Adf ottobre

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Adf ottobre
AMICI di
FOLLEREAU
Per i diritti degli ultimi
N. 10 ottobre 2014
SOLIDARIETÀ: al tempo dell’Ebola
Anno LIII - n.10 / ottobre 2014 - Poste Italiane SPA, Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv.in.L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, c.1, CN/BO - Filiale di Bologna – € 1,03
Editoriale
Per fare la pace
ci vuole coraggio
C
are amiche, cari amici,
giorni, contro le lebbre dell’individualismo, dell’egoismo,
della sopraffazione che, come diceva Follereau, sono ben
peggiori della lebbra malattia.
Le idee che portiamo avanti sono proprio il contrario
È doveroso completare
della mentalità dello scarto che esclude i più deboli: la
la frase di papa Francesco:
nostra mission è proprio lottare per l’inclusione degli
“Per fare la pace ci vuole
ultimi, perché siamo convinti che sono loro “il sale della
coraggio, molto di più
terra” e che il mondo si salverà solo prendendosi cura gli
che per fare la guerra”.
uni degli altri.
Coraggio, pazienza, fede
Ma è ora che torniamo a far sentire la nostra voce:
nell’uomo, speranza sono
come è possibile che davanti a tante disastrose realtà,
solo alcune delle qualità
a continui spettacoli di lampante crudeltà e ingiustizia
necessarie per cercare di costruire la pace in questo nostro
solo poche decine di persone sentano la necessità di
mondo, dove ora si sta combattendo una terza guerra
far sentire la propria voce e la propria presenza, di far
mondiale a pezzetti, come dice ancora papa Francesco col
sentire che ci sono? Neppure i nostri fratelli martiri
suo modo figurato e incisivo di esprimersi.
per la loro religione, di qualunque religione (sembra
Sembra che l’assolutamente disastrosa situazione
che ormai abbiamo superato il numero del tempo della
mondiale in cui ci troviamo spinga una larga
catacombe) sono più capaci di smuoverci.
maggioranza di noi non a fare la
Non abbiamo più fiducia nella
pace ma a starsene in pace, come si
nostra capacità e possibilità di
È ORA CHE TORNIAMO A FAR
dice quando vogliamo rifugiarci
agire insieme, del nostro diritto –
SENTIRE LA NOSTRA VOCE:
nel nostro tranquillo e protetto
e dovere - di fare tutto il possibile
angolo di mondo, occupandoci COME È POSSIBILE CHE DAVANTI perché questo nostro mondo sia
delle nostre cose e guardando alla
un po’ migliore. Eppure sappiamo
A TANTE DISASTROSE REALTÀ,
televisione guerra, fame, profughi,
bene che non esiste pace senza
A CONTINUI SPETTACOLI
diritti umani calpestati per i quali
giustizia: una giustizia basata
DI LAMPANTE CRUDELTÀ E
non possiamo far niente.
sul rispetto di qualsiasi uomo, di
INGIUSTIZIA SOLO POCHE
Cose, ci sembra, troppo grandi
qualsiasi fratello, bianco, giallo,
DECINE DI PERSONE SENTANO
per noi. Cosa possiamo fare
nero, lontano o vicino: ché poi
LA NECESSITÀ DI FAR SENTIRE
davanti a giochi finanziari che, in
ormai siamo tutti vicini e tutti
LA
PROPRIA
VOCE
E
LA
PROPRIA
un momento, possono distruggere
interdipendenti.
vite, mettere alla fame nazioni, PRESENZA, DI FAR SENTIRE CHE
“E proprio perché la Pace è
essere peggio di una guerra? Cosa
sempre
in divenire, perché è sempre
CI SONO?
possiamo fare davanti alle nuove
incompleta, perché è sempre fragile,
schiavitù che, incredibile, non sono state mai così
perché è sempre insidiata, perché è sempre difficile, noi la
numerose ed organizzate come ora?
proclamiamo. Come un dovere. Un dovere inderogabile.
Pensavamo di aver raggiunto un’epoca dove i diritti
Un dovere dei responsabili della sorte dei popoli. Un dovere
fondamentali erano stati tutti affermati e riconosciuti
d’ogni cittadino del mondo….”
e sarebbero solo andati in ascesa: abbiamo dimenticato
(Papa Paolo VI – Giornata della pace, gennaio 1969)
che purtroppo dobbiamo continuare a lottare, tutti i
“
“
Anna Maria Pisano
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Profezia
Una startup
per la pace
Primo piano
Liberia: sul fronte
dell’Ebola
Fuori gioco, d’azzardo
Dossier
Ong e social media:
istruzioni per l’uso
Luciano Ardesi
Aron Cristellotti
e Francesca Ortali
Tino Bilara
Nicola Rabbi
15
Progetti
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Malattia mentale,
ritorno alla dignità
Nicola Rabbi
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Strumenti
Sergio Cavasassi
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Nyjil George
India: vendere le stelle
La parola alla fotografia
Esperienze
Testimoniare
le altre lebbre
Anna Bella
Fonte: archivio fotografico di Swan&Koi
Profezia
Una startup per la pace
IN UNO SCENARIO SENZA PUNTI DI RIFERIMENTO PER GESTIRE I CONFLITTI
DI OGGI, MENTRE IL MOVIMENTO PACIFISTA È IN CERCA DI SE STESSO, È
TEMPO DI INVESTIMENTI DURATURI PER LA PACE E LA SICUREZZA
di Luciano Ardesi
G
iornali, televisione e librerie ci propongono
ogni tipo di documento relativo alla prima
guerra mondiale, ad un secolo dal suo inizio.
L’anniversario ha fatto da traino ad altre
commemorazioni, come i 70 anni dello sbarco in Normandia.
Ma di guerra si parla non solo al passato, perché gli scenari
in corso invitano a discutere di una terza guerra mondiale,
tanti sono i conflitti aperti e particolarmente forte è la loro
intensità.
Papa Francesco con la sua ormai proverbiale capacità di
andare all’essenza dei fatti parla di una terza guerra a pezzetti,
che rende molto bene il fatto che i fronti sono dislocati
ovunque. Il fatto è che la guerra è cambiata anche se, e questo
è il punto, rimane sempre guerra con le sue violenze, crudeltà,
ingiustizie, sopraffazioni e vittime, soprattutto tra i civili.
Non ci sono più dichiarazioni di guerra come le abbiamo
conosciute in passato, i proclami solenni – quando ci sono –
non sono più lanciati da balconi (Italiani, l’ora delle decisioni
…), ma attraverso video. A scontrarsi non ci sono più solo
eserciti statali, ma anche “attori” privati. Il terrorismo è entrato
in scena e recita una parte non secondaria. Apparentemente
armi e chi le usa si sono dislocati, non ci sono più soldati
che vanno all’assalto col fucile e la baionetta, mentre missili
e droni sono guidati da persone lontane dalla battaglia. Ma
solo apparentemente perché i coltelli, i macete entrano nelle
guerre e non solo simbolicamente, come nel caso degli ostaggi
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decapitati.
Le guerre producono altre guerre. Gli interventi in
Afghanistan, Somalia, Iraq, Libia hanno distrutto il tessuto
sociale sul quale poggiava il potere, ancorché dispotico. Il
risultato è che abbiamo stati non più stati, dove non esiste più
un potere centrale come in Somalia o in Libia, e l’instabilità
si estende alle regioni vicine, nel Sahara centrale o in Medio
Oriente, dove è stato proclamato uno stato “virtuale”, il
califfato o ISIS, lo Stato islamico dell’Iraq e della Siria.
Questi pezzi di guerra non sembrano avere più un
riferimento per una composizione pacifica. L’equilibrio del
terrore, assicurato dalla guerra fredda e dalle armi nucleari
di due grandi potenze, Usa e Unione sovietica, non ha finora
trovato un sostituto. Non se ne deve avere nostalgia. La
guerra nucleare non è (finora) scoppiata ma la guerra fredda
ed il suo “equilibrio” non ha impedito le tante guerre in ogni
parte del mondo.
Lo strumento creato dopo la seconda guerra mondiale per
“preservare le generazioni future dal flagello della guerra”,
le Nazioni Unite, non ha pienamente funzionato allora e
non sembra poter funzionare oggi. C’è stato un momento
nel 1991, dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di
Saddam Hussein e il successivo intervento della coalizione
diretta dagli Usa col cappello dell’Onu (Guerra del Golfo),
che è sembrato possibile far giocare all’Onu un ruolo attivo.
Si è visto poi che se ne è fatto un suo uso strumentale per
avallare decisioni prese altrove, rispondenti a logiche ed
interessi che nulla hanno a che fare con la Carta dell’Onu.
Gli equilibri della guerra fredda non esistono più. Gli
Usa rimangono la prima potenza militare ma non hanno
più la forza economica per sostenere una guerra globale.
La Russia prova a fare ciò che non l’è riuscito di fare con
l’Unione sovietica ma, non avendo più un collante ideologico
per proporsi come potenza, usa il gas per dissuadere i vicini
dall’allontanarsi dalla sua sfera. Gli equilibri economici
vedono ormai gli Usa declassati dalla Cina, non siamo ancora
ad un capovolgimento del mondo, ma le conseguenze si
faranno presto sentire anche sul piano militare.
In questo scenario frammentato ognuno cerca di
riposizionarsi. Gli Usa sembrano aver trovato in Ucraina una
ragione per tenere in vita la Nato e, non potendolo più fare
da soli, chiedono agli stati membri di aumentare i bilanci
militari. L’Italia sarà nella Nato la brava scolaretta che cerca di
essere nell’Unione Europea? C’è augurarsi di no, ma intanto
l’UE non sembra avere idee e volontà politica di decidere i
destini della guerra che esplode ai suoi confini.
Il nazionalismo russo e il fanatismo dell’ISIS possono così
dilagare, mentre si coltiva l’illusione che droni e Iron Dome,
la “Cupola di ferro” usata da Israele per difendersi dai missili
lanciati da Hamas, possano fermare l’avanzata dei fronti di
battaglia e proteggersi dalle inevitabili ricadute di una guerra.
Immaginare oggi una politica di sicurezza comune diventa
impossibile non solo perché manca un “senso comune” a stati
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Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014
Fonte: archivio fotografico di Swan&Koi
Profezia
e nazioni, ma perché manca la sicurezza personale. Nelle tante
ridondanti analisi della crisi economica attuale manca proprio
questo aspetto. A livello macroeconomico questa situazione
può essere facilmente, e illusoriamente, rappresentata con i
tassi di disoccupazione, le percentuali di diminuzione del Pil,
dei redditi e dei consumi. Questi elementi non danno conto
degli stati d’animo di coloro che poi si impegnano in prima
persona nella guerra, oppure l’approvano e l’appoggiano, o
che, in ultima analisi, la subiscono.
Senza sicurezza personale non c’è sicurezza collettiva. Non
è per l’ossessione (che tale comunque non è) di promuovere
la “Casa” che oggi siamo costretti a ritornare alle parole, ma
soprattutto alle proposte, di Raoul Follereau sulla guerra
e sulla pace. Come aveva ben visto già durante e dopo la
seconda guerra mondiale non si tratta solo di ridurre gli
armamenti ma di costruire un’alternativa alla guerra.
L’economia, mai così di attualità come oggi, ci parla di
investimenti e di startup per “far ripartire” i paesi in crisi.
Peccato che ci si dimentichi di quella startup che Follereau
aveva indicato come strumento iniziale per far ripartire, con
metodi innovativi, l’impresa della pace di cui, nel corso dei
decenni successivi, si è dimenticata l’importanza, salvo poi
ritrovarci ogni volta a fare drammaticamente i conti con
situazioni ingovernabili.
L’educazione alla pace (la storia dell’umanità nei
programmi scolastici), i campi di vacanza internazionali e il
servizio civile al posto di quello militare per i giovani, questi
sono gli investimenti per la pace. Ridurre gli armamenti e
le spese militari (e non solo perché c’è la crisi economica)
è indispensabile ma non basta ad assicurare la pace. Corpi
civili di pace al posto di soldati certo, ma se non si sconfigge
il principale nemico, la fame, la povertà, l’idolo del denaro, i
motivi della guerra ritornano in ogni momento ed in ogni
luogo. Una riflessione globale che anche il movimento per la
pace fatica a elaborare e praticare. Costruire la civiltà dell’amore
non è una generosa utopia, è la sola impresa per la quale valga
la pena investire tutto se stesso. ■
Fonte: archivio fotografico di Swan&Koi
Primo piano
Sul fronte dell’Ebola
IN LIBERIA AIFO SI STA IMPEGNANDO NELLA LOTTA CONTRO
L’EPIDEMIA, UTILIZZANDO LE SUE STRUTTURE PRESENTI SUL
TERRITORIO, IL SUO PERSONALE E L’APPROCCIO COMUNITARIO
PER SENSIBILIZZARE LA POPOLAZIONE
di Aron Cristellotti* e Francesca Ortali
A
ifo ha preso la decisione di contribuire a
sconfiggere l’epidemia di Ebola in Liberia,
dove è presente da numerosi anni, malgrado
la complessa situazione che regna nel paese e
benché non sia una Ong specializzata nelle emergenze. Il
personale in loco e le competenze acquisite nel supporto
alle comunità permettono di aiutare le persone a capire che
cosa possono fare per proteggere se stesse e le loro famiglie e
limitare così la diffusione della malattia.
Dopo la Dichiarazione dello stato di emergenza diramata
con un drammatico appello alla nazione il 6 agosto dalla
presidente della Liberia Ellen Johnson Sirleaf, a seguito
della rapida e incontrollata diffusione dell’epidemia, Aifo
ha preso la difficile decisione di evacuare il suo personale
espatriato per garantirne la sicurezza. La misura ha tenuto
in considerazione che alcune compagnie aeree locali avevano
già annullato tutti i voli per la Liberia, e c’era il rischio che le
compagnie internazionali, come è poi accaduto, le seguissero
con la conseguente chiusura degli aeroporti che avrebbe reso
impossibile una successiva evacuazione.
Non è la prima volta che Aifo si trova ad affrontare simili
situazioni, e la decisione di evacuare è sempre stata presa
dopo un’attenta e accurata analisi dei fatti, come ad esempio
dopo il colpo di stato in Guinea Bissau. In altre occasioni
abbiamo deciso di lasciare il nostro personale nel paese come
alla fine dell’era del presidente Suharto nel 1998 in Indonesia.
Il ministero della Salute liberiano, così come le agenzie
internazionali, che erano tenute a coordinarsi con lo stesso,
hanno inizialmente sottostimato la portata dell’epidemia
fino a quando non è arrivata nelle aree urbane, dove era
chiaro che si sarebbe estesa senza possibilità di contrastarla,
e quindi fuori da un reale controllo. Da qui il coinvolgimento
di esperti epidemiologi, provenienti per lo più da
università americane che hanno consentito una nuova fase
dell’emergenza, di fatto iniziata proprio con la dichiarazione
dello stato di emergenza.
In attesa del ritorno del personale espatriato, Aifo ha
programmato con l’equipe locale tutte le risorse necessarie
per poter continuare le attività in corso e per metterle
a disposizione della decisiva azione di prevenzione del
contagio dall’Ebola.
Il programma Aifo in Liberia è costruito sull’approccio
della Riabilitazione su Base Comunitaria nei campi della
lebbra e della disabilità, nei quali abbiamo progressivamente
acquisito importanza tanto da essere ora al centro di tutte
le dinamiche settoriali, sia a livello nazionale che locale.
Per quel che riguarda la lebbra Aifo, assieme alla GRLA
(German Leprosy and Tubercolosis Relief Associacion) e
all’ALM (American Leprosy Mission), sostiene in modo
importante il Piano Strategico Nazionale per la lotta contro la
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Primo piano
Perché è difficile
fermare Ebola
Il virus dell’Ebola è stato individuato per la prima
volta nel 1976 nella Repubblica democratica del
Congo (ex Zaire) in una località nei pressi del
fiume Ebola, da cui ha preso il nome.
È riapparso recentemente, a partire dal dicembre
dello scorso anno, nell’Africa occidentale,
dove non si era mai manifestato prima, ma è
stato individuato solo a partire da marzo. La
mancanza di esperienza, di preparazione e di
strutture ha favorito la sua diffusione. Attualmente
è presente in quattro paesi Guinea, Sierra Leone,
Liberia e Nigeria.
La malattia si trasmette mediante il contatto diretto
con animali infetti, i fluidi organici del corpo
umano, i cadaveri dei deceduti a causa della
malattia. Non si trasmette invece mediate l’aria.
Ha un tasso di mortalità molto alto. I farmaci
sono ancora allo stato sperimentale.
Alla diffusione dell’Ebola contribuiscono, oltre
a strutture sanitarie insufficienti ed inefficienti
nei paesi colpiti, anche fattori culturali come
l’assenza di misure di igiene, l’abitudine
a consumare carni senza controlli sanitari
(selvaggina), il rivolgersi ai guaritori tradizionali
per combattere i primi sintomi, facendo perdere
tempo prezioso (un problema che riguarda
peraltro tutte le patologie), la convinzione che si
tratti di un “complotto” del potere, o di un castigo
divino.
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Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014
Fonte: spirit of america / Shutterstock.com
delle politiche di inclusione delle persone con disabilità. Su
questa linea va considerata anche la collaborazione di Aifo
con il Carter Center (salute mentale), al fine di coordinare
il sostegno alle organizzazioni della società civile e alle
istituzioni ottimizzando le risorse disponibili.
Dal punto di vista operativo Aifo, oltre all’Ufficio
centrale di Monrovia, ha due uffici locali nelle contee di
Bong (Regione centrale) e Grand Gedeh (Regione sud
orientale), i quali coordinano l’attività in sei contee. Aifo
promuove una rete di 58 comunità, 37 gruppi di auto-aiuto
e 15 organizzazioni di disabili per promuovere attività nelle
comunità. I beneficiari diretti sono oltre 4mila.
La nostra attenzione si sta ovviamente concentrando sulla
lotta all’Ebola, per contribuire a fermare l’epidemia. Abbiamo
valutato di poter contribuire all’approvvigionamento di
materiale medico e farmaceutico e la sua distribuzione ai
centri di salute periferica localizzati nelle 6 contee in cui
Aifo opera.
Ci dedichiamo soprattutto, sulla base della nostra
esperienza,
all’importantissima
sensibilizzazione
comunitaria, senza la quale tutti gli sforzi medico-logistici
sarebbero vani. Utilizziamo il nostro approccio inclusivo e gli
operatori di salute esistenti nelle comunità per rafforzare la
protezione comunitaria e dei gruppi familiari, non solamente
contro l’Ebola ma anche contro altre malattie endemiche,
come colera e malaria. ■
* Coordinatore paese Aifo in Liberia
Fonte: ilpost.it
Lebbra. Aifo è uno dei principali partner tecnici di istituzioni
e organizzazioni attive nel settore della disabilità, come la
Commissione Nazionale sulla Disabilità (NCD), i ministeri
della Salute ed Affari Sociali, dell’Istruzione, dell’Unione
Nazionale delle Organizzazioni dei Disabili (NUOD).
Il posizionamento di Aifo ci permette di essere attivi
nell’advocacy e va ricordato che abbiamo avuto un ruolo
importantissimo nella ratifica da parte del governo della
Convenzione sui diritti delle persone con disabilità.
Aifo collabora con l’Unione Nazionale delle
Organizzazioni dei Disabili (NUOD) e Handicap
International per realizzare un progetto finanziato dall’UE
che mira a sviluppare le capacità delle Organizzazioni dei
Disabili a diventare interlocutori riconosciuti dalle autorità
pubbliche e dai soggetti chiave nello sviluppo e nell’attuazione
Fonte: archivio fotografico di Swan&Koi
Primo piano
FUORI GIOCO, D’AZZARDO
IN ITALIA 800 MILA PERSONE SONO SCHIAVE DEL GIOCO; UN GIRO
D’AFFARI ANNUO DI 76 MILIARDI, SENZA CONTARE I CRESCENTI
INTROITI DELLA CRIMINALITÀ
di Tino Bilara
M
olti hanno giocato d’azzardo almeno una
volta nel corso della propria vita, magari
solo per provare. L’istinto al gioco del resto è
innato, ma quando il gioco è quello d’azzardo,
allora occorre fare delle precisazioni e trattarlo con prudenza.
Il gioco d’azzardo è infatti un problema quando da
passatempo diventa dipendenza. Quando si manifesta
un persistente bisogno di giocare e aumentano in modo
progressivo il tempo e il denaro impegnati nel gioco fino
a condizionare gli altri ambiti della propria vita, quando
s’investe al di sopra delle proprie possibilità e quando, per il
gioco, si trascurano i quotidiani impegni della vita. Spesso il
giocatore non ne ha la consapevolezza, ma il problema c’è. E
quando diventa dipendenza è una malattia, che però si può
curare.
Le cronache riportano storie di persone vittime del gioco
d’azzardo che le porta a perdere soldi e affetti. L’opinione
pubblica si sta rendendo conto che è un problema sociale
e una nuova forma di dipendenza, resa più acuta dalla
lunghissima fase di recessione economica, che porta a
sperare in cose impossibili, come il colpo di fortuna che ti
cambia la vita.
Diamo un po’ i numeri
Leggendo il rapporto pubblicato nel 2012 da Libera,
Azzardopoli, il paese del gioco d’azzardo, si viene a sapere
che l’Italia è “Un paese dove si spendono circa 1260 euro
procapite, (neonati compresi) per tentare la fortuna che possa
cambiare la vita tra videopoker, slot-machine, gratta e vinci,
sale bingo. E dove si stimano 800mila persone dipendenti da
gioco d’azzardo e quasi due milioni di giocatori a rischio. Un
fatturato legale stimato in 76,1 miliardi di euro, cui si devono
aggiungere, mantenendoci prudenti, i dieci miliardi di quello
illegale. E’ la terza impresa italiana, l’unica con un bilancio
sempre in attivo e che non risente della crisi che colpisce il
nostro paese”.
In un anno circa 30 milioni gli italiani acquistano un
biglietto della lotteria o un “Gratta e Vinci”, 120 mila
persone lavorano in questo settore che rappresenta il 4%
del Pil nazionale. Con numeri come questi non stupisce che
l’Italia sia il paese in Europa dove si gioca più d’azzardo,
mentre su scala mondiale è “solo” al terzo posto.
Il Dossier di Libera segnala cifre allarmanti anche per
il coinvolgimento delle mafie. Ammonta a 10 miliardi di
euro la stima del fatturato del gioco illegale per il 2012. Ben
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Primo piano
49 clan gestiscono giochi di vario genere. Nel 2010, in 22
città italiane sono state effettuate indagini e operazioni di
Polizia nel gioco d’azzardo con arresti e sequestri riferibili
alla criminalità organizzata.
Chi guadagna con il gioco d’azzardo?
Se sono tanti i soldi spesi per il gioco, sono ben pochi
quelli che incassa lo Stato. “Mettiamoci in gioco” stima tra
gli 88 e i 94 miliardi di euro il business dell’azzardo per il
2013, la terza industria nazionale con il 4% del Pil. Ma se
il giro d’affari cresce, le entrate per lo Stato scendono: si
è passati dal 29,4% del 2004 all’8,4% del 2012, sul totale
del fatturato. Inoltre i costi sociali e sanitari che il gioco
patologico comporta per la collettività si aggirano tra i 5,5 e
i 6,6 miliardi annui. “Mettiamoci in gioco” è una a campagna
nazionale contro i rischi del gioco d’azzardo, nata nel 2012
per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sulle reali
caratteristiche del gioco d’azzardo e sulle sue conseguenze
sociali, sanitarie ed economiche, e per avanzare proposte di
regolamentazione, per fornire informazioni, per catalizzare
l’impegno di tanti soggetti che si mobilitano per gli stessi
fini.
10 regole
per difendersi dal gioco
d’azzardo patologico
•Gioca solo la somma destinata al divertimento,
smetti di giocare quando hai speso quel denaro
•Poniti limiti di tempo e di denaro nell’impegno
che dai al gioco
•Non giocare quando hai debiti urgenti
•Non farti prestare denaro per il gioco
•Non giocare quando stai vivendo una
situazione di stress emotivo
•Coltiva altri interessi, fai in modo che il gioco
sia solo uno dei tuoi passatempi
•Non giocare con amici che scommettono
pesantemente
•Non mescolare alcol e droga al gioco
•Non giocare perché pensi sia il tuo giorno
fortunato
•Non esiste una macchina “fortunata” o carte
fortunate
Fonte: Servizio Sanitario Regionale EmiliaRomagna
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A chi rivolgersi
Conagga (Coordinamento nazionale gruppi
per giocatori d’azzardo)
www.conagga.it
Libera (Azzardopoli)
www.libera.it
Associazione Nazionale Giocatori Anonimi
www.giocatorianonimi.org
Federserd (raccoglie i servizi per le dipendenze
da gioco a livello nazionale)
www.giocaresponsabile.it
Gruppo Azzardo Ticino
www.giocoresponsabile.com
“Mettiamoci in gioco”
www.mettiamociingioco.org
“Associati con chiarezza”
www.associaticonchiarezza.it
Come contrastare il fenomeno?
Il Dossier di Libera termina con alcune proposte
d’intervento per affrontare la dipendenza dal gioco. Non si
vogliono proporre soluzioni di tipo proibizionistico o che
colpevolizzino i gestori di queste attività. “Anzi: proprio
alle imprese più importanti e significative e a chi gestisce
queste attività in maniera lecita, è richiesta, oggi, una chiara
e netta assunzione di responsabilità”. A livello nazionale
è noto il dibattito nato nei circoli Arci tra chi vorrebbe
eliminare del tutto le slot machine e chi vorrebbe trovare
una soluzione più mediata. Oltre a questa consapevolezza
occorre mettere in campo azioni di comunicazione per
sensibilizzare la cittadinanza sul tema, soprattutto per fare
una buona informazione verso le persone più giovani che
possono cadere vittime della dipendenza.
La Regione Emilia Romagna ha finanziato il progetto
“Associati con chiarezza”dove numerose associazioni del terzo
settore hanno firmato un codice di autoregolamentazione,
riguardante “…l’utilizzo della pubblicità,la somministrazione
di alimenti e bevande, la gestione democratica delle
basi associative, la sensibilizzazione riguardo ad alcune
problematiche legate all’abuso di sostanze e al gioco
d’azzardo.” E proprio riguardo al gioco è stato promosso
un concorso rivolto a giovani video maker per sensibilizzare
i loro coetanei sui rischi del gioco d’azzardo. Accanto alla
prevenzione di carattere educativo però ne occorre anche
una di carattere normativo, una legge-quadro insomma che
disciplini meglio la materia. ■
Fonte: scyther5 / Shutterstock.com
DOSSIER
COMMOVENTE,
MA NON ESISTE
Ong e social media: istruzioni per l’uso. Come funzionano Facebook e
Twitter e che cosa si può fare con loro
di Nicola Rabbi
S
olo dieci anni fa non esisteva come tema,
e nemmeno come problema per una Ong.
Stiamo parlando dei social media ovvero
quell’insieme di tecnologie e prassi che
porta sempre più gente a consumare e a produrre
informazione sul web. Stiamo parlando, per
restringere di un poco il campo, dei social network
come Facebook, Twitter, Youtube e di tante altre
piattaforme che ci permettono di fare operazioni
sempre più diversificate, anche se alla base
rimangono una serie di elementi che le accomuna.
Le persone e la tecnologia fanno la differenza
Ma cosa è successo in questi ultimi dieci
anni? In sostanza sono avvenuti due fenomeni
che, viaggiando in parallelo, hanno cambiato
radicalmente le abitudini degli utenti della rete e
quindi anche delle organizzazioni, istituzionali e
no, profit e no profit.
Da un lato c’è stata l’offerta di una tecnologia
sempre più facile da usare per cui, per pubblicare
sul web, non occorre avere particolari conoscenze
informatiche, basta saper usare un normale editor
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DOSSIER
Fonte: Denys Prykhodov / Shutterstock.com
di testo. Anche per le foto o i video c’è stata una
diffusione di massa di dispositivi facili (tablet,
smartphone) che permettono di riprendere,
fotografare e poi di pubblicare il tutto on line con
poche e intuitive operazioni.
Dall’altro lato c’è stato un cambiamento culturale
delle persone che via via si sono abituate alla
tecnologia digitale e hanno sviluppato delle
precise pratiche. Questa maggiore maturità in
termini di alfabetizzazione telematica non è certo
merito, almeno in Italia, del sistema educativo,
tanto è vero che qui da noi ci sono forti differenze
(digital divide) tra nord e sud dell’Italia, tra giovani
e anziani, tra ricchi e poveri.
In cosa consistano poi questa nuove pratiche
è presto detto: partecipazione e condivisione.
Del resto sono proprio i dati forniti dagli utenti
che decretano il successo di un social network;
il mezzo è poca cosa, quello che conta è quanto
viene usato dalle persone. Un sistema così aperto
e collaborativo, inoltre, dovrebbe portare anche
a una visione più complessiva dei vari temi,
proprio perché non sono trattati da un autore, ma
da moltissime persone le cui capacità, sommate
assieme, sono sempre maggiori di quelle del
singolo individuo.
È questa la teoria dell’intelligenza collettiva,
che poi questa teoria sia vera, ovvero che la
collaborazione della massa in rete porti alla
verità, è difficile dimostrarlo, almeno per adesso.
Quello che invece è sicuro, è che i social media,
scavalcando il tradizionale ruolo dei mass media
(di mediazione appunto tra noi e il mondo esterno,
tra noi e gli altri), permettono il raggiungimento di
un vasto pubblico, in poco tempo e con nessuna
spesa. Anche in questo caso c’è il risvolto della
medaglia: se tutti fanno informazione (è un diritto
del resto), vuol dire che l’informazione che circola
in rete diventa enorme e ingestibile e allora per
essere letti bisogna proprio essere interessanti e in
un’ipotesi peggiore, bisogna essere scandalistici e
“pepati”.
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Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014
Uno, nessuno, 100 mila social network
I social network sono numerosi e differenziati
ma hanno alcuni elementi in comune; innanzitutto
occorre iscriversi per utilizzare i servizi offerti da
quella piattaforma e, una volta creato il proprio
profilo, occorre saperlo gestire. Visto che il presente
articolo è rivolto ai lettori di una Ong, ragioniamo
prendendo come modello un’organizzazione, non
tanto un singolo individuo.
Il personale di una Ong, che vuole lavorare sui
social media, deve rendersi conto che i problemi
tecnici sono irrilevanti e che l’unico problema
vero è quello del tempo, di quanto se ne può
dedicare a quel particolare social media. Lavorare
in questi ambienti significa infatti conversare, il
che presuppone un continuo ascolto dell’altro, la
cura nei rapporti in rete. Un’attività di questo tipo è
efficace se si hanno tanti amici o fan su Facebook,
se si hanno dei following e dei follower su Twitter
e così via. Che poi i numeri, i grandi numeri, siano
un segno del valore dell’iniziativa, questo è un
altro discorso.
I social network si dividono tra loro a seconda
del tipo di contenuti, del grado di relazione tra gli
utenti, del tema generale. Abbiamo così social
network specializzati nei contenuti fotografici come
DOSSIER
Flickr (www.flickr.com), Pinterest (www.pinterest.
com), Instagram (www.instagram.com), altri nei
video come Youtube (www.youtube.com), Vimeo
(www.vimeo.com), altri forniscono principalmente
contenuti scritti di poche righe come Twitter (www.
twitter.com). Ve ne sono anche di generalisti
(ovvero sono ambienti dove si può fare un po’ di
tutto) come Facebook e le piattaforme blog come
Wordpress (www.wordpresss.com) e Tumblr
(www.tumblr.com).
Alcuni social network offrono delle relazioni
tra gli utenti molto intense e in tempo reale, altri
invece danno meno peso a quest’aspetto. Vi
sono infine social media specializzati su un tema,
come è il caso di Linkedin (www.linkedin.com)
che ha per oggetto il lavoro e lo scambio di profili
professionali.
Più del 60% delle Ong italiane utilizzano
Facebook (FB), mentre circa il 40% usano Twitter.
È per questo che ora esamineremo da vicino
questi due social network.
Fonte: Quka / Shutterstock.com
Il web è infinito ma ha una sola porta: Facebook
Con 26 milioni di presenze su FB, l’Italia,
proporzionalmente, è il paese dove questo social
network è più diffuso nel mondo. FB offre due
diversi “approcci”, o come profilo, e in questo caso
ci si può scambiare l’amicizia, o come pagina e
in questo modo si possono avere solo dei fan. È
consigliabile che un gruppo sia presente su FB
con una pagina piuttosto che con un profilo per
tanti motivi. Innanzitutto non esiste il limite dei
5.000 amici, ma i fan possono essere infiniti, poi
la pagina può essere gestita da più persone e con
ruoli diversi, infine il rapporto meno biunivoco che
si può avere con i fan rispetto a quelli che si hanno
con gli amici, facilita la gestione di una pagina.
In una pagina si possono postare testi, immagini,
video ed è bene farlo con una certa continuità
facendo attenzione alla qualità di quello che si
posta: la pagina FB è una sorta, ma sto un po’
esagerando, di creatura vivente, una pianta
insomma da innaffiare e da seguire. In particolare
bisogna avere cura delle relazioni esterne, ovvero
di tutti quei lettori/fan che vi fanno domande o che
commentano e che si aspettano giustamente una
risposta. Da una pagina FB potete creare un evento
anche se come pagina non potete poi invitare dei
fan; si possono invitare solo degli amici, cosa
possibile solo se si ha un profilo personale.
Su FB esistono anche i gruppi tematici dove
le persone interessate allo stesso argomento
s’iscrivono. Postando o condividendo all’interno
di questi gruppi (che possono essere aperti o
chiusi, se sono chiusi basta chiedere di entrare)
si può avere una visibilità maggiore dato che si
raggiungono molte altre persone di cui non siamo
amici. Attualmente i due gruppi - che riguardano
il nostro tema - più frequentati sono “Cooperanti
Italiani” e “Cooperanti si diventa”.
Il come raccontare (storytelling) le nostre cose
- con che stile, tono e strumenti – non è possibile
codificarlo ma dipende dalla nostra sensibilità,
dall’oggetto e dal fine. Termineremo comunque
quest’articolo proprio con un’analisi critica di
una forma di storytelling realizzata da Save the
Children attraverso una pagina FB.
Twitta che ti passa
Twitter serve per informarsi e per fare
informazione. Per questo è un social amato dai
giornalisti (almeno da quelli più giovani). Anche in
questo caso occorre creare un profilo del proprio
gruppo e da quello si parte per cercare altri profili
che ci possono interessare e che diventeranno i
nostri following (ovvero quando questi faranno
informazione noi la riceveremo subito sul nostro
profilo). I follower sono invece quei profili che
seguono noi: quindi più follower si hanno e più
Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 |
13
DOSSIER
le nostre informazioni girano. La particolarità di
questo social media è che i twitter (i cinguettii) che
si scrivono non devono superare i 140 caratteri e
quindi occorre scegliere dei titoli e dei link ben fatti
e comprensibili (è anche possibile postare delle
foto).
L’hashtag (#) è invece il simbolo del cancelletto
che anteposto (senza alcuno spazio) alla parola,
è come se la sottolineasse e ciò la rende visibile
nelle ricerche effettuate tramite hashtag. In altre
parole se mettete il simbolo # davanti alla parola
ong, tutti coloro che su twitter sono interessati
alle informazioni che riguardano il mondo della
cooperazione troveranno il vostro post, anche
se non sono vostri follower. Personalmente
uso sempre questi hashtag nei miei messaggi
su twitter: #ong, #ngo, #cooperazione. Twitter
è particolarmente indicato per promuovere
campagne di sensibilizzazione o raccolte fondi
e in più dispone di alcuni strumenti in rete che
contano quante persone sono state raggiunte dal
messaggio. Anche con una pagina di FB si possono
fare appelli, campagne e azioni di raccolta fondi (è
possibile anche pagare per avere una maggiore
visibilità). Quello che è importante, al di là del
social media, è il lavoro continuo di chi sta dietro,
il redattore, l’animatore insomma.
Fonte: archivio fotografico di Swan&Koi
14
Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014
Bereket non esiste, ma vuole commuovere
Bereket è un ragazzino eritreo di 15 anni che da
due anni sta cercando di raggiungere Amburgo.
Ha raccontato la sua tragica epopea su una
pagina Facebook. Ma Bereket non esiste, è tutto
finto, si tratta di una nuova forma di storytelling
sperimentata da Save the Children.
Il gioco dovrebbe essere chiaro, dato che
nell’intestazione della pagina c’è scritto che
Bereket è un personaggio inventato e che si tratta
solamente – come si legge nelle Informazioni –
“… di un progetto di sensibilizzazione sul tema dei
minori migranti non accompagnati a cura di Save
the Children Italia. La storia di Bereket è stata
realizzata sulla base di testimonianze raccolte tra
i minori migranti eritrei non accompagnati sbarcati
sulle coste italiane e assistiti tramite il Progetto
Praesidium”.
Ma leggendo i commenti dei lettori, qualcosa
non ha funzionato. Il primo post risale al 22 marzo,
l’ultimo al 27 luglio. La partenza dall’Eritrea, la sua
cattura in Etiopia, un tragico balletto che lo porta
dai campi profughi sudanesi alle prigioni libiche,
poi a quelle egiziane, infine il ritorno in Libia con
la speranza di imbarcarsi verso l’Europa e, dopo
molte traversie, l’arrivo ad Amburgo. Questo
racconto è corredato da immagini, da altre piste
narrative (la storia dell’atleta olimpico eritreo) e
anche dal commento dei suoi famigliari che vivono
già in Germania. Ma è tutto finto e a volte un po’
patetico. Ho provato anche a ricercare i profili su
Facebook dei suoi parenti ma ho trovato come
primi risultati un attore comico, un ristorante …
Ma al di là del racconto basta vedere i commenti
dei lettori per capire che questo tentativo non sta
raggiungendo il suo scopo, non sta sensibilizzando
sul tema dei profughi minorenni che partono
dall’Africa per arrivare in Europa alla ricerca di
una vita degna. I commenti a volte sono esilaranti,
altre volte tristi; è in queste occasioni che il popolo
della rete diventa più che un’intelligenza collettiva,
un magma caotico ingestibile. Questa confusione
però ha anche alcune spiegazioni.
Chi legge un post, magari lo legge da una
condivisione, qualcun altro invece non riesce
a inquadrarlo nel contesto, ad altri manca
semplicemente l’attenzione (che tante volte
si perde nel flusso del web). Quindi è facile
equivocare. Comunque il problema maggiore non
è tanto la confusione che genera tra i lettori e la
mancanza di modelli narrativi di riferimento, qui
il problema è lo stile della narrazione tendente al
patetico. ■
Fonte: Alessandro Bergamini
Progetti
Vendere le
stelle
Il programma per la salute nell’area
urbana di Cochin, nello stato
indiano del Kerala, a favore dei
più svantaggiati, si è adattato
all’evoluzione della città e dei suoi
abitanti
di Nyjil George
B
abu, lo chiameremo così, vive nella città di
Cochin. Lavora da anni alla locale sede della
Tata, una delle più importanti industrie
meccaniche e automobilistiche del paese.
Un giorno i suoi colleghi lo vedono fare domanda di
pensionamento, sebbene non abbia ancora cinquant’anni.
Il suo comportamento diventa incomprensibile. Benché
sposato con Deepaand, da cui ha una figlia, e abbia in
casa una madre anziana e malata di cuore, lui se ne va per
diversi giorni, vagabondando, senza informare nessuno.
Sono i primi sintomi della malattia mentale che lo colpisce.
Quando le sue condizioni peggiorano, si allontana sempre
più spesso e diventa violento. I famigliari lo rinchiudono
allora in una stanza, dove rimarrà oltre due anni.
Il Dipartimento contro la povertà urbana lo aiuta a
seguire per un certo tempo il trattamento. Quando il
Dipartimento esaurisce l’attività, Babu è nuovamente
lasciato a se stesso. Nel frattempo ha cominciato a
frequentare il personale di un Centro per la salute, frutto
del progetto congiunto Aifo-Ima (International Medical
Association), che lo coinvolge nelle attività a favore della
comunità. Riprende allora il trattamento e, benché la
famiglia lo rinchiuda ancora in casa, comincia a migliorare.
Il personale sanitario e un gruppo di volontari fanno opera
di persuasione sulla famiglia, che si convince così a farlo
uscire di casa. La moglie in particolare, resistendo alle
pressioni dei famigliari che le chiedevano di divorziare,
gli è rimasta vicino, convinta che sarebbe guarito.
Babu ritrova anche il rapporto con la figlia. Dopo che per
anni lo aveva evitato per paura, si occupa di lui e giocano
insieme. Babu ne è veramente felice; visita regolarmente
il Centro per la salute, per prendere i farmaci di cui ha
bisogno, dapprima accompagnato dalla moglie poi da
solo. Il personale e i volontari vanno regolarmente a casa
sua e danno un sostegno morale anche alla famiglia. Babu
e la moglie ritrovano la vita sociale insieme, visitano i
parenti e frequentano le feste. Ora Babu, che ha 53 anni,
ha ripreso a lavorare. Fabbrica stelle che vende durante le
feste di Natale.
Quella di Babu è la storia di una delle tante persone
curate dal Centro di salute frutto della collaborazione tra
Aifo e l’Ima a favore degli strati più poveri e svantaggiati
nella zona di Cochin. L’attività dell’Ima è iniziata nel
1970 con la medicina preventiva e di cura per gli abitanti
poveri dello slum e altre persone in difficoltà nella zona
di Cochin, attraverso cliniche mobili con particolare
attenzione all’individuazione e al trattamento di lebbra e
tubercolosi.
Nel 1982 il progetto è incluso nel Programma nazionale
contro la lebbra. Il lavoro prosegue in collaborazione
con il Dipartimento per la cura della lebbra del District
Hospital Ernakulam. Quando il Centro ha iniziato le
persone più trascurate erano quelle colpite dalla lebbra.
Con lo sviluppo dell’attività, la situazione è cambiata e la
lebbra è quasi eliminata. L’ultimo caso si è registrato nel
giugno 2006.
Adesso ci siamo occupando principalmente di persone
con problemi di salute mentale: i pregiudizi che si
hanno nei loro confronti sono gli stessi che si avevano
Fonte: Alessandro Bergamini
Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 |
15
Progetti
per i malati di lebbra ai tempi di Follereau. Le attività
previste hanno l’obiettivo di consentire alle persone con
disabilità e disturbi psichiatrici di condurre una migliore
vita, fornendo medicinali e cure mediche, consulenza
individuale e familiare, servizi di supporto, potenziamento
della capacità personali attraverso la motivazione e la
formazione.
Secondo le indagini del Medical Association Ernakulam
le persone mentalmente disabili sono aumentate. Il Kerala
che aveva una buona reputazione in materia di disturbi
mentali, ora fa i conti con un servizio insufficiente
soprattutto per i poveri. La rapida crescita della città, con
i suoi collegamenti internazionali e il cambiamento di
stile di vita ha contribuito allo stress. Di conseguenza, la
malattia mentale e problemi connessi sono aumentati.
I disturbi psichiatrici nella nostra comunità
rappresentano un grave problema di salute pubblica
di natura sociale ed economica. Non c’è quasi nessuna
prevenzione per la maggior parte dei disturbi psichiatrici.
Il trattamento è lungo e costoso. Le disabilità residue
possono essere abbastanza importanti. Ciò sottolinea la
necessità di provvedere al settore della salute mentale
in tutti i programmi di salute pubblica, soprattutto per
i poveri. Se i farmaci sono disponibili, molti di questi
pazienti possono essere riabilitati nella comunità.
Cochin (o
Kochi), sulla
costa sudocciddentale
dell’India,
è uno dei
porti più
importanti del
paese, assurto
alle cronache
italiane dal 2012
con l’attracco
della nave coi due
Cochin
marò italiani. L’area
urbana comprende
una popolazione
di quasi due milioni
di abitanti. Città
industriale e tecnologica,
è caratterizzata dalla
presenza di molte
baraccopoli. È uno dei centri indiani dove
più forte è la minoranza cristiana, frutto della
colonizzazione portoghese della città.
16
Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014
La nostra
metodologia
La nostra metodologia di lavoro prevede diversi
passaggi.
Identificare le famiglie con problemi mentali
attraverso la visita alla famiglia con l’aiuto di
gruppi auto-aiuto.
Lo stigma di tale malattia è molto elevato nella
società e di solito la tendenza è quella di
nascondere il problema. Una volta identificato,
il passo successivo è quello di convincere la
famiglia ad accettare una cura. Per questo
abbiamo bisogno di visite ripetute per
guadagnare la loro fiducia.
Il terzo passo è quello di convincere il paziente
e la famiglia che questa malattia può essere
trattata con farmaci regolari e alla fine può
condurre il paziente verso una vita normale.
Le visite sono molto importanti per verificare i
progressi del paziente e incoraggiare l’uso di
farmaci come da prescrizione.
Si svolgono incontri mensili in cui tutti i pazienti
e le famiglie di quella zona interagiscono e
discutono i loro problemi. Abbiamo quattro di
questi gruppi che si incontrano regolarmente.
Le feste, come l’ Onam (il festival indù tipico del
Kerala) o il Natale, vengono celebrate insieme
con benefattori e amici, dando la possibilità
ai pazienti di dare prova delle loro abilità con
recite, canzoni, danze, ecc, che danno loro
fiducia.
Ogni anno crescono i pazienti che richiedono
l’assistenza del progetto, anche perché i nostri programmi
di sensibilizzazione sanitaria hanno fatto capire
l’importanza di un trattamento regolare. Inoltre diversi
ospedali coi quali collaboriamo ci indirizzano nuovi
pazienti, e il ritorno di molti di questi nella società, ha
incoraggiato altri a farsi avanti per il trattamento.
L’area coperta dal progetto comprende circa 200.000
persone. Le attività di riabilitazione su base comunitaria
dal 2001 al giugno 2014 hanno permesso di trattare 1.124
persone. Con regolari controlli, visite a casa, e programmi
di sensibilizzazione, tutti i nostri pazienti seguono con
regolarità il trattamento. Nove persone guarite dai sintomi
della malattia si sono sposate. ■
Fonte: archivio fotografico di Aifo
Progetti
Malattia
mentale,
ritorno alla
dignità
l’uso di uno strumento messo a punto dall’Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS) per misurare la qualità dei
diritti umani garantiti alle persone con problemi di salute
mentale all’interno delle strutture pubbliche. Inoltre, laddove
l’approccio della Riabilitazione su base comunitaria è
utilizzato, si vuole studiare il grado di inclusione delle persone
con problemi mentali e trovare modalità per migliorarlo.
I cinque paesi, di reddito medio basso, coinvolti nel progetto
sono Brasile, Liberia, Egitto, Indonesia, Mongolia. Attraverso
lo studio di esperienze di riabilitazione su base comunitaria
applicate alla salute mentale, lo studio del quadro legislativo
e l’analisi dell’intervento socio-sanitario a livello locale, si
vuole dimostrare il fatto che l’istituzionalizzazione dei malati
mentali costa molto di più alla società e aiuta molto meno
i pazienti che non un loro inserimento nella comunità con
un’assistenza decentrata.
Il lavoro, realizzato parallelamente nei cinque paesi (e ora
limitato a quattro per la situazione sopravvenuta in Egitto),
viene svolto attraverso la formazione rivolta agli operatori
socio-sanitari, il rafforzamento delle associazioni di persone
con problemi di salute mentale – soprattutto dei loro leader –
la sensibilizzazione della popolazione per ridurre i pregiudizi.
Queste azioni vengono sostenute, infine, da un intenso
scambio di informazioni tra un paese e l’altro attraverso
newsletter, blog, seminari e convegni.
Aifo ha intrapreso la ricerca
comparativa tra cinque paesi per
comprendere come è possibile
curare le persone colpite da disturbi
mentali, garantendo loro i diritti
fondamentali
di Nicola Rabbi
Fonte: archivio fotografico di Aifo
E
sclusi dalla società e abbandonati a se stessi o, peggio
ancora, reclusi e addirittura incatenati in istituti che
assomigliano a prigioni. Questa è la sorte che spetta
a molti di coloro che sono affetti da problemi di
salute mentale. La loro sorte va al di là della cultura dei paesi di
appartenenza, del loro grado di coesione sociale e di ricchezza,
del credo religioso dominante. La follia, storicamente, è
sempre stata vista come una minaccia per l’individuo e per
la società da nascondere, allontanare, in alcuni casi eliminare
come avvenne per Aktion T4, il programma nazista di
eliminazione fisica delle persone affette da gravi patologie e
malformazioni.
Aifo ha intrapreso una ricerca in cinque paesi, attualmente
ancora in corso, di tipo comparativo. La ricerca intende testare
Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 |
17
Progetti
10 ottobre: giornata
mondiale della
salute mentale
Il 10 ottobre di ogni anno si celebra la Giornata
mondiale della salute mentale, stabilita
dall’OMS che, insieme alla Federazione
Mondiale della Salute Mentale, intende
accrescere la consapevolezza su questioni di
salute mentale.
Il primo elemento che l’OMS vuole mettere in
evidenza è il fatto che: “Il 20% dei bambini e
degli adolescenti di tutto il mondo ha disordini
mentali con problemi tipici per ogni cultura.
Inoltre le regioni del mondo con la più alta
percentuale di popolazione sotto i 19 anni
hanno il livello più basso di risorse per la salute
mentale. La maggior parte dei paesi a basso e
medio reddito ha un solo psichiatra infantile per
1-4 milioni di persone”.
La situazione nei vari paesi
In Brasile il progetto si svolge nello stato di Bahia. In
questo paese la riforma della psichiatria è stata fortemente
influenzata dalle idee di Franco Basaglia che visitò Rio de
Janeiro nel 1978. La legge di riforma del 2001 prevede vari
tipi di servizi di cura decentrati e comunitari in alternativa
all’ospedale psichiatrico. Nel 2011 viene varato un “sistema
di cura psicosociale” per le persone con problemi mentali,
dovuti anche alle dipendenze da sostanze, che vuole offrire
servizi basati sulla comunità. Nello stato di Bahia, nonostante
la diminuzione di letti negli ospedali psichiatrici, la malattia
mentale viene stigmatizzata e gli stessi operatori sanitari e i
famigliari fanno fatica ad accettare l’idea che l’istituto non
sia l’unica soluzione. Proprio a causa di queste difficoltà
una delle azioni del progetto vede famigliari e operatori
sanitari, all’interno di due ospedali di Salvador di Bahia,
uniti nell’assicurare i diritti civili e buoni livelli assistenziali
ai pazienti.
In Indonesia la veloce modernizzazione della vita ha
portato con sé anche un aumento del disagio psichico.
Secondo una ricerca del 2007, l’11,6% della popolazione
ha problemi di ansia e di depressione, meno del 10% delle
persone con problemi di salute mentale ha accesso a servizi
specializzati mentre sono 18.800 i casi pasong. In Indonesia
con pasong si indica la reclusione e la detenzione fisica (anche
con catene e corde) delle persone malate. Il progetto si svolge
18
Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014
nella parte meridionale del Sulawesi, la grande isola situata
al centro dell’arcipelago indonesiano. Proprio per superare
queste pratiche violente e per sensibilizzare sul tema, le attività
consistono in corsi di formazione rivolti a operatori sanitari e
di comunità. I risultati di queste azioni sono espresse bene
da alcuni testimoni: “All’inizio avevo paura di aver a che fare
con i malati mentali - dice Yuli, un dirigente di un puskemas,
un centro di salute comunitario - avevo paura di essere
picchiato. Adesso sono contento di poter avere competenze
nuove che mi permettono di aiutare le famiglie dei pazienti”.
Iwan Honest, medico in un altro puskemas, afferma: “Nel
mio territorio le persone malate mentalmente sono messe ai
margini, addirittura incatenate, ma sono solo dei malati che
devono essere aiutati, il pasong peggiora le loro condizioni e
non risolve nulla”.
In Mongolia il trattamento della malattia mentale è
stato influenzato fino agli anni ‘90 dagli specialisti russi per
via dei forti legami che univano i due paesi. Ancora oggi il
sistema di cura è centralizzato a Ulaan Baatar, la capitale che
ospita la maggior parte degli abitanti del paese ed è orientato
all’ospedalizzazione dei pazienti, nonostante il paese si sia
dotato fin dal 2000 di leggi che programmano diversamente
gli interventi. La riabilitazione su base comunitaria è diventata
programma del sistema sanitario nazionale dal 2011 e questo
può essere di grande aiuto per quanto riguarda l’assistenza e
la riabilitazione delle persone con problemi psichici a livello
comunitario. In Mongolia il progetto punta alla creazione di
gruppi auto-aiuto di persone con problemi di salute mentale
e alla formazione dei medici di famiglia, migliorando le loro
competenze sul tema.
In Liberia la malattia mentale è a volte associata con la
possessione e la stregoneria, sarebbero gli spiriti maligni
che entrano nel corpo di una persona e la rendono inferma;
con questi presupposti la cura può venire solo da pratiche
magiche. Il paese ha vissuto un lungo periodo di sanguinose
guerre civili (1989-2003) che hanno lasciato traumatizzata
gran parte della popolazione. Il progetto prevede attività di
formazione rivolta agli operatori sanitari perché siano attenti
al rispetto dei diritti civili delle persone con problemi di salute
mentale e perché promuovano l’idea di un’assistenza su base
comunitaria e non solo accentrata negli ospedali psichiatrici
che in Liberia sono comunque mancanti e con poco personale
e mezzi. ■
Fonte: archivio fotografico di Aifo
Fonte: archivio fotografico di Aifo
Strumenti
LA PAROLA
ALLA FOTOGRAFIA
RACCONTARE I PROGETTI E LE
ATTIVITÀ DI AIFO ATTRAVERSO
IL LINGUAGGIO DELL’IMMAGINE.
I CONSIGLI DEL GRUPPO AIFO DI
VEDANO AL LAMBRO PER L’USO
DELLE MOSTRE FOTOGRAFICHE
di Sergio Cavasassi
M
i capitava ogni tanto di sognare che entravo in
una piazza e in quella piazza, gremita, scoprivo
che c’erano le persone, tante persone, attraverso le
quali ho scoperto la vita…. Sono le parole di
Ferdinando Scianna, uno dei più grandi fotografi italiani
in apertura di un bellissimo libro autobiografico dal
titolo Visti & scritti. Seguono le immagini di una vita, da
semplici compaesani siciliani a famosi personaggi, ognuno
con la sua foto, ognuno con il racconto. Sì, la foto racconta.
Pensiamo che la piazza sia il mondo, che in questo
mondo gremito ci sia spazio anche per Aifo, per i suoi
progetti. Ma, attenzione, i progetti non sono entità
astratte, i progetti sono fatti di persone che vivono la
loro quotidianità di gesti, di attese, di gioia e di dolore, di
speranza per un futuro diverso. I progetti devono essere
raccontati: lo scopo, il luogo, quante persone, quanto è
stato devoluto economicamente, la durata. Basta questo
per coinvolgerci? Parzialmente. Abbiamo bisogno di
immagini che sappiano parlare, al cuore e alla mente.
Posso descrivere il mio amico, è alto un tot, colore
dei capelli, gli occhi, la corporatura, i tratti del volto, il
carattere; ma che bello poter dire in una foto: ecco,
questo è il mio amico, adesso ve lo racconto. È quello che
abbiamo cercato di fare nel nostro gruppo Aifo di Vedano
al Lambro (MB), presentarci sul territorio con mostre, per
raccontare con foto, raccontarci con una foto. Non foto da
“prima comunione”, tutti in fila, in posa, sorridenti, non
foto da “alto contenuto drammatico”, ma immagini con lo
spirito di Scianna: mi capitava di sognare che entravo in una
piazza….. scoprivo che c’erano tante persone.
Persone da raccontare. L’avvento del digitale ha
trasformato radicalmente l’utilizzo dell’immagine. Oggi,
con un po’ di attenzione e lavoro di computer è difficile fare
una brutta foto, ma questo ne ha anche svilito il contenuto:
milioni di immagini fruite in frazioni di tempo: questa era
la seconda sfida. Riuscire a fermare l’attenzione.
Ne resta una terza: saper vedere, per fissare il racconto
in un fotogramma. E qui abbiamo avuto la fortuna di
incontrare in particolare Marcello Carrozzo. Ricordo la
conoscenza in un incontro Aifo di Roma di pochi anni
fa, la sua (credo) prima mostra con l’associazione. Quattro
parole, comun sentire, l’avventura può cominciare.
Quarto ingrediente, essenziale, come il lievito: il lavoro,
anche “muscolare”, di gruppo, del nostro gruppo di Vedano
che ha condiviso le scelte coralmente e con disponibilità
anche economica.
Quinto: a chi dobbiamo rivolgerci? alle persone di tutte
le età, in particolare agli studenti presenti sul territorio. Il
nostro Gruppo ha la Brianza come riferimento, e abbiamo
Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 |
19
presentato le mostre fotografiche a centinaia di giovani.
Tutto è pronto per servire il pranzo per gli occhi, ne
riepilogo gli ingredienti: una storia Aifo da raccontare,
un fotografo che condivide la passione per l’associazione,
saper fermare l’attenzione sulla storia, il lavoro di gruppo,
l’ascolto da parte di un pubblico interessato. In cinque
anni, a partire dal novembre 2010, abbiamo allestito sette
mostre, anche due all’anno (vedi Box).
Quante foto? Quali dimensioni? A colori o in bianco/
Le Mostre
fotografiche del
Gruppo di Vedano
“Nayee Asha”: una giornata con i bambini
della scuola “Nuova Speranza”, in India.
“Mongolia ultimo inverno”: racconti dei progetti
Aifo in Mongolia, attraverso il suo popolo.
“PamojaTunaweza”: entriamo nello slum di
Korogocho.
“La civiltà dell’amore”: immagini per costruire la
civiltà dell’amore cara a Raoul Follereau.
“Kusta”: una giornata in un villaggio indiano,
IndiraNagar, a contatto con la lebbra.
“Donne, nulla senza di loro”: Storie di donne
del mondo Aifo riprese nella loro quotidianità
(India, Africa centrale, Guinea Bissau,
Kenia, Mongolia, Nepal). Il tutto presentato
splendidamente da Susanna Bernoldi e
Antonella Fucecchi.
nero? Per raccontare una storia, sono necessarie circa 20
fotografie, di grande formato (50 x 70). Il bianco/nero,
se ben stampato rende meglio il sentimento, il phatos, la
storia. Il colore da più gioia, alleggerisce. È importante
la consapevolezza di quanto vien detto, la credibilità, la
naturalezza, e che il racconto solleciti domande, confronti,
spiegazioni. I momenti della mostra devono essere due: la
presentazione e la visita.
La presentazione introduce alla mostra, ne illustra il
contesto, presenta l’associazione e gli scopi. Abbiamo avuto
la fortuna di avere quasi sempre con noi Marcello Carrozzo:
lo dobbiamo ringraziare per la grande disponibilità.
Lavoro di squadra, tra Marcello e un socio Aifo, alternando
momenti di presentazione dell’associazione ai contenuti
della mostra, il tutto supportato da corti filmati di pochi
minuti. Importante il dibattito pre-mostra, per attivare il
giusto clima per la visita. Anche in questo caso gioco di
20
Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014
Fonte: archivio fotografico di Aifo
Strumenti
Strumenti
squadra. La visita deve essere guidata, meglio se da chi ha
avuto esperienza diretta (il fotoreporter stesso) o da chi ha
conoscenza del contesto.
Le maggiori soddisfazioni sono state dati dalle classi in
visita: ci siamo rivolti alle IV e V elementari, alle scuole
medie, ai licei. Sia durante la presentazione che durante la
visita, attenzione totale, in particolare da parte delle scuole
medie: benedetti i professori che preparano gli studenti!
Ricordo un’insegnante che ha chiesto alla classe di
scegliere una fotografia, e ai ragazzi di scrivere li, in
pochi minuti, quali le emozioni, quali le considerazioni
provavano. O quella ragazza della III media che, alla fine
della mostra su Nayee Asha, ha lasciato questo commento
poetico sul quaderno: Le porte della vita sono un/mistero
dentro di noi, che si/apriranno quando anche il/nostro cuore
lo farà in un/mistero di paura e di coraggio/di un nuovo
indumento.
Nel mondo della comunicazione la fotografia potrebbe
essere considerata da una parte un prodotto superato,
dall’altra inflazionato. C’è una soluzione? Credo di sì, ed
è il contenuto di quanto viene presentato, ma non basta:
come un eccellente prodotto ha bisogno di un buon
imballaggio, anche i nostri progetti hanno bisogno di una
diffusione con supporti di qualità, quale ad esempio una
mostra fotografica (scusate il paradosso).
Mi fermo qui, la nostra attività deve essere valutata con
risultati anche di lungo periodo. Parlare alle scuole non ha
riscontro immediato: è come il buon seme che, gettato nel
solco, ha bisogno di stagioni per vederne il frutto.
Ah, dimenticavo, ve lo immaginate un fotoreporter che
cattura l’immagine di Mosè che attraversa il Mar Rosso?■
Fonte: archivio fotografico di Aifo
Esperienze
Fonte: archivio fotografico di Aifo
TESTIMONIARE
LE ALTRE LEBBRE
IL CAMPO ESTIVO 2014 DI AIFO SI È SVOLTO ALL’INSEGNA NON SOLO DI
UNA TERRA, LA SARDEGNA, RICCA DI BELLEZZE NATURALI, MA DI TEMI
DIVERSI E DENSI DI SIGNIFICATO, UNITI DAL PENSIERO DI FOLLEREAU
di Anna Bella
N
ell’antica terra della magica Ogliastra, tra compatte
rocce di arenaria e granito, boschi di lecci e
olivastri, nel pittoresco centro di Lanusei, da cui si
dispiega il rincorrersi di monti degradanti verso il
Tirreno, dal 3 al 10 agosto, si è tenuto il Campo estivo Aifo
2014 sul tema “Vite liberate o da liberare?”. Circa quaranta
soci i partecipanti. Il Campo è vissuto all’insegna di leale
amicizia, e di un programma molto intenso. La mattinata,
a scelta, o mare o escursioni, specie in siti archeologici. Nel
pomeriggio, nella sala della Pro Loco, testimonianze; negli
intervalli, approccio al banchetto, apprestato con solidarietà
da un gruppetto di soci che l’ultima sera è stato trasferito
nella strada principale di Lanusei.
All’apertura, il referente della Sardegna, Antonello Farris,
infaticabile moderatore negli incontri pomeridiani, presenta
il programma, seguito dal saluto della presidente, Anna
Maria Pisano. Interventi densi di significati spirituali e
umanitari sono quelli del vescovo mons. Antonello Mura e
del sindaco Davide Ferreli.
Ad eccezione di giovedì 7, giornata di escursione alla cala
Mariolu, con visita alla “grotta del fico”, ogni giorno si è
riflettuto su un tema sviluppato attraverso le presenze di un
testimone, per lo più documentate con video, e introdotte da
Antonello Farris. Il pensiero di Raoul Follereau è l’anima e
il filo che lega tutte le testimonianze: “vi sono altre ‘lebbre’
diverse dalla ‘lebbra’ … assai più contagiose … che sono
l’indifferenza, l’egoismo, l’odio, l’incoscienza … che generano
le guerre, la mancanza di cibo, di istruzione, di salute, la
distruzione della terra”.
Con “Madre Terra, bene comune” si aprono gli incontri.
La terra è bene comune, l’uomo ne è custode non padrone;
tutelare l’ambiente vuol dire tutelare i diritti umani, la
giustizia, la pace. Lucia Boi, della Cooperativa Geriatrica
Sociale Serena di Lanusei, parla del progetto “Rifiuti zero”:
una postazione comune per l’acqua minerale per il paese
riduce la plastica come rifiuto. È un esempio virtuoso
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Fonte: archivio fotografico di Aifo
Esperienze
di come ci si può prendere cura dell’ambiente. È un
cambiamento di mentalità che deve partire dall’educazione,
dalla scuola. Gianfranco Damiani di Lega Ambiente
intrattiene sull’esperienza educativa dei bambini della
primaria a Cagliari. Col progetto “Orti didattici” i bambini
sono coinvolti nella trasformazione di un arido cortile della
scuola in un orto di cui loro si prendono cura.
Il percorso prosegue col tema “C’è un solo cielo per tutti”:
i rifugiati politici. Don Ettore Cannavera, con gli operatori
del progetto SPRAR della Comunità “La Collina”, riporta
le esperienze drammatiche di rifugiati attraverso l’attività
della Comunità dal 2007 in poi, con la difesa del diritto
dei rifugiati all’autonomia. Non condivide le proposte
politiche di “respingere Gesù che si presenta sotto le loro
vesti”, prospettando percorsi verso una sistemazione stabile.
Stigmatizza l’indifferenza umana verso la Terra, che è di tutti;
indica nell’intelligente amore e azione politica il cambio di
mentalità.
Susanna Bernoldi delinea il dramma del popolo
palestinese, straziato da continue ingiustizie. Indignata, cita
la personale esperienza di “prigioniera a Gaza”. Testimonia
di una ragazza sedicenne, ferita e che grida di appartenere
alla sua terra.
Il tema “Salute: diritto o merce?” è trattato da Enrico
Pupulin, nel particolare aspetto della riabilitazione su base
comunitaria come esperienza italiana e di Aifo. In base al
principio di uguaglianza, si deve rispettare ogni diversità;
in base a quello di sostenibilità, tutte le risorse locali sono
disponibili. Nelle strategie è indispensabile per questo tener
conto che le comunità sono diverse, le une dalle altre.
La relazione di Mariella Cao sulla presenza militare in
Sardegna, illustra le conseguenze ambientali. Definita la
regione “un’isola ingabbiata”, con il secondo poligono più
grande d’Europa, riferisce fatti gravi. Vengono effettuate
sperimentazioni con armi da combattimento, anche
nucleari, esercitazioni in terra, cielo e mare. Si riscontrano
molteplici casi di leucemia tra pastori nei pressi del poligono;
nascite di bambini malformati e casi di animali deformati.
Un’inchiesta ha evidenziato un risultato allarmante: 50
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Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014
malati di tumore su tremila abitanti. Verdetto di un giudice:
“Disatro ambientale”. Lo spettacolo Cabaret di Mauro Salis,
“Quirra megastore. Storie di poligoni e servitù militari”, al
Teatro Tonio Dei di Lanusei, completa la denuncia.
Il missionario Guglielmo Pireddu, dopo il filmato
“Africa, un continente da scoprire“, coinvolge i partecipanti
sul problema fondamentale della “Sfida dell’educazione”,
ricordandoci che “non di solo pane vive l’uomo ma anche
della parola che sazia il suo cuore”. Riporta la propria
esperienza in Africa, che vive problemi urgenti molto gravi e
per la loro soluzione necessita di una trasformazione culturale
con prospettive a lungo termine. Abolire l’analfabetismo;
arginare la fuga di cervelli; potenziare le competenze; creare
scuole professionali; creare sviluppo e coscienza politica.
L’educazione è l’arma che fa prendere coscienza di sé e
fare scelte coscienti. Padre Guglielmo conclude che il bene
comune ha una dimensione planetaria: “il benessere dei
lontani è la radice della nostra pace”.
Il campo si conclude con una riflessione sul futuro di Aifo
che deve recuperare lo spirito profetico di Raoul Follereau,
capace di parlare a tutti, e soprattutto ai potenti, al posto e
in favore degli ultimi, coltivando il sogno che solo l’amore
vince e trasforma il mondo. Viene proiettato il video delle
Associazioni di Latina, Libera e Aifo, sulla giornata della
memoria delle vittime di mafia. Libero Ponticelli ricorda con
don Ciotti che bisogna avere il “coraggio di cambiare con
umiltà”.
Il Campo si chiude con il ringraziamento della Presidente
ai partecipanti e il lancio di nuove mete e sfide, e con la Messa
nel Santuario Mariano Regina d’Ogliastra. Si potrebbe
concludere con un passo del messaggio di papa Francesco a
quanti amano lo sport: ”L’importante è non correre da soli,
per arrivare bisogna correre insieme”. ■
Fonte: archivio fotografico di Aifo
7-8 ottobre 2014
edificio Grafton Università Bocconi
via Roentgen 1, Milano
AIFO sarà presente
PARTECIPA ANCHE TU
AIFO PARLERÀ:
martedì 7 ottobre dalle 14:00 alle 15:00
mercoledì 8 ottobre dalle 9:30 alle 13:00
Aula Deutsche Bank
Modelli di educazione alimentare: Terzo
Settore, Formazione e Imprese a confronto
Contro lo spreco: una diversa visione
della sostenibilità
Interverranno: Giovanni Gazzoli, medico chirurgo Responsabile Progetti
Estero Aifo, che illustrerà il progetto brasiliano di educazione alimentare,
supportato dalla testimonianza concreta di due giovani volontari, Carlo Cerini
e Grethel Gianotti; Antonella Marongiu medico e volontaria di Aifo, che darà
una panoramica internazionale su programmi di educazione alimentare; Luca
Govoni docente di storia e cultura della cucina italiana di ALMA, La Scuola
Internazionale di Cucina Italiana, impegnata in programmi contro lo spreco
alimentare e per una corretta alimentazione legata ai territori; un docente del
Comitato Scientifico del Salone della Responsabilità Sociale che collegherà il
tema a quello dell’Expo.
Interverranno: Giovanni Gazzoli, medico chirurgo Responsabile Progetti Estero
Aifo e Andrea Sinigaglia, Direttore Generale ALMA e docente di storia e cultura
della cucina italiana.
www.csreinnovazionesociale.it
Amici di Follereau
Progetto Grafico e Impaginazione
Swan&Koi srl
Mensile per i diritti degli ultimi, dell’Associazione Italiana
Amici di Raoul Follereau (Aifo)
Via Borselli 4-6 – 40135 Bologna
Tel. 051 4393211 – Fax 051 434046
[email protected]
Lettere alla Redazione: [email protected]
www.aifo.it
Hanno collaborato a questo numero
Luciano Ardesi, Anna Bella, Tino Bilara, Sergio Cavasassi,
Aron Cristellotti, Nyjil George, Francesca Ortali,
Anna Maria Pisano, Nicola Rabbi
Direttore Responsabile
Mons. Antonio Riboldi
Direttore
Anna Maria Pisano
Redazione
Luciano Ardesi (Caporedattore), Nicola Rabbi
Fotografie
archivio fotografico di Aifo, archivio fotografico di Swan&Koi,
ilpost.it, spirit of america/shutterstock.com, scyther5/shutterstock.
com, Denys Prykhodov/shutterstock.com, quka/shutterstock.com,
per le foto di pagina 15: Alessandro Bergamini
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Il numero di Settembre è stato spedito il 28/08/2014
Stampa: SAB – Trebbo di Budrio (BO)
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