Istituto MEME: Crimini violenti - Quando l`aggressività contro la

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Istituto MEME: Crimini violenti - Quando l`aggressività contro la
Istituto MEME
associato a
Université Européenne
Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles
Crimini violenti
Quando l’aggressività contro la donna prende la forma del delitto
Scuola di Specializzazione:
Relatore:
Collaboratori:
Contesto di Project Work:
Tesista Specializzando:
Anno di corso:
Scienze Criminologiche
Dott.ssa Fedora Matini
Dott.ssa Roberta Frison
Casa Circondariale Regina Coeli
Lidia Fiscer
Secondo
Modena: 16 giugno 2012
Anno Accademico: 2011 - 2012
ISTITUTO MEME S.R.L.- MODENA ASSOCIATO A UNIVERSITÉ EUROPÉENNE JEAN MONNET A.I.S.B.L. BRUXELLES
Lidia Fiscer – Scuola di Specializzazione Triennale in Scienze Criminologiche (Secondo Anno) A.A. 2011 - 2012
INDICE DEI CONTENUTI
1. Introduzione ....................................................................................................……... 4
2. La criminalità
2.1. Il fenomeno ed i suoi tanti interrogativi ….....……………………….....……… 7
2.2. Quando un crimine si definisce violento ……………………………...……… 10
2.3. Le principali teorie sulla criminalità ……………………………...................... 13
3. Il luogo comune: criminale = malato di mente
3.1. Psicopatologie e criminalità ……………………..……………………………. 17
3.1.1. Qualche esempio …………………………………..………………………... 17
4. L’aggressività: componente predominante nei crimini violenti
4.1. Definizione di aggressività ………………………..………………………….. 22
4.2. Le diverse spiegazioni causali del comportamento aggressivo …………..…... 23
4.2.1. Teorie etologiche ………………………………………..………………….. 24
4.2.2. Teorie biologiche …………………………………………..……………….. 27
4.2.3. Teorie genetiche ………………………………………………………...…... 29
4.2.4. Teorie comportamentiste …………………………..……………………….. 31
4.2.5. Conformismo e autoritarismo ………………..……………………………... 34
4.2.6. Teorie dell’attaccamento ……………………………………………...…….. 36
4.2.7. Teoria della violenza …………………………………………………...…… 38
4.2.8. Abuso di alcool e sostanze …………………………..……………………… 40
4.2.9. Perversioni sessuali ………………………………..………………………... 43
5. Il lato criminale delle persone “normali”
5.1. La storia di Ted Bundy ………………………………..……………………… 45
5.2. La storia di T.D .………………………………………………………...…….. 51
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6. Forme di legame morboso e patologico
6.1. La storia di Tiziana Falbo …………………………………..………………… 54
6.2. La storia di Anna Costanzo ……………………………………………...……. 58
6.3. La storia di Roberta Vanin ……………………………………………...…….. 63
6.4. La storia di Vanessa Scialfa …………………………………………...……… 69
7. La prevenzione
7.1. I diversi approcci …………………………………………..………………….. 71
Conclusioni …………………………………………………..………………………. 73
Bibliografia …………………………………………..………………………………. 75
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Introduzione
Ogni otto minuti nel mondo una donna viene assassinata. Oramai, ai nostri occhi, il
fenomeno si presenta con evidenza sempre più drammatica: le vittime di crimini
violenti nella stragrande maggioranza sono donne. E anche se, i casi celebri che hanno
occupato per giorni, mesi a volte addirittura anni, le pagine dei giornali sono tanti,
bisogna ricordare che troppo spesso la violenza contro le donne si consuma nel silenzio
o nell’indifferenza. Il più delle volte sono vittime in molti sensi: della povertà o della
prostituzione organizzata ma anche di partners violenti prima ancora che del serial killer
che ha rivolto la sua furia omicida contro di loro.
E’ proprio la vulnerabilità all’interno del tessuto sociale a renderle facili prede:
Gianfranco Stevanin e Volker Eckert hanno preso di mira donne sconosciute e indifese.
Ma si uccidono donne anche per il senso di possesso frustrato, perché non si vuole
accettare la fine di una relazione o per gelosia, spesso associata a vere e proprie forme
di ossessione morbosa o addirittura patologica, come nel caso di Elisa Claps che è stata
vittima del desiderio dell’uomo che ha rifiutato.
Secondo l’ultimo rapporto Istat sulla violenza e i maltrattamenti contro le donne dentro
e fuori la famiglia, nel nostro Paese 5 milioni di donne nell’arco della vita hanno subìto
violenze sessuali, 3 milioni 961 mila violenze fisiche. Non passa giorno senza che
qualcuna venga picchiata, schiaffeggiata, presa a calci, pugni o morsi, minacciata con
una pistola o un coltello, aggredita, molestata, stuprata.
Sono numeri che fanno rabbrividire, anche perché spesso i reati si consumano
all’interno della coppia: il 14,3% delle donne che ha avuto una relazione è stata vittima
di violenza fisica o sessuale da parte del partner, che tende inoltre a ripeterne l’abuso.
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Nella quasi totalità dei casi le aggressioni non vengono denunciate. Un terzo delle
vittime non solo non si rivolge alle forze dell’ordine, ma non si confida con nessuno di
ciò che le è successo, chiudendosi così in un isolamento che rende il trauma ancora più
duro e la lotta al crimine più difficile. Persino il Presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano, il 25 novembre 2009, in occasione della Giornata Mondiale contro la
Violenza alle Donne, ha sottolineato l’importanza di sradicare “una concezione della
donna come oggetto di cui ci si può appropriare: è infatti la persistenza di questi
aberranti schemi mentali a favorire il riprodursi di insopportabili atti di sopraffazione
anche in ambito familiare”.
Sempre più spesso la violenza si spinge fino all’omicidio. Rispetto a vent’anni fa – così
riferisce uno studio della Fondazione Icsa – il numero di donne uccise è
straordinariamente aumentato. Nel 1991 erano soltanto l’11%, mentre oggi superano il
25%, come dire che in Italia rappresentano oltre un quarto delle persone assassinate.
In particolar modo, si è registrato un preoccupante incremento degli omicidi commessi
tra le mura domestiche: questi ultimi sono cresciuti di quasi il 50% negli ultimi dieci
anni. Si parla di uno su due sul totale degli omicidi. Solo in poco più della metà dei casi
l’assassino confessa e si costituisce, un terzo si uccide o tenta di suicidarsi senza
riuscirci. Infine, in un caso su dieci, l’accusato nega il proprio coinvolgimento.
Nei primi quattro mesi del 2012 gli omicidi di donne avvenuti nel nostro Paese sono
stati 54, un numero elevatissimo in quanto il dato è di un omicidio ogni due giorni.
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2. LA CRIMINALITA’
2.1 Il fenomeno ed i suoi tanti interrogativi
La preoccupazione per la criminalità costituisce ormai da qualche anno uno dei temi
principali nel discorso pubblico del nostro Paese. Per la verità il termine criminalità
include un vasto insieme di eventi, alcuni simili, altri assai diversi tra loro.
La criminalità economica, ovvero i reati commessi nell’ambito di un’attività lavorativa
legittima – come la corruzione – è molto diversa dalla criminalità violenta costituita da
reati come omicidi o violenze sessuali; la cosiddetta criminalità predatoria, rivolta ad
ottenere vantaggi illeciti sottraendo beni e risorse ai legittimi proprietari – come nel
caso dei furti o delle rapine – è diversa dalla violenza politica o dai reati riconducibili ai
mercati illegali, come quelli della prostituzione o della droga.
Ma sempre più, oggi, è la criminalità comune, l’insieme degli omicidi e delle violenze
sessuali, ad essere al centro delle preoccupazioni dei cittadini, in particolar modo delle
donne, dell’attenzione dei mezzi di comunicazione di massa e delle richieste di
intervento rivolte alle istituzioni.
Il fenomeno criminale è un problema globale, presente:
- in ogni tempo e in ogni epoca;
- in tutti in continenti;
- sotto tutti i regimi politici;
- in qualsiasi sistema sociale;
- in qualunque ambiente.
Riguardo tale fenomeno, diversi sono stati gli interrogativi per comprenderne le cause e
prevenirne gli effetti sulle vittime:
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- si nasce o si diventa criminale?
- il criminale è un soggetto che soffre di disturbi mentali?
- quali sono le cause della criminalità?
- esistono fattori di rischi che inducono a commettere un delitto?
- ed il lato oscuro della personalità?
- quale significato ha il delitto per ogni criminale?
- esistono misure di prevenzione efficaci?
Rispondere a tutti questi quesiti non è facile, considerando che la criminalità ha una
natura eziologica diversificata e molto ampia.
Per comprendere il fenomeno è necessario, in primis, analizzare il lato oscuro della
personalità, presente in ognuno di noi.
Secondo quanto sostiene Sigmund Freud l’uomo ha istinti aggressivi e passioni
primitive che portano allo stupro, all’incesto, all’omicidio; tali istinti sono però tenuti a
freno, in modo imperfetto, dalle Istituzioni sociali e dai sensi di colpa.
Nella personalità, dunque, di ogni individuo c’è un lato nascosto, oscuro, normalmente
represso che, se liberato, ci potrebbe trasformare in criminali, in crudeli assassini, in
pericolosi delinquenti.
Benché, però, presente in tutte le persone, la maggior parte di queste non commette
stupri, né omicidi, né commette rapine; ciò perché i freni inibitori della morale, delle
leggi e dei sensi di colpa funzionano ma anche perché il comportamento criminale viene
adeguatamente ingabbiato ed imbrigliato dalle regole educative della famiglia, della
scuola e della religione.
Il problema si pone quando i freni inibitori non funzionano e vengono scavalcati dalle
emozioni, dalle passioni e dal piacere che si prova nel commettere un reato.
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Da ciò emerge che non esistono persone buone o cattive, il prevalere dell’una o
dell’altra componente dipende dalle occasioni, dai contesti sociali e dagli stati
psicologici (impulsi passionali e forti emozioni) e quindi in determinate occasioni
chiunque può diventare criminale ed esprimere i propri impulsi antisociali.
La domanda più ricorrente è: cosa determina un comportamento antisociale? Le risposte
potrebbero essere diverse:
- egocentrismo;
- sofferenza psicologica (frustrazione);
- ricerca del piacere e del potere;
- edonismo a breve termine;
- deficit nel controllo degli impulsi (motori, cognitivi, sessuali).
Sulla base di ciò, le motivazioni alla base di una condotta delittuosa sono svariate e
pertanto, si può commettere un crimine per denaro (impossessarsi del patrimonio
ereditario familiare), per vendetta (reazione aggressiva apparentemente immotivata, alla
quale si perviene con un livello di frustrazione insopportabile), per invidia, per gelosia,
per imitazione (accade per episodi che hanno suscitato notevole interesse nell’opinione
pubblica, scatenando desiderio di “spettacolarità” da parte dell’osservatore prima, e
dell’autore in seguito), per noia (frustrati dalla banalità del vivere quotidiano, desiderosi
di compiere un qualcosa di eccezionale che possa suscitare stati di eccitazione: una
pietra lanciata da un cavalcavia, in una giornata come tante altre, è in grado di
provocare brividi emozionanti nel “tiratore scelto”, e, al tempo stesso, di ridurre a
semplice “bersaglio da non mancare” l’esistenza altrui).
Dunque, le motivazioni che spingono ad una condotta criminale hanno dell’assurdo, ma,
per quanto tali, riflettono la realtà per eccellenza: ciascuno di noi è potenzialmente
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vittima, e, di certo, possibile criminale!
2.2 Quando un crimine si definisce violento
La violenza è un’azione fisica o psichica esercitata da una persona su un’altra al fine di
indurla a compiere atti che altrimenti non avrebbe compiuto.
L’OMS definisce la violenza come l’uso intenzionale o la minaccia della forza fisica
contro sé stessi, contro un’altra persona o un gruppo o una comunità che abbia un’alta
probabilità di provocare una ferita, la morte, un danno biologico o psicologico. Non tutti
i comportamenti violenti sono criminali e quindi punibili, nel senso che per essere
identificati come tali devono violare le normative del Paese in cui sono perpetrati. Per
criminalità violenta s’intende, quindi, la messa in atto di una condotta criminosa
compiuta con atti di violenza, ovvero una tipologia di reato, disciplinata dal C.P., contro
la persona, quindi contro la vita, l’incolumità, la libertà individuale e personale, e
rientrano in questa casistica:
i delitti per strage, gli omicidi dolosi, gli infanticidi, i feticidi, gli omicidi
preterintenzionali, i tentati omicidi, le lesioni dolose, le violenze sessuali, i sequestri di
persona, gli attentati dinamitardi e/o incendiari, le rapine (gravi e meno gravi).
Dal punto di vista sociale, per la riprovevolezza che suscita nell’opinione pubblica e dal
punto di vista giuridico, per la pena comminata, l’uccisione di una persona rappresenta
il crimine violento per eccellenza ma non tutte le tipologie di omicidio possono
considerarsi crimini violenti. Nell’omicidio colposo, una persona cagiona la morte di
un’altra per negligenza, imperizia, imprudenza o inosservanza di leggi; o quando ad
uccidere è il pubblico ufficiale costretto dalle circostanze o un qualsiasi cittadino per
respingere una violenza o vincere una resistenza, come nei casi di legittima difesa.
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Senza dubbio, il crimine più efferato è il classico omicidio volontario, semplice o
aggravato, commesso da chi agisce con la tipica volontà di uccidere. Le tipologie di
omicidio possono assumere differenti connotazioni a seconda di una variabile
fondamentale, ovvero la motivazione che spinge un individuo a commettere questo
reato: possono avere carattere impulsivo, perché commesso dall’agente spinto da una
motivazione istintiva, irrazionale ad agire; pianificato, quindi premeditato, cioè
preparato per tempo; strumentale, come mezzo per raggiungere un altro fine; espressivo,
come atto di violenza fine a sé stesso. L’omicidio può avvenire tra familiari (uxoricidio,
parricidio, fratricidio, ecc…), tra amici e/o colleghi di lavoro, tra estranei.
Una variabile da prendere in considerazione è la scelta del mezzo con cui si compie un
omicidio: arma da fuoco, arma da taglio, altre. Le statistiche odierne dicono che il
mezzo più frequentemente utilizzato per omicidi di mafia è l’arma da fuoco, diverso per
quelli a sfondo passionale o che si consumano in ambiti familiari dove l’arma più usata
è quella da taglio.
Nel nostro Paese, il fenomeno degli omicidi volontari risulta numericamente poco
rilevante rispetto alla totalità dei delitti commessi e, contemporaneamente molto
conosciuto e studiato sotto il profilo qualitativo, grazie all’alto numero dei delitti risolti
che hanno consentito di raggiungere un elevato grado di informazione sulle diverse
peculiarità del fenomeno stesso. Dagli indicatori statistici emerge una distinzione
fondamentale tra gli omicidi: quelli riconducibili alla criminalità organizzata che
rappresentano il 25% dei delitti rilevati, contro il 75% a lei non ascrivibili, ovvero
omicidi commessi in ambito familiare, o scaturiti da liti violente (motivi passionali,
rancore, follia), oppure verificatisi a seguito di risse o futili motivi, nonché quelli
compiuti nel corso di rapine o furti.
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Di notevole importanza per i suoi risvolti anche sociali è l’omicidio consumato in
ambito familiare, ciò perché da sempre la famiglia rappresenta l’embrione, il nucleo
della società, in cui nascono e crescono relazioni affettive, culturali, valori da
condividere. L’omicidio in famiglia, nel nostro Paese, rappresenta mediamente il 40%
del totale dei delitti volontari, inoltre in otto casi su dieci di omicidio volontario
consumato tra le mura domestiche, gli autori del reato sono uomini e per contro, le
vittime sono le donne, e nella fattispecie si tratta più frequentemente di uxoricidio.
Tradizionalmente, già dal 1800, si riteneva che le due motivazioni fondamentali
dell’omicidio in famiglia fossero legati a fattori economici (eredità) e passionali
(gelosia, adulterio, amore respinto).
Oggi, tuttavia, le dinamiche sono molto più complesse: relazioni affettive intrafamiliari
turbate, distorte, schiacciate dalla quotidianità, dalle frustrazioni, da insoddisfazioni e da
sconfitte che generano aggressività e impulsività non sempre manifestate. Senza
dimenticare che da tutto ciò possono sorgere delle vere e proprie psicopatologie mentali
ed è proprio in questi casi di omicidio in famiglia che solitamente viene disposta la
perizia psichiatrica, proprio perché la famiglia è considerata, nell’immaginario
collettivo, come il nucleo di condivisione positiva di affetti, gioie e relazioni amorose.
Il fatto che si possano commettere azioni così efferate è contro natura, quindi ci si
aspetterebbe una motivazione anche se ciò appare pur sempre irrazionale e non
comprensibile, soprattutto quando non si è in presenza di psicopatologie.
È da precisare, però, che nella maggior parte dei casi la perizia disposta dall’Autorità
Giudiziaria viene richiesta più spesso quando l’autore del reato è una donna, proprio
perché nell’opinione pubblica è diffusa l’idea e l’aspettativa che la donna omicida sia
più anormale. Già nella letteratura criminologica Positiva, la devianza femminile non
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era configurata come ribellione, trasgressività, atteggiamenti critici nei confronti della
società, ma più semplicemente come anomalia biologica o malattia psicologica. Alle
donne delinquenti non veniva riconosciuta una veste razionale, come risposta a specifici
problemi o conflitti sia interni che esterni, per questo erano considerate come o da
“curare” o da “allontanare dalla società”. Ancora oggi l’infanticidio o l’omicidio di un
bambino per mano materna, oltre ad essere percepito umanamente inaccettabile e
culturalmente destabilizzante viene ricondotto ad un’unica spiegazione causale: la
pazzia.
In generale ci si aspetta che l’omicidio in famiglia sia dovuto a cause psicopatologiche,
ma in realtà alcune ricerche hanno evidenziato che il loro tasso di incidenza è pari al
20%; seguono poi altre cause: litigiosità in famiglia (35%), abuso di alcool o sostanze
stupefacenti (25%), gelosia (10%), interessi economici (10%).
2.3 Le principali teorie sulla criminalità
La criminalità è stata oggetto di diversi studi per cercare di inquadrare l’eziologia del
fenomeno e le principali teorie possono essere raggruppate secondo tre indirizzi:
- sociologico: teorie elaborate sulla base degli studi dei fenomeni sociali;
- psicologico: teorie della personalità;
- biologico: teorie caratterizzate da una visione organicistica.
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Nessuna di queste teorie fornisce una spiegazione valida a comprendere tutti i
comportamenti criminali e tutti i soggetti che li compiono, individuano solo la probabile
origine del comportamento criminale in un semplice meccanismo di causa-effetto senza
considerare che esistono numerosi fattori coinvolti nella genesi delle condotte devianti.
A tal proposito, da tener presente e non sottovalutare sono i fattori di rischio, cioè tutte
quelle condizioni la cui presenza è associata ad una maggiore probabilità di sviluppare
un comportamento disadattivo.
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3. IL LUOGO COMUNE: CRIMINALE = MALATO DI MENTE
3.1 Psicopatologie e criminalità
La scienza criminologica tradizionale ha cercato di tracciare un parallelismo tra malattia
mentale e crimine.
Mentre alcuni autori sostengono che il reato è l’espressione sintomatica di un disturbo
psichico, altri, invece, affermano che la malattia mentale molto spesso determina
comportamenti aggressivi e contrari alle norme.
Sulla base dei dati delle ricerche, si è giunti a risultati non univoci e contrastanti ed è
stato questo il problema giacché tutt’oggi non si può con certezza attribuire ad un
disturbo psicopatologico la causa primaria della criminalità; tale disturbo può essere
solo una probabilità.
Le numerose ricerche svolte non sono state riferite agli stessi parametri di indagine;
sono stati utilizzati, infatti, campioni differenti per caratteristiche sociali e ambientali e
si sono riscontrate delle differenze in relazione alle nosografie e alle norme medico
legali seguite nonché una negligenza nel considerare la variabile della comorbilità1.
3.1.1 Qualche esempio
Di seguito sono riportate le possibili espressioni dell’aggressività nelle diverse
sintomatologie:
- malattie organiche: ritardo, demenza, disturbi neurologici;
- disturbi affettivi: in fase maniacale (onnipotenza, mancanza di accettazione dei limiti,
impulsività, rabbia, frequentemente deliri) o in fase depressiva (omicidio missionario
1
In campo medico si intende la coesistenza di due (o più) patologie diverse in uno stesso
individuo.
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per salvare i cari dalla rovina);
- abuso di sostanze: cocaina, cannabis, oppiacei, LSD, amfetamine e alcool (con deliri
di gelosia e persecuzione);
- disturbi di personalità: modalità di percepire e rapportarsi all’ambiente sociale in
modo troppo rigido e non adattivo.
Esistono 3 cluters:
A: distrurbi di personalità BIZZARRI: paranoide, schizoide e schizotipico;
B: disturbi di personalità centrati su ANSIA e INSICUREZZA: evitante, dipendente,
ossessivo-compulsivo;
C: disturbi di personalità connessi all’IMPULSIVITA’ e all’IMPREVEDIBILITA’:
istrionico, narcisistico, antisociale e borderline.
SCHIZOFRENIA
 Reati associati:
- contro la persona: aggressione e omicidio che possono avvenire durante i deliri (a
tematica persecutoria, quelli di gelosia) o allucinazioni o ne sono la diretta conseguenza.
 Omicidio:
- tentativo di risolvere la situazione di pericolo da cui si sente minacciato il soggetto.
 Vittime:
- membri della famiglia o persone di riferimento.
DEPRESSIONE MAGGIORE
 Reati spesso associati:
- omicidio-suicidio, strage familiare, figlicidio.
 Omicidio:
- attuazione di deliri di morte o di distruzione in cui il soggetto coinvolge nella sua
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visione irrimediabilmente pessimistica della vita, le persone a lui più care;
- insorgere a danno di chi contrasta la sua volontà suicida.
DISTURBO ANTISOCIALE
 Il movente dei reati:
- ricerca di un vantaggio personale: economico, di potere, di prestigio, di liberazione da
un intenso stato di irritabilità.
 Reati associati:
- contro la proprietà: furti, rapine, appropriazione indebita.
- contro la persona: aggressioni, violenze domestiche, omicidi.
 Fattori di rischio di azioni violente:
- impulsività, intesa come stile di vita impulsivo, instabile ed irresponsabile;
- narcisismo, manipolazione, insensibilità;
- mancanza di rimorso.
DISTURBO BORDERLINE
Caratterizzato da:
- instabilità nelle relazioni interpersonali, nell’autostima, negli affetti in genere;
- incapacità a tenere a freno gli impulsi.
Comportamenti criminali:
 tre categorie:
- crimini connessi all’assunzione di rischi per l’altrui e la propria incolumità e ai
comportamenti di abuso (guida pericolosa, abuso di sostanze e modi di procurarsele);
- crimini connessi all’impulsività e alla instabilità emotiva (aggressione, omicidio,
violenza familiare, stalking, violenza sessuale, incendio doloso);
- crimini connessi alla ricerca di un’identità attraverso l’identificazione con un’identità
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negativa, deviante.
DISTURBO SCHIZOIDE, PARANOIDE E SADICO DI PERSONALITA’
 Disturbo schizoide:
- distacco nelle relazioni interpersonali;
- appiattimento delle relazioni emotive.
 Disturbo paranoide:
- diffidenza, con tratto prevalente di sospettosità, nelle relazioni sociali.
 Disturbo sadico:
- freddezza emotiva che rende possibile il comportamento aggressivo, crudele e
umiliante.
Omicidi:
- distanza tra vittima e carnefice (casi di avvelenamento e nella maggior parte dei casi
realizzazione di deviazioni sessuali);
- per gelosia morbosa, vendetta, fanatismo (religioso o politico);
- sevizie, lesioni, maltrattamenti in famiglia.
DISTURBO DA SOSTANZE
 Disturbi associati all’assunzione di una sostanza di abuso, sia droghe che farmaci
psicotropi.
Reati commessi:
- contro la proprietà: furti, rapine, truffe, estorsioni, danneggiamenti;
- contro la persona: aggressioni, violenza domestica, abusi sessuali, omicidio.
L’incapacità di intendere e di volere è conclamata nella sfera della psicosi e della
personalità paranoide, mentre in tutti gli altri casi è necessaria una valutazione molto
più complessa.
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Si può concludere che rispetto al comportamento criminale è riduttivo il dualismo:
SANO = NORMALE
MALATO = CRIMINALE
Non tutti i criminali sono psicopatici e non tutti gli psicopatici sono criminali. Tutte le
tipologie di personalità sono compatibili con le condotte criminali.
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4. L’AGGRESSIVITA’:
COMPONENTE PREDOMINANTE NEI CRIMINI VIOLENTI
4.1 Definizione di aggressività
Dal punto di vista semantico, in generale aggressività significa un agito che tende
all’ostilità e finalizzato alla diminuzione del potere dell’altro e dalla “vittima” vissuto
come minaccia al proprio potere. Oltre ad una definizione semantica, però l’aggressività
viene vista e studiata anche dal punto di vista del suo significato etimologico. La parola
aggressività deriva dal latino aggredior e significava avvicinarsi o avvicinare e veniva
usata spesso come sinonimo per indicare l’azione di accusare, di intraprendere, di
assalire. Essa è formata dalla composizione di due parole ad (moto a luogo) più gredior.
Gredior a sua volta, deriva da Gradi, di origine celtica, che significa camminare,
procedere per passi. Da gredior derivano poi tutte quelle parole che sottolineano
l’andare, la vicinanza, l’entrare in contatto, come ad esempio: in-gredior, andare dietro;
pro- gredior, andare avanti; re-gredior, andare indietro; fino al nostro ad-gredior,
andare verso. Si può allora concludere da questa rapida analisi etimologica che la parola
aggressività inizialmente significava procedere, avanzare, raggiungere i propri scopi e
in essa non vi era un aspetto morale predominante, in quanto non prevedeva
implicitamente un agito tendente all’ostilità e a creare vittime.
Nella lingua corrente, con il termine aggressività, si può intendere:
- un comportamento che si traduce in danni alla persona o alla proprietà;
- un comportamento inteso a danneggiare un membro della stessa specie;
- l’intenzione di infliggere un danno ad altri;
- una potenzialità biologica o psicologica che non sempre e necessariamente si esplica
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in violenza comportamentale.
Non ha dunque un significato intrinseco patologico, ma lo diventa quando si perde il
controllo, non la si modula e non la si adegua alle situazioni e non la su sublima in
attività creative. In tal caso assume aspetti di stereotipia, impulsività ed è agita in modo
finalistico e potenzialmente criminale.
Da quanto emerge, quindi, l’aggressività è un’azione intenzionale volta a provocare
dolore fisico o psicologico in una persona. Pur essendo intenzionale non implica, però,
che l’intenzione sia sempre uguale.
L’aggressività, infatti, può essere:
ostile: l’unico scopo dell’aggressore è vedere soffrire la vittima, infliggendo dolore
fisico o psicologico;
strumentale: l’aggressore pone in essere un comportamento aggressivo per raggiungere
un altro scopo; questo tipo di aggressività è razionale e calcolata in quanto è utilizzata
da un individuo per massimizzare al meglio i propri profitti;
emozionale: l’aggressore è indotto ad agire da sentimenti come la rabbia, l’ira, la
frustrazione e spesso in assenza di un’analisi razionale sui costi e benefici. Questo tipo
di aggressività è reattiva e impulsiva.
4.2 Le diverse spiegazioni causali del comportamento aggressivo
L’aggressività è oggetto di interesse e di studio della psicologia, della biologia, della
medicina, dell’etologia, della biochimica e del diritto da più di un secolo e in questo
lasso di tempo sono state sviluppate e sistematizzate diverse teorie ed ipotesi sul
comportamento aggressivo umano. Questo interesse storicamente si è mosso in ordine
sparso e i vari autori hanno spesso lavorato in solitudine concettuale, prettamente nel
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loro alveo meta-psicologico di riferimento, in tempi differenti e su particolari diversi del
comportamento aggressivo.
Ad oggi, pertanto, l’esito di questo interesse ha determinato un contesto nel quale vi è
una ricca tradizione di ricerca sull’aggressività e molte teorie ed ipotesi sul suo
funzionamento, ma senza un “locus” nel quale questi studi possano ritrovarsi tutti,
generando per questo un quadro disomogeneo di conoscenze sull’argomento, che ne
limita la possibilità di sfruttamento finalizzato a ridurre i comportamenti aggressivi
nella società.
4.2.1 Teorie etologiche2
Tutta una serie di ipotesi sull’aggressività umana prende spunto da osservazioni fatte nel
mondo animale, certamente suggestive anche per capire certi aspetti del comportamento
della nostra specie.
Probabilmente il più noto studioso del comportamento animale è Lorenz, il quale dedicò
un intero libro all’aggressività, dal significativo titolo “Il cosiddetto male”.
L’Autore distingue fra “aggressività interspecifica” (fra specie diverse) e “aggressività
intraspecifica” (fra individui della stessa specie), e comunque riconosce che
l’aggressività animale ha un aspetto adattivo e positivo per la sopravvivenza del singolo
e della specie. Il punto, però, è che mentre negli animali l’aggressività intraspecifica è
tenuta sotto controllo da meccanismi inibitori, nell’uomo l’evoluzione culturale ha
vanificato i meccanismi di autoregolazione, senza contemporaneamente preparare nuovi
controlli, anche per le diverse velocità di evoluzione di natura e cultura: lenta la prima,
2
Il termine etologia (dal greco ethos e logos che significano rispettivamente “carattere” o
“costume” e “discorso”) indica la moderna disciplina scientifica che studia il comportamento
animale nel suo ambiente naturale.
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velocissima ormai la seconda.
Inoltre, l’aggressione intraspecifica negli animali, non solo riveste precise funzioni di
sopravvivenza dell’individuo e della specie, ma raramente ha esiti letali, e piuttosto si
avvale di un insieme di meccanismi di contenimento, ritualizzati, che inibiscono
l’aggressività del rivale. Invece, “tra le varie caratteristiche della nostra specie ve n’è
un’altra strana e inconsueta nel regno animale: l’uomo è l’unico animale che uccide
sistematicamente, in modo organizzato, in massa, individui della stessa specie. È molto
probabile che l’origine di questa terribile caratteristica sia di natura culturale. In genere
l’uomo si è evoluto organizzando quella che era aggressività aperta in forme
ritualizzate, in messaggi incruenti che consentono la coesistenza pacifica in sistemi a
carattere per lo più gerarchico. In altre parole, al vero attacco viene sostituito un segnale
di aggressività che può essere placato dall’emissione, da parte di un altro conspecifico,
di un segnale di sottomissione. Si determina in questo modo un rapporto di
predominanza-sottomissione, che viene periodicamente verificato e che consente la
convivenza degli individui nel gruppo, la socialità.
L’etologia ha evidenziato, anche per la nostra specie, omologhi segnali ma la
rapidissima evoluzione culturale ha reso alcuni di questi segnali in moltissime situazioni
inadeguati.
Analogamente, Fromm, ha distinto due tipi di aggressività: quella benigna-difensiva,
comune a tutte le specie di animali superiori, che è un impulso istintuale programmato
verso l’attacco o verso la fuga quando sono in gioco gli interessi biologici vitali;
aggressività, pertanto, non sempre nociva almeno per la propria specie, ma che anzi ne
favorisce la sopravvivenza.
Non mancano, anche nelle società animali, modalità aggressive intraspecifiche, e non si
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esclude che i meccanismi di autoregolamentazione non presentino delle eccezioni, ma
fra gli animali queste cose sono – appunto – “eccezioni alla regola”, mentre nell’uomo
l’aggressività intraspecifica è sempre norma. Fromm definisce, dunque, aggressività
maligna o distruttiva, la peculiare aggressività umana. Questo tipo di aggressività non è
istintuale, ma dipende dalla struttura sociale ed è appresa e rinforzata attraverso i
rapporti interpersonali e sociali, così da far parte della cultura delle diverse società.
Anche negli animali non è solo la biologia a determinare gli esiti comportamentali. La
pulsione ad assalire e il suo contrario, quella a fuggire ovvero ad immobilizzarsi, sono
infatti, cagionati da stati emotivi primordiali (proto-emozioni) di collera o di paura, che
non sono però da intendersi come entità disgiunte: un animale posto di fronte ad una
situazione minacciosa esprimerà rispettivamente con la fuga o con l’attacco il suo stato
interiore di paura o di rabbia; ma ciò che determina il tipo di reazione motoria (l’attacco
oppure la fuga o l’immobilizzazione) non è solo la natura dello stimolo, ma anche il
modo secondo cui l’animale lo vive o lo percepisce emotivamente, in relazione a sé e
all’ambiente.
È facile osservare come anche un piccolo animale, che normalmente fugge di fronte ad
animali più forti di lui, possa diventare altamente aggressivo qualora venga bloccata
ogni via di fuga. Già a livello proto-emotivo sussiste, quindi, una stretta correlazione tra
due stati affettivi di segno contrario, in cui indubbiamente processi cognitivi ed
esperienze giocano un ruolo determinante nella motivazione comportamentale.
D’altro canto, anche da un punto di vista fisiologico, è stata dimostrata l’esistenza di un
rapporto tra rabbia e paura, e tra aggressività ed ansia, ed esperimenti di laboratorio
hanno evidenziato che l’elettrostimolazione della medesima zona dell’encefalo che
sovrintende alla comparsa delle proto-emozioni induce uno stato che può essere di
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rabbia o di paura, a seconda che siano disponibili vie di fuga, se la tana è più o meno
vicina, se ci si trova di fronte ad animali più deboli o più forti.
L’ambiente, dunque, esercita un ruolo fondamentale, ed è l’interpretazione
dell’ambiente da parte dell’animale a decidere il tipo di risposta, di aggressione o di
fuga, che non è pertanto legata a schemi di azione esclusivamente dovuti all’istinto.
4.2.2 Teorie biologiche
Non c’è dubbio che esista un substrato neurologico dell’aggressività, e che dunque
traumi cranici, lesioni cerebrali, malattie dell’encefalo, disturbi nei processi
neurotrasmettitoriali, stati ipoglicemici e quant’altro possano intervenire nel favorire la
risposta aggressiva e violenta. È del pari indubbio che le ricerche che cercano di far luce
su tali correlazioni siano di particolare interesse, purché, come già detto a proposito
delle teorie che hanno cercato di spiegare l’aggressività umana con l’osservazione degli
animali, non si dimentichi il destino degli uomini, di esseri, cioè, dal comportamento
multicausale.
Dal punto di vista anatomico, il comportamento aggressivo è stato associato a
disfunzioni o lesioni nei lobi frontali3 e temporali4. Una lesione dell’amigdala5 può
essere responsabile di interferenze con il giudizio sociale, in particolare nella capacità di
decodificare il significato delle espressioni facciali, il che, a propria volta, può portare
all’incapacità di interpretare adeguatamente i segnali sociali e condurre quindi ad
3
4
5
I lobi frontali sono quelle strutture che mediano le abilità di pensiero astratto, organizzano il
comportamento in sequenze logiche ed in serie temporale, inibiscono risposte automatiche
inappropriate agli stimoli ambientali.
I lobi temporali sono quelle strutture che elaborano il riconoscimento visivo, la percezione
uditiva, la memoria e l’affettività.
L’amigdala è una parte del cervello che gestisce le emozioni ed in particolar modo la paura.
Fornisce ad ogni stimolo il livello giusto di attenzione, lo arricchisce di emozioni e, infine,
ne avvia l’immagazzinamento sotto forma di ricordo.
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un’alterata risposta alla paura.
Raine ha osservato deficit funzionali e strutturali a livello dei lobi frontale e temporale
in 41 soggetti antisociali, ipotizzando così che una disfunzione prefrontale possa
causare difficoltà nel controllo e determinare una predisposizione al comportamento
aggressivo; questi deficit risultano connessi ad impulsività, immaturità, difficoltà a
modificare ed inibire il comportamento, povertà di giudizio sociale. Anche in questo
caso, però, perché si realizzi effettivamente il comportamento aggressivo occorre la
compresenza di fattori ambientali, psicologici, sociali.
Ancora una volta, è impossibile percorrere scorciatoie; per esempio, danni neurologici,
anche non gravi, possono provocare lentezza del pensiero, vocabolario limitato,
compromissione delle funzioni di prevenzione e di anticipazione, che a loro volta
intervengono nelle relazioni sociali e producono rabbia e frustrazione che possono
favorire il comportamento aggressivo.
Si tratta, in pratica, di quei soggetti per i quali risulta più facile colpire che parlare;
infatti, alcuni di questi, mancano di una particolare capacità percettiva e perdono,
quindi, elementi che sono essenziali per addolcire le interazioni sociali, per es.
l’espressione del viso, il tono della voce ed il linguaggio del corpo; di conseguenza,
questi individui non percepiscono nemmeno l’ira o la tristezza degli altri. Alcuni non si
rendono conto della propria ira e della propria mancanza di tatto, e quindi non
comprendono il perché si alienino la gente.
Ciò, quindi, non significa certo escludere l’intervento delle anomalie neurologiche nel
gioco dei fattori favorenti un esito aggressivo, ma solamente ritenere che tale
partecipazione sia mediata anche da altri fattori.
Con analoghe precisazioni, anche i fattori biochimici possono influenzare il passaggio
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all’atto aggressivo.
In particolare, il sistema serotoninergico6 è, fra i sistemi neurotrasmettitoriali centrali,
quello maggiormente implicato nella modulazione dei comportamenti umani violenti.
In ogni caso, è da precisare, che può parlarsi al più di un rapporto fra biologia e
comportamento aggressivo e non fra biologia e criminalità: basti pensare per esempio
all’assurdo di imputare ad anomalie neurologiche reati come la bancarotta fraudolenta o
le truffe informatiche.
In questo senso – nel senso cioè di correlare eventuali anomalie al comportamento
aggressivo e non a tutta la delittuosità – si muovono le più recenti ricerche rese possibili
dalla biologia molecolare, dalle sempre più sofisticate tecniche di neuro immagine, per
esempio effettuate attraverso la P.E.T. (position emission tomografy) encefalica, che
avrebbero effettivamente dimostrato alterata l’attività metabolica ai livelli encefalici
corticali e subcorticali negli omicidi.
Addirittura uno studio di Raine et al. ha confrontato un gruppo di autori di omicidio
impulsivo con uno di autori di omicidio premeditato, trovando solo nei primi
un’ipoattività prefrontale e un’alta attività sottocorticale (amigdala, ippocampo, talamo),
mentre negli autori di omicidio premeditato l’attività metabolica prefrontale era nella
norma.
4.2.3 Teorie genetiche
Fra le tante teorie che hanno cercato di collegare il nostro corredo biologico con
l’aggressività, vi è quella secondo cui la Y soprannumeraria nel cromosoma (XYY) è
6
Il sistema serotoninergico è un sistema fisiologico di trasmissione di impulsi nervosi il cui
elemento principale è la serotonina, cioè un neurotrasmettitore coinvolto nella regolazione
dell’umore.
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responsabile del comportamento aggressivo e, addirittura, criminale.
Anche questi studi, peraltro, sono stati in seguito criticati, secondo le solite due
direttive: da un lato gli studi epidemiologici hanno evidenziato che molti soggetti con
tale anomalia cromosomica non risultano particolarmente aggressivi, soprattutto se
messi a confronto con gruppi di controllo; dall’altro, essendo l’anomalia talora associata
ad altre caratteristiche, per esempio ritardo mentale e difficoltà di apprendimento, è
quantomeno da ritenere che il rapporto fra l’XYY e l’aggressività sia concausale,
ovvero mediato (non comprendere il mondo che ci circonda e le emozioni altrui, e non
essere ben equipaggiati per reagire con strumenti cognitivi possono favorire
contraccolpi aggressivi).
Nella scia delle ricerche che hanno indagato sul rapporto tra la genetica e l’aggressività
o anche la criminalità, si pongono gli studi effettuati sui gemelli. Come è stato fatto
anche in tema di correlazione fra patrimonio genetico e malattia mentale, di patrimonio
genetico e intelligenza, o in altri ambiti, questi studi hanno cercato di valutare se
gemelli monozigoti separati dalla nascita evidenziassero nel corso della vita
comportamenti aggressivi, nonostante le diverse influenze ambientali a cui erano stati
sottoposti.
Alcuni studi hanno effettivamente trovato che i gemelli omozigoti avevano maggiore
concordanza dei gemelli eterozigoti nel comportamento delinquenziale, e che i figli
adottivi mostravano una maggiore frequenza di comportamenti criminali se i padri
biologici erano criminali; ma in realtà è apparso pure pressoché impossibile separare le
influenze genetiche da quelle ambientali.
Altri studi, poi, si sono indirizzati a cercare quelle che potrebbero essere le correlazioni
fra ormoni ed aggressività. Tra le “prove” portate a sostegno dell’influenza ormonale
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sull’aggressività, vi è quella secondo cui i maschi sarebbero più aggressivi delle
femmine, il che ha condotto molti ricercatori ad indagare l’eventuale associazione tra
comportamento aggressivo e livelli plasmatici di testosterone. I risultati delle ricerche
sono stati però contrastanti.
Da alcuni anni, infatti, i biologi hanno prestato un’attenzione crescente all’aggressività
femminile, constatando che in molte situazioni le femmine possono essere molto più
aggressive dei maschi.
4.2.4. Teorie comportamentiste
I comportamentisti sono concordi nell’affermare che l’aggressività trova la sua radice
nell’ambiente in cui l’individuo si è formato, nelle condizioni sociali, nelle pratiche
educative, nei sistemi di controllo in uso.
Sempre in conformità con le premesse della loro teoria, i comportamentisti non si
preoccupano esplicitamente della natura buona o cattiva dell’uomo, quanto di fare in
modo che egli si comporti bene, e ciò può farsi – affermano – predisponendo un
ambiente in cui la violenza non funzioni da rinforzo positivo.
Secondo Skinner l’attribuzione del comportamento al corredo genetico non è altro che
l’espressione di un pessimismo rinunciatario e di delega delle responsabilità per tutti i
fatti negativi per i quali non ci si vuole impegnare a porre rimedio: “Le basi genetiche
del comportamento umano sono particolarmente utili quando si tratta di trovare delle
giustificazioni”.
Skinner considera anche il meccanismo che già gli psicanalisti avevano definito
dislocazione, affermando: “Il comportamento aggressivo non è diretto necessariamente
contro la fonte reale della stimolazione, ma può essere trasferito contro ogni persona o
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oggetto a portata di mano. Il vandalismo e le intemperanze sono spesso forme di
aggressività indiretta o mal diretta.
Un soggetto che ha subito un trattamento spiacevole cercherà, se possibile, un altro
soggetto su cui sfogare la sua aggressività; in ciò era posto il concetto caro ai successivi
comportamentisti, quello appunto della frustrazione-aggressività.
“Frustration and aggression”, di cui Dollard ne fu il caposcuola, indica un
comportamento aggressivo che presuppone sempre uno stato di frustrazione e,
inversamente, l’esistenza di una frustrazione conduce sempre a qualche forma di
aggressività.
L’intensità dell’aggressività dipenderebbe, secondo questo Autore, da diverse variabili,
la prima delle quali è l’intensività dell’istigazione alla risposta frustrata: l’esempio di
Dollard è che la perdita della pagina cruciale di un romanzo giallo irrita un ragazzo più
che la perdita di una pagina, per quanto fondamentale, del suo libro di storia7.
Inoltre, intensità della frustrazione, e quindi la possibilità di risposta aggressiva,
dipenderà dal numero di frustrazioni simultaneamente o precedentemente esperite, con
la precisazione che molte piccole frustrazioni si sommano producendo una risposta di
intensità aggressiva maggiore di quanto ci si aspetterebbe considerando solo la
frustrazione immediatamente antecedente l’aggressione osservata.
Il rapporto tra frustrazione e aggressione non è però meccanico, come sopra chiarito da
Skinner, poiché l’aggressività può essere dislocata verso un oggetto diverso oppure in
una forma diversa dall’aggressione palese: fra le forme di dislocazione nella forma
dell’aggressività si riferiscono il citare in giudizio il proprio nemico invece che colpirlo,
l’irrisione ed il sarcasmo, la lettura di racconti del terrore.
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L’esempio funziona benissimo anche con il libro di criminologia in luogo di quello di storia.
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Vi possono poi essere inibizioni dell’aggressività, fra cui la punizione prevista come
conseguenza dell’atto aggressivo.
L’idea del rapporto tra frustrazione e aggressione ha suggerito anche l’assunzione di
strategie pedagogiche particolarmente permissive, certamente più opportune rispetto ad
eccessi autoritari e a proposito delle quali è interessante ricordare l’analista Storr che,
pur concordando sul fatto che l’aggressività (innata) può essere accresciuta dalle
frustrazioni, evidenzia il paradosso dell’educazione eccessivamente condiscendente.
La concezione dell’aggressività come di una semplice reazione alla frustrazione ha dato
origine a molti metodi errati di educazione della prole, tutti fondati sul principio che
basti offrire ai bambini amore in misura sufficiente per evitare la frustrazione ed
eliminare in loro qualsiasi manifestazione di aggressività. Con grande sorpresa dei
genitori che avevano sperimentato regimi di massima indulgenza e di massima libertà, i
loro figli non tardarono a manifestare segni di turbamento emotivo e di aggressività
molto più intensa di quelli soggetti a più salda disciplina.
Infatti, se i genitori non affermano mai i propri diritti individuali, ma si sottomettono
immancabilmente ai capricci del figlio, questi prende a convincersi di essere
onnipotente e di avere diritto al soddisfacimento di ogni sua passeggera bizzarria,
oppure comincia a credere che ogni forma di autoaffermazione sia sbagliata e che
quindi non esista alcun motivo valido per cercare da sé la realizzazione dei desideri.
Inoltre, con genitori che non rivelano nessun atteggiamento aggressivo, il figlio
comincia a sentirsi insicuro: come potrebbe del resto sentirsi sicuro della capacità dei
genitori di proteggerlo in modo potenzialmente pericoloso, se questi genitori non danno
mai prova di essere capaci essi stessi di affermarsi e di lottare? Lo sfogo normale di
aggressività richiede una certa opposizione. Il genitore che si dimostra troppo cedevole
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non offre al figlio nulla contro cui battersi, nessuna autorità contro cui ribellarsi,
nessuna giustificazione alla spinta innata verso l’indipendenza.
Nessun bambino può mettere alla prova la propria forza nascente se nuota nella
melassa!
4.2.5 Conformismo e autoritarismo
Fra gli studiosi di indirizzo comportamentista cresciuti nello stesso dipartimento di
psicologia di Yale in cui aveva operato Dollard, vi fu Milgram che, nei primi anni
Sessanta, partendo da uno studio degli effetti della punizione sull’apprendimento, si
propose in particolare di indagare i rapporti fra obbedienza e conformismo da una parte,
aggressività dall’altra. Ad ognuno dei componenti di un gruppo sperimentale di persone
scelte a caso, era stato dato il compito di punire un’altra persona legata, premendo una
serie di pulsanti che recavano scritte da “scossa leggera” a “scossa pericolosa”, ed
indicazioni di voltaggio da 15 a 450 volt. Veniva precisato che la punizione doveva
essere sempre più forte se la persona persisteva nello sbagliare le risposte che doveva
fornire. La persona in questione era in realtà un collaboratore di Milgram che doveva
simulare il dolore della scossa elettrica, ma chi somministrava la scossa non sapeva che
si trattasse di finzione e riteneva di infliggere veramente dolore.
Contrariamente alle attese – o alle speranze – degli sperimentatori, i soggetti del
campione non esitavano a premere il pulsante “scossa pericolosa” nonostante i segni di
grande sofferenza e le implorazioni delle “vittime”.
Quali sono i limiti di una simile obbedienza? Si è cercato a più riprese di stabilirlo.
Nell’esperimento sono state inserite grida di dolore della vittima ma non sono state
sufficienti. La vittima si è lamentata perché soffriva di disturbi cardiaci: i soggetti hanno
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continuato ad eseguire gli ordini dello sperimentatore; la vittima ha chiesto di essere
liberata e ha smesso di rispondere: i soggetti hanno continuato a premere gli interruttori.
Milgram ricavò da quest’esperimento una serie di suggerimenti, soprattutto in merito
all’aggressività collettiva che si esprime in guerra o che si era espressa in Germania nei
confronti delle vittime del nazismo: “C’è indubbiamente una gran differenza fra
l’obbedienza ai comandi di un ufficiale in tempo di guerra e l’eseguire gli ordini di uno
sperimentatore in laboratorio, ma l’essenza di certi rapporti non cambia”. Il problema
può, infatti, essere posto nei seguenti termini: come si comporta una persona quando
un’autorità legittima le impone di compiere atti di violenza nei confronti di un altro
essere umano? L’insegnamento principale che si può trarre dall’esperimento di Milgram
è il seguente: gente normale, che si occupa del proprio lavoro e che non è motivata da
nessuna particolare aggressività, può da un momento all’altro, rendersi complice di un
processo di distruzione. Il meccanismo di adattamento psichico più comunemente
impiegato dai soggetti obbedienti è quello di non considerarsi responsabili delle loro
azioni. Di che cosa si tratta? Non certo di aggressività, infatti coloro che facevano
soffrire la vittima non manifestavano né rabbia, né odio, né desiderio di vendetta. Può
accadere che gli uomini si infurino, che agiscano contro i loro simili spinti dall’odio o in
preda all’ira, ma non è il caso dell’esperimento di Milgram. Con ciò si è voluto mettere
in luce qualcosa di ben più pericoloso: la capacità degli individui di rinunciare alla loro
umanità, anzi, la necessità di comportarsi in tal modo nel momento in cui la loro
personalità individuale viene incorporata in più vaste strutture istituzionali.
Già anni prima, Adorno si era occupato del rapporto fra aggressività e obbedienza
all’autorità per cercare di fornire risposte ai quesiti suscitati dall’acquiescenza e
dall’adesione di tanti cittadini “normali” alle atrocità naziste. Egli aveva individuato una
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“sindrome autoritaria”, cioè un insieme di tratti caratterizzati da una marcata
identificazione con un padre dominatore e da un atteggiamento remissivo nei confronti
delle persone più potenti, e nel contempo prepotente verso chi si reputava più debole.
L’Autore prese le mosse dallo studio delle condizioni psicosociali che stanno alla base
del pregiudizio e delle discriminazioni (etnica, religiosa, politica), giungendo a
delineare le caratteristiche peculiari di una struttura di personalità particolarmente
diffusa, quella autoritaria appunto. Gli individui autoritari non riescono a collocarsi, nei
confronti degli altri, in una posizione di uguaglianza e di reciprocità, ma tendono a
riprodurre una situazione gerarchica di dominanza-sottomissione, superiorità-inferiorità,
con ossequio verso l’alto ed esercizio del potere verso il basso. Tale esercizio del potere
non fa altro che aumentare comportamenti aggressivi in tutti coloro i quali si sentono,
per i ruoli che svolgono, al di sopra della gente comune.
4.2.6 Teorie dell’attaccamento
L’educazione familiare, come tutti i fattori che si sono analizzati, è uno degli ingredienti
causali del comportamento aggressivo, che magari in taluni casi potrà essere uno dei
fattori preponderanti. Ciò perché molti studi sull’aggressività hanno dimostrato
l’esistenza di uno stretto rapporto fra la famiglia di origine ed il futuro criminale.
La famiglia, quindi, rappresenta il luogo dove si insegnano le regole, dove si
trasmettono i valori, dove si hanno i primi contatti con la gerarchia; essa rappresenta il
principale, e certamente il primo, canale di comunicazione normativa attraverso cui
vengono appresi, fin dalla prima infanzia, i contenuti etici di un dato contesto sociale, le
regole da rispettare, le condotte da evitare. Ne consegue che la famiglia, con i suoi
valori morali, può influenzare in modo diretto la formazione dei principi e dei parametri
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comportamentali di colui che vi cresce.
È necessario, però, precisare che il bambino impara le regole perché ha un rapporto
affettivo, non impara da chiunque e comunque può dirsi che il bambino si sviluppa in
modo armonico perché ama ed è amato. Reciprocamente la ricerca criminologica ha da
tempo evidenziato che i disturbi di socializzazione e di capacità di empatizzare con gli
altri possono derivare da vere e proprie sindromi da carenza affettiva.
A tal proposito, famosissimo lo studio condotto da Bowlby nel 1946 su 44 ladri
minorenni, paragonati ad un gruppo di controllo di 44 bambini con analoghe
caratteristiche di provenienza ambientale, di età, di genere, ma dalla condotta integrata.
Bowlby asserisce che la differenza di maggior rilievo consiste nel fatto che nel gruppo
dei ladri vi è una forte incidenza di caratteri classificati come “anaffettivi” o, in altri
termini, che vi è una relazione tra il commettere furti e l’incapacità a stabilire un
rapporto affettivo. Ma non basta, tale anaffettività sarebbe a sua volta il prodotto di
carenze affettive subite dal bambino nei primi anni di vita (i primi cinque): le situazioni
che maggiormente concorrono a traumatizzare il bambino ed a favorire la successiva
anaffettività sono la separazione dalla madre, i molteplici consecutivi cambiamenti della
persona che sostituisce la figura materna e l’ospitalizzazione. Ma soprattutto è risultato
molto alto il grado di associazione tra anaffettività, delinquenza cronica e separazione
madre-bambino. In relazione al furto, l’atto del rubare è comprensibile in termini di
compensazione: infatti, essendo le prime soddisfazioni libidinali di carattere orale, in
quanto dovute all’esaudimento di un desiderio di cibo (seno materno), esse
rappresentano una sorta di pegno dell’amore della madre. Se questo amore viene a
mancare, come appunto nel caso del bambino separato dalla madre, l’atto del rubare
diviene,
inconsciamente,
un’azione
rivolta
a
“compensare”
la
mancanza
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impossessandosi del simbolo (cibo o denaro) equivalente all’affetto ricercato.
La correlazione tra la privazione materna e la caratteristica dell’indifferenza affettiva
può rivestire un ruolo importante non solo nella criminogenesi del furto. Infatti, la
perdita dell’oggetto d’amore porta a rifiutare ogni legame affettivo per timore di
perderlo nuovamente, e, addirittura, può condurre ad organizzare, col mezzo più
radicale della distruzione dell’altro degradato ad oggetto, un meccanismo di difesa volto
a proteggere dalla paura di essere di nuovo privato dell’affetto.
L’interpretazione psicoanalitica della criminogenesi – o di alcune possibilità
criminogenetiche – non ha comunque risparmiato neppure i padri: la mancanza del
padre o la distorsione nelle relazioni padre-figlio (padre che abdica al suo ruolo perché
debole, ovvero padre eccessivamente severo e violento) è da classificarsi tra i fattori
suscettibili di orientare verso la dissocialità in quanto priva il bambino dell’equo
apprendimento dell’autorità morale e sociale, e, se maschio, di una importante figura di
identificazione. Ciò può comportare uno strutturarsi, nel bambino, di tratti di
immaturità, egocentrismo, intolleranza alle frustrazioni, proprio per l’incapacità di
proiettarsi nel futuro e per la mancanza di un modello di identificazione.
4.2.7 Teoria della violenza
Nei primi decenni del Novecento, Peter Kurten si guadagnò il meritato appellativo di
“Mostro di Dusseldorf” per aver commesso 9 omicidi, 30 tentati omicidi ed un numero
imprecisato di aggressioni sessuali. Una volta arrestato, affermò: “nulla può superare il
dolore dell’anima di colui che ha subito i tormenti di un altro tormentatore, e che ora
scopre in sé il desiderio di infliggere lui stesso dolore ad altri”.
Recentemente, alcuni studiosi come Ceretti e Natali hanno cercato di ripercorrere il
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pensiero di Lonnie Athens, un criminologo che sperimentò in prima persona
l’esperienza della violenza con un padre “brutalizzante”.
Secondo gli Autori, il “processo di violentizzazione” – uguale e contrario a quello di
“socializzazione” – non consiste in una insufficiente o difettosa interiorizzazione delle
norme, ma è un processo di apprendimento a sistemi culturali e normativi fondati
prevalentemente sulla violenza, e che si articola secondo un percorso formativo che
comporta in primo luogo esperienze di “brutalizzazione”. A propria volta la
brutalizzazione prevede una serie di fasi: la “sottomissione violenta” che è
caratterizzata dalla presenza di persone che appartengono ad uno dei gruppi primari del
soggetto (famiglia, banda, compagnia di amici), che ricorrono alla violenza per far sì
che egli si sottometta alla loro autorità. Una seconda fase, la “orrificazione personale”,
non prevede una sottomissione violenta diretta, quanto l’essere testimoni della
somministrazione di questo trattamento ad un’altra persona particolarmente
significativa per il soggetto. Questa esperienza è anche più sconvolgente della
vittimizzazione diretta perché comporta una prima reazione d’ira con il desiderio di
attaccare chi infierisce sulla persona cara, e poi sentimenti di paura per sé, di impotenza
e di vergogna. Il soggetto si trova ora intrappolato in un dilemma terribilmente crudele:
ha paura di ciò che accadrà alla persona cara nell’eventualità che non riesca ad
intercedere personalmente e di ciò che potrebbe accadere a sé nel caso intercedesse.
Infine, nella fase dell’“addestramento violento”, un membro del gruppo primario del
soggetto, in forza della relazione familiare (padre, patrigno, madre, fratello maggiore) o
della maggiore età (amici più grandi), si assume il compito di istruirlo su come ci si
deve comportare in situazioni conflittuali.
Sempre secondo Athens e gli Autori che lo propongono , vi è poi un altro processo –
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quello della “virulenza” – attraverso il quale si fa propria e si stabilizza l’identità di
violento. Tale processo consiste in ciò: il soggetto deve aver ottenuto in precedenza una
vittoria significativa, al termine della quale ha nettamente prevalso nei confronti del
proprio antagonista. La notizia delle gesta violente della persona inizia a circolare fra gli
appartenenti ai suoi gruppi primari e secondari e ciò fa sì che l’autore violento prenda
coscienza del fatto che le opinioni che gli altri si formano su di lui mutano
improvvisamente e drasticamente, proprio alla luce della sua impresa violenta. Egli è
ora una persona molto differente, e con un certo sbigottimento si accorge di essere
percepito come un vero e proprio individuo violento il che per i membri di alcuni gruppi
primari è una prerogativa positiva, non negativa. Il processo di violentizzazione trova
così compimento in una tragica circolarità: il soggetto ha percorso un tragitto, e da
vittima indifesa della brutalizzazione si comporta ora da sfrenato aggressore – lo stesso
tipo di brutalizzatore che in passato aveva tanto disprezzato.
4.2.8 Abuso di alcool o sostanze
Per abuso di sostanze si intende l’assunzione di sostanze per scopi diversi da quelli
terapeutici, al fine di produrre una sorta di “alterazione delle stato mentale”. Comprende
sia l’impiego di sostanze illegali, sia l’uso di sostanze legali in modo diverso da quello
consentito e spesso comporta l’assunzione di una sostanza in quantità eccessive.
La dipendenza è uno stato in cui il soggetto non può fare a meno della sostanza e può
essere fisica o psicologica. La dipendenza fisica determina lo sviluppo di tolleranza
farmacologica (ossia il bisogno di consumare quantità sempre maggiori per ottenere gli
stessi effetti) e di sintomi da astinenza, che si manifestano quando la persona cessa di
assumere la sostanza e scompaiono quando la sostanza viene nuovamente assunta.
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Si può abusare di diversi tipi di sostanze: non solo di droghe illegali, quali marijuana,
eroina, cocaina o ecstasy, ma anche di farmaci, come i tranquillanti, gli analgesici
(antidolorifici) e i sonniferi. Il problema riguarda anche l’abuso di alcool.
Alcuni dei maggiori rischi correlati all’abuso di alcool o di sostanze sono:
 rischi per la sicurezza personale (pericolo di morte o infortunio per overdose,
incidente o aggressione);
 rischi per la salute (danni cerebrali, insufficienza epatica, disturbi mentali);
 conseguenze legali (rischio di carcerazione, multe e fedina penale sporca);
 comportamento distruttivo (nei propri confronti, della famiglia o di altri).
Non esiste una motivazione univoca del fenomeno; le cause dell’abuso e della
dipendenza variano a seconda del tipo di sostanza usata, della persona che la assume e
delle circostanze in cui la sostanza viene assunta.
E’ stato osservato che alcune persone sono più a rischio di altre per abuso di sostanze, in
quanto ereditano la predisposizione alla dipendenza dei genitori. Tuttavia, sono
importanti anche la pressione sociale e altri fattori esterni (stress, povertà e altre
malattie). La pressione esercitata da persone di pari condizione, il disagio emotivo e la
scarsa autostima porterebbero le persone a farne abuso.
I danni che derivano dall’abuso di sostanze o di alcool a livello neurologico sono
devastanti. Il cervello, infatti, comincia la sua maturazione acquisendo gli stimoli del
mondo esterno a partire dalla nascita, ma completa tale processo tra i 20-21 anni con
importanti varianti individuali.
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La figura sopraindicata illustra tale evoluzione dove le aree giallo, verde e arancione
rappresentano le aree di immaturità cerebrale particolarmente presenti nei primi anni di
vita che vanno via via riducendosi con il progredire dell’età fino a raggiungere la
completa maturazione, rappresentate dal colore blu-viola dopo i 20 anni. Come è
comprensibile, durante tutto questo processo le cellule cerebrali sono particolarmente
sensibili e la loro fisiologia e naturale maturazione può venire facilmente alterata e
deviata dai forti stimoli provenienti dall’esterno quali per l’appunto quelli prodotti dalle
droghe o dall’alcool. Va chiarito che tutte le sostanze stupefacenti sono psicoattive e in
grado, anche a basse dosi, di interferire con questa maturazione cerebrale. Mentre le
cellule cerebrali maturano e le relazioni tra esse si consolidano, la persona sviluppa
sempre di più la sua personalità e il suo funzionamento mentale. Risulta, dunque,
evidente che il cervello di un ragazzo in piena maturazione, che viene bombardato con
sostanze in grado di stimolare enormemente e intossicare le cellule nervose in
evoluzione (e quindi particolarmente sensibili) non potrà avere uno sviluppo fisiologico
ma sarà deviato dalla sua naturale evoluzione.
Sorgono, quindi, oltre a danni fisici anche percezioni alterate del proprio essere e del
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mondo esterno. Queste percezioni vengono memorizzate dall’individuo creando una
distorsione cognitiva che può permanere per moltissimo tempo se non addirittura per
tutta la vita, condizionando il “sentire”, il “pensare”, il “volere” e, in ultima analisi, il
proprio comportamento.
4.2.9 Perversioni sessuali
Le perversioni sessuali sono tutti quei comportamenti sessuali che si differenziano in
modo rilevante da quelli usuali.
In questa definizione si deve, tuttavia, tener conto della fase di sviluppo in cui si trova il
soggetto perché atteggiamenti che possono essere considerati normali se si manifestano
nell’infanzia, possono divenire perversi se sussistono nell’età adulta.
Freud fu il prima a riconoscere che la disposizione sessuale perversa dell’infanzia è
fisiologica e tende poi a modularsi nell’età adulta.
La comparsa delle varie perversioni è generalmente prima dei 21 anni, anche se l’età
media di comparsa varia a seconda del tipo di parafilia. I più frequenti atti parafilici
sono quelli di tipo esibizionistico o di masturbazione pubblica.
Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-IV) considera i
comportamenti sessuali devianti come “un gruppo di disturbi sessuali caratterizzati da
fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti ed intensamente eccitanti
sessualmente, che possono riguardare oggetti inanimati, la sofferenza o l’umiliazione di
sè stessi o del partner, o bambini o altre persone non consenzienti, e che si manifestano
per un periodo di almeno sei mesi”.
Per alcuni soggetti, fantasie o stimoli parafilici sono indispensabili per l’eccitazione
sessuale e sono sempre inclusi nell’attività sessuale. In altri casi le preferenze
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parafiliche si manifestano solo episodicamente, per esempio durante periodi di stress,
mentre altre volte il soggetto riesce a funzionare sessualmente senza fantasie o stimoli
parafilici. Se queste fantasie sono comuni alla coppia e non vengono imposte da un
partner sull’altro ecco che non si può parlare di parafilie, ma casomani di deviazioni
sessuali che rimangono nell’ambito del rispetto della volontà della coppia.
Dal punto di vista psicoanalitico tradizionale si mette in risalto la devianza e
l’anormalità sessuale, enfatizzandone gli aspetti ripugnanti, invece, dal punto di vista
psichiatrico clinico le parafilie costituiscono le deviazioni dal normale oggetto sessuale.
La perversione sessuale dopo essere stata riconosciuta una patologia sessuale dei
criminali, cioè un comportamento sessuale ricorrente nelle condotte antisociali e dopo
essere stata inclusa all’interno di categorie diagnostiche più generali come l’isteria, il
narcisismo, il disturbo borderline, acquisisce oggi l’etichetta più scientifica e neutra, se
vogliano, di parafilia. Sono classificate tali, dunque, tutte quelle forme che
precedentemente venivano chiamate perversioni.
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5. IL LATO CRIMINALE DELLE PERSONE “NORMALI”
5.1 La storia di Ted Bundy
Ted Bundy è stato uno dei più efferati e prolifici serial killer statunitensi: poco prima di
essere giustiziato confessò l’uccisione di circa 28 ragazze, ammazzate tra gli Stati dello
Utah, di Washington, del Colorado e della Florida, anche se si sospetta che le sue
vittime siano state un centinaio.
Apparentemente era il tipico “bravo ragazzo”, molto educato, raffinato e pacato nei
modi. Studente zelante, si laureò in psicologia, si dedicò anche agli studi giuridici, fu
per diversi anni volontario presso un “Telefono amico” e si impegnò nelle attività
politiche del Paese.
Alla spalle, Ted Bundy, aveva però un triste passato. Nacque da una ragazza madre che
lo diede in adozione ai nonni; in questo modo Ted crebbe credendo che i suoi nonni
fossero i suoi genitori e che sua madre fosse in realtà sua sorella. Scoprì la verità tardi e
per lui fu un trauma che segnò la sua esistenza.
Un ruolo molto importante nella vita di Ted lo ebbe Stephanie, sua “storica” fidanzata
che in prima persona cominciò ad accorgersi dell’improvvisa metamorfosi di Ted: da
ragazzo gentile e calmo divenne aggressivo e arrogante. Lei lo lasciò e, quando tempo
dopo, cominciarono a rifrequentarsi, fu lui improvvisamente a non volerne più sapere.
Questo fu un altro episodio che segnò la vita di Ted.
La vicenda di Ted Bundy, comincia alla fine del 1973, quando vengono trovati i resti di
una ragazza scomparsa poco tempo prima. Un’altra ragazza scompare dalla sua stanza
dove vengono rinvenute macchie di sangue sul letto.
L’anno successivo scompaiono altre sette ragazze: tutte sono state avvicinate da uno
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sconosciuto che, una volta con il braccio al collo, una volta con le stampelle, chiedeva
loro di aiutarlo a trasportare libri o altro. Tutte le ragazze avevano i capelli scuri, lunghi
e con la riga in mezzo come Stephanie.
Nello stesso anno, al lago Sammamish (Washington), due ragazze venivano avvicinate
da un ragazzo molto gentile che diceva di chiamarsi Ted: aveva un braccio ingessato e
chiedeva loro di aiutarlo a portare la sua barca fino al lago. Una volta soli, le stordiva, le
portava in un luogo isolato, le violentava, le uccideva e le faceva a pezzi.
Un mese dopo venivano trovati i resti. Lo stesso giorno della scomparsa delle due
ragazze, una terza riesce a scampare alla morte grazie alla sua diffidenza verso quel
giovane e, dopo aver letto la notizia delle due sfortunate ragazze, riferiva alla polizia
quello che le era accaduto fornendo un identikit.
Vedendo in un giornale l’identikit, la stessa compagna di quel momento di Ted, Meg,
seppur restia, lo segnalò alla polizia, la quale, nonostante le numerose segnalazioni, lo
escluse comunque dai sospetti: la sua vita di studente e di attivista politico lo rendeva
quasi al di sopra di ogni sospetto.
Nel frattempo molte altre ragazze (la cui descrizione è analoga a quella delle altre
vittime) continuavano a scomparire.
Ad una ragazza, però, andò bene: Carol Da Ronch, adescata da Ted (che si finse
poliziotto) con una scusa, si fece convincere a seguirlo fino alla macchina. Lui cominciò
a portarla lontano dal centro abitato, verso zone isolate. Lei si insospettì, lui tirò fuori
una pistola e Carol cominciò a ribellarsi. Ted cercò allora di ucciderla me lei riuscì a far
fermare l’auto. Scese e fortunatamente trovò subito una coppia che passava di lì e che le
diede un passaggio in macchina fino alla stazione di polizia.
Successivamente la polizia trovava i resti di altre due ragazze scomparse poco tempo
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prima, mentre in Colorado venivano trovati cinque corpi che corrispondevano alla
descrizione delle possibili vittime di Ted Bundy.
Oramai anche l’FBI faceva parte ufficialmente delle indagini.
Poco tempo dopo due poliziotti fermarono per strada un’auto passata due volte con il
rosso: al voltante c’era Ted. Ma i due poliziotti cominciarono ad insospettirsi solo
quando videro cose strane nell’auto: mancava il sedile del passeggero ed inoltre
trovarono un kit da scasso. Loro non sapevano ancora che l’uomo che avevano fermato
fosse uno degli uomini più ricercati d’America, ma lo ricollegarono al caso di Carol Da
Ronch, la quale in un confronto all’americana lo riconobbe come l’uomo che cercò di
ucciderla.
Intanto i sospetti nei suoi confronti vennero alimentati dalle dichiarazioni delle due
donne di Ted: Meg, la sua compagna, affermò che spesso la notte Ted si assentava e non
sapeva spiegare dove potesse essere nelle notti in cui sparivano e venivano uccise tutte
quelle ragazze; Stephanie (la sua precedente fidanzata) raccontò invece dell’improvviso
cambiamento di Ted appena prima che si lasciassero.
Successivamente (febbraio 1976) Ted venne processato per il rapimento di Carol Da
Ronch e nel frattempo iniziarono a cercarsi nuove prove per collegarlo anche agli
omicidi avvenuti in quel periodo e si riuscirono a trovare dei collegamenti ad uno di
quei delitti, per il quale Ted venne sottoposto ad un nuovo processo.
Fin dall’inizio Ted rifiutò l’aiuto dei suoi avvocati e decise di difendersi da solo; per
questo motivo gli vennero concesse delle ore di permesso per poter accedere alla
biblioteca del carcere in modo da preparare la propria difesa, ma durante uno di questi
momenti, riuscì a fuggire da una finestra, ma venne catturato di nuovo pochi giorni
dopo.
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Alcuni mesi più tardi riuscì a fuggire di nuovo, ma questa volta riuscì a non farsi
prendere e arrivò fino in Florida (1978).
Pochi mesi dopo, all’interno della casa confraternita della Chi Omega nel campus di un
college di Tallahasse, due ragazze vennero trovate morte nelle proprie stanze. Si trattava
di Lisa Levy, violentata, strangolata e infine uccisa, colpita alla testa con un oggetto
contundente e Margaret Bowen, strangolata con una calza. Altre tre ragazze delle stessa
confraternita riuscirono a cavarsela nonostante le gravi lesioni subite, ma non riuscirono
a ricordare nulla dell’episodio.
Le uniche testimonianze furono quella di una ragazza che disse di aver visto, rientrando
quella notte nella casa, un uomo dal naso leggermente a punta e con in mano un pezzo
di legno che si dirigeva di corsa verso l’uscita e le impronte dentarie lasciate
dall’assassino sul corpo di Lisa Levy: la dentatura di Ted era caratterizzata da uno
spazio tra gli incisivi e questo fu l’elemento determinante per incolparlo dell’omicidio
della ragazza.
Pochi giorni dopo venne trovata morta una ragazzina di dodici anni, Kimberly Leach,
anche lei violentata ed uccisa con un colpo alla testa. Le ultime persone che videro
Kimberly viva dissero di averla vista parlare con un uomo alla guida di un furgone
bianco.
Le indagini nello Stato della Florida proseguirono, ma non ci furono sospetti; inoltre, lì
la polizia non conosceva la vicenda di Ted Bundy, ma tempo dopo, un poliziotto lo
fermò per strada per una serie di infrazioni, e dopo una colluttazione con lui, lo arrestò.
Nel frattempo le indagini su Ted continuarono e vennero raccolte sempre più prove
contro di lui in merito agli omicidi nella casa delle Chi Omega e di Kimberly Leach.
Non molto tempo dopo cominciò il nuovo processo (Chi Omega) che si svolse in
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Florida. L’esito del processo fu una sentenza di colpevolezza e di condanna alla sedia
elettrica. Subì la stessa condanna anche nel processo per l’omicidio di Kimberly Leach.
Dopo una serie di appelli e rinvii dell’esecuzione, il 24 gennaio 1989 Ted venne
giustiziato non prima però di aver ammesso l’omicidio di 28 ragazze.
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Sia dalla sua foto che dalla sua scrittura apparentemente ordinata ed elegante, Ted
Bundy poteva trarre in inganno chiunque: era in effetti in apparenza molto diverso dal
Killer che poi ha ammesso di essere.
L’analisi della sua scrittura ha consentito all’esperto di individuare il profilo psicologico
del suo autore.
Ecco quindi che, se si osserva bene quella grafia così precisa ed elegante, si scopre che
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questa è priva di “ricci”, e mostra aggiunte al modello calligrafico le quali denotano
passionalità e scarso controllo degli istinti sessuali.
Si hanno, infatti, dei movimenti di avvio in ogni lettera che sembrano prendere forza dal
piano fisico e materiale: tutti partono dal rigo sottostante.
Le asole inferiori appaiono eccessivamente grandi tanto da essere notate anche a prima
vista.
Questa passionalità, queste fantasie morbose in campo sessuale hanno dimostrato come
il soggetto scrivente non era in grado di esercitare un controllo adeguato sui suoi istinti.
5.2. La storia di T.D.
T.D., ingegnere meccanico, sposato con due figli, di 43 anni,
viene riconosciuto
colpevole dell’omicidio di una donna con la quale intratteneva una relazione
extraconiugale da qualche mese.
Ha conosciuto la donna in un night, nel quale costei lavorava come entraineuse.
Nessuna difficoltà nei rapporti sessuali, di reciproco gradimento e sempre consumati a
bordo dell’automobile in campagna.
In campagna appunto si recano il giorno del delitto: senza che sia successo alcunché, il
T.D. all’improvviso percepisce qualcosa di strano accadere dentro di sé, si sente invaso
da ciò che egli stesso definisce “forza grandissima che mi ha portato a colpire”; la
donna non gli appare quale è, non è più lei, non ne ricorda il viso, incombe su di lui
come una minaccia, tutto gli è confuso nella mente.
Ricorda quasi tutte le sue mosse e gli stati d’animo, ricorda di aver afferrato un coltello
e, dopo averla brutalmente violentata, ricorda di averla colpita, non sa quante volte, ma
“era come se fossi un altro”.
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Riferisce inoltre, cercando di ricostruire a posteriori quel che gli accadde, di aver
vissuto la sensazione (ripetutasi in altri episodi) di qualcosa che “mi veniva incontro”,
come se la persona era una sorta di pallone luminoso, come se si sentisse da esso
minacciato. Il suo stato mentale alterato perdurò per giorni.
Il T.D. non sa spiegare perché si mise a vagabondare senza una meta. Se ne andò per
alberghi, con dietro ben in vista, in macchina, la borsa della vittima nella quale aveva
riposto il coltello.
Al momento della perizia psichiatrica, effettuata mesi dopo il delitto, gli rimase la
sensazione che tutto quel che era accaduto era “strano”, aveva l’impressione di essere
stato estraneo all’omicidio, come se non fossero state le sue mani ad uccidere.
Il test di Rorschach somministrato fece sorgere dubbi in merito all’esistenza, in T.D., di
patologia mentale organica ed egli fu così sottoposto ad un encefalogramma che
evidenziò “anomalie parossistiche diffuse a prevalenza emisferica sinistra”. Lo stesso
esame ripetuto dopo privazione del sonno (ciò che sensibilizza l’indagine) confermò la
presenza di “rari complessi punta-onda lenta bilaterali con prevalenza sinistra”. Questa
indagine evidenziò la presenza di alterazioni neurologiche diffuse a tutta la corteccia
cerebrale, ma prevalenti a sinistra, che hanno carattere irritativo e che possono dar
origine a scariche di attività neuronale incontrollabile.
La conclusione diagnostica è stata quella della ricorrenza, nell’interpretare la
criminogenesi dell’inspiegabile omicidio, di una Sindrome Delirante Organica, secondo
la classificazione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali allora
vigente (DSM-III-R). La perizia aggiungeva: “La diagnosi di Sindrome Delirante
Organica”, non richiede – e non ammette – spiegazioni o interpretazioni o ricostruzioni
psicodinamiche dell’iter psicologico che ha portato ai fatti delittuosi.
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Un episodio psicotico di tal tipo (e la conseguente condotta del soggetto nel corso
dell’episodio) è un fatto che si innesca ed esaurisce in sè stesso, è una sorta di accesso
dirompente che si attiva senza connessione con la realtà presente o passata, senza
neppure alcun legame con la vita psichica del soggetto, del tutto disgiunto dai desideri
coscienti o dalle motivazioni e dalle pulsioni (…).
Questo delitto, rimasto inspiegabile alla luce della ragione, trova invece la sua
comprensibilità proprio nell’assenza di ogni spiegazione psicologica: l’esplosione della
crisi psicotica, promossa dalla patologia cerebrale, non ha alcuna spiegazione e non può
motivarsi sul piano psicologico, ma si deve ricondurre solo a disfunzioni organiche
della base neuro-psico-funzionale dell’attività mentale.
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6. FORME DI LEGAME MORBOSO E PATOLOGICO
6.1 La storia di Tiziana Falbo
Questa è la storia di Tiziana e del suo amore per Nicola che all’improvviso si trasforma
in senso di proprietà, in ossessione patologica, in violenza, in amore criminale.
Tiziana è una donna giovane e bella che si innamora di un uomo conosciuto a lavoro, lui
si chiama Nicola. E’ un uomo colto ed affascinante; Tiziana pensa di aver trovato
l’uomo giusto, lo accoglie in casa e gli mette in mano la sua vita, ma con il passare del
tempo Nicola si rivela prepotente ed egocentrico.
La mattina del 15.11.2010, in un appartamento di Moltalto Offugo, in provincia di
Cosenza, viene ritrovato il corpo senza vita di una giovane donna di 37 anni, Tiziana
Falbo.
A scoprire il cadavere è la madre.
Questa è la storia di un amore estorto con ricatto dei sensi di colpa, un amore che finisce
nel peggiore dei modi… nel sangue.
Questa è anche la storia di una donna che si ribella al ricatto dei sensi di colpa.
Tutto inizia quando Nicola arriva a Cosenza per lavoro, è un manager brillante che
viene dal nord-est; due volte al mese viaggia tra Padova e Cosenza per coordinare i
progetti finanziari della Camera di Commercio. Agli occhi di tutti Nicola è una persona
distinta che, con i suoi modi di fare, riesce a coinvolgere chiunque gli sta intorno.
In ufficio, a subire il fascino del dirigente è Tiziana, la quale è entusiasta di quell’uomo
che la protegge e le dà mille attenzioni.
Nicola e Tiziana scoprono presto un mondo pieno di condivisioni, dall’amore per i libri
all’amore per i viaggi.
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Inizia così, tra le pause di lavoro, il flirt tra Tiziana e Nicola, l’uomo che la ucciderà.
Ma chi è Tiziana? Nasce a Cosenza il 29.10.1973, è la seconda di tre figli; sin da piccola
dimostra un’indole testarda e tenace. L’infanzia di Tiziana è fortemente segnata dalla
lunga malattia del padre. Non ha mai avuto una famiglia serena, tutto ruotava intorno a
questo problema.
Tutto ciò ha avuto delle importanti influenze a livello caratteriale sulla ragazza, che ha
assistito per dieci anni il padre ammalato, prendendosene cura amorevolmente.
Questa sua predisposizione a prendersi cura degli altri condizionerà fortemente anche il
rapporto con Nicola.
Nel 2004 i due iniziano a frequentarsi fuori dal lavoro. Tiziana è affascinata da questo
uomo colto e premuroso, ma c’è un problema: Nicola è sposato anche se è in corso la
separazione.
Ogni fine settimana l’uomo si mette in viaggio da Padova a Cosenza per stare con lei,
facendosi 14 ore di treno all’andata e 14 ore al ritorno; questo ovviamente fa sì che
Nicola goda della massima stima di tutta la famiglia di Tiziana.
Nel 2005 divorzia dalla moglie e dopo pochi mesi si trasferisce a casa della sua
compagna.
Non va più a lavoro e giustifica la sua assenza con certificati medici che attestano un
principio di artrite.
Nicola entra prepotentemente nella vita di Tiziana ed inizia a fare tabula rasa di tutto il
suo passato.
Ma chi è l’uomo che Tiziana si è messa dentro casa? L’infanzia di Nicola è condizionata
dal rapporto difficile con il padre, una figura severa fino all’eccesso, che ha patito il
campo di concentramento durante la guerra.
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Da bambino Nicola ha il terrore dell’acqua e il padre gli insegna a nuotare lasciandolo
in mezzo al mare da solo per fargli vincere questa paura.
Nicola racconta, inoltre, che da ragazzo, quando il padre voleva punirlo, lo rinchiudeva
in una stanza al buio. Ciò avveniva di continuo, il più delle volte senza motivazioni. Un
continuo disprezzare il figlio e le sue qualità.
Nicola nasconde la sua ferita dietro una rappresentazione di sé brillante ed efficiente.
Aria superba, da grande uomo, pieno di sé, cerca di sembrare un essere superiore, un
uomo che può arrivare a fare qualsiasi cosa.
Dopo aver lasciato il lavoro, si trasferisce a casa di Tiziana prendendo in mano la
gestione della casa e prendendosi cura di lei.
Nicola non ha mai dato segnali di violenza fisica, in questo è stato bravissimo; ha
esercitato sulla vittima solo una violenza psicologica fin dall’inizio.
L’assassino inizia a condizionare Tiziana sul vestiario e sull’alimentazione; sembra
prendersi cura di lei ma in realtà sviluppa controllo e dominazione. Ha una personalità
forte e ciò lo porta ad assumere una posizione di comando sulla donna, molto
innamorata e succube completamente di lui.
Nicola decide tutto: dalla sera le prepara i vestiti che dovrà indossare, con tutti gli
accessori abbinati (scarpe, profumo, collane).
La considera una bambolina da accudire e con il passare del tempo il loro rapporto
diventa esclusivamente a due; infatti, lui non ha più un gruppo di amici e ha messo da
parte tutta la sua vita: ciò che era prima non esiste più, Tiziana è la sua vita e i suoi
amici sono gli amici di Tiziana.
L’attività di Nicola è quella di indirizzare ed influenzare la vittima in tutto,
dispensandole consigli e regali, cercando continue conferme; Tiziana diventa sempre
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più una sua collezione, lo specchio attraverso cui vedersi perché, ogni vestito, dettaglio
o accessorio indossato dalla donna, parlerà solo e soltanto di lui.
Nicola si trasforma in una perfetta massaia, tenendo sempre tutto in ordine e pulito, è lui
stesso a definirsi homus domesticus.
Con il passare del tempo diventa l’ombra di Tiziana e porta con sé tutte le sue manie. La
donna inizia ad avere qualche imbarazzo per quella presenza così invasiva; il controllo
ossessivo e l’invasione degli spazi vitali fanno crollare l’immagine affascinate che
Nicola dava di sé.
L’uomo dipende in tutto da Tiziana, sia dal punto di vista economico che affettivo.
Il suo stato di presunta malattia, corredato da continui certificati medici, fa sì che si
arrivi all’inevitabile licenziamento.
Nel corso del 2010 gli vengono offerte diverse proposte di lavoro ma lui rifiuta sempre
categoricamente, preferisce gestire sé stesso nel ruolo di malato cronico destando forti
preoccupazioni nella donna.
Nicola utilizza la malattia per farla sentire in colpa e quando lei lo stimola a lavorare, lui
si infuria in quanto è come se la sua donna non vede più in lui la persona bisognosa di
tutto il suo amore, la sua comprensione e, forse, la sua pietà.
Nel giugno 2010 inizia per Tiziana un periodo di insonnia cronica; tutto il peso
economico della vita familiare ricade su di lei, non vede più la possibilità di creare una
famiglia.
Durante le notti insonni la Falbo affida i suoi pensieri ad un quaderno che verrà
ritrovato solo dopo il suo omicidio e da questi appunti si evince chiaramente che la
causa di tutti i suoi malesseri era Nicola.
Con il passare del tempo, Tiziana inizia finalmente a maturare l’idea di lasciarlo; si è
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svegliata da un lungo sogno ma non può immaginare quanto sarà feroce la reazione
dell’uomo.
Ciò che accadrà la mattina del 14.11.2010 lo saprà solo Nicola. Dalla confessione
dell’uomo emerge che il tutto sarebbe scaturito da una frase della donna, la quale
rinfacciandogli la sua presunta malattia, gli avrebbe detto ridendo: “mi fai pena”.
A questo punto, lui la afferra dal collo e la strangola accompagnandola piano piano per
terra; la sua furia non si arresta continuando ad infierire sul corpo senza vita ormai della
povera Tiziana, infilandole un cacciavite nella bocca.
Dopo aver ucciso Tiziana, Nicola ripulisce la scena del delitto lavando il pavimento per
eliminare tutte le tracce di sangue e ripulendo il cacciavite; subito dopo si mette in
viaggio per tutta la notte alla guida dell’auto della vittima dirigendosi verso Bologna. Al
casello viene fermato da una pattuglia della Polizia Stradale, è talmente confuso da non
essere in grado di pagare il pedaggio autostradale. I poliziotti cercano di farlo parlare
ma il primo contatto ce l’avrà solo venti minuti dopo. Alle loro domande lui risponde:
“non sopportavo più la sua risata, ma ormai è troppo tardi”.
Come da prassi, Nicola viene sottoposto all’interrogatorio di garanzia e confessa
l’omicidio. Viene rinviato a giudizio con l’accusa di omicidio volontario aggravato da
futili motivi.
Il 10.10.2011 il Tribunale di Cosenza dichiara Nicola colpevole del reato di omicidio
volontario e lo condanna, con rito abbreviato, ad una pena di anni 16 di reclusione
6.2 La storia di Anna Costanzo
Questa è la storia di una donna uccisa dal suo ex compagno.
Il 10 luglio del 2009 in un appartamento a Bari viene ritrovato un corpo senza vita, è
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quello di Anna Costanzo.
Tutto inizia nel 2006 quando la donna conosce Alessandro, lei di 47 anni e lui di 30.
Per Anna i diciassette anni in meno di Alessandro non sono un problema, quel ragazzo
le piace e senza pensarci troppo inizia una relazione con lui.
Ma chi è Anna? E’ la prima di 3 figli, suo padre gestisce un’edicola e sua madre è una
casalinga. In famiglia l’atmosfera è serena e Anna cresce in un clima allegro e
affettuoso. Sarà proprio questa serenità in famiglia a farla diventare una persona
ottimista e positiva.
Anna sogna di diventare una truccatrice per questo dopo le scuole medie si iscrive ad
una scuola di estetista. Dopo un po’di tempo decide di aprire un centro estetico con la
madre anche se il sogno della donna è sempre quello di diventare truccatrice di teatro.
Riesce a realizzare questo suo sogno, diventando responsabile del reparto trucco del
Teatro Petruzzelli di Bari. Per il suo lavoro è una donna molto conosciuta nella sua città,
da tutti considerata una truccatrice molto brava, un vero talento.
Il lavoro a teatro diventa la sua vita, ma quando il sipario si chiude Anna è una donna
sola ed è la solitudine a farla finire nelle braccia sbagliate, quelle dell’uomo che la
ucciderà.
Ma se il lavoro procede bene, in amore Anna raccoglie molte delusioni: dopo un primo
matrimonio avvenuto a 19 anni e finito molto presto, si risposa per la seconda volta ma
anche quell’unione finisce. Successivamente chiude una terza relazione, un rapporto che
è stato molto importante.
Due matrimoni e una lunga convivenza alle spalle: Anna in amore sembra non avere
fortuna. Da una parte ama la libertà e l’indipendenza, dall’altra desidera accanto a sé un
uomo che le voglia bene.
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Divisa tra voglia di autonomia e bisogno di affetto, inizia la relazione con Alessandro.
Ma chi è Alessandro Angelillo? E’ un ragazzo di 30 anni, con vizi comuni a tutti i
giovani della sua età. Lavora come operaio nella ferramenta dei genitori e passa il suo
tempo libero su facebook.
E’ un ragazzo bisognoso di affetto, il cui tratto caratteriale predominante è l’immaturità.
Alessandro ha l’abitudine di raccontare agli altri le sue avventure, fatti straordinari
ritenuti, dai familiari e dalle amiche di Anna, inverosimili. Una volta addirittura
racconta che al mare ha lottato contro uno squalo riportando una grossa ferita, ma
nessuno ovviamente crede.
Agli occhi di tutti risulta una persona sfuggente, che non vuol far capire chi veramente
è; vuole apparire in un certo modo quando in realtà è l’opposto.
I primi tempi della relazione, Anna cerca di avvicinare Alessandro al mondo del teatro.
Le piacerebbe condividere con lui la passione per il suo lavoro, ciò che prova quando
trucca i suoi attori. Per Anna quel mondo è pieno di magia e incanto che la fa stare bene
e le fa tirare quello che ha dentro.
Forse per il peso eccessivo della solitudine, Anna si mette con Alessandro non
valutando l’enorme diversità che c’è fra loro. La donna è consapevole che la differenza
di età metterà fine al suo rapporto ma decide di prendere le cose con fatalismo e si gode
le premure che le riserva il suo compagno.
Per Anna avere in casa un uomo che si prenda cura di lei è importante, questo azzera
ogni differenza di carattere e di età.
Alessandro, proprio per questi suoi modi da immaturo, mette spesso Anna in imbarazzo
sia di fronte ai colleghi del teatro sia alle clienti del centro estetico, risultando
inopportuno, esagerato, indiscreto.
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Inoltre, non è l’uomo innamorato; ha, infatti, una storia con una donna molto giovane
ma riesce a barcamenarsi in questi due rapporti fin quando però Anna non intuisce
qualcosa.
Il rapporto entra in crisi, i litigi diventano sempre più frequenti perché Anna sospetta
sempre di più la presenza dell’altra donna. La Costanzo non sopporta più gli
atteggiamenti di Alessandro, non è più disposta a tollerare le sue bugie, a far finta di
niente rispetto ai suoi modi di fare imbarazzanti e a perdonare i suoi tradimenti.
Nel frattempo, l’amante di Alessandro, per avere l’esclusiva su di lui, invia ad Anna
alcune foto che la ritraggono a letto con l’uomo. Dopo aver ricevuto quelle foto, la
donna invia una mail all’ormai suo ex compagno: “se è lei che volevi perché non essere
sinceri, sono adulta e avrei capito. Non cercami più”.
Il messaggio di Anna non viene preso molto bene dall’Angelillo; inizia per la donna un
incubo che durerà mesi fino a quando non si arriverà all’epilogo più drammatico.
L’uomo, infatti, inizia ad ossessionarla aspettandola all’uscita del centro estetico o
davanti casa, inizia ad essere insistente e ossessivo.
Alessandro non accetta che la sua storia con Anna sia finita e soprattutto che possa stare
con un altro uomo; su facebook si crea un profilo femminile, si finge donna per ottenere
l’amicizia e carpire informazioni.
Oltre ad aver scoperto che Alessandro ha un’amante, secondo le amiche di Anna, c’è
anche dell’altro alla base della decisione della donna di troncare definitivamente il
rapporto. Loro ricordano che la vittima raccontò di richieste sessuali particolari, di
fantasie molto strane che Alessandro le avrebbe rivolto, richieste che Anna non ha mai
voluto soddisfare.
La Costanzo ha lasciato il suo compagno da un mese e mezzo, è decisa a chiudere anche
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se, solo una volta, si lascia convincere e accetta di vederlo. Quell’incontro alimenta in
Alessandro la speranza di poterla riconquistare ma per Anna invece non è cambiato
nulla. Ormai non accetta più di stare con un uomo che continua a prenderla in giro e a
stare con altre donne, ma l’uomo non si rassegna.
Il giorno dell’omicidio, Alessandro colleziona cinque rifiuti da cinque donne diverse. Il
primo rifiuto avviene la mattina quando l’Angelillo decide di inviare un mazzo di fiori
alla sua amante, nel biglietto di accompagnamento le scrive: “amo solo te”. La giovane
donna rifiuta quell’omaggio.
Alessandro quando sa del rifiuto chiede al fioraio di recapitare lo stesso mazzo di fiori
ad Anna pur sapendo che lei non ama le rose. Cambia però il biglietto: “ricevere fiori
male non fa, fa sempre bene”. Infastidita da quel gesto, la donna distribuisce i fiori alle
sue clienti.
La sera l’uomo contatta tre amiche, non vuole passare la serata da solo ma tutte
rifiutano il suo invito.
Anna, invece, decide di uscire con un’amica e mentre è fuori, a casa sua si introduce
qualcuno: Alessandro. Non commette alcuna infrazione, entra tranquillamente
nell’appartamento della donna avendo una copia delle chiavi.
Quando la povera donna rientra in casa non si accorge subito della presenza dell’uomo,
tanto che ha il tempo di appoggiare le chiavi e di togliersi le scarpe che verranno poi
ritrovate dagli inquirenti sistemate una accanto all’altra.
Probabilmente il rifiuto deciso di Anna a non voler tornare insieme provoca la rabbia
feroce di Alessandro, che dopo averla più volte colpita alla testa e stretto le mani al
collo, la trascina in bagno e immerge il suo corpo nella vasca che poco prima aveva
riempito.
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L’autopsia certificherà che la causa della morte è un’asfissia meccanica da
annegamento.
Le indagini per la morte di Anna saranno lunghe e complesse ma, grazie ai dati
telefonici informatici, che i periti hanno raccolto in sede processuale, si riuscirà ad
individuare come unico colpevole Alessandro, l’uomo che diceva di amarla e che il
giorno del funerale della donna si disperava e non si dava pace.
Il processo si svolge con rito abbreviato e la sentenza di primo grado condanna
Alessandro a 30 anni di reclusione per omicidio volontario aggravato dalla crudeltà e
per furto in casa, non gli viene riconosciuta l’aggravante della premeditazione.
6.3 La storia di Roberta Vanin
Questa è la storia di Roberta e del suo amore per Andrea, un professore di chimica
appassionato di cultura vegana e filosofie orientali.
Tutto inizia nel 2003, quando la donna ha 36 anni e lui 41; sono entrambi
sentimentalmente soli e scoprire interessi comuni fa sì che pian piano nasca un rapporto
che durerà per ben sette anni.
Ma chi è Roberta? Nasce a Merano, un paesino vicino Venezia, nel 1967. È la seconda
di tre figli, il papà è tornitore in fabbrica e la mamma casalinga. Da piccola è sempre
stata timorosa, ma crescendo cambia, prende consapevolezza della sua bellezza e della
sua eleganza innata e diventa più forte e sicura di sé. Quando ha 20 anni legge
l’annuncio per la ricerca di una modella, si presenta alla selezione e viene scelta. Per
quasi 10 anni lavora come indossatrice e modella, ma sa che quel lavoro è di breve
durata e così verso i 30 anni cambia professione. Lavorerà come commessa in diversi
negozi di abbigliamento.
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Roberta vive un momento di insoddisfazione, vorrebbe dare una svolta alla sua vita e la
svolta la vede proprio in Andrea, dal quale si lascia completamente affascinare. Pensava
di aver trovato il punto di riferimento della sua vita, invece troverà la morte.
Ma chi è Andrea, l’uomo che la ucciderà? Un uomo solo e diffidente che crede solo in
sé stesso. Lui è una persona strutturata in maniera rigida, una persona tutta di un pezzo.
È un professore di chimica in una scuola superiore che ama molto il suo lavoro di
insegnante. È un uomo che vuole assumere un ruolo di guida, di precettore dell’umanità
intera. Lui dà, ma quel dare significa ricevere gratificazioni, cioè il suo fine è sempre e
solo stare bene. Non ha la capacità di dare agli altri autenticamente, le sua azioni sono
finalizzate ad un suo piacere personale, ad un torna conto che soddisfa solo lui e nessun
altro.
Agli studenti Andrea non spiega solo la chimica ma per stimolarli parla anche di altri
argomenti. È un professore molto amato e lui vive la sua professione come un servizio
per gli altri, il cui unico fine è potersi esprimere e far così vedere a tutti quanto è
preparato e colto; sente la necessità di esprimersi sempre davanti ad un pubblico.
Ha un disturbo narcisistico della personalità che si caratterizza proprio per un
autoaccentramento e anaffettività. È una persona strana, segue i suoi obiettivi e i suoi
canoni di vita pretendendo che anche gli altri facciano come lui; dirige le persone
secondo i suoi modelli di vita come un guru.
Andrea è appassionato di filosofie orientali e yoga, segue le credenze sul carma e sulla
reincarnazione anche se resta legato alla religione cristiana. Pratica l’urino-terapia ed è
un rigido osservatore dell’alimentazione vegana sulla quale organizza seminari di
approfondimento.
È un uomo che con questa filosofia di vita si relaziona con le altre persone ed infatti si
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relaziona così bene a tal punto da avere una grandissima capacità di convincimento.
Il narcisista si comporta all’inizio come l’uomo o la donna ideale, meglio di quella
persona non esiste ed è proprio questo che attrae.
Qualche tempo dopo l’inizio della relazione, Roberta fa conoscere Andrea alla sua
famiglia: la prima persona ad incontrarlo è la mamma che quando lo vede resta un po’
perplessa e non riesce a capire la scelta sentimentale della figlia. Avrebbe preferito che
avesse scelto un uomo più tradizionale. Vedere Andrea vestito con la tunica e lo
zucchetto in testa la metteva a disagio e non comprendeva il perché di
quell’abbigliamento così insolito, ma non faceva commenti vedendo la figlia sempre più
felice e innamorata.
Roberta inizia a seguire tutti gli interessi di Andrea: lo segue in tutti i convegni
sull’alimentazione vegana, si converte alle filosofie orientali e pratica lo yoga.
Anche nella sfera sessuale abbraccia le scelte del suo compagno, di fare cioè l’amore
seguendo un principio orientale: non disperdere l’energia vitale del seme maschile. Se
non si ha uno scopo riproduttivo per cui è normale che il seme sia depositato nella
vagina, non va disperso ma trattenuto.
Roberta è così convinta di aver trovato l’uomo giusto che, quando Andrea le propone di
aprire un negozio sui cibi biologici, accetta con entusiasmo.
All’inizio Roberta non sa quasi nulla del settore, è Andrea ad insegnarle tutto ed a
correggerla quando sbaglia.
La donna si fa affascinare da tutto questo mondo fino ad allora sconosciuto per lei, lo
segue in tutto e per tutto, diventa – ad avviso dell’uomo – il suo strumento, una sua
creazione sia dal punto di vista affettivo sia economico.
Dopo tre anni di relazione, i due vanno a vivere insieme ma la convivenza non va molto
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bene. È soprattutto Andrea a mostrare insofferenza. Si sente il suo spazio invaso da
Roberta e a casa dormono in letti separati anche perché lui si è portato nella nuova
abitazione il letto ad una piazza e mezzo, troppo piccolo per due persone.
Non dimentichiamo che Andrea è un narcisista e un uomo con questa personalità non
vuole che gli altri entrino nel suo spazio vitale. Chiede la vicinanza della persona ma è
come se esistesse un cerchio circondato da fiamme che non può essere oltrepassato. Se
l’altra persona si spinge all’interno del cerchio, il narcisista la respinge tanto più
violentemente ed intensamente tanto più l’altra persona cercherà di entrare.
Nella vita di Andrea ci sono altre donne, relazioni di breve durata gestite parallelamente
al rapporto con Roberta. Alla sua amante l’uomo racconta che il suo rapporto è ormai in
crisi e approfittando dell’assenza della donna, partita per una breve vacanza, trascorre a
casa una notte con lei.
Quando la Vanin torna dal viaggio si accorge subito che qualcosa non va: Andrea non ha
cambiato le lenzuola, trova nel letto i capelli dell’altra donna e chiede spiegazioni. Ma
l’uomo non si scompone, dapprima nega ma poi confessa il tradimento rimanendo
impassibile di fronte alla disperazione di Roberta.
Lei decide di lasciarlo e cacciarlo dal negozio essendo l’attività commerciale intestata a
nome suo. Nonostante si siano lasciati, continuano a lavorare insieme e questa
situazione diventa insostenibile per i continui litigi.
Roberta ha trovato un nuovo appartamento e da poco si frequenta con un altro uomo, è
un rapporto appena iniziato che le regala già serenità e gioia.
Mentre la Vanin va avanti nella sua nuova relazione, il Donaglio si dedica alle sue
molteplici attività compreso l’allenamento di una giovane squadra di basket ma è
sempre ossessionato dalla perdita della sua donna, così che in quel periodo inizia a
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controllarne tutti i suoi movimenti. In negozio legge di nascosto i messaggi che le
arrivano sul cellulare, origlia le telefonate che riceve, si apposta sotto casa per vedere
con chi esce e a che ora rientra. A tutti, in quel periodo, Andrea pare cupo e angosciato
come non lo è mai stato; la tragedia sta covando!
È la fine del mese di luglio 2010, Roberta e Andrea non vivono più insieme da sei mesi.
Non è solo la presenza del nuovo fidanzato di Roberta a infastidire Andrea, è l’idea di
perdere la donna e con lei la sua attività che lo angosciano.
Un giorno, dopo un’accesa lite, Andrea prende un coltello e minaccia Roberta. Di quella
minaccia, la donna parlerà solo con la mamma, non dirà nulla né al padre né ai fratelli.
Nonostante la paura, Roberta non denuncia l’episodio e continua a sopportare la sua
presenza, oramai insopportabile, in negozio.
L’uomo è sempre più ossessionato, il pensiero di perdere tutto è un tarlo nella sua
mente, una miscela esplosiva che improvvisamente porta alla tragedia.
È il 6 luglio 2010, l’ultimo giorno di vita di Roberta.
Andrea ha passato una notte insonne proprio a causa di una lite con Roberta. Rabbia,
impotenza, paura di essere allontanato dal negozio: questi i sentimenti dell’uomo.
È l’ora di pranzo quando Andrea arriva nel negozio, è molto teso e tra i due scoppia
subito una litigata. È fuori di sé, va in escandescenza e inizia a rompere qualcosa
buttandola per aria. Roberta, impaurita da questo comportamento, avendo capito che
ruolo ha la mamma nella vita del figlio, la chiama. Nel momento in cui dice: “adesso
prenderò dei provvedimenti”, per lui sarà il crollo totale. La donna si sfoga al telefono
dicendo che non possono più gestire il negozio insieme perché la situazione non è più
sopportabile. Donaglio è nascosto e ascolta tutta la conversazione.
È l’ora di chiusura, Roberta prende i soldi dalla cassa e si dirige verso il retro del
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negozio ma non sa che ad attenderla ci sarà la furia di Andrea che la aggredisce
all’improvviso dapprima con pugni e schiaffi e poi con un coltello senza fermarsi.
Le contellate inferte saranno 63: le prime 9 parate da Roberta con le mani, altre 14
all’addome, 21 al tronco posteriore, 1 al braccio destro e 18 al collo. Andrea si ferma
solo quando la sua furia ha spezzato la lama del coltello.
Andrea va a prendere un secondo coltello, si sdraia vicino al corpo senza vita della
povera donna e si ferisce.
Il padre di Andrea, che lo aspettava per pranzo, preoccupato non vedendolo arrivare e
per la telefonata ricevuta prima da Roberta, si reca subito al negozio. Quando entra
scopre il figlio e la donna stesi a terra in un mare di sangue. Si accorge subito che
Roberta è morta e che il figlio, anche se ha perso molto sangue, è vivo.
Ogni cosa e ogni dettaglio mostrano la furia omicida di quell’uomo che ha messo da
parte le sue credenze di rispetto per i fiori e gli animali e ha massacrato invece un essere
umano.
Dopo la sua confessione, Andrea viene arrestato e rinviato a giudizio.
Sulle sue responsabilità non ci sono dubbi, ma come succede sempre il duello in aula si
basa tutto sulle perizie. La difesa sceglie il rito abbreviato.
Il punto chiave del processo è stabilire se l’omicidio è stato premeditato e per questo va
accertato il momento in cui Andrea ha preso il coltello, cioè se dopo la telefonata o
durante. Per i giudici Andrea ha preso il coltello solo dopo aver colpito con pugni e
schiaffi Roberta.
Il 18 gennaio 2012 Andrea Donaglio viene condannato con rito abbreviato per omicidio
volontario aggravato da futili motivi. Il riconoscimento delle circostanze attenuanti
generiche considerate equivalenti rispetto all’aggravante ha ridotto la pena finale a 16
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anni.
6.4 La storia di Vanessa Scialfa
Vanessa Scialfa è una ragazza di 20 anno uccisa dal suo fidanzato, accecato dalla
gelosia che lo ha portato a spegnerle il suo meraviglioso sorriso.
Questa di Vanessa è una storia che si ripete e che ha come protagonista di una tragedia
ancora una donna indifesa e innamorata dell’uomo sbagliato.
Ma chi è Vanessa? È una bellissima ragazza, con capelli lunghi e frangetta sulla fronte,
sempre allegra, sorridente e spensierata. Ama gli animali e la natura. Si è diplomata al
liceo artistico e per non pesare sulla famiglia ha deciso di fare mille lavoretti: dalla
barista alla commessa. Aveva pure un fidanzato con cui era serena, un amore durato tre
anni. Poi quella storia è improvvisamente finita, nella vita di Vanessa entra una nuovo
amore: Francesco Lo Presti.
Si lega a lui fin da subito e, anche se ai genitori non piace, continua a frequentarlo forse
perché è più grande di lei, forse perché pensa che è in grado di darle sicurezza.
A gennaio matura la decisione di vivere con lui ma con la convivenza arrivano subito le
incomprensioni e i litigi. La differenza di età, quando uno dei due ha 20 anni e l’altro
quasi quindici in più, può far subentrare il tarlo della gelosia ed infatti così è: Francesco
teme che lei possa andarsene e rimpiangere il suo ex fidanzato.
Il 24 aprile 2012 Vanessa scompare da casa, nessuno riesce a capire dove possa essere
andata e soprattutto perché sia arrivata ad un gesto simile. Il compagno racconta di un
litigio tra i due e della decisione della ragazza di andare via da casa.
Le indagini, però, fin da subito si concentrano sulla versione poco attendibile che
fornisce proprio il fidanzato. E, dopo ore di interrogatorio, Lo Presti non regge la
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tensione e ammette di aver ammazzato la fidanzata per gelosia, mentre prima ne aveva
denunciato la scomparsa come una fuga volontaria. Confessa: “Sì, l’ho uccisa io. Ho
commesso una stupidata”.
Poi la straziante descrizione dell’omicidio. La ragazza è stata strangolata con un cavo
del videoregistratore. Dopo, il ragazzo ne ha avvolto il corpo in un lenzuolo e lo ha
gettato giù da un cavalcavia. Lo stesso Lo Presti accompagna gli inquirenti nel punto
dove si trova il corpo della giovane ragazza.
Ma perché Francesco uccide Vanessa? A sentire gli inquirenti, il movente è la gelosia.
“Mi aveva chiamato con il nome del suo ex in un momento di intimità e non ho visto
più”, questo è quanto riferisce il ragazzo.
Secondo una ricostruzione seguita alle indagini, tra loro sarebbe scoppiata una lite
furibonda, che è degenerata; lei voleva andarsene e ha tentato di uscire dalla casa. A
qual punto lui ha perso la testa e l’ha uccisa facendo sparire il corpo.
Il movente, quindi, un nome… quello di un ex fidanzato più giovane pronunciato in un
momento sbagliato. È possibile che sia bastato solo questo a trasformare un uomo
apparentemente tranquillo in un killer spietato capace di uccidere in modo così efferato?
Francesco Lo Presti dovrà rispondere di omicidio volontario e occultamento di
cadavere.
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7. LA PREVENZIONE
7.1 I diversi approcci
La criminalità violenta è in continua crescita e, per l’allarme sociale suscitato, diversi
sono gli approcci presi in considerazione dagli esperti per cercare di prevenire il
fenomeno.
Approcci universali
- interventi che potrebbero attuarsi sull’intera popolazione.
 Approcci selettivi
- interventi rivolti a sottogruppi di popolazione il cui rischio di sviluppare un qualsiasi
disturbo risulta significativamente maggiore rispetto alla media.
 Approcci indicativi/mirati
- interventi applicabili ad individui identificati come portatori di chiari segni o sintomi
prodromici, tali da doverli considerare vulnerabili o ad alto rischio.
COSA PREVENIRE?
- intervenire precocemente, ridurre i fattori di rischio e accrescere i fattori protettivi.
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- intervenire precocemente sui fattori di rischio (per esempio sul comportamento
aggressivo ed auto-controllo insufficiente) spesso ha un impatto maggiore rispetto ad un
intervento operato successivamente, modificando il percorso di vita di un ragazzo:
spostare l’attenzione su comportamenti positivi.
COME PREVENIRE?
- calibrare l’intervento sui bisogni della Comunità, analizzando il contesto attuale e
locale;
- mirare l’intervento alle caratteristiche dei destinatari (caratteristiche della popolazione
o gruppo, quali l’età, il genere e l’etnia), al fine di migliorare l’efficacia del programma;
- coinvolgere e sostenere le famiglie. Tutti i programmi di prevenzione indirizzati alla
famiglia dovrebbero accrescere il collegamento e le relazioni familiari e includere le
abilità dei genitori nell’educazione dei propri figli;
- potenziare la sinergia fra i progetti: gli interventi che associano due o tre programmi
efficaci, quali quelli basati sulla famiglia e sulla scuole, sono più proficui di un singolo
progetto:
- rendere i programmi di prevenzione per la Comunità efficaci con messaggi coerenti e
comprensibili, soprattutto quando raggiungono ambienti multipli.
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Conclusioni
Dall’analisi delle teorie eziologiche sulla criminalità e sull’aggressività è emerso che
non esiste una spiegazione univoca del fenomeno; non esiste, cioè, un’unica causa che
sia in grado di spiegare perché un uomo arriva ad agire un comportamento aggressivo
nei confronti di una donna, soprattutto quando è una compagna, una moglie, una
collega, una parente o un’ex partner.
Con il presente lavoro ho cercato di analizzare, con le diverse storie, tutti quei
comportamenti che, con modalità diverse, vanno ad intaccare e ledere, in maniera
irreversibile, l’identità e l’esistenza del genere femminile.
Di comportamenti aggressivi ce ne sono tanti, dalle minacce agli strattonamenti, dai
colpi con oggetti a schiaffi, pugni e calci, dalle ustioni ai tentativi di strangolamento o di
soffocamento, dagli stupri ai tentati stupri, dalla costrizione a fare sesso con altri alle
molestie, fino ad arrivare all’omicidio.
Ma perché tanta ferocia?
Non possiamo saperlo. Ad oggi, sono stati pochissimi gli studiosi di tale fenomeno che
si sono avvalsi di gruppi di controllo. Pertanto, raramente ci è dato sapere quanti
abusati, vittime di violenza fisica o ancora quanti soggetti con disturbi a livello
neurologico arrivano a porre in essere comportamenti aggressivi.
I lavori che si giovano di comparazioni sono univoci nel concludere che il ciclo
dell’abuso, il ciclo della violenza, un attaccamento disorganizzato a figure primarie,
possono essere una possibilità, forse una probabilità, ma non un destino ineluttabile
verso una carriera criminale.
La criminalità è un fenomeno complesso, articolato e mutevole, fondato sulla cultura
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della morte e sulla banalità del male.
L’obiettivo prioritario di uno Stato democratico ed una società civile è certamente
quello di contrastare tale fenomeno attraverso la promozione della cultura della vita e
dei valori positivi.
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