Adf ottobre
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AMICI di FOLLEREAU Per i diritti degli ultimi N. 10 ottobre 2014 SOLIDARIETÀ: al tempo dell’Ebola Anno LIII - n.10 / ottobre 2014 - Poste Italiane SPA, Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv.in.L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, c.1, CN/BO - Filiale di Bologna – € 1,03 Editoriale Per fare la pace ci vuole coraggio C are amiche, cari amici, giorni, contro le lebbre dell’individualismo, dell’egoismo, della sopraffazione che, come diceva Follereau, sono ben peggiori della lebbra malattia. Le idee che portiamo avanti sono proprio il contrario È doveroso completare della mentalità dello scarto che esclude i più deboli: la la frase di papa Francesco: nostra mission è proprio lottare per l’inclusione degli “Per fare la pace ci vuole ultimi, perché siamo convinti che sono loro “il sale della coraggio, molto di più terra” e che il mondo si salverà solo prendendosi cura gli che per fare la guerra”. uni degli altri. Coraggio, pazienza, fede Ma è ora che torniamo a far sentire la nostra voce: nell’uomo, speranza sono come è possibile che davanti a tante disastrose realtà, solo alcune delle qualità a continui spettacoli di lampante crudeltà e ingiustizia necessarie per cercare di costruire la pace in questo nostro solo poche decine di persone sentano la necessità di mondo, dove ora si sta combattendo una terza guerra far sentire la propria voce e la propria presenza, di far mondiale a pezzetti, come dice ancora papa Francesco col sentire che ci sono? Neppure i nostri fratelli martiri suo modo figurato e incisivo di esprimersi. per la loro religione, di qualunque religione (sembra Sembra che l’assolutamente disastrosa situazione che ormai abbiamo superato il numero del tempo della mondiale in cui ci troviamo spinga una larga catacombe) sono più capaci di smuoverci. maggioranza di noi non a fare la Non abbiamo più fiducia nella pace ma a starsene in pace, come si nostra capacità e possibilità di È ORA CHE TORNIAMO A FAR dice quando vogliamo rifugiarci agire insieme, del nostro diritto – SENTIRE LA NOSTRA VOCE: nel nostro tranquillo e protetto e dovere - di fare tutto il possibile angolo di mondo, occupandoci COME È POSSIBILE CHE DAVANTI perché questo nostro mondo sia delle nostre cose e guardando alla un po’ migliore. Eppure sappiamo A TANTE DISASTROSE REALTÀ, televisione guerra, fame, profughi, bene che non esiste pace senza A CONTINUI SPETTACOLI diritti umani calpestati per i quali giustizia: una giustizia basata DI LAMPANTE CRUDELTÀ E non possiamo far niente. sul rispetto di qualsiasi uomo, di INGIUSTIZIA SOLO POCHE Cose, ci sembra, troppo grandi qualsiasi fratello, bianco, giallo, DECINE DI PERSONE SENTANO per noi. Cosa possiamo fare nero, lontano o vicino: ché poi LA NECESSITÀ DI FAR SENTIRE davanti a giochi finanziari che, in ormai siamo tutti vicini e tutti LA PROPRIA VOCE E LA PROPRIA un momento, possono distruggere interdipendenti. vite, mettere alla fame nazioni, PRESENZA, DI FAR SENTIRE CHE “E proprio perché la Pace è essere peggio di una guerra? Cosa sempre in divenire, perché è sempre CI SONO? possiamo fare davanti alle nuove incompleta, perché è sempre fragile, schiavitù che, incredibile, non sono state mai così perché è sempre insidiata, perché è sempre difficile, noi la numerose ed organizzate come ora? proclamiamo. Come un dovere. Un dovere inderogabile. Pensavamo di aver raggiunto un’epoca dove i diritti Un dovere dei responsabili della sorte dei popoli. Un dovere fondamentali erano stati tutti affermati e riconosciuti d’ogni cittadino del mondo….” e sarebbero solo andati in ascesa: abbiamo dimenticato (Papa Paolo VI – Giornata della pace, gennaio 1969) che purtroppo dobbiamo continuare a lottare, tutti i “ “ Anna Maria Pisano 5 7 9 11 Profezia Una startup per la pace Primo piano Liberia: sul fronte dell’Ebola Fuori gioco, d’azzardo Dossier Ong e social media: istruzioni per l’uso Luciano Ardesi Aron Cristellotti e Francesca Ortali Tino Bilara Nicola Rabbi 15 Progetti 17 Malattia mentale, ritorno alla dignità Nicola Rabbi 19 Strumenti Sergio Cavasassi 21 Nyjil George India: vendere le stelle La parola alla fotografia Esperienze Testimoniare le altre lebbre Anna Bella Fonte: archivio fotografico di Swan&Koi Profezia Una startup per la pace IN UNO SCENARIO SENZA PUNTI DI RIFERIMENTO PER GESTIRE I CONFLITTI DI OGGI, MENTRE IL MOVIMENTO PACIFISTA È IN CERCA DI SE STESSO, È TEMPO DI INVESTIMENTI DURATURI PER LA PACE E LA SICUREZZA di Luciano Ardesi G iornali, televisione e librerie ci propongono ogni tipo di documento relativo alla prima guerra mondiale, ad un secolo dal suo inizio. L’anniversario ha fatto da traino ad altre commemorazioni, come i 70 anni dello sbarco in Normandia. Ma di guerra si parla non solo al passato, perché gli scenari in corso invitano a discutere di una terza guerra mondiale, tanti sono i conflitti aperti e particolarmente forte è la loro intensità. Papa Francesco con la sua ormai proverbiale capacità di andare all’essenza dei fatti parla di una terza guerra a pezzetti, che rende molto bene il fatto che i fronti sono dislocati ovunque. Il fatto è che la guerra è cambiata anche se, e questo è il punto, rimane sempre guerra con le sue violenze, crudeltà, ingiustizie, sopraffazioni e vittime, soprattutto tra i civili. Non ci sono più dichiarazioni di guerra come le abbiamo conosciute in passato, i proclami solenni – quando ci sono – non sono più lanciati da balconi (Italiani, l’ora delle decisioni …), ma attraverso video. A scontrarsi non ci sono più solo eserciti statali, ma anche “attori” privati. Il terrorismo è entrato in scena e recita una parte non secondaria. Apparentemente armi e chi le usa si sono dislocati, non ci sono più soldati che vanno all’assalto col fucile e la baionetta, mentre missili e droni sono guidati da persone lontane dalla battaglia. Ma solo apparentemente perché i coltelli, i macete entrano nelle guerre e non solo simbolicamente, come nel caso degli ostaggi Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 | 5 decapitati. Le guerre producono altre guerre. Gli interventi in Afghanistan, Somalia, Iraq, Libia hanno distrutto il tessuto sociale sul quale poggiava il potere, ancorché dispotico. Il risultato è che abbiamo stati non più stati, dove non esiste più un potere centrale come in Somalia o in Libia, e l’instabilità si estende alle regioni vicine, nel Sahara centrale o in Medio Oriente, dove è stato proclamato uno stato “virtuale”, il califfato o ISIS, lo Stato islamico dell’Iraq e della Siria. Questi pezzi di guerra non sembrano avere più un riferimento per una composizione pacifica. L’equilibrio del terrore, assicurato dalla guerra fredda e dalle armi nucleari di due grandi potenze, Usa e Unione sovietica, non ha finora trovato un sostituto. Non se ne deve avere nostalgia. La guerra nucleare non è (finora) scoppiata ma la guerra fredda ed il suo “equilibrio” non ha impedito le tante guerre in ogni parte del mondo. Lo strumento creato dopo la seconda guerra mondiale per “preservare le generazioni future dal flagello della guerra”, le Nazioni Unite, non ha pienamente funzionato allora e non sembra poter funzionare oggi. C’è stato un momento nel 1991, dopo l’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein e il successivo intervento della coalizione diretta dagli Usa col cappello dell’Onu (Guerra del Golfo), che è sembrato possibile far giocare all’Onu un ruolo attivo. Si è visto poi che se ne è fatto un suo uso strumentale per avallare decisioni prese altrove, rispondenti a logiche ed interessi che nulla hanno a che fare con la Carta dell’Onu. Gli equilibri della guerra fredda non esistono più. Gli Usa rimangono la prima potenza militare ma non hanno più la forza economica per sostenere una guerra globale. La Russia prova a fare ciò che non l’è riuscito di fare con l’Unione sovietica ma, non avendo più un collante ideologico per proporsi come potenza, usa il gas per dissuadere i vicini dall’allontanarsi dalla sua sfera. Gli equilibri economici vedono ormai gli Usa declassati dalla Cina, non siamo ancora ad un capovolgimento del mondo, ma le conseguenze si faranno presto sentire anche sul piano militare. In questo scenario frammentato ognuno cerca di riposizionarsi. Gli Usa sembrano aver trovato in Ucraina una ragione per tenere in vita la Nato e, non potendolo più fare da soli, chiedono agli stati membri di aumentare i bilanci militari. L’Italia sarà nella Nato la brava scolaretta che cerca di essere nell’Unione Europea? C’è augurarsi di no, ma intanto l’UE non sembra avere idee e volontà politica di decidere i destini della guerra che esplode ai suoi confini. Il nazionalismo russo e il fanatismo dell’ISIS possono così dilagare, mentre si coltiva l’illusione che droni e Iron Dome, la “Cupola di ferro” usata da Israele per difendersi dai missili lanciati da Hamas, possano fermare l’avanzata dei fronti di battaglia e proteggersi dalle inevitabili ricadute di una guerra. Immaginare oggi una politica di sicurezza comune diventa impossibile non solo perché manca un “senso comune” a stati 6 Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 Fonte: archivio fotografico di Swan&Koi Profezia e nazioni, ma perché manca la sicurezza personale. Nelle tante ridondanti analisi della crisi economica attuale manca proprio questo aspetto. A livello macroeconomico questa situazione può essere facilmente, e illusoriamente, rappresentata con i tassi di disoccupazione, le percentuali di diminuzione del Pil, dei redditi e dei consumi. Questi elementi non danno conto degli stati d’animo di coloro che poi si impegnano in prima persona nella guerra, oppure l’approvano e l’appoggiano, o che, in ultima analisi, la subiscono. Senza sicurezza personale non c’è sicurezza collettiva. Non è per l’ossessione (che tale comunque non è) di promuovere la “Casa” che oggi siamo costretti a ritornare alle parole, ma soprattutto alle proposte, di Raoul Follereau sulla guerra e sulla pace. Come aveva ben visto già durante e dopo la seconda guerra mondiale non si tratta solo di ridurre gli armamenti ma di costruire un’alternativa alla guerra. L’economia, mai così di attualità come oggi, ci parla di investimenti e di startup per “far ripartire” i paesi in crisi. Peccato che ci si dimentichi di quella startup che Follereau aveva indicato come strumento iniziale per far ripartire, con metodi innovativi, l’impresa della pace di cui, nel corso dei decenni successivi, si è dimenticata l’importanza, salvo poi ritrovarci ogni volta a fare drammaticamente i conti con situazioni ingovernabili. L’educazione alla pace (la storia dell’umanità nei programmi scolastici), i campi di vacanza internazionali e il servizio civile al posto di quello militare per i giovani, questi sono gli investimenti per la pace. Ridurre gli armamenti e le spese militari (e non solo perché c’è la crisi economica) è indispensabile ma non basta ad assicurare la pace. Corpi civili di pace al posto di soldati certo, ma se non si sconfigge il principale nemico, la fame, la povertà, l’idolo del denaro, i motivi della guerra ritornano in ogni momento ed in ogni luogo. Una riflessione globale che anche il movimento per la pace fatica a elaborare e praticare. Costruire la civiltà dell’amore non è una generosa utopia, è la sola impresa per la quale valga la pena investire tutto se stesso. ■ Fonte: archivio fotografico di Swan&Koi Primo piano Sul fronte dell’Ebola IN LIBERIA AIFO SI STA IMPEGNANDO NELLA LOTTA CONTRO L’EPIDEMIA, UTILIZZANDO LE SUE STRUTTURE PRESENTI SUL TERRITORIO, IL SUO PERSONALE E L’APPROCCIO COMUNITARIO PER SENSIBILIZZARE LA POPOLAZIONE di Aron Cristellotti* e Francesca Ortali A ifo ha preso la decisione di contribuire a sconfiggere l’epidemia di Ebola in Liberia, dove è presente da numerosi anni, malgrado la complessa situazione che regna nel paese e benché non sia una Ong specializzata nelle emergenze. Il personale in loco e le competenze acquisite nel supporto alle comunità permettono di aiutare le persone a capire che cosa possono fare per proteggere se stesse e le loro famiglie e limitare così la diffusione della malattia. Dopo la Dichiarazione dello stato di emergenza diramata con un drammatico appello alla nazione il 6 agosto dalla presidente della Liberia Ellen Johnson Sirleaf, a seguito della rapida e incontrollata diffusione dell’epidemia, Aifo ha preso la difficile decisione di evacuare il suo personale espatriato per garantirne la sicurezza. La misura ha tenuto in considerazione che alcune compagnie aeree locali avevano già annullato tutti i voli per la Liberia, e c’era il rischio che le compagnie internazionali, come è poi accaduto, le seguissero con la conseguente chiusura degli aeroporti che avrebbe reso impossibile una successiva evacuazione. Non è la prima volta che Aifo si trova ad affrontare simili situazioni, e la decisione di evacuare è sempre stata presa dopo un’attenta e accurata analisi dei fatti, come ad esempio dopo il colpo di stato in Guinea Bissau. In altre occasioni abbiamo deciso di lasciare il nostro personale nel paese come alla fine dell’era del presidente Suharto nel 1998 in Indonesia. Il ministero della Salute liberiano, così come le agenzie internazionali, che erano tenute a coordinarsi con lo stesso, hanno inizialmente sottostimato la portata dell’epidemia fino a quando non è arrivata nelle aree urbane, dove era chiaro che si sarebbe estesa senza possibilità di contrastarla, e quindi fuori da un reale controllo. Da qui il coinvolgimento di esperti epidemiologi, provenienti per lo più da università americane che hanno consentito una nuova fase dell’emergenza, di fatto iniziata proprio con la dichiarazione dello stato di emergenza. In attesa del ritorno del personale espatriato, Aifo ha programmato con l’equipe locale tutte le risorse necessarie per poter continuare le attività in corso e per metterle a disposizione della decisiva azione di prevenzione del contagio dall’Ebola. Il programma Aifo in Liberia è costruito sull’approccio della Riabilitazione su Base Comunitaria nei campi della lebbra e della disabilità, nei quali abbiamo progressivamente acquisito importanza tanto da essere ora al centro di tutte le dinamiche settoriali, sia a livello nazionale che locale. Per quel che riguarda la lebbra Aifo, assieme alla GRLA (German Leprosy and Tubercolosis Relief Associacion) e all’ALM (American Leprosy Mission), sostiene in modo importante il Piano Strategico Nazionale per la lotta contro la Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 | 7 Primo piano Perché è difficile fermare Ebola Il virus dell’Ebola è stato individuato per la prima volta nel 1976 nella Repubblica democratica del Congo (ex Zaire) in una località nei pressi del fiume Ebola, da cui ha preso il nome. È riapparso recentemente, a partire dal dicembre dello scorso anno, nell’Africa occidentale, dove non si era mai manifestato prima, ma è stato individuato solo a partire da marzo. La mancanza di esperienza, di preparazione e di strutture ha favorito la sua diffusione. Attualmente è presente in quattro paesi Guinea, Sierra Leone, Liberia e Nigeria. La malattia si trasmette mediante il contatto diretto con animali infetti, i fluidi organici del corpo umano, i cadaveri dei deceduti a causa della malattia. Non si trasmette invece mediate l’aria. Ha un tasso di mortalità molto alto. I farmaci sono ancora allo stato sperimentale. Alla diffusione dell’Ebola contribuiscono, oltre a strutture sanitarie insufficienti ed inefficienti nei paesi colpiti, anche fattori culturali come l’assenza di misure di igiene, l’abitudine a consumare carni senza controlli sanitari (selvaggina), il rivolgersi ai guaritori tradizionali per combattere i primi sintomi, facendo perdere tempo prezioso (un problema che riguarda peraltro tutte le patologie), la convinzione che si tratti di un “complotto” del potere, o di un castigo divino. 8 Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 Fonte: spirit of america / Shutterstock.com delle politiche di inclusione delle persone con disabilità. Su questa linea va considerata anche la collaborazione di Aifo con il Carter Center (salute mentale), al fine di coordinare il sostegno alle organizzazioni della società civile e alle istituzioni ottimizzando le risorse disponibili. Dal punto di vista operativo Aifo, oltre all’Ufficio centrale di Monrovia, ha due uffici locali nelle contee di Bong (Regione centrale) e Grand Gedeh (Regione sud orientale), i quali coordinano l’attività in sei contee. Aifo promuove una rete di 58 comunità, 37 gruppi di auto-aiuto e 15 organizzazioni di disabili per promuovere attività nelle comunità. I beneficiari diretti sono oltre 4mila. La nostra attenzione si sta ovviamente concentrando sulla lotta all’Ebola, per contribuire a fermare l’epidemia. Abbiamo valutato di poter contribuire all’approvvigionamento di materiale medico e farmaceutico e la sua distribuzione ai centri di salute periferica localizzati nelle 6 contee in cui Aifo opera. Ci dedichiamo soprattutto, sulla base della nostra esperienza, all’importantissima sensibilizzazione comunitaria, senza la quale tutti gli sforzi medico-logistici sarebbero vani. Utilizziamo il nostro approccio inclusivo e gli operatori di salute esistenti nelle comunità per rafforzare la protezione comunitaria e dei gruppi familiari, non solamente contro l’Ebola ma anche contro altre malattie endemiche, come colera e malaria. ■ * Coordinatore paese Aifo in Liberia Fonte: ilpost.it Lebbra. Aifo è uno dei principali partner tecnici di istituzioni e organizzazioni attive nel settore della disabilità, come la Commissione Nazionale sulla Disabilità (NCD), i ministeri della Salute ed Affari Sociali, dell’Istruzione, dell’Unione Nazionale delle Organizzazioni dei Disabili (NUOD). Il posizionamento di Aifo ci permette di essere attivi nell’advocacy e va ricordato che abbiamo avuto un ruolo importantissimo nella ratifica da parte del governo della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità. Aifo collabora con l’Unione Nazionale delle Organizzazioni dei Disabili (NUOD) e Handicap International per realizzare un progetto finanziato dall’UE che mira a sviluppare le capacità delle Organizzazioni dei Disabili a diventare interlocutori riconosciuti dalle autorità pubbliche e dai soggetti chiave nello sviluppo e nell’attuazione Fonte: archivio fotografico di Swan&Koi Primo piano FUORI GIOCO, D’AZZARDO IN ITALIA 800 MILA PERSONE SONO SCHIAVE DEL GIOCO; UN GIRO D’AFFARI ANNUO DI 76 MILIARDI, SENZA CONTARE I CRESCENTI INTROITI DELLA CRIMINALITÀ di Tino Bilara M olti hanno giocato d’azzardo almeno una volta nel corso della propria vita, magari solo per provare. L’istinto al gioco del resto è innato, ma quando il gioco è quello d’azzardo, allora occorre fare delle precisazioni e trattarlo con prudenza. Il gioco d’azzardo è infatti un problema quando da passatempo diventa dipendenza. Quando si manifesta un persistente bisogno di giocare e aumentano in modo progressivo il tempo e il denaro impegnati nel gioco fino a condizionare gli altri ambiti della propria vita, quando s’investe al di sopra delle proprie possibilità e quando, per il gioco, si trascurano i quotidiani impegni della vita. Spesso il giocatore non ne ha la consapevolezza, ma il problema c’è. E quando diventa dipendenza è una malattia, che però si può curare. Le cronache riportano storie di persone vittime del gioco d’azzardo che le porta a perdere soldi e affetti. L’opinione pubblica si sta rendendo conto che è un problema sociale e una nuova forma di dipendenza, resa più acuta dalla lunghissima fase di recessione economica, che porta a sperare in cose impossibili, come il colpo di fortuna che ti cambia la vita. Diamo un po’ i numeri Leggendo il rapporto pubblicato nel 2012 da Libera, Azzardopoli, il paese del gioco d’azzardo, si viene a sapere che l’Italia è “Un paese dove si spendono circa 1260 euro procapite, (neonati compresi) per tentare la fortuna che possa cambiare la vita tra videopoker, slot-machine, gratta e vinci, sale bingo. E dove si stimano 800mila persone dipendenti da gioco d’azzardo e quasi due milioni di giocatori a rischio. Un fatturato legale stimato in 76,1 miliardi di euro, cui si devono aggiungere, mantenendoci prudenti, i dieci miliardi di quello illegale. E’ la terza impresa italiana, l’unica con un bilancio sempre in attivo e che non risente della crisi che colpisce il nostro paese”. In un anno circa 30 milioni gli italiani acquistano un biglietto della lotteria o un “Gratta e Vinci”, 120 mila persone lavorano in questo settore che rappresenta il 4% del Pil nazionale. Con numeri come questi non stupisce che l’Italia sia il paese in Europa dove si gioca più d’azzardo, mentre su scala mondiale è “solo” al terzo posto. Il Dossier di Libera segnala cifre allarmanti anche per il coinvolgimento delle mafie. Ammonta a 10 miliardi di euro la stima del fatturato del gioco illegale per il 2012. Ben Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 | 9 Primo piano 49 clan gestiscono giochi di vario genere. Nel 2010, in 22 città italiane sono state effettuate indagini e operazioni di Polizia nel gioco d’azzardo con arresti e sequestri riferibili alla criminalità organizzata. Chi guadagna con il gioco d’azzardo? Se sono tanti i soldi spesi per il gioco, sono ben pochi quelli che incassa lo Stato. “Mettiamoci in gioco” stima tra gli 88 e i 94 miliardi di euro il business dell’azzardo per il 2013, la terza industria nazionale con il 4% del Pil. Ma se il giro d’affari cresce, le entrate per lo Stato scendono: si è passati dal 29,4% del 2004 all’8,4% del 2012, sul totale del fatturato. Inoltre i costi sociali e sanitari che il gioco patologico comporta per la collettività si aggirano tra i 5,5 e i 6,6 miliardi annui. “Mettiamoci in gioco” è una a campagna nazionale contro i rischi del gioco d’azzardo, nata nel 2012 per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sulle reali caratteristiche del gioco d’azzardo e sulle sue conseguenze sociali, sanitarie ed economiche, e per avanzare proposte di regolamentazione, per fornire informazioni, per catalizzare l’impegno di tanti soggetti che si mobilitano per gli stessi fini. 10 regole per difendersi dal gioco d’azzardo patologico •Gioca solo la somma destinata al divertimento, smetti di giocare quando hai speso quel denaro •Poniti limiti di tempo e di denaro nell’impegno che dai al gioco •Non giocare quando hai debiti urgenti •Non farti prestare denaro per il gioco •Non giocare quando stai vivendo una situazione di stress emotivo •Coltiva altri interessi, fai in modo che il gioco sia solo uno dei tuoi passatempi •Non giocare con amici che scommettono pesantemente •Non mescolare alcol e droga al gioco •Non giocare perché pensi sia il tuo giorno fortunato •Non esiste una macchina “fortunata” o carte fortunate Fonte: Servizio Sanitario Regionale EmiliaRomagna 10 Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 A chi rivolgersi Conagga (Coordinamento nazionale gruppi per giocatori d’azzardo) www.conagga.it Libera (Azzardopoli) www.libera.it Associazione Nazionale Giocatori Anonimi www.giocatorianonimi.org Federserd (raccoglie i servizi per le dipendenze da gioco a livello nazionale) www.giocaresponsabile.it Gruppo Azzardo Ticino www.giocoresponsabile.com “Mettiamoci in gioco” www.mettiamociingioco.org “Associati con chiarezza” www.associaticonchiarezza.it Come contrastare il fenomeno? Il Dossier di Libera termina con alcune proposte d’intervento per affrontare la dipendenza dal gioco. Non si vogliono proporre soluzioni di tipo proibizionistico o che colpevolizzino i gestori di queste attività. “Anzi: proprio alle imprese più importanti e significative e a chi gestisce queste attività in maniera lecita, è richiesta, oggi, una chiara e netta assunzione di responsabilità”. A livello nazionale è noto il dibattito nato nei circoli Arci tra chi vorrebbe eliminare del tutto le slot machine e chi vorrebbe trovare una soluzione più mediata. Oltre a questa consapevolezza occorre mettere in campo azioni di comunicazione per sensibilizzare la cittadinanza sul tema, soprattutto per fare una buona informazione verso le persone più giovani che possono cadere vittime della dipendenza. La Regione Emilia Romagna ha finanziato il progetto “Associati con chiarezza”dove numerose associazioni del terzo settore hanno firmato un codice di autoregolamentazione, riguardante “…l’utilizzo della pubblicità,la somministrazione di alimenti e bevande, la gestione democratica delle basi associative, la sensibilizzazione riguardo ad alcune problematiche legate all’abuso di sostanze e al gioco d’azzardo.” E proprio riguardo al gioco è stato promosso un concorso rivolto a giovani video maker per sensibilizzare i loro coetanei sui rischi del gioco d’azzardo. Accanto alla prevenzione di carattere educativo però ne occorre anche una di carattere normativo, una legge-quadro insomma che disciplini meglio la materia. ■ Fonte: scyther5 / Shutterstock.com DOSSIER COMMOVENTE, MA NON ESISTE Ong e social media: istruzioni per l’uso. Come funzionano Facebook e Twitter e che cosa si può fare con loro di Nicola Rabbi S olo dieci anni fa non esisteva come tema, e nemmeno come problema per una Ong. Stiamo parlando dei social media ovvero quell’insieme di tecnologie e prassi che porta sempre più gente a consumare e a produrre informazione sul web. Stiamo parlando, per restringere di un poco il campo, dei social network come Facebook, Twitter, Youtube e di tante altre piattaforme che ci permettono di fare operazioni sempre più diversificate, anche se alla base rimangono una serie di elementi che le accomuna. Le persone e la tecnologia fanno la differenza Ma cosa è successo in questi ultimi dieci anni? In sostanza sono avvenuti due fenomeni che, viaggiando in parallelo, hanno cambiato radicalmente le abitudini degli utenti della rete e quindi anche delle organizzazioni, istituzionali e no, profit e no profit. Da un lato c’è stata l’offerta di una tecnologia sempre più facile da usare per cui, per pubblicare sul web, non occorre avere particolari conoscenze informatiche, basta saper usare un normale editor Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 | 11 DOSSIER Fonte: Denys Prykhodov / Shutterstock.com di testo. Anche per le foto o i video c’è stata una diffusione di massa di dispositivi facili (tablet, smartphone) che permettono di riprendere, fotografare e poi di pubblicare il tutto on line con poche e intuitive operazioni. Dall’altro lato c’è stato un cambiamento culturale delle persone che via via si sono abituate alla tecnologia digitale e hanno sviluppato delle precise pratiche. Questa maggiore maturità in termini di alfabetizzazione telematica non è certo merito, almeno in Italia, del sistema educativo, tanto è vero che qui da noi ci sono forti differenze (digital divide) tra nord e sud dell’Italia, tra giovani e anziani, tra ricchi e poveri. In cosa consistano poi questa nuove pratiche è presto detto: partecipazione e condivisione. Del resto sono proprio i dati forniti dagli utenti che decretano il successo di un social network; il mezzo è poca cosa, quello che conta è quanto viene usato dalle persone. Un sistema così aperto e collaborativo, inoltre, dovrebbe portare anche a una visione più complessiva dei vari temi, proprio perché non sono trattati da un autore, ma da moltissime persone le cui capacità, sommate assieme, sono sempre maggiori di quelle del singolo individuo. È questa la teoria dell’intelligenza collettiva, che poi questa teoria sia vera, ovvero che la collaborazione della massa in rete porti alla verità, è difficile dimostrarlo, almeno per adesso. Quello che invece è sicuro, è che i social media, scavalcando il tradizionale ruolo dei mass media (di mediazione appunto tra noi e il mondo esterno, tra noi e gli altri), permettono il raggiungimento di un vasto pubblico, in poco tempo e con nessuna spesa. Anche in questo caso c’è il risvolto della medaglia: se tutti fanno informazione (è un diritto del resto), vuol dire che l’informazione che circola in rete diventa enorme e ingestibile e allora per essere letti bisogna proprio essere interessanti e in un’ipotesi peggiore, bisogna essere scandalistici e “pepati”. 12 Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 Uno, nessuno, 100 mila social network I social network sono numerosi e differenziati ma hanno alcuni elementi in comune; innanzitutto occorre iscriversi per utilizzare i servizi offerti da quella piattaforma e, una volta creato il proprio profilo, occorre saperlo gestire. Visto che il presente articolo è rivolto ai lettori di una Ong, ragioniamo prendendo come modello un’organizzazione, non tanto un singolo individuo. Il personale di una Ong, che vuole lavorare sui social media, deve rendersi conto che i problemi tecnici sono irrilevanti e che l’unico problema vero è quello del tempo, di quanto se ne può dedicare a quel particolare social media. Lavorare in questi ambienti significa infatti conversare, il che presuppone un continuo ascolto dell’altro, la cura nei rapporti in rete. Un’attività di questo tipo è efficace se si hanno tanti amici o fan su Facebook, se si hanno dei following e dei follower su Twitter e così via. Che poi i numeri, i grandi numeri, siano un segno del valore dell’iniziativa, questo è un altro discorso. I social network si dividono tra loro a seconda del tipo di contenuti, del grado di relazione tra gli utenti, del tema generale. Abbiamo così social network specializzati nei contenuti fotografici come DOSSIER Flickr (www.flickr.com), Pinterest (www.pinterest. com), Instagram (www.instagram.com), altri nei video come Youtube (www.youtube.com), Vimeo (www.vimeo.com), altri forniscono principalmente contenuti scritti di poche righe come Twitter (www. twitter.com). Ve ne sono anche di generalisti (ovvero sono ambienti dove si può fare un po’ di tutto) come Facebook e le piattaforme blog come Wordpress (www.wordpresss.com) e Tumblr (www.tumblr.com). Alcuni social network offrono delle relazioni tra gli utenti molto intense e in tempo reale, altri invece danno meno peso a quest’aspetto. Vi sono infine social media specializzati su un tema, come è il caso di Linkedin (www.linkedin.com) che ha per oggetto il lavoro e lo scambio di profili professionali. Più del 60% delle Ong italiane utilizzano Facebook (FB), mentre circa il 40% usano Twitter. È per questo che ora esamineremo da vicino questi due social network. Fonte: Quka / Shutterstock.com Il web è infinito ma ha una sola porta: Facebook Con 26 milioni di presenze su FB, l’Italia, proporzionalmente, è il paese dove questo social network è più diffuso nel mondo. FB offre due diversi “approcci”, o come profilo, e in questo caso ci si può scambiare l’amicizia, o come pagina e in questo modo si possono avere solo dei fan. È consigliabile che un gruppo sia presente su FB con una pagina piuttosto che con un profilo per tanti motivi. Innanzitutto non esiste il limite dei 5.000 amici, ma i fan possono essere infiniti, poi la pagina può essere gestita da più persone e con ruoli diversi, infine il rapporto meno biunivoco che si può avere con i fan rispetto a quelli che si hanno con gli amici, facilita la gestione di una pagina. In una pagina si possono postare testi, immagini, video ed è bene farlo con una certa continuità facendo attenzione alla qualità di quello che si posta: la pagina FB è una sorta, ma sto un po’ esagerando, di creatura vivente, una pianta insomma da innaffiare e da seguire. In particolare bisogna avere cura delle relazioni esterne, ovvero di tutti quei lettori/fan che vi fanno domande o che commentano e che si aspettano giustamente una risposta. Da una pagina FB potete creare un evento anche se come pagina non potete poi invitare dei fan; si possono invitare solo degli amici, cosa possibile solo se si ha un profilo personale. Su FB esistono anche i gruppi tematici dove le persone interessate allo stesso argomento s’iscrivono. Postando o condividendo all’interno di questi gruppi (che possono essere aperti o chiusi, se sono chiusi basta chiedere di entrare) si può avere una visibilità maggiore dato che si raggiungono molte altre persone di cui non siamo amici. Attualmente i due gruppi - che riguardano il nostro tema - più frequentati sono “Cooperanti Italiani” e “Cooperanti si diventa”. Il come raccontare (storytelling) le nostre cose - con che stile, tono e strumenti – non è possibile codificarlo ma dipende dalla nostra sensibilità, dall’oggetto e dal fine. Termineremo comunque quest’articolo proprio con un’analisi critica di una forma di storytelling realizzata da Save the Children attraverso una pagina FB. Twitta che ti passa Twitter serve per informarsi e per fare informazione. Per questo è un social amato dai giornalisti (almeno da quelli più giovani). Anche in questo caso occorre creare un profilo del proprio gruppo e da quello si parte per cercare altri profili che ci possono interessare e che diventeranno i nostri following (ovvero quando questi faranno informazione noi la riceveremo subito sul nostro profilo). I follower sono invece quei profili che seguono noi: quindi più follower si hanno e più Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 | 13 DOSSIER le nostre informazioni girano. La particolarità di questo social media è che i twitter (i cinguettii) che si scrivono non devono superare i 140 caratteri e quindi occorre scegliere dei titoli e dei link ben fatti e comprensibili (è anche possibile postare delle foto). L’hashtag (#) è invece il simbolo del cancelletto che anteposto (senza alcuno spazio) alla parola, è come se la sottolineasse e ciò la rende visibile nelle ricerche effettuate tramite hashtag. In altre parole se mettete il simbolo # davanti alla parola ong, tutti coloro che su twitter sono interessati alle informazioni che riguardano il mondo della cooperazione troveranno il vostro post, anche se non sono vostri follower. Personalmente uso sempre questi hashtag nei miei messaggi su twitter: #ong, #ngo, #cooperazione. Twitter è particolarmente indicato per promuovere campagne di sensibilizzazione o raccolte fondi e in più dispone di alcuni strumenti in rete che contano quante persone sono state raggiunte dal messaggio. Anche con una pagina di FB si possono fare appelli, campagne e azioni di raccolta fondi (è possibile anche pagare per avere una maggiore visibilità). Quello che è importante, al di là del social media, è il lavoro continuo di chi sta dietro, il redattore, l’animatore insomma. Fonte: archivio fotografico di Swan&Koi 14 Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 Bereket non esiste, ma vuole commuovere Bereket è un ragazzino eritreo di 15 anni che da due anni sta cercando di raggiungere Amburgo. Ha raccontato la sua tragica epopea su una pagina Facebook. Ma Bereket non esiste, è tutto finto, si tratta di una nuova forma di storytelling sperimentata da Save the Children. Il gioco dovrebbe essere chiaro, dato che nell’intestazione della pagina c’è scritto che Bereket è un personaggio inventato e che si tratta solamente – come si legge nelle Informazioni – “… di un progetto di sensibilizzazione sul tema dei minori migranti non accompagnati a cura di Save the Children Italia. La storia di Bereket è stata realizzata sulla base di testimonianze raccolte tra i minori migranti eritrei non accompagnati sbarcati sulle coste italiane e assistiti tramite il Progetto Praesidium”. Ma leggendo i commenti dei lettori, qualcosa non ha funzionato. Il primo post risale al 22 marzo, l’ultimo al 27 luglio. La partenza dall’Eritrea, la sua cattura in Etiopia, un tragico balletto che lo porta dai campi profughi sudanesi alle prigioni libiche, poi a quelle egiziane, infine il ritorno in Libia con la speranza di imbarcarsi verso l’Europa e, dopo molte traversie, l’arrivo ad Amburgo. Questo racconto è corredato da immagini, da altre piste narrative (la storia dell’atleta olimpico eritreo) e anche dal commento dei suoi famigliari che vivono già in Germania. Ma è tutto finto e a volte un po’ patetico. Ho provato anche a ricercare i profili su Facebook dei suoi parenti ma ho trovato come primi risultati un attore comico, un ristorante … Ma al di là del racconto basta vedere i commenti dei lettori per capire che questo tentativo non sta raggiungendo il suo scopo, non sta sensibilizzando sul tema dei profughi minorenni che partono dall’Africa per arrivare in Europa alla ricerca di una vita degna. I commenti a volte sono esilaranti, altre volte tristi; è in queste occasioni che il popolo della rete diventa più che un’intelligenza collettiva, un magma caotico ingestibile. Questa confusione però ha anche alcune spiegazioni. Chi legge un post, magari lo legge da una condivisione, qualcun altro invece non riesce a inquadrarlo nel contesto, ad altri manca semplicemente l’attenzione (che tante volte si perde nel flusso del web). Quindi è facile equivocare. Comunque il problema maggiore non è tanto la confusione che genera tra i lettori e la mancanza di modelli narrativi di riferimento, qui il problema è lo stile della narrazione tendente al patetico. ■ Fonte: Alessandro Bergamini Progetti Vendere le stelle Il programma per la salute nell’area urbana di Cochin, nello stato indiano del Kerala, a favore dei più svantaggiati, si è adattato all’evoluzione della città e dei suoi abitanti di Nyjil George B abu, lo chiameremo così, vive nella città di Cochin. Lavora da anni alla locale sede della Tata, una delle più importanti industrie meccaniche e automobilistiche del paese. Un giorno i suoi colleghi lo vedono fare domanda di pensionamento, sebbene non abbia ancora cinquant’anni. Il suo comportamento diventa incomprensibile. Benché sposato con Deepaand, da cui ha una figlia, e abbia in casa una madre anziana e malata di cuore, lui se ne va per diversi giorni, vagabondando, senza informare nessuno. Sono i primi sintomi della malattia mentale che lo colpisce. Quando le sue condizioni peggiorano, si allontana sempre più spesso e diventa violento. I famigliari lo rinchiudono allora in una stanza, dove rimarrà oltre due anni. Il Dipartimento contro la povertà urbana lo aiuta a seguire per un certo tempo il trattamento. Quando il Dipartimento esaurisce l’attività, Babu è nuovamente lasciato a se stesso. Nel frattempo ha cominciato a frequentare il personale di un Centro per la salute, frutto del progetto congiunto Aifo-Ima (International Medical Association), che lo coinvolge nelle attività a favore della comunità. Riprende allora il trattamento e, benché la famiglia lo rinchiuda ancora in casa, comincia a migliorare. Il personale sanitario e un gruppo di volontari fanno opera di persuasione sulla famiglia, che si convince così a farlo uscire di casa. La moglie in particolare, resistendo alle pressioni dei famigliari che le chiedevano di divorziare, gli è rimasta vicino, convinta che sarebbe guarito. Babu ritrova anche il rapporto con la figlia. Dopo che per anni lo aveva evitato per paura, si occupa di lui e giocano insieme. Babu ne è veramente felice; visita regolarmente il Centro per la salute, per prendere i farmaci di cui ha bisogno, dapprima accompagnato dalla moglie poi da solo. Il personale e i volontari vanno regolarmente a casa sua e danno un sostegno morale anche alla famiglia. Babu e la moglie ritrovano la vita sociale insieme, visitano i parenti e frequentano le feste. Ora Babu, che ha 53 anni, ha ripreso a lavorare. Fabbrica stelle che vende durante le feste di Natale. Quella di Babu è la storia di una delle tante persone curate dal Centro di salute frutto della collaborazione tra Aifo e l’Ima a favore degli strati più poveri e svantaggiati nella zona di Cochin. L’attività dell’Ima è iniziata nel 1970 con la medicina preventiva e di cura per gli abitanti poveri dello slum e altre persone in difficoltà nella zona di Cochin, attraverso cliniche mobili con particolare attenzione all’individuazione e al trattamento di lebbra e tubercolosi. Nel 1982 il progetto è incluso nel Programma nazionale contro la lebbra. Il lavoro prosegue in collaborazione con il Dipartimento per la cura della lebbra del District Hospital Ernakulam. Quando il Centro ha iniziato le persone più trascurate erano quelle colpite dalla lebbra. Con lo sviluppo dell’attività, la situazione è cambiata e la lebbra è quasi eliminata. L’ultimo caso si è registrato nel giugno 2006. Adesso ci siamo occupando principalmente di persone con problemi di salute mentale: i pregiudizi che si hanno nei loro confronti sono gli stessi che si avevano Fonte: Alessandro Bergamini Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 | 15 Progetti per i malati di lebbra ai tempi di Follereau. Le attività previste hanno l’obiettivo di consentire alle persone con disabilità e disturbi psichiatrici di condurre una migliore vita, fornendo medicinali e cure mediche, consulenza individuale e familiare, servizi di supporto, potenziamento della capacità personali attraverso la motivazione e la formazione. Secondo le indagini del Medical Association Ernakulam le persone mentalmente disabili sono aumentate. Il Kerala che aveva una buona reputazione in materia di disturbi mentali, ora fa i conti con un servizio insufficiente soprattutto per i poveri. La rapida crescita della città, con i suoi collegamenti internazionali e il cambiamento di stile di vita ha contribuito allo stress. Di conseguenza, la malattia mentale e problemi connessi sono aumentati. I disturbi psichiatrici nella nostra comunità rappresentano un grave problema di salute pubblica di natura sociale ed economica. Non c’è quasi nessuna prevenzione per la maggior parte dei disturbi psichiatrici. Il trattamento è lungo e costoso. Le disabilità residue possono essere abbastanza importanti. Ciò sottolinea la necessità di provvedere al settore della salute mentale in tutti i programmi di salute pubblica, soprattutto per i poveri. Se i farmaci sono disponibili, molti di questi pazienti possono essere riabilitati nella comunità. Cochin (o Kochi), sulla costa sudocciddentale dell’India, è uno dei porti più importanti del paese, assurto alle cronache italiane dal 2012 con l’attracco della nave coi due Cochin marò italiani. L’area urbana comprende una popolazione di quasi due milioni di abitanti. Città industriale e tecnologica, è caratterizzata dalla presenza di molte baraccopoli. È uno dei centri indiani dove più forte è la minoranza cristiana, frutto della colonizzazione portoghese della città. 16 Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 La nostra metodologia La nostra metodologia di lavoro prevede diversi passaggi. Identificare le famiglie con problemi mentali attraverso la visita alla famiglia con l’aiuto di gruppi auto-aiuto. Lo stigma di tale malattia è molto elevato nella società e di solito la tendenza è quella di nascondere il problema. Una volta identificato, il passo successivo è quello di convincere la famiglia ad accettare una cura. Per questo abbiamo bisogno di visite ripetute per guadagnare la loro fiducia. Il terzo passo è quello di convincere il paziente e la famiglia che questa malattia può essere trattata con farmaci regolari e alla fine può condurre il paziente verso una vita normale. Le visite sono molto importanti per verificare i progressi del paziente e incoraggiare l’uso di farmaci come da prescrizione. Si svolgono incontri mensili in cui tutti i pazienti e le famiglie di quella zona interagiscono e discutono i loro problemi. Abbiamo quattro di questi gruppi che si incontrano regolarmente. Le feste, come l’ Onam (il festival indù tipico del Kerala) o il Natale, vengono celebrate insieme con benefattori e amici, dando la possibilità ai pazienti di dare prova delle loro abilità con recite, canzoni, danze, ecc, che danno loro fiducia. Ogni anno crescono i pazienti che richiedono l’assistenza del progetto, anche perché i nostri programmi di sensibilizzazione sanitaria hanno fatto capire l’importanza di un trattamento regolare. Inoltre diversi ospedali coi quali collaboriamo ci indirizzano nuovi pazienti, e il ritorno di molti di questi nella società, ha incoraggiato altri a farsi avanti per il trattamento. L’area coperta dal progetto comprende circa 200.000 persone. Le attività di riabilitazione su base comunitaria dal 2001 al giugno 2014 hanno permesso di trattare 1.124 persone. Con regolari controlli, visite a casa, e programmi di sensibilizzazione, tutti i nostri pazienti seguono con regolarità il trattamento. Nove persone guarite dai sintomi della malattia si sono sposate. ■ Fonte: archivio fotografico di Aifo Progetti Malattia mentale, ritorno alla dignità l’uso di uno strumento messo a punto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) per misurare la qualità dei diritti umani garantiti alle persone con problemi di salute mentale all’interno delle strutture pubbliche. Inoltre, laddove l’approccio della Riabilitazione su base comunitaria è utilizzato, si vuole studiare il grado di inclusione delle persone con problemi mentali e trovare modalità per migliorarlo. I cinque paesi, di reddito medio basso, coinvolti nel progetto sono Brasile, Liberia, Egitto, Indonesia, Mongolia. Attraverso lo studio di esperienze di riabilitazione su base comunitaria applicate alla salute mentale, lo studio del quadro legislativo e l’analisi dell’intervento socio-sanitario a livello locale, si vuole dimostrare il fatto che l’istituzionalizzazione dei malati mentali costa molto di più alla società e aiuta molto meno i pazienti che non un loro inserimento nella comunità con un’assistenza decentrata. Il lavoro, realizzato parallelamente nei cinque paesi (e ora limitato a quattro per la situazione sopravvenuta in Egitto), viene svolto attraverso la formazione rivolta agli operatori socio-sanitari, il rafforzamento delle associazioni di persone con problemi di salute mentale – soprattutto dei loro leader – la sensibilizzazione della popolazione per ridurre i pregiudizi. Queste azioni vengono sostenute, infine, da un intenso scambio di informazioni tra un paese e l’altro attraverso newsletter, blog, seminari e convegni. Aifo ha intrapreso la ricerca comparativa tra cinque paesi per comprendere come è possibile curare le persone colpite da disturbi mentali, garantendo loro i diritti fondamentali di Nicola Rabbi Fonte: archivio fotografico di Aifo E sclusi dalla società e abbandonati a se stessi o, peggio ancora, reclusi e addirittura incatenati in istituti che assomigliano a prigioni. Questa è la sorte che spetta a molti di coloro che sono affetti da problemi di salute mentale. La loro sorte va al di là della cultura dei paesi di appartenenza, del loro grado di coesione sociale e di ricchezza, del credo religioso dominante. La follia, storicamente, è sempre stata vista come una minaccia per l’individuo e per la società da nascondere, allontanare, in alcuni casi eliminare come avvenne per Aktion T4, il programma nazista di eliminazione fisica delle persone affette da gravi patologie e malformazioni. Aifo ha intrapreso una ricerca in cinque paesi, attualmente ancora in corso, di tipo comparativo. La ricerca intende testare Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 | 17 Progetti 10 ottobre: giornata mondiale della salute mentale Il 10 ottobre di ogni anno si celebra la Giornata mondiale della salute mentale, stabilita dall’OMS che, insieme alla Federazione Mondiale della Salute Mentale, intende accrescere la consapevolezza su questioni di salute mentale. Il primo elemento che l’OMS vuole mettere in evidenza è il fatto che: “Il 20% dei bambini e degli adolescenti di tutto il mondo ha disordini mentali con problemi tipici per ogni cultura. Inoltre le regioni del mondo con la più alta percentuale di popolazione sotto i 19 anni hanno il livello più basso di risorse per la salute mentale. La maggior parte dei paesi a basso e medio reddito ha un solo psichiatra infantile per 1-4 milioni di persone”. La situazione nei vari paesi In Brasile il progetto si svolge nello stato di Bahia. In questo paese la riforma della psichiatria è stata fortemente influenzata dalle idee di Franco Basaglia che visitò Rio de Janeiro nel 1978. La legge di riforma del 2001 prevede vari tipi di servizi di cura decentrati e comunitari in alternativa all’ospedale psichiatrico. Nel 2011 viene varato un “sistema di cura psicosociale” per le persone con problemi mentali, dovuti anche alle dipendenze da sostanze, che vuole offrire servizi basati sulla comunità. Nello stato di Bahia, nonostante la diminuzione di letti negli ospedali psichiatrici, la malattia mentale viene stigmatizzata e gli stessi operatori sanitari e i famigliari fanno fatica ad accettare l’idea che l’istituto non sia l’unica soluzione. Proprio a causa di queste difficoltà una delle azioni del progetto vede famigliari e operatori sanitari, all’interno di due ospedali di Salvador di Bahia, uniti nell’assicurare i diritti civili e buoni livelli assistenziali ai pazienti. In Indonesia la veloce modernizzazione della vita ha portato con sé anche un aumento del disagio psichico. Secondo una ricerca del 2007, l’11,6% della popolazione ha problemi di ansia e di depressione, meno del 10% delle persone con problemi di salute mentale ha accesso a servizi specializzati mentre sono 18.800 i casi pasong. In Indonesia con pasong si indica la reclusione e la detenzione fisica (anche con catene e corde) delle persone malate. Il progetto si svolge 18 Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 nella parte meridionale del Sulawesi, la grande isola situata al centro dell’arcipelago indonesiano. Proprio per superare queste pratiche violente e per sensibilizzare sul tema, le attività consistono in corsi di formazione rivolti a operatori sanitari e di comunità. I risultati di queste azioni sono espresse bene da alcuni testimoni: “All’inizio avevo paura di aver a che fare con i malati mentali - dice Yuli, un dirigente di un puskemas, un centro di salute comunitario - avevo paura di essere picchiato. Adesso sono contento di poter avere competenze nuove che mi permettono di aiutare le famiglie dei pazienti”. Iwan Honest, medico in un altro puskemas, afferma: “Nel mio territorio le persone malate mentalmente sono messe ai margini, addirittura incatenate, ma sono solo dei malati che devono essere aiutati, il pasong peggiora le loro condizioni e non risolve nulla”. In Mongolia il trattamento della malattia mentale è stato influenzato fino agli anni ‘90 dagli specialisti russi per via dei forti legami che univano i due paesi. Ancora oggi il sistema di cura è centralizzato a Ulaan Baatar, la capitale che ospita la maggior parte degli abitanti del paese ed è orientato all’ospedalizzazione dei pazienti, nonostante il paese si sia dotato fin dal 2000 di leggi che programmano diversamente gli interventi. La riabilitazione su base comunitaria è diventata programma del sistema sanitario nazionale dal 2011 e questo può essere di grande aiuto per quanto riguarda l’assistenza e la riabilitazione delle persone con problemi psichici a livello comunitario. In Mongolia il progetto punta alla creazione di gruppi auto-aiuto di persone con problemi di salute mentale e alla formazione dei medici di famiglia, migliorando le loro competenze sul tema. In Liberia la malattia mentale è a volte associata con la possessione e la stregoneria, sarebbero gli spiriti maligni che entrano nel corpo di una persona e la rendono inferma; con questi presupposti la cura può venire solo da pratiche magiche. Il paese ha vissuto un lungo periodo di sanguinose guerre civili (1989-2003) che hanno lasciato traumatizzata gran parte della popolazione. Il progetto prevede attività di formazione rivolta agli operatori sanitari perché siano attenti al rispetto dei diritti civili delle persone con problemi di salute mentale e perché promuovano l’idea di un’assistenza su base comunitaria e non solo accentrata negli ospedali psichiatrici che in Liberia sono comunque mancanti e con poco personale e mezzi. ■ Fonte: archivio fotografico di Aifo Fonte: archivio fotografico di Aifo Strumenti LA PAROLA ALLA FOTOGRAFIA RACCONTARE I PROGETTI E LE ATTIVITÀ DI AIFO ATTRAVERSO IL LINGUAGGIO DELL’IMMAGINE. I CONSIGLI DEL GRUPPO AIFO DI VEDANO AL LAMBRO PER L’USO DELLE MOSTRE FOTOGRAFICHE di Sergio Cavasassi M i capitava ogni tanto di sognare che entravo in una piazza e in quella piazza, gremita, scoprivo che c’erano le persone, tante persone, attraverso le quali ho scoperto la vita…. Sono le parole di Ferdinando Scianna, uno dei più grandi fotografi italiani in apertura di un bellissimo libro autobiografico dal titolo Visti & scritti. Seguono le immagini di una vita, da semplici compaesani siciliani a famosi personaggi, ognuno con la sua foto, ognuno con il racconto. Sì, la foto racconta. Pensiamo che la piazza sia il mondo, che in questo mondo gremito ci sia spazio anche per Aifo, per i suoi progetti. Ma, attenzione, i progetti non sono entità astratte, i progetti sono fatti di persone che vivono la loro quotidianità di gesti, di attese, di gioia e di dolore, di speranza per un futuro diverso. I progetti devono essere raccontati: lo scopo, il luogo, quante persone, quanto è stato devoluto economicamente, la durata. Basta questo per coinvolgerci? Parzialmente. Abbiamo bisogno di immagini che sappiano parlare, al cuore e alla mente. Posso descrivere il mio amico, è alto un tot, colore dei capelli, gli occhi, la corporatura, i tratti del volto, il carattere; ma che bello poter dire in una foto: ecco, questo è il mio amico, adesso ve lo racconto. È quello che abbiamo cercato di fare nel nostro gruppo Aifo di Vedano al Lambro (MB), presentarci sul territorio con mostre, per raccontare con foto, raccontarci con una foto. Non foto da “prima comunione”, tutti in fila, in posa, sorridenti, non foto da “alto contenuto drammatico”, ma immagini con lo spirito di Scianna: mi capitava di sognare che entravo in una piazza….. scoprivo che c’erano tante persone. Persone da raccontare. L’avvento del digitale ha trasformato radicalmente l’utilizzo dell’immagine. Oggi, con un po’ di attenzione e lavoro di computer è difficile fare una brutta foto, ma questo ne ha anche svilito il contenuto: milioni di immagini fruite in frazioni di tempo: questa era la seconda sfida. Riuscire a fermare l’attenzione. Ne resta una terza: saper vedere, per fissare il racconto in un fotogramma. E qui abbiamo avuto la fortuna di incontrare in particolare Marcello Carrozzo. Ricordo la conoscenza in un incontro Aifo di Roma di pochi anni fa, la sua (credo) prima mostra con l’associazione. Quattro parole, comun sentire, l’avventura può cominciare. Quarto ingrediente, essenziale, come il lievito: il lavoro, anche “muscolare”, di gruppo, del nostro gruppo di Vedano che ha condiviso le scelte coralmente e con disponibilità anche economica. Quinto: a chi dobbiamo rivolgerci? alle persone di tutte le età, in particolare agli studenti presenti sul territorio. Il nostro Gruppo ha la Brianza come riferimento, e abbiamo Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 | 19 presentato le mostre fotografiche a centinaia di giovani. Tutto è pronto per servire il pranzo per gli occhi, ne riepilogo gli ingredienti: una storia Aifo da raccontare, un fotografo che condivide la passione per l’associazione, saper fermare l’attenzione sulla storia, il lavoro di gruppo, l’ascolto da parte di un pubblico interessato. In cinque anni, a partire dal novembre 2010, abbiamo allestito sette mostre, anche due all’anno (vedi Box). Quante foto? Quali dimensioni? A colori o in bianco/ Le Mostre fotografiche del Gruppo di Vedano “Nayee Asha”: una giornata con i bambini della scuola “Nuova Speranza”, in India. “Mongolia ultimo inverno”: racconti dei progetti Aifo in Mongolia, attraverso il suo popolo. “PamojaTunaweza”: entriamo nello slum di Korogocho. “La civiltà dell’amore”: immagini per costruire la civiltà dell’amore cara a Raoul Follereau. “Kusta”: una giornata in un villaggio indiano, IndiraNagar, a contatto con la lebbra. “Donne, nulla senza di loro”: Storie di donne del mondo Aifo riprese nella loro quotidianità (India, Africa centrale, Guinea Bissau, Kenia, Mongolia, Nepal). Il tutto presentato splendidamente da Susanna Bernoldi e Antonella Fucecchi. nero? Per raccontare una storia, sono necessarie circa 20 fotografie, di grande formato (50 x 70). Il bianco/nero, se ben stampato rende meglio il sentimento, il phatos, la storia. Il colore da più gioia, alleggerisce. È importante la consapevolezza di quanto vien detto, la credibilità, la naturalezza, e che il racconto solleciti domande, confronti, spiegazioni. I momenti della mostra devono essere due: la presentazione e la visita. La presentazione introduce alla mostra, ne illustra il contesto, presenta l’associazione e gli scopi. Abbiamo avuto la fortuna di avere quasi sempre con noi Marcello Carrozzo: lo dobbiamo ringraziare per la grande disponibilità. Lavoro di squadra, tra Marcello e un socio Aifo, alternando momenti di presentazione dell’associazione ai contenuti della mostra, il tutto supportato da corti filmati di pochi minuti. Importante il dibattito pre-mostra, per attivare il giusto clima per la visita. Anche in questo caso gioco di 20 Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 Fonte: archivio fotografico di Aifo Strumenti Strumenti squadra. La visita deve essere guidata, meglio se da chi ha avuto esperienza diretta (il fotoreporter stesso) o da chi ha conoscenza del contesto. Le maggiori soddisfazioni sono state dati dalle classi in visita: ci siamo rivolti alle IV e V elementari, alle scuole medie, ai licei. Sia durante la presentazione che durante la visita, attenzione totale, in particolare da parte delle scuole medie: benedetti i professori che preparano gli studenti! Ricordo un’insegnante che ha chiesto alla classe di scegliere una fotografia, e ai ragazzi di scrivere li, in pochi minuti, quali le emozioni, quali le considerazioni provavano. O quella ragazza della III media che, alla fine della mostra su Nayee Asha, ha lasciato questo commento poetico sul quaderno: Le porte della vita sono un/mistero dentro di noi, che si/apriranno quando anche il/nostro cuore lo farà in un/mistero di paura e di coraggio/di un nuovo indumento. Nel mondo della comunicazione la fotografia potrebbe essere considerata da una parte un prodotto superato, dall’altra inflazionato. C’è una soluzione? Credo di sì, ed è il contenuto di quanto viene presentato, ma non basta: come un eccellente prodotto ha bisogno di un buon imballaggio, anche i nostri progetti hanno bisogno di una diffusione con supporti di qualità, quale ad esempio una mostra fotografica (scusate il paradosso). Mi fermo qui, la nostra attività deve essere valutata con risultati anche di lungo periodo. Parlare alle scuole non ha riscontro immediato: è come il buon seme che, gettato nel solco, ha bisogno di stagioni per vederne il frutto. Ah, dimenticavo, ve lo immaginate un fotoreporter che cattura l’immagine di Mosè che attraversa il Mar Rosso?■ Fonte: archivio fotografico di Aifo Esperienze Fonte: archivio fotografico di Aifo TESTIMONIARE LE ALTRE LEBBRE IL CAMPO ESTIVO 2014 DI AIFO SI È SVOLTO ALL’INSEGNA NON SOLO DI UNA TERRA, LA SARDEGNA, RICCA DI BELLEZZE NATURALI, MA DI TEMI DIVERSI E DENSI DI SIGNIFICATO, UNITI DAL PENSIERO DI FOLLEREAU di Anna Bella N ell’antica terra della magica Ogliastra, tra compatte rocce di arenaria e granito, boschi di lecci e olivastri, nel pittoresco centro di Lanusei, da cui si dispiega il rincorrersi di monti degradanti verso il Tirreno, dal 3 al 10 agosto, si è tenuto il Campo estivo Aifo 2014 sul tema “Vite liberate o da liberare?”. Circa quaranta soci i partecipanti. Il Campo è vissuto all’insegna di leale amicizia, e di un programma molto intenso. La mattinata, a scelta, o mare o escursioni, specie in siti archeologici. Nel pomeriggio, nella sala della Pro Loco, testimonianze; negli intervalli, approccio al banchetto, apprestato con solidarietà da un gruppetto di soci che l’ultima sera è stato trasferito nella strada principale di Lanusei. All’apertura, il referente della Sardegna, Antonello Farris, infaticabile moderatore negli incontri pomeridiani, presenta il programma, seguito dal saluto della presidente, Anna Maria Pisano. Interventi densi di significati spirituali e umanitari sono quelli del vescovo mons. Antonello Mura e del sindaco Davide Ferreli. Ad eccezione di giovedì 7, giornata di escursione alla cala Mariolu, con visita alla “grotta del fico”, ogni giorno si è riflettuto su un tema sviluppato attraverso le presenze di un testimone, per lo più documentate con video, e introdotte da Antonello Farris. Il pensiero di Raoul Follereau è l’anima e il filo che lega tutte le testimonianze: “vi sono altre ‘lebbre’ diverse dalla ‘lebbra’ … assai più contagiose … che sono l’indifferenza, l’egoismo, l’odio, l’incoscienza … che generano le guerre, la mancanza di cibo, di istruzione, di salute, la distruzione della terra”. Con “Madre Terra, bene comune” si aprono gli incontri. La terra è bene comune, l’uomo ne è custode non padrone; tutelare l’ambiente vuol dire tutelare i diritti umani, la giustizia, la pace. Lucia Boi, della Cooperativa Geriatrica Sociale Serena di Lanusei, parla del progetto “Rifiuti zero”: una postazione comune per l’acqua minerale per il paese riduce la plastica come rifiuto. È un esempio virtuoso Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 | 21 Fonte: archivio fotografico di Aifo Esperienze di come ci si può prendere cura dell’ambiente. È un cambiamento di mentalità che deve partire dall’educazione, dalla scuola. Gianfranco Damiani di Lega Ambiente intrattiene sull’esperienza educativa dei bambini della primaria a Cagliari. Col progetto “Orti didattici” i bambini sono coinvolti nella trasformazione di un arido cortile della scuola in un orto di cui loro si prendono cura. Il percorso prosegue col tema “C’è un solo cielo per tutti”: i rifugiati politici. Don Ettore Cannavera, con gli operatori del progetto SPRAR della Comunità “La Collina”, riporta le esperienze drammatiche di rifugiati attraverso l’attività della Comunità dal 2007 in poi, con la difesa del diritto dei rifugiati all’autonomia. Non condivide le proposte politiche di “respingere Gesù che si presenta sotto le loro vesti”, prospettando percorsi verso una sistemazione stabile. Stigmatizza l’indifferenza umana verso la Terra, che è di tutti; indica nell’intelligente amore e azione politica il cambio di mentalità. Susanna Bernoldi delinea il dramma del popolo palestinese, straziato da continue ingiustizie. Indignata, cita la personale esperienza di “prigioniera a Gaza”. Testimonia di una ragazza sedicenne, ferita e che grida di appartenere alla sua terra. Il tema “Salute: diritto o merce?” è trattato da Enrico Pupulin, nel particolare aspetto della riabilitazione su base comunitaria come esperienza italiana e di Aifo. In base al principio di uguaglianza, si deve rispettare ogni diversità; in base a quello di sostenibilità, tutte le risorse locali sono disponibili. Nelle strategie è indispensabile per questo tener conto che le comunità sono diverse, le une dalle altre. La relazione di Mariella Cao sulla presenza militare in Sardegna, illustra le conseguenze ambientali. Definita la regione “un’isola ingabbiata”, con il secondo poligono più grande d’Europa, riferisce fatti gravi. Vengono effettuate sperimentazioni con armi da combattimento, anche nucleari, esercitazioni in terra, cielo e mare. Si riscontrano molteplici casi di leucemia tra pastori nei pressi del poligono; nascite di bambini malformati e casi di animali deformati. Un’inchiesta ha evidenziato un risultato allarmante: 50 22 Amici di Follereau N. 10 / ottobre 2014 malati di tumore su tremila abitanti. Verdetto di un giudice: “Disatro ambientale”. Lo spettacolo Cabaret di Mauro Salis, “Quirra megastore. Storie di poligoni e servitù militari”, al Teatro Tonio Dei di Lanusei, completa la denuncia. Il missionario Guglielmo Pireddu, dopo il filmato “Africa, un continente da scoprire“, coinvolge i partecipanti sul problema fondamentale della “Sfida dell’educazione”, ricordandoci che “non di solo pane vive l’uomo ma anche della parola che sazia il suo cuore”. Riporta la propria esperienza in Africa, che vive problemi urgenti molto gravi e per la loro soluzione necessita di una trasformazione culturale con prospettive a lungo termine. Abolire l’analfabetismo; arginare la fuga di cervelli; potenziare le competenze; creare scuole professionali; creare sviluppo e coscienza politica. L’educazione è l’arma che fa prendere coscienza di sé e fare scelte coscienti. Padre Guglielmo conclude che il bene comune ha una dimensione planetaria: “il benessere dei lontani è la radice della nostra pace”. Il campo si conclude con una riflessione sul futuro di Aifo che deve recuperare lo spirito profetico di Raoul Follereau, capace di parlare a tutti, e soprattutto ai potenti, al posto e in favore degli ultimi, coltivando il sogno che solo l’amore vince e trasforma il mondo. Viene proiettato il video delle Associazioni di Latina, Libera e Aifo, sulla giornata della memoria delle vittime di mafia. Libero Ponticelli ricorda con don Ciotti che bisogna avere il “coraggio di cambiare con umiltà”. Il Campo si chiude con il ringraziamento della Presidente ai partecipanti e il lancio di nuove mete e sfide, e con la Messa nel Santuario Mariano Regina d’Ogliastra. Si potrebbe concludere con un passo del messaggio di papa Francesco a quanti amano lo sport: ”L’importante è non correre da soli, per arrivare bisogna correre insieme”. ■ Fonte: archivio fotografico di Aifo 7-8 ottobre 2014 edificio Grafton Università Bocconi via Roentgen 1, Milano AIFO sarà presente PARTECIPA ANCHE TU AIFO PARLERÀ: martedì 7 ottobre dalle 14:00 alle 15:00 mercoledì 8 ottobre dalle 9:30 alle 13:00 Aula Deutsche Bank Modelli di educazione alimentare: Terzo Settore, Formazione e Imprese a confronto Contro lo spreco: una diversa visione della sostenibilità Interverranno: Giovanni Gazzoli, medico chirurgo Responsabile Progetti Estero Aifo, che illustrerà il progetto brasiliano di educazione alimentare, supportato dalla testimonianza concreta di due giovani volontari, Carlo Cerini e Grethel Gianotti; Antonella Marongiu medico e volontaria di Aifo, che darà una panoramica internazionale su programmi di educazione alimentare; Luca Govoni docente di storia e cultura della cucina italiana di ALMA, La Scuola Internazionale di Cucina Italiana, impegnata in programmi contro lo spreco alimentare e per una corretta alimentazione legata ai territori; un docente del Comitato Scientifico del Salone della Responsabilità Sociale che collegherà il tema a quello dell’Expo. Interverranno: Giovanni Gazzoli, medico chirurgo Responsabile Progetti Estero Aifo e Andrea Sinigaglia, Direttore Generale ALMA e docente di storia e cultura della cucina italiana. www.csreinnovazionesociale.it Amici di Follereau Progetto Grafico e Impaginazione Swan&Koi srl Mensile per i diritti degli ultimi, dell’Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau (Aifo) Via Borselli 4-6 – 40135 Bologna Tel. 051 4393211 – Fax 051 434046 [email protected] Lettere alla Redazione: [email protected] www.aifo.it Hanno collaborato a questo numero Luciano Ardesi, Anna Bella, Tino Bilara, Sergio Cavasassi, Aron Cristellotti, Nyjil George, Francesca Ortali, Anna Maria Pisano, Nicola Rabbi Direttore Responsabile Mons. Antonio Riboldi Direttore Anna Maria Pisano Redazione Luciano Ardesi (Caporedattore), Nicola Rabbi Fotografie archivio fotografico di Aifo, archivio fotografico di Swan&Koi, ilpost.it, spirit of america/shutterstock.com, scyther5/shutterstock. com, Denys Prykhodov/shutterstock.com, quka/shutterstock.com, per le foto di pagina 15: Alessandro Bergamini Abbonamenti Le attività dell’Associazione sono il frutto della solidarietà e della condivisione di coloro che la sostengono. Puoi contribuire anche tu, sottoscrivendo l’abbonamento ad Amici di Follereau Ordinario 13 € / Simpatizzante 18 € / Sostenitore 30 € Tiratura 35.400 copie Chiuso in tipografia il 16/09/2014 Il numero di Settembre è stato spedito il 28/08/2014 Stampa: SAB – Trebbo di Budrio (BO) Postalizzazione DATA MEC srl, via Speranza, 31 – 40068 San Lazzaro (BO) Associato all’Unione Stampa Periodica Italiana (USPI) Autorizzazione del Tribunale di Bologna N. 2993, del 19 aprile 1962 APPELLO LIBERIA: FERMIAMO L’EBOLA Il personale sanitario Aifo, preparato a sensibilizzare le comunità, è presente in sei contee. L’epidemia si può arrestare informando la popolazione sulle precauzioni necessarie. Aiutaci! • 80 € per sensibilizzare le comunità • 50 € per distribuire materiale per la prevenzione • 30 € per spedire forniture mediche urgenti COME FARE LA TUA DONAZIONE • Bollettino postale n. 7484 intestato a: AIFO - Onlus, Bologna • Conto Banca Popolare Etica, IBAN: IT 89 B 05018 02400000000 505050 • Con carta di credito: telefona al n. verde Aifo, oppure sul sito www.aifo.it, clicca Dona Online • Pagamento periodico bancario SEPA SDD (ex RID) richiedi il modulo al n. verde Aifo Numero verde Aifo 800550303 Le donazioni con queste modalità (non in contanti) sono fiscalmente deducibili