio, il Pci diventa la forza politica più attiva e radicata tra le masse. Il partito si rafforza conducendo un’ampia e capillare iniziativa politica all’interno delle fabbriche. Le parole d’ordine agitate – porre fine alla guerra e migliorare le condizioni di vita dei lavoratori – diventano popolari, consentendo al Pci di acquistare un peso rilevante all’interno della società italiana. Ma questa sua rilevanza non viene fatta valere all’interno del Cln (dove le decisioni vengono prese utilizzando il metodo paritetico), perché la direzione del partito in ossequio alla linea staliniana dei fronti popolari, ricerca l’alleanza interclassista con le forze borghese, e quindi, adotta nei confronti di De Gasperi e degli altri esponenti liberali una condotta attendista e collaborativa. Con il ritorno di Togliatti in Italia, la linea collaborazionista del Pci viene meglio precisata. È la cosiddetta “svolta di Salerno”: il Pci riconosce Badoglio, rinuncia alla pregiudiziale antimonarchica, si avvia sulla direttrice della partecipazione ai governi di unità nazionale. In nome dell’unità antifascista, la soluzione rivoluzionaria alla cri- si di regime è esclusa in maniera categorica, sull’Unità il segretario del Pci invita ad “impugnare la bandiera degli interessi nazionali”, chiarendo che “non possiamo oggi ispirarci ad un sedicente interesse ristretto di partito, o ad un sedicente interesse ristretto di classe”. Questa strategia rinunciataria ha il compito di tutelare gli interessi della casta burocratica del Cremlino. Stalin, nelle conferenze internazionali, ha concordato con le potenze imperialiste gli equilibri mondiali del dopoguerra. In questo quadro, l’Italia è destinata a rimanere sotto la sfera d’influenza occidentale, la sua classe lavoratrice non può dunque coltivare l’ambizione di modificare radicalmente l’ordine sociale esistente. Per questo la direzione del Pci lavora per imbrigliare la dinamica potenzialmente rivoluzionaria che si è avviata con gli scioperi operai e con l’inizio di un diffuso movimento resistenziale. UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015 articolato, al cui interno convi- giani affermano è prima sviato e di unità nazionale proseguirà fino vono posizioni assai diverse. Lo poi negato. Le fabbriche che sono al 1947, quando i mutamenti del storico Claudio Pavone nel suo state salvate dagli operai vengo- quadro internazionale con l’avvio insuperato studio storiografico no riconsegnate a quei padroni della guerra fredda, ricacceranno su quella fase (Una guerra civile, che avevano sostenuto Mussolini, il Pci all’opposizione. Prima di Bollati, 1991) ha mostrato come mentre i gerarchi che hanno por- essere scaricato, il “partito nuol’esperienza resistenziale sia sta- tato alla rovina il paese sono am- vo” di Togliatti contribuirà con ta l’intreccio di ben tre guerre: nistiati. E proprio sulla mancata la sua subalternità a ricostituire le “patriottica” contro l’occupante epurazione dei caporioni fascisti istituzioni borghesi e riavviare il tedesco, “civile” contro i fasci- si consuma il primo tradimento sistema produttivo uscito malconsti, di “classe” contro il capitale. degli ideali della resistenza. L’Al- cio dalla guerra. Il segno politico e la provenienza to Commissariato, un organismo Il movimento operaio italiano, sociale dei combattenti rivelano preposto per la rimozione dai loro privo di una direzione alternativa, però l’orientamento largamente incarichi delle persone coinvolte non potrà cogliere tutto il potenprevalente tra i partigiani: sono con il passato regime, si rivela ziale sociale emerso nel periodo in gran parte operai e braccianti, fin troppo indulgente e compren- 1943-1945 e utilizzarlo per una e tra di loro i più sono militanti sivo nei confronti degli imputati. radicalizzazione classista capace e simpatizzanti del Pci e delle al- La metà delle persone sottopo- di affermare uno sbocco rivolutre forze del movimento operaio ste a giudizio sono prosciolte in zionario vincente, sarà costretto (Psi, ma anche Bandiera rossa istruttoria, mentre la stragrande ad arretrare. Per i lavoratori inied altri). La grande maggioranza maggioranza degli alti funzionari zierà un periodo durissimo in cui delle truppe partigiane è costituta dello stato (magistrati, manager le loro condizioni di vita diventeda giovani che si ribellano a un pubblici e professionisti) non ranno sempre più difficili. Anche ordine sociale ingiusto, che ado- vengono sfiorati dall’annunciato sul piano dei contenuti democraperando i mezzi che si ritrovano a repulisti. Anche gli imprenditori tici, il compromesso tra Togliatti disposizione, passano dalla sem- che sono accusati di collaborazio- e De Gasperi, non produrrà un Il Movimento Partigiano L’8 settembre del 1943 segna il momento di massima disgregazione dello stato e della società italiana. La fuga della casa reale, di Badoglio e dello stato maggiore dell’esercito lasciano la popolazione alla mercé delle truppe tedesche. Il paese è occupato da un lato dagli ex alleati nazisti e dall’altro dagli ex nemici diventati ora alleati di un popolo per il quale auspicano la continuazione della monarchia. Migliaia di antifascisti cominciano a prendere la via delle montagne, nascono i primi raggruppamenti armati e anche nelle città si organizzano le cellule clandestine. Accanto ai militanti operai, che con la loro tenacia hanno saputo tenere, in tanti anni di lotta sotterranea contro il fascismo, si affianca una nuova generazione che, armi alla mano, inizia a combattere contro la ferocia nazista e repubblichina. La gran parte di loro è convinta che lotta antifascista sia solo il primo passo verso l’apertura di una prospettiva di rivoluzione socialista. La Resistenza all’occupante tedesco è un fenomeno complesso ed plice disobbedienza a un regime criminale e in via di disfacimento, alla propaganda e al sabotaggio, fino alla lotta armata combattuta sui monti, nelle valli e nelle città. Sono loro –non certo gli sparuti esponenti dell’antifascismo cattolico e liberale - a rimuovere le macerie di un paese svilito, distrutto e asservito da due decenni di regime mussoliniano. La Resistenza Tradita Ma dopo l’insurrezione vittoriosa, che vede il movimento partigiano liberare le principali città del centro nord, l’entusiasmo popolare che accompagna la vittoria dura soltanto il tempo di una breve e rossa primavera. La resistenza viene tradita. Il contenuto di liberazione sociale che i parti- nismo con i nazifascisti escono indenni dall’epurazione: Agnelli, Valletta, Pirelli e Donegani possono così tornare ad amministrare le loro fortune. E poi, l’amnistia varata da Togliatti, in qualità di ministro di grazia e giustizia, PER ABBONARTI: puoi versare sul conto corrente postale n° 89867907 - cin s - abi 07601 - cab 02400 intestato a Partito Comunista dei Lavoratori o tramite bonifico bancario al codice IBAN: IT09S0760102400000089867907 15€ (o più) per ricevere 10 numeri di UNITÀ DI CLASSE, il giornale comunista dei lavoratori, specificando nella causale ABBONAMENTO GIORNALE e l’indirizzo di spedizione oppure puoi effettuare il pagamento su PayPal accedendo dal link presente nell’homepage del sito internet, specificando il tipo di abbonamento desiderato e l’indirizzo di spedizione. mette la pietra tombale sulla richieste di giustizia avanzata con forza dagli antifascisti. Con questa misura, che contempla la capziosa distinzione tra le “sevizie normali” e quelle “particolarmente efferate” la magistratura manderà assolti tantissimi fascisti che durante il ventennio si sono macchiati di crimini spaventosi. La partecipazione del Pci nei governi avanzamento. La tanto sbandierata “costituzione più bella del mondo”, presentata come la principale conquista strappata dalle sinistre, si rivelerà ben presto uno strumento, che dietro l’affermazione retorica di diritti democratici destinati a rimanere inattuati, tutelerà anche formalmente i rapporti di produzione capitalistici. E poi, in barba alle disposizioni transitorie, verrà consentita la ricostruzione di un partito dichiaratamente neofascista come il Msi, ennesimo sfregio a una resistenza che aveva pagato un altissimo tributo di sangue per il riscatto morale e civile dell’intero paese. Anche sul terreno democratico, soltanto lo sviluppo e l’organizzazione del movimento di classe basato sulla forza dell’avanguardia operaia e partigiana - avrebbe potuto difendere i diritti democratici, respingere l’offensiva reazionaria, salvaguardare i valori di quella resistenza che era riuscita a sconfiggere il nazifascismo. PAGINA 7 UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015 SINDACATO LA CONTRATTAZIONE IN FINCANTIERI DOPO IL JOBS ACT Intervista a Stefano Fontana, del Direttivo FIOM di Venezia e RSU a Marghera a cura di A. Marceca Il 6 marzo sono stati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale i primi due decreti attuativi della legge delega in materia di lavoro, il cosiddetto Jobs Act. Si tratta del decreto legislativo 4 marzo 2015, n° 22, recante Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, e del decreto legislativo 4 marzo 2015, n° 23, recante Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti: dal 7 marzo il padronato ha la possibilità, tra l’altro, di assumere con il nuovo contratto a tutele crescenti, che ha messo in soffitta l’articolo 18, sostituendo il reintegro con un misero indennizzo monetario nella quasi totalità dei licenziamenti sia individuali sia collettivi illegittimi. Il padronato esce rafforzato dal Jobs Act, la Confindustria vuole il blocco o la moratoria dei contratti, come nel pubblico impiego. Nel comparto chimico, la Confindustria a fronte di una fase di riduzione dell’inflazione ha chiesto ai sindacati il rientro degli aumenti retributivi non giustificati dall’aumento dei prezzi. Le imprese vogliono sostituire il contratto aziendale al posto di quello nazionale, come avvenuto in Fiat-Fca; il governo Renzi vuole ridurre il ruolo del sindacato alla sola presenza aziendale per occuparsi solo della prestazione lavorativa (licenziamenti, demansionamenti, meritocrazia, produttività, flessibilità). Le burocrazie sindacali dirigenti che hanno promosso lo sciopero generale, ma senza dargli continuità, non sono in grado o non vogliono mettere in campo una forte mobilitazione in grado di respingere l’attacco padronale e governativo: il segretario della UIL, Carmelo Barbagallo, propone di legare gli aumenti salariali alla crescita del Pil, senza tra l’altro considerare la riduzione della produzione industriale e gli squilibri tra i diversi settori economici; la segretaria della CGIL, Susanna Camusso, propone di riconquistare diritti e tutele con la contrattazione, un nuovo Statuto dei lavoratori e l’unità sindacale con CISL e UIL; il segretario della FIOM, Maurizio Landini, aggiunge la rivendicazione del contratto nazionale, la proposta di referendum su Jobs Act e la costruzione di una “coalizione sociale”. Questa con tutta evidenza non si configura come un fronte unico di classe, cosa di cui ci sarebbe grande bisogno, ma come premessa alla successiva riflessione sulla rappresentanza politica riformista. In ogni caso un cambiamento nel rapporto di forza tra le classi è già avvenuto, si tratta di ra- PAGINA 8 gionare su come fare sindacato senza le tutele dello Statuto dei lavoratori in una fase di profonda crisi capitalistica: un tema su cui è iniziata la discussione nella tendenza classista della CGIL con la presentazione di un contributo da parte dei compagni Grisolia e Scacchi. Intanto Federmeccanica propone di applicare il contratto a tutele crescenti a tutti i lavoratori, anche quelli assunti prima del 6 marzo 2015. Ma non tutti i lavoratori già assunti a tempo indeterminato e che usufruiscono delle tutele previste dallo Statuto dei lavoratori avranno la possibilità di mantenerle: negli appalti e sub appalti ad ogni cambio di azienda e/o cooperativa i lavoratori potrebbero perdere le tutele della cosiddetta clausola sociale e le condizioni precedenti e si troverebbero nella condizione di neo assunti. Un sistema quello degli appalti molto diffuso, dai servizi pubblici e privati alla manifattura. E’ il caso del Gruppo Fincantieri. Sul contratto integrativo attualmente in discussione nel Gruppo Fincantieri abbiamo discusso con Stefano Fontana, RSU FIOM nello Stabilimento di Marghera e membro del Direttivo FIOM di Venezia. Puoi descrivere brevemente il Gruppo Fincantieri? La società, collocata in Borsa nel 2014, è attualmente detenuta al 72,5% da Fintecna, posseduta dalla Cassa Depositi e Prestiti del Ministero del Tesoro, cioè dallo Stato. Il Gruppo opera con un ruolo da leader mondiale nella costruzione, trasformazione e riparazione di navi da crociera, mega-yact, traghetti, piattaforme petrolifere off shore, nel settore delle navi militari e di sistemi e servizi. I bilanci parlano di una struttura in crescita sul fronte dei ricavi con nuove consegne e una crescita del portafoglio ordini. Nel complesso conta circa 21.700 dipendenti in 21 stabilimenti in 13 Paesi. Nel nostro Paese ha 8 stabilimenti dove occupa 7.700 dipendenti diretti e almeno altri 15-18 mila lavoratori in appalti e sub appalti, con rapporti di lavoro, legati alla commessa, caratterizzati da totale precarietà e ricattabilità, con salari ulteriormente ridotti attraverso il meccanismo della retribuzione globale. La Fincantieri punta ad aumentare il lavoro in appalto, affidandolo a grandi agenzie interinali e dando vita alla cosiddetta rete di imprese con l’obbiettivo di scaricarsi delle responsabilità. La Piattaforma della FIOM si propone di ridurre e regolamentare questa grave situazione attraverso la responsabilizzazione di Fincantieri, il rispetto dei contratti e mediante il controllo delle RSU. A gennaio si è aperta la trattativa di secondo livello, all’incontro del 22 dicembre 2014 il Gruppo Fincantieri ha avanzato le sue proposte, puoi illustrarle? L’azienda afferma che per agganciare la ripresa e restare competitiva ha bisogno di ristrutturarsi e il rinnovo dell’integrativo è, dal punto di vista aziendale, funzionale a questo obbiettivo. Un accordo quadro, da articolarsi quindi nei vari stabilimenti, che garantisca all’azienda l’allargamento della terziarizzazione, con la prospettiva della cessione di ramo di azienda di tutte quelle attività e comparti, come quello della meccanica, considerati di scarso valore aggiunto (costruzione scafo, magazzini, manutenzioni); la totale discrezione aziendale sulla flessibilità di orario; la riduzione del salario, utilizzando a questo scopo un indice di redditività, definito dall’azienda indice di utile netto da applicarsi all’intero gruppo; l’utilizzo per parte delle maestranze della misurazione della prestazione individuale, aumentando il ricatto sul singolo lavoratore e mettendolo in contrapposizione con gli altri lavoratori; l’eliminazione del ruolo contrattuale delle RSU. Queste sono le condizioni, solo in questo quadro l’azienda è disposta a mantenere in vita i cantieri di Sestri (GE), Castellammare (NA) e Palermo. Questi cantieri secondo l’azienda hanno poca redditività dovuta al fatto che necessitano di interventi strutturali da parte degli Enti locali e regionali. Per ottenere questi obbiettivi strategici l’azienda utilizza, a nostro avviso strumentalmente, la richiesta della restituzione di 104 ore di PAR (Permessi annui retribuiti), oppure, in alternativa, mezzora di lavoro al giorno non retribuita e ancora, con la scusa della sicurezza sul lavoro, la collocazione di microchip sugli scarponi dei lavoratori come strumento di controllo a distanza. I sindacati metalmeccanici presentano due Piattaforme diverse, puoi illustrare la piattaforma FIOM? La trattativa è partita con la presentazione di piattaforme separate: da una parte FIM e UIL, dall’altra la FIOM. La differenza tra le due piattaforme è legata essenzialmente a due punti: la questione degli appalti e il ruolo contrattuale delle RSU, in particolare sulla gestione degli orari. La piattaforma FIOM è articolata in diversi capitoli: relazioni sindacali; politiche industriali; appalti e decentramento; mercato del lavoro; ambiente e sicurezza; orario di lavoro; professionalità e inquadramento; formazione e diritto allo studio; salario, parte fissa e variabile; indennità; lavoratori fuori sede; diritti sociali. La proposta FIOM è stata votata da 3.450 lavoratori su 5.352 presenti (pari al 64,46%), i “sì” sono stati 3.171 (pari al 93,5%), quindi la maggioranza assoluta dei lavo- ratori presenti ha approvato la Piattaforma. FIM e UILM hanno invece fatto votare la loro Piattaforma solo alle proprie RSU, che l’hanno approvata. Cosa ne pensi della Piattaforma della FIOM? Il punto critico maggiore della Piattaforma FIOM è legato alla accettazione della flessibilità se pur contrattata e regolamentata dalle RSU. Questo in cambio del riconoscimento di soggetto contrattuale. Mentre su altri aspetti rappresenta un passo avanti, per esempio in tema di contrasto all’attuale regime degli appalti e sub appalti e nella proposta di incremento occupazionale. Quali iniziative sono state messe in campo? Dal primo aprile con la disdetta dell’integrativo precedente i lavoratori potrebbero trovarsi con un taglio netto del salario. La FIOM ha messo in campo un pacchetto di 12 ore di sciopero, da attuarsi tra marzo e aprile, giorno in cui è previsto un nuovo incontro con l’azienda. Il clima tra i lavoratori è di estrema tensione, a Muggiano e Riva Trigoso lo sciopero del 19 marzo si è trasformato in sciopero ad oltranza, a Marghera la mobilitazione è iniziata il 23 marzo con un’assemblea dei lavoratori che ha votato un ordine del giorno che impegna il sindacato a conquistare un integrativo migliorativo e il voto vincolante dei lavoratori sull’accordo, mentre il 24 marzo è stato bloccato il cantiere. Il pericolo incombente è un accordo separato da parte di FIM e UILM giustificato con la nota storiella truffaldina della riduzione del danno. In questo caso la FIOM dovrebbe innalzare il livello di mobilitazione, dallo sciopero ad oltranza all’occupazione degli stabilimenti, puntando all’unità di classe tra tutti i lavoratori. UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015 SINDACATO CONTRO LO SCIOPERO SOCIALE: per non disperdere il punto di vista di classe nella nuova composizione del lavoro prima parte di LucaS “Le ragioni dello «sciopero sociale» del 14 novembre sono definite con chiarezza... Eppure che cosa sia uno «sciopero sociale» resta una domanda alla quale è molto difficile rispondere” (Bascetta, il manifesto, 12.11.2014). Già, che cosa è uno sciopero sociale? In fondo, qualunque sciopero è sociale, nel duplice senso di essere sia un processo collettivo, sia l’espressione di una relazione fra classi. Con questa definizione si vuole in realtà costruire una narrazione, una particolare interpretazione dei conflitti sociali. Una rappresentazione politica, quindi, che è stata declinata sostanzialmente in due diverse versioni. Una ristretta, nella quale si sottolinea l’obbiettivo di ricomporre le diverse soggettività del lavoro attraverso il precariato. Una generale, nella quale si indica la dislocazione del conflitto oltre i rapporti di lavoro, in quanto la produzione di valore sarebbe oramai inscritta nella conoscenza/intelligenza diffusa delle relazioni sociali. In questa prima parte consideriamo la versione ristretta, in cui si vuole evidenziare la centralità di una particolare composizione di classe: il precariato e più in generale le diverse figure atipiche. Prendiamo ancora Bascetta, il 10 dicembre sul manifesto: “lo sciopero generale deve fare i conti con le trasformazioni subite, nel tempo, dalla società e dalle forme del lavoro. Quei tutti si presentano oggi assai più disomogenei e articolati di quanto non fossero una trentina di anni fa … Molti, disoccupati, precari, autonomi non dispongono nemmeno di un lavoro che possa essere sospeso, eppure rappresentano un elemento decisivo di quella dimensione «generale» alla quale lo sciopero dovrebbe rivolgersi…. Attività fondate sull’intermittenza, sull’incertezza, sull’occasione, sulla continua riconversione del proprio agire, spesso considerate una semplice fase di transito tra una condizione e un’altra, si collocano agli antipodi di ogni prospettiva corporativa. Lo stesso mondo relazionale del lavoratore precario, autonomo o sotto contratto a termine, non si lascia racchiudere entro uno specifico ambiente professionale. I termini «generici» della sua vita attiva gli conferiscono, appunto, un carattere «generale» che non si lascia organizzare in nessun sistema di «categorie». Seppure dei «precari» stessi si sia soliti ragionare come di una specifica «categoria» da affiancare a quelle del lavoro dipendente nelle quali finirà coll’essere riassorbita e addomesticata. Ma proprio perché la condizione precaria resta indefinita, irriducibile al «particolare», i suoi interessi si sviluppano piuttosto in una direzione necessariamente universalistica” In queste righe si sottolinea l’emersione di un soggetto generico e generale, in quanto continuamente transeunte tra diverse condizioni di lavoro. Un forza lavoro libera, il cui antagonismo non è limitato da specifiche condizioni professionali. Quindi più mobilitabile, più movimentista, più radicale. Il precariato metropolitano come componente più sviluppata e anticapitalista del proletariato, la cui organizzazione di lotta attraverso uno sciopero sociale sarebbe quindi quella più rivoluzionaria. Non abbiamo nessuna contrarietà teorica a questa analisi. Non c’è infatti nessun principio che impone l’una o l’altra composizione di classe come quella autenticamente anticapitalista. E’ solo la lettura concreta della situazione concreta che ci offre risposte. La stessa esperienza del movimento operaio ci conferma che settori generici, precari, semioccupati o disoccupati hanno talvolta giocato un ruolo determinante nella lotta di classe. Perché lo sviluppo capitalista si dipana attraverso contraddizioni, cicli di sviluppo e crisi, lunghe fasi espansive e lunghe depressioni distruttive. In questo andamento non progressivo (nel duplice senso di non esser lineare e di esser segnato da barbarie), la classe lavoratrice ha conosciuto diverse forme di organizzazione e di coscienza di sé. E quindi in diverse fasi sono emersi settori precari e dispersi (più o meno metropolitani). Basti pensare alla storia del socialismo e del sindacalismo italiano: una delle sue radici, sulla fine dell’800, non si colloca nelle grandi concentrazioni industriali (le filande della campagna lombarda o le prime ferriere tra Milano e Torino), ma in Romagna e in Emilia, intorno a lavoratori e lavoratrici precari e migranti. Masse proletarie ora braccianti, ora sterratori, ora muratori, ora camerieri, ora mendicanti, ora mezzadri, che non casualmente si organizzano sindacalmente e politicamente nella riproduzione: non nelle fabbriche, non per mestiere, ma nelle Camere del lavoro (spesso costruite intorno a luoghi di ri- trovo), nelle cooperative di consumo, nella conquista degli enti locali per avviare lavori socialmente utili. Esperienze simili, o che hanno visto al centro di lotte importanti simili composizioni di classe, le possiamo trovare insegnanti e ricercatori precari (più o meno 500mila), precari storici della PA (intorno a 1 milione) o consulenti specializzati (come le infermiere assunte a partita IVA); e, certo, anche quello che possiamo chiamare negli anni venti e nei primi anni trenta in Germania, con l’organizzazione politica dei disoccupati nella KPD, o in anni più recenti nel movimento piqueteros argentino, vero protagonista della fase pre-rivoluzionaria del 2001-2002. proletariato metropolitano generico (lavoratori e lavoratrici oggi nella logistica, domani in catena di montaggio come interinali, dopodomani da McDonald’s). Difficile calcolare quanti siano, perché spesso sono trasversali alle diverse categorie (iscritti gestione separata, pubblica amministrazione, LSU, ecc). Rappresentare l’insieme degli atipici come proletariato generico è però una distorsione, che nega tipicità e differenze di classe che attraversano questo mondo: identità, interessi e coscienze di categoria che sono anche molto radicati (ad esempio tra insegnanti precari, infermiere professionali, avvocati o professionisti della IT). Terzo. La centralità di una particolare composizione di classe sta nella sua forza, che è una combinazione di numero, rappresentazione di sé (coscienza politica) e ruolo nei processi di produzione. La versione ristretta non prende in considerazione quest’ultimo aspetto. Intendiamo cioè sottolineare il ruolo del lavoro produttivo di capitale. Alcune letture teoriche, una certa tradizione, un intero immaginario simbolico hanno identificato il lavoro produttivo con la fabbricazione di oggetti. Gli operai con le mani sporche di grasso, i caschetti e le tute. Non è così. Il lavoro produttivo è quello inserito in un rapporto che permette al capitale di crescere sfruttando la forza lavoro. La merce quindi non è una cosa, ma il risultato di una relazione sociale. Quello che definisce il lavoro come produttivo non è né la tipologia professionale, né cosa si produce e neanche la tipologia di contratto che si ap- I punti critici che vogliamo invece sottolineare sono tre. Primo. La forma prevalente della classe è veramente oggi quella del precariato? E’ vero, negli ultimi anni i contratti precari sono stati la maggioranza: il 70-80% tra i neoassunti. Sembra quindi esser questa la forma del lavoro dominante. Non è così. In Italia ci sono circa 22,5 milioni di occupati, 3 milioni di disoccupati, 14 milioni di “inattivi”: tra gli occupati, 16,9 milioni sono dipendenti e 5,6 milioni autonomi (partite IVA, professionisti, ecc); dei dipendenti, 14,5 milioni sono a tempo indeterminato (2,5 milioni a tempo parziale) e solo 2,1 milioni sono a termine (600mila quelli a tempo parziale). Due terzi dei lavoratori e delle lavoratrici sono quindi dipendenti subordinati a tempo indeterminato: lavoratrici e lavoratori classici. Secondo. Questo precariato è veramente generico e generale, astratto da identità e condizioni particolari? Se li sommiamo, tutti i lavoratori atipici sono 7 milioni e rotti. In questa massa sono però comprese figure molto diverse: commercianti e artigiani (circa 1 milione), professionisti di vecchia e nuova generazione (avvocati, commercialisti, notai, tecnici IT, ecc: circa 3,5 milioni, di cui almeno un milione considerati “professionisti affermati”); plica. Ma è la relazione in cui si è inseriti: anche un clown, o un insegnante, può esser un lavoratore produttivo, se il suo lavoro è inserito in un circuito di valorizzazione capitalista (se cioè dalla sua attività un impresa estrae plusvalore, che viene realizzato in profitto attraverso la vendita sul mercato di una merce, concreta o intangibile che essa sia). Un centralinista al call center Almaviva è produttivo di capitale. Un’infermiera del San Raffaele, ospedale di un gruppo quotato in borsa, è produttiva di capitale (anche se assunta a partita IVA). Come un ricercatore nei laboratori GlaxoSmithKline, o un insegnate precarissimo che tiene ripetizioni presso la CEPU (in nero e non). Un lavoratore in un’azienda del gas ex municipalizzata, nel momento in cui questa viene inserita nel mercato per produrre capitale (SpA), diventa produttivo (mentre prima, facendo lo stesso identico lavoro, non lo era). Con queste considerazioni non vogliamo quindi negare differenze e scomposizioni nella classe. Il punto è che vogliamo ricomporre lavoratrici e lavoratori non sulla rappresentazione di sé, non sulle forme giuridiche dei loro contratti, ma sul loro ruolo nei rapporti di produzione. Perché la centralità è quella del lavoro che è direttamente in contrasto con il capitale. Il salario e l’organizzazione del lavoro (ritmi, turni, intensità dello sfruttamento) in queste realtà sono direttamente legati ai profitti. Essendo nella loro vita quotidiana inseriti in una relazione antagonista con il capitale, sono spesso questi lavoratori e queste lavoratrici (precari o stabili, produttori di auto o di servizi assistenziali), che sviluppano una prospettiva anticapitalista e che hanno il potere contrattuale di inceppare la riproduzione di capitale. Per questo è importante ricomporre il lavoro produttivo, contro le altre rappresentazioni politiche del conflitto. Vedremo infatti, nella seconda parte, come questa versione ristretta è in fondo solo uno scivolo per proporre la versione generale: la negazione del conflitto di classe nei rapporti di lavoro, in funzione della costruzione di una coalizione sociale interclassista (una sola moltitudine). segue nel prossimo numero PAGINA 9 UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015 INTERNAZIONALE AD UN ANNO DA MAIDAN di Ruggero Rognoni E’ passato circa un anno in Ucraina dalla cosìddetta “rivoluzione di Maidan” che più correttamente andrebbe chiamata come “colpo di stato a Kiev” ed il popolo ucraino si trova immerso in un devastante collasso economico e nella guerra civile. Fin dall’inizio avevamo interpretato correttamente la rivolta di Maidan come direttamente controllata da un movimento reazionario con all’interno perfino tendenze neonaziste organizzate militarmente. Queste hanno dato la spallata decisiva per il cambiamento di potere del vecchio regime oligarchico. Nei paesi occidentali era stata vista inizialmente come una rivolta democratica ma l’influenza dell’estrema destra nelle scelte del nuovo governo è diventata sempre più devastante. Le proteste di Maidan inizialmente parlavano di una generica richiesta di accordi economici con l’Unione Europea e chiedevano un indirizzo capitalistico delle scelte economiche, individuando nel potere oligarchico filo russo il principale responsabile dello stato generale di impoverimento della popolazione a causa della disoccupazione dilagante e delle corruzione dei principali detentori del potere. Le forze reazionarie ultranazionaliste e fasciste però ne hanno preso totalmente il controllo. Ad un anno dal rovesciamento del vecchio governo l’economia Ucraina è precipitata in un profondo baratro travolgendo anche il valore della Grivnia la moneta nazionale. L’economia di guerra è diventata l’unica scelta del nuovo governo reazionario ai danni dei lavoratori. I prezzi e le tariffe sono volate alle stelle insieme ad una politica di licenziamenti massa dove l’assistenza medica non è più garantita mentre vengono tagliati del 50% i salari e le pensioni. La guerra civile contro le regioni dell’est del Donbass e Donetsk al confine con la Russia è la logica conseguenza della politica ultra nazionalista del nuo- PAGINA 10 vo governo ucraino guidata dal presidente Poroshenko. Il desiderio folle degli ultranazionalisti è quello di volere una sola entità etnica ucraina imponendo delle regole che sono entrate in conflitto con le popolazioni di lingua russa dell’est. Ma questo si è reso impossibile con lo scoppio della rivolta di quelle regioni che per prima cosa hanno difeso la posizione dei loro rappresentanti politici locali. Poroshenko ha scelto la linea dura usando il pugno di ferro contro la ribellione in un’azione di guerra curezza ucraine. I caduti sono stati in gran parte arsi vivi o uccisi con colpi di arma da fuoco. La risposta conseguente delle regioni del Donbass e Donetsk è stata l’organizzazione e la presa delle armi da parte una cospicua fetta della popolazione. L’ autodifesa dell’est Ucraina è composta da minatori, giovani disoccupati, ex militari. Chiaramente non sono omogenei. Sono divisi in tante frange anche contraddittorie (dalla “rinascita sovietica” alla mitologia panrussa) ma in ogni caso hanno tolineare tra le due parti in questo conflitto: da una parte Kiev ha solo nelle sue truppe volontarie nazionalisti e estremisti di destra, ma sul lato dei ribelli russofoni ci sono sia battaglioni destra che di “sinistra”. La battaglia contro il governo fascista di Kiev per l’autodeterminazione del proletariato ucraino dagli imperialismi occidentali deve procedere insieme alla lotta per l’autonomia dalle mire dell’imperialismo russo. Infatti Putin ed il suo regime bonapartista vogliono solo aumentare la loro posizione di forza in sostenuta dagli imperialismi occidentali definita come “Operazione Antiterrorismo” dove le bande paramilitari fasciste si sono rese responsabili di azioni ignobili e sanguinose. Quella forse più drammatica è accaduta il 2 mag- oltre alla autodifesa dal governo fascista di Kiev la parola d’ ordine dominante dell’indipendenza dall’Ucraina. La posizione dei marxisti rivoluzionari non è equidistante né tanto meno neutrale ma è schierata gio 2014 ad Odessa. Circa 40 oppositori al nuovo governo di Kiev rifugiati dentro la Casa dei Sindacati, in gran parte militanti di sinistra e antifascisti sono caduti per mano delle squadre paramilitari del gruppo neonazista Pravij sektor sostenuto dalle forze di si- contro la guerra di repressione di Kiev e in favore dell’autodifesa dei diritti di autodeterminazione della popolazione russofona. Ma detto questo le contraddizioni da contrastare che devono essere attentamente analizzate non mancano. Una differenza da sot- un compromesso con l’ Unione Europea e gli USA. Mosca ha chiaramente un enorme influenza sui ribelli, in quanto si rivolgono alla Russia per un sostegno nella guerra civile. Da Kiev gridano ad una presunta invasione della Russa ma che in realtà per ora trattasi solo di un appoggio ai ribelli con forniture di armi e di consiglieri militari. Putin non permetterebbe mai una rivoluzione socialista nel Donbass. Se questo avvenisse in Ucraina orientale, potrebbe ispirare una rivoluzione sociale simile in Russia dove molti lavoratori sono insoddisfatti dalle ingiustizie del capitalismo. Il presidente russo farà di tutto per reprimere le forze marxiste in Ucraina orientale che lottano per un cambiamento sociale. Gli imperialismi su entrambi i fronti sono interessati a trasformare questo “teatro” in una guerra etnico nazionalista e temono che possa tramutarsi in un conflitto sociale. Segnali in questo senso sono già accaduti. Nel dicembre 2014 quattro dirigenti dell’organizzazione marxista Borot’ba che si batte anch’essa contro Kiev, sono stati arrestati dai militari di un battaglione di ribelli filo russi a Donetsk. L’accusa, palesemente provocatoria, sosteneva che i compagni di Borot’ba fossero nemici della Russia perché allacciavano relazioni politiche con l’organizzazione marxista russa “Fronte di Sinistra” che si oppone a Putin e agli oligarchi che lo so- stengono. Dopo una forte campagna internazionale sono stati poi rilasciati. Purtroppo una linea di classe nel conflitto è ancora minoritaria e tale da contrastare le mire di forze politico militari nazionaliste contro Kiev e che mirano all’ intervento diretto militare della Russia di oggi che non può essere assolutamente paragonata nelle sue varie vesti alla passata URSS. Sull’altro campo, il governo liberal-fascista di Kiev può contare viceversa con chi vuole gettare benzina sul fuoco. La NATO ha già pronto un piano per consolidare la sua azione nell’Est Europa per poter intervenire velocemente e con forza dentro la crisi ucraina. Ha messo a punto contingente di 5000 uomini per un intervento rapido con linee di comando immediate. Ma qualcuno già parla della preparazione di ben 30.000 militari e non si esclude la fornitura di armi a Kiev. Non solo ma la repressione da parte dell’apparato poliziesco fascista ha iniziato la pianificazione degli arresti nel campo della sinistra. Il 18 marzo 2015, ad esempio, i servizi di sicurezza hanno arrestato il leader del Partito dei Lavoratori di Ucraina e direttore del quotidiano “Working Class” Alexander Bondarchuk. E’ accusato di scrivere articoli che sostengono i ribelli Donbass; ma gli arresti oramai si contano a decine. Battersi in Ucraina contro la guerra oramai è un reato molto grave. I colloqui di “pace” di Minsk vengono considerati per le frange più estreme come un tradimento del presidente Poroshenko che secondo loro non vorrebbe battersi per un conflitto aperto contro i separatisti dell’ Est. Per non averli contro il governo ha lanciato un reclutamento di massa nel paese. Sono solo le famiglie dei lavoratori a doverne subire le conseguenze per l’evidente esclusione da questa mobilitazione della borghesia più influente. La sola soluzione a questo conflitto può avvenire da parte dei lavoratori uniti di entrambe le parti in conflitto con la prospettiva di una rivoluzione democratica combinata ad una rivoluzione sociale. Solo la forza autonoma del movimento operaio può essere la soluzione che può realizzare quegli obbiettivi capaci di rigettare questo conflitto: esproprio delle banche e controllo operaio delle industrie; annullamento del debito nei confronti della Russia e delle potenze occidentali. Una nuova costituzione anche federale che veda il rispetto delle minoranze nazionali e la realizzazione di un governo dei lavoratori dell’Est e dell’Ovest costituito con la sua autodifesa e suo armamento popolare che disarmi tutte le bande fasciste e reazionarie. I lavoratori ucraini però non possono restare isolati nella loro battaglia. La loro lotta deve essere anche quella del movimento operaio internazionale ed in particolare europeo sotto la bandiera della rivoluzione socialista nella prospettiva storica degli Stati Uniti Socialisti d’Europa. UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015 DALLE SEZIONI SUGLI ENNESIMI ASSASSINI DI STATO SUI MIGRANTI a cura della sezione di RAGUSA del PCL L’ennesima strage di migranti al largo della Sicilia riaccende i riflettori sulla tratta degli essere umani. Alle innumerevoli vittime si aggiungono altri 300 morti che potevano essere salvati e che invece il governo ha deciso di abbandonare al mare: l’ Italia e l’Europa sono complici dei trafficanti, per queste ragioni non esitiamo a definire il governo Renzi e i governi europei che hanno introdotto “Triton” come comuni assassini. Il dispositivo “Frontex” voluto dall’Europa e dal governo Italiano conta già centinaia di morti a pochissimi mesi dalla sua applicazione. Per tutto il 2014 le forze di centro destra e buona parte del P.D. hanno chiesto a gran voce di sospendere l’operazione Mare Nostrum perché imponeva ingenti costi all’Italia e perché invogliava i migranti a partire per le nostre coste; è così che il governo Renzi è riuscito nell’intento di blindare le nostre frontiere lasciando che i migranti morissero nel Mar Mediterraneo. Adesso il governo Renzi prepara l’azione militare in Libia con il duplice scopo di fermare gli sbarchi e l’avanzata dell’Isis che mette a rischio tutti gli investimenti delle aziende italiane in quel paese. Eppure tutti i governi occidentali, compreso il nostro, hanno lasciato soli quei popoli, come i Kurdi, che hanno resistito eroicamente all’invasione dei tagliagole dell’Isis : insomma, tutti compatti contro il terrorismo solo quando questo lacera i confini della “for- migratorio è stato usato dal capitale come garanzia di un afflusso sempre costante di un “esercito di riserva” senza diritti e quindi utile per essere sfruttato e contrappo- Dobbiamo, anche, tenere presente con quale logica vengono gestiti i flussi migratori nella fortezza Europa: le attuali politiche italiane intendono controllare il numero dei migranti stabilendo delle quote d’ingresso per tipi diversi di lavoratori e rilasciando permessi sulla base di un contratto scritto. Questo sistema crea ad arte le condizioni di sfruttamento dei lavoratori immigrati, costret- tezza-Europa” e quando questo mette in crisi l’imperialismo economico occidentale. Ciò che si vuole fare è, in pratica, la stessa operazione che tentò il governo Berlusconi con Gheddafi. Oggi, dopo la guerra alla Libia del 2011, le condizioni sono cambiate ma l’unica cosa che é rimasta uguale è la situazione di migliaia di persone che dall’Africa sono costretti a scappare anche per sfuggire alla follia del terrorismo islamico. Tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni, di destra o di centro-sinistra, hanno affrontato il fenomeno migratorio come mezzo per far leva, da un lato, sulla paura dei cittadini creando artificiosamente nella figura dell’immigrato un falso nemico, dall’altro lato il fenomeno sto agli sfruttati indigeni. In altre parole, il grande capitale crea, attraverso le sue guerre imperialiste e i suoi grandi privilegi, le condizioni per le quali grandi masse di immigrati scappano dalla violenza e dalla miseria dei propri paesi per cercare speranze di democrazia e lavoro salpando nelle nostre coste. Una volta arrivati qui però questi uomini e queste donne diventano il capro espiatorio delle condizioni di crisi e disoccupazione in cui versano i lavoratori italiani. Le classi dominanti e l’apparato politico ed economico del nostro paese creano artificiosamente nella figura dell’immigrato il nemico da combattere e da rendere fuorilegge poiché causa delle terribili condizioni della classe operaia e lavoratrice nel nostro paese. ti ad accettare qualsiasi condizione pur di lavorare e di risiedere legalmente nel nostro territorio. Numerose sono le inchieste che fanno emergere quali sono le reali condizioni dei lavoratori immigrati nelle nostre campagne: a Eboli come a Santa Croce centinaia di braccianti costretti a vivere in baraccopoli fatiscenti, donne costrette a cedere a ricatti sessuali, uomini costretti a “doparsi” per reggere il carico di 12 ore di lavoro continuativo per una paga di 30 euro al giorno. Questa si chiama “riduzione in schiavitù” e tutti sanno chi arricchisce il business sui migranti: cooperative sociali, aziende agricole, … tutte rigorosamente gestite da italiani! Anche se in modo diverso anche i lavoratori italiani sono costretti a rinunciare alle proprie garanzie salariali, alle condizioni di sicurezza nei propri luoghi di lavoro, ad accettare le regole disumane della progressiva precarizzazione. Basti pensare all’ esercito di “volontari” dell’Expo di Milano, migliaia di giovani costretti a lavorare gratis solo perché “fa curriculum”. Per tutte queste ragioni ci siamo schierati contro i governi di destra e di sinistra che hanno varato leggi sull’immigrazione come la Turco-Napolitano o la Bossi-Fini, introdotto il reato di clandestinità e tutta una serie di riforme del lavoro a partire dal pacchetto-Treu che ha introdotto il precariato fino all’ abolizione dell’art. 18. Per le stesse ragioni ci opponiamo ai governi borghesi di ogni colore perché sono solo il mezzo con cui il capitalismo attua le sue politiche di sfruttamento. Per noi non possono esistere frontiere tra gli uomini e per questo crediamo che l’ unico strumento di reale liberazione dei lavoratori è l’ unità di classe. Solo riconoscendosi nella stessa classe lavoratrice stranieri e italiani potranno segnare la propria svolta, solo riconoscendo nel Capitale la ragione della drammatica situazione della classe lavoratrice, del suo sfruttamento e della sua crescente precarizzazione ci si potrà liberare dalle condizioni che vedono i lavoratori sempre più poveri e la classe dominante arricchirsi sul sudore della classe operaia. SULLE ELEZIONI AMMINISTRATIVE 2015 IN PROVINCIA DI CASERTA di Raffaele Mormile Dopo cinque anni di rapine, distruzioni e speculazioni su un piano urbanistico, ambientale e lavorativo, le classi dominanti, rilanciano la propria campagna elettorale per assicurarsi un altro quinquennio di dominio sui vari territori. Un dominio basato sullo sfruttamento criminale dei lavoratori e dell’ambiente. Le corse ad ottenere gare di appalto per completare l’opera di cementificazione e degrado ambientale vanno ad arricchire soltanto le tasche di strozzini e padroni. Territori agricoli saccheggiati e usati come campi di battaglia per soddisfare la loro esagerata ingordigia. Gare di appalto, che comprendono lo smaltimento dei rifiuti, vengono vinte imprenditori collusi con le mafie, il cui unico obiettivo è quello di ottenere il massimo profitto utilizzando anche lo smaltimento illegale, senza curarsi dell’ambiente e della salute della popolazione. Il connubio criminale tra politica e affari ha portato in carcere il sindaco di Orta di Atella e consigliere provinciale Angelo Brancaccio, già condannato per corruzione, prostituzione e peculato. La classe borghese evidentemente non può condannare se stessa e schiaccia senza nessuna pietà chi è dominato da essa. In uno scenario di corruzione e degrado si presenta la farsa delle elezioni: mazzette, bollette pagate, spese di beni alimentari e promesse di posti di lavoro. Tutto in cambio di qualche manciata di voti. Quali sono le liste elettorali e chi sono i nuovi “volti puliti” della borghesia in campo? Durante le tornate elettorali, talvolta, la borghesia cambia i propri galoppini con “volti puliti” reclutati tra diverse classi. Essi sono figli di proletari, di professionisti e di piccoli imprenditori appartenenti al cerchio fidato di questa borghesia criminale, che in determinate situazioni offre il conto per i propri affari in cambio di voti con la candidatura di un membro della famiglia. Quali sono i benefici che hanno gli appartenenti a questa cerchia ? Costoro offrono posti di lavoro spesso umilissimi e che in molti rifiuterebbero, ma per chi si trova in miseria diventano piccoli benefici. Gran parte del ceto medio corre alla corte di questi clan della borghesia: insegnanti, ingegneri, architetti e dottori, i quali vivono nel benessere e nel lusso, mentre gran parte della popolazione vive in un territorio completamente degradato, dove il lavoro nero è all’ ordine del giorno , dove non esistono opere urbanistiche e nemmeno servizi pubblici, dove un proletario è costretto a vendere la propria pelle in cambio di miseria per permettersi una casa umile e una vecchia auto non assicurata. E’ logico che la borghesia abbia bisogno di una schiera di fedeli sottomessi. Uno strato sociale privilegiato servile agli interessi della classe dominante. Chi sono i concorrenti a questa farsa elettorale? La borghesia criminale e quella legale si presentano con i loro simboli maggiormente rappresen- tativi cioè Forza Italia o PD o in liste civiche. Il PD in certi territori è il primo partito, in altri rappresenta l’opposizione , ma più che opposizione è solo l’immagine del gioco dei politicanti. Non può esistere una vera opposizione se questa non è anticapitalista, sarebbe una contraddizione in termini. In particolare, in certi territori laddove il padrone è anche sindaco, i partiti fanno finta di fargli opposizione, ma sono in realtà speculari. Invece quando il padrone non mette la sua faccia in politica, tutti gli altri partiti si fanno la guerra tra di loro per la gestione del territorio, ma sempre su ordine del padrone, che agisce da dietro le quinte. La “novità politica”, anche in queste elezioni, sono i 5 stelle , “volti nuovi”, “puliti”, “onesti” e pieni di voglia di “fare giustizia” e di “denunciare la corruzione”. Peccato che in una regione come la Campania, dove il problema principale è la disoccupazione, costoro preferiscano parlare di problematiche giustizialiste legate ad un dibattito tutto interno alla borghesia e che nulla hanno a che fare con gli interessi economici del proletariato. In tale miserabile quadro elettorale, troviamo le baracche della sinistra riformista in cerca ancora uno spiraglio per riaffermare il proprio fallimento. L’unica prospettiva di cambiamento per i territori della Campania, abbandonati alla disoccupazione e alla degradazione, è la lotta e la costruzione del Partito Comunista dei Lavoratori è l’unica arma per unire tutto il proletariato cosciente e di risvegliare la lotta di classe, per far si che anche le masse più arretrate comprendano l’importanza dell’alternativa di un governo dei lavoratori attraverso delle rivendicazioni transitorie. PAGINA 11 UNITA’ DI CLASSE - GIORNALE COMUNISTA DEI LAVORATORI - N.3 APRILE 2015 IL RINNOVATO INTERESSE PER L’ARTISTA MESSICANA Frida Khalo quando il dolore concepisce l’atto creativo di Annamaria Albanese Si è da poco conclusa al Palazzo Ducale di Genova la mostra dedicata alla figura leggendaria di Frida Khalo, nome a cui è indissolubilmente legato quello di Diego Rivera; figure unite fatalmente da una relazione “tormentata, passionale e infedele. Una storia d’amore che ha assunto ben presto i contorni di una leggenda”. Lo scenario di questa leggenda è il Messico in piena rivoluzione. É da questo contesto infatti che Rivera matura le sue conoscenze artistiche e sviluppa il suo fervore politico. Egli aderisce al muralismo, ovvero l’arte e l’ideologia dell’affresco contemporaneo monumentale che nasce nel Messico degli anni ‘10 e ‘20, dopo la rivoluzione di Madero contro la dittatura militare-latifondista di Porfirio Díaz e gli ulteriori avvenimenti, fra cui spicca il tentativo di rivoluzione agraria di Emiliano Zapata; questa corrente nasce come espressione e sotto il segno di un doppio mito: la tradizione autoctona precolombiana e la rivoluzione “istituzionalizzata”. Rivera aderisce al gruppo sovietico Ottobre, fiancheggiatore del Fronte di Sinistra delle Arti, e nel 1924 Majakovskij è a Città del Messico. La sua adesione alle coeve avanguardie risulta anche sul piano politico: nel 1917 come Modigliani cerca di raggiungere la Russia per porre al servizio della causa rivoluzionaria la propria attività. Ed è proprio in questo periodo che manifesta il proprio stile nitido e fluido, necessario ad una buona leggibilità delle scene, a cui si affianca una buona capacità decorativa, interpretando in chiave marxista l’evolversi della storia messicana. Nel 1929 inizia il suo lavoro in America, e tre anni dopo gli viene commissionato un trittico per RCA Buiding al Rockefeller center di New York. Partendo da un tema di carattere generale, “L’uomo al bivio alla ricerca di un futuro nuovo e migliore”, l’interpretazione di Rivera si sviluppa in chiave ideologica, causando scandalo con l’inserimento nell’opera del volto di Lenin (tanto che l’opera verrà demolita). “Nell’incerto clima politico del tempo - in cui l’Europa era preda dei totalitarismi, l’Unione Sovietica era passata alla fase stalinista e l’economia era dominata da un capitalismo sfrenato e iniquo - non era possibile, secondo l’artista, sottrarsi a una presa di coscienza della realtà, in favore di una celebrazione meramente astratta e acritica del percorso dell’umanità verso la modernità” (1). In questa opera il lavoratore, al centro, dopo un lungo processo storico di emancipazione è diventato fautore del suo destino, “punto di raccordo fra microcosmo e macrocosmo”. Concezioni queste che mal coincidono con lo spirito del centro del capitalismo americano. Nel 1934 affresca un’opera, montata come una sequenza filmica, inneggia all’internazionale dei lavoratori, contrapposta ai capi reazionari, quali Hitler e Mussolini. A questo punto l’arte di Rivera è “troppo schierata”. Il suo impegno politico si intensifica: diventa consigliere della Lega degli Artisti e Scrittori Rivoluzionari e inizia l’aspra polemica con il collega muralista Siqueiros, di posizioni staliniste; tanto che nel 1935 Rivera rompe con il Partito Comunista Messicano, e nel 1936 si fa promotore della richiesta di asilo politico per Trotsky presso il presidente Cardenas. Nel 1937 Leon e Natalia Trotsky sono ospiti nella sua casa e di Frida, a Cayocàn; si aggiungeranno Andrè e Jacqueline Bréton: gruppo da cui nacque un intenso scambio intellettuale, culminato con la pubblicazione del manifesto “Per un’arte rivoluzionaria indipendente”, in difesa dell’autonomia del processo creativo dalle imposizioni della politica. É in questo periodo che Frida intrattiene una relazione sentimentale con Trotsky, in quanto, possiamo presumere, “la sua reputazione di eroe rivoluzionario, insieme alla sua vivacità intellettuale e alla forza di carattere, l’attrassero. senza dubbio l’ovvia ammirazione di Rivera per Trotzcky contribuì a soffiare sul fuoco: una relazione sentimentale con l’amico e idolo politico del marito era la rappresaglia perfetta per la storia tra riviera e la sorella” (2). Il 1941 è un anno di riflessione per Rivera, che si riavvicina al Partito Comunista Messicano (verrà riammesso solo nel 1954, mentre Frida già dal 1949). É doveroso puntualizzare, rispetto all’orientamento politico della pittrice, che “anche se l’orientamento politico di Frida non è in discussione resta da chiarire quale ne fosse l’intensità. Per qualcuno è un’eroina della sinistra, per altri fondamentalmente un’apolitica. Il calore e la freddezza dei suoi argomenti sembrano dipendere dall’atteggiamento politico della persona con cui stava parlando e, naturalmente, da ciò che Diego pensava veramente in quel momento”(3). Se non c’è dubbio che il matrimonio con Rivera influenzò profondamente il carattere e le scelte della Khalo, il suo operato artistico pare quasi agli antipodi del coniuge; quella di Frida è la pittura “che meglio si sottrae a qualsiasi influenza straniera e attinge più profondamente alle proprie risorse”. Lo stile di Khalo rifugge da ogni catalogazione. Esso è surrealista nel gioco delle libere associazioni, nella sua simbologia “sicura e profonda”; per lo spiccato manifestarsi di un “humor noir”; ma anche sul piano dell’indagine introspettiva, per il suo primitivismo e la ripresa di immagini-repertorio della tradizione popolare; e in ultimo per la sua adesione al marxismo. Caratteri questi che portarono il poeta Bréton ad invitare la pittrice ad unirsi al gruppo surrealista; ma la sua coincidenza col mondo psicologico dei surrealisti appare più accidentale che voluto: agli occhi degli europei la pittura di Frida, intrisa di fonti dell’arte popolare messicana e di pittura precolombiana, doveva apparire dichiaratamente surrealista. Ma l’incontro con l’arte occidentale sancisce il palese distacco di Khalo dall’ambiente europeo: “Frida si reca a Parigi quando la sua vita e la sua arte hanno raggiunto la maturità. Ci va controvoglia, su invito di Breton e dei surrealisti che vogliono farla militare sotto le loro insegne sfiorite. Vi resta poco tempo, detesta Parigi e l’ambiente degli artisti; - Este pinche Paris - Questa fottuta Parigi, scrive agli amici, e ritorna in Messico convinta dell’abisso che la separa dall’Europa e dai conformisti della rivolta intellettuale”(4). Il suo operato e il suo rifuggire da catalogazioni non deve essere inteso però come caratteristica d’attitudine sorniona: la sua pittura è intrisa di realismo culturale che testimonia una costante vigilanza che le permette la partecipazione all’evoluzione del linguaggio contemporaneo. Ella utilizza stili e oggetti quotidiani che mette al proprio servizio mediante una volare familiarizzazione, la quale toglie ogni spessore culturale. In questo senso l’arte di Frida Khalo è narcisista in quanto ella si appropria di linguaggi comuni, di “temi di nessuno” che, attraverso una personalissima elaborazione creativa se ne appropria, creando un proprio spazio di dominio; effetto di una volontà di potenza dell’artista che può solo se riservato da giudizi morali, senza tabù o sensi di colpa. Narcisismo che si traduce anche nella vita reale: in componenti di approccio libero alla sessualità, in atteggiamenti e abbigliamenti che trasformano Frida in una sorta di Dea pagana, dedita alla Bellezza e alla Vita, creando la sua propria immagine, la sua leggenda. Una pittura liscia, nitida e levigata che associa alla continua combinazione tra forme umane ed elementi animali (che derivano dall’immaginario azteco) un connubio dalla sintesi del tutto particolare con l’elemento tedesco, ovvero lo stile analista, dallo sguardo scettico e allucinato; recuperando il repertorio classicista, ovvero lo stile e la coscienza dell’impersonale oggettività del linguaggio artistico, inteso come strumento, e mai come fine (a tal proposito si concepisce la totale assenza di uno sforzo sperimentale); il linguaggio diventa l’unica realtà su cui costruire e ricostruire la pro- pria immagine che, deturpata da ogni soggettività (atteggiamento del tutto palesato nei suoi ritratti dallo sguardo distante, altezzoso, assente) permette di giungere alla percezione di una condizione esistenziale ”compatta e coerente”. La tela è il riflesso della sua sofferenza; l’infermità il luogo dove coltivare lo spirito; una condizione, quella fisica, perennemente instabile e sofferente: dal gravoso incidente (1925) che compromise la condizione del suo apparato osseo: situazione precaria che la portò a compiere ripetuti interventi chirurgici: dall’utilizzo di un bustino d’acciaio (a cui dedicò il dipinto della colonna spezzata), a svariati problemi di circolazione che portarono all’amputazione della gamba destra. Condizione questa, in cui la cognizione del dolore feconda l’atto del dipingere. UNITA’ DI CLASSE E’ L’ORGANO DI STAMPA DEL PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI ABBANDONA LE ILLUSIONI, UNISCITI ALLA LOTTA!! CONTATTACI sUL SITO TRAMITE E-MAIL www.pclavoratori.it [email protected] 1-C. Brook, Art dossier, Giunti, 2007 2-H. Herrera, Frida, La tartaruga edizioni, 1993 3-J-M G. Le Clézio, Il saggiatore, 2008 4-H. Herrera, Frida, La tartaruga edizioni, 1993